Australia: il “salto triplo” dei canguri

Il 17 ottobre l’Australia ha annunciato l’inizio dell’allentamento delle nuove misure restrittive adottate dopo che a luglio il virus era rientrato nel paese sotto forma della contagiosissima variante Delta, dopo un lungo periodo, durato oltre 8 mesi, in cui, al netto di alcuni casi “di importazione”, cioè dovuti a persone contagiatesi all’estero, anche se scoperte positive solo al loro arrivo in Australia, il paese era stato sostanzialmente “Covid free”.

In questi 21 mesi di pandemia i contagiati in Australia sono stati circa 360.000, mentre i decessi poco più di 2.200, con un tasso di appena 86 morti per milione di abitanti, il che ne fa il quarto miglior paese al mondo (almeno tra quelli i cui dati possono essere considerati affidabili) dopo Nuova Zelanda, Taiwan e Corea del Sud. I numeri sembrano decisamente rassicuranti, ma per gli standard australiani restano ancora alti.

Per capire il perché bisogna fare un passo indietro e tornare a febbraio del 2020. All’inizio della crisi, infatti, l’Australia era riuscita a contenere la prima fase della pandemia grazie a una forte coesione politica, per cui era stato istituito un gabinetto di crisi nazionale all’interno del quale avevano lavorato i membri di tutti i partiti di maggioranza e opposizione per redigere un piano di azione concreto e immediato. Inoltre, a differenza di quanto avvenuto per esempio negli Stati Uniti, tutti gli otto Stati australiani (Australian Capital Territory, New South Wales, Northern Territory, Queensland, South Australia, Tasmania, Victoria, Western Australia) hanno sempre collaborato col governo centrale, chiudendo, quando necessario, i propri confini e limitando i movimenti dei viaggiatori, sia interstatali che intrastatali.

La strategia che alla fine è stata scelta era molto simile a quella coreana, anche se, a differenza della Corea del Sud, per prima cosa sono stati chiusi i confini, impedendo agli stranieri di mettere piede sul territorio, anche grazie al fatto di avere le caratteristiche di un’isola (benché dal punto di vista geografico l’Australia sia considerata un continente), il che ha reso le cose più semplici rispetto ad altre realtà, come per esempio l’Europa e gli Stati Uniti. Ciò ha permesso di tenere basso fin dal principio il numero dei contagi, rendendo più facili e più efficaci le altre misure di contenimento.

L’aspetto più decisivo è stato però rappresentato dalla capacità di tracciamento dei contatti avuti dai positivi al fine di circoscrivere i focolai nel più breve tempo possibile. Questa metodologia, come appunto in Corea, era già stata sviluppata ai tempi della Sars e con l’arrivo del Covid è stata ulteriormente rafforzata, giungendo alla creazione di un sistema di test estremamente tempestivi.

Un’attenzione particolare è stata dedicata alle fasce di popolazione più a rischio: gli anziani e le persone già deboli a causa di altre patologie. Diversi milioni di dollari sono stati investiti per la ricerca sulle cure e sui vaccini (che proseguono tuttora, con l’obiettivo di svilupparne uno efficace contro tutte le varianti e, se possibile, addirittura contro tutti i coronavirus in generale), nonché per l’acquisto di grandi quantità di ventilatori polmonari. Inoltre, il Ministero della Salute ha promosso la pratica dei consulti video con medici di tutte le specialità, accessibili ai cittadini con pochi giorni d’attesa, il tutto per garantire un minore affollamento negli ospedali e limitare così la diffusione del virus.

Il governo australiano non ha mai sottovalutato nemmeno il benessere psicologico dei suoi cittadini. «Gli impatti dell’epidemia di coronavirus, l’allontanamento fisico e l’isolamento possono farci sentire ansiosi, stressati e preoccupati. La pandemia di Covid-19 ha notevolmente cambiato il modo in cui viviamo. Le nostre vite saranno diverse per un po’», si legge sul sito del Ministero della Salute. Per questo sono state messe a disposizione delle sessioni di terapia psicologica, denominate Better Access Pandemic Support.

In questo modo l’Australia era riuscita a tenere l’epidemia sotto controllo, con uno dei tassi di mortalità più bassi del mondo, certo a prezzo di sacrifici abbastanza pesanti, ma senza mai chiudere davvero il paese. O almeno così sembrava. Ma il 22 giugno 2020, proprio quando l’epidemia sembrava già domata, esplose il grande focolaio di Melbourne, che causò da solo circa 800 morti, che rappresentano ancor oggi quasi il 40% del totale. Ciò indusse il governo australiano a svoltare decisamente, mettendo lo Stato di Victoria sotto un regime estremamente restrittivo, puntando non più al controllo del virus, ma alla sua completa estinzione, che venne raggiunta il 26 ottobre 2020 (cfr. Paolo Musso, Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano, https://www.fondazionehume.it/societa/jacinda-forever-perche-il-metodo-neozelandese-e-migliore-di-quello-coreano/).

Questa strategia “zero Covid” era ispirata a quella neozelandese, anche se un po’ meno rigida e quindi un po’ meno efficiente dell’originale: infatti, benché siano state imposte forti limitazioni agli spostamenti, non c’è mai stato un divieto totale di uscire di casa e per questo il quasi-lockdown di Victoria era durato 112 giorni, contro le sole 3 settimane del lockdown totale dei kiwi, ovvero gli abitanti della Nuova Zelanda. Visti i risultati, il sistema era stato poi replicato con successo al primo apparire di ogni nuovo focolaio, come per esempio durante gli Australian Open di tennis, dove l’accesso del pubblico senza mascherine e senza distanziamento era stato sospeso per 5 giorni a causa di un focolaio nell’albergo dell’aeroporto di Adelaide, finché tutte le persone coinvolte non erano state rintracciate e messe in quarantena.

Naturalmente non sono mancate proteste e a volte anche sommosse, ma tutto sommato sono sempre rimaste abbastanza circoscritte, mentre la maggioranza dei cittadini ha apprezzato il sistema, che ha garantito all’Australia oltre 8 mesi di quasi-normalità, con poche decine di contagi e appena 3 morti, tutti “di importazione”. Il nuovo modello australiano è riuscito perfino a “bucare”, almeno negli USA, la spessa cortina di silenzio che in Occidente ha sempre circondato i successi dei paesi del Pacifico: il Washington Post, per esempio, aveva definito la strategia australiana “una storia di successo” nella lotta contro il Covid e aveva invitato Stati Uniti ed Europa a guardare ad essa per contenere i contagi ed evitare il sovraffollamento negli ospedali.

A luglio, però, alcune persone infettate dalla variante Delta sono sfuggite ai controlli alle frontiere, cominciando a diffondere di nuovo il virus nel paese. La maggior contagiosità di questa variante ha messo in crisi il pur efficientissimo sistema di tracciamento, per cui le 30 ore necessarie a rintracciare tutte le persone venute in contatto con un soggetto positivo sono diventate troppe. Così, nonostante l’applicazione della strategia usata con successo a Melbourne, questa volta si è riusciti a tenere sotto controllo la situazione, ma non ad ottenere la totale soppressione del virus. Tuttavia, l’adozione di misure ancor più rigide è stata giudicata inopportuna, sia per gli effetti negativi sull’economia e sulla salute mentale delle persone, sia perché nel frattempo il resto del mondo, salvo pochissime eccezioni, aveva seguito un’altra strada, per cui nell’attuale contesto continuare a seguire la strategia dell’azzeramento dei contagi richiederebbe di mantenere il paese in uno stato di eccesivo isolamento.

Come ha affermato in un’intervista a News.com.au, a luglio 2021 il primo ministro Scott Morrison: «Quando non sapevamo nulla di questo virus era importante concentrarci sul numero di casi perché il nostro sistema ospedaliero non sarebbe stato in grado di farcela. Da allora molto è cambiato. Oltre al numero di nuovi casi dobbiamo pensare a come riappropriarci delle nostre vite in un mondo con il Covid». Per questo motivo le autorità hanno deciso di cambiare metodo per la terza volta, puntando soprattutto sulla velocizzazione della campagna vaccinale, che era iniziata in ritardo e a rilento perché proprio il successo del loro modello aveva portato le autorità australiane a non ritenerla una priorità, con conseguenti difficoltà di approvvigionamento e problemi di trasporto.

Tuttavia, negli ultimi tempi sono stati stipulati numerosi accordi per 1,5 miliardi di dollari con le più importanti case farmaceutiche al fine di acquistare le dosi di vaccino necessarie per raggiungere il tetto dell’80% di vaccinati entro la fine dell’anno: 40 milioni di dosi del vaccino sono state cedute da Biotech Usa Novavax e 10 milioni da Pfizer e BioNtech, mentre altre 33,8 milioni di dosi sono state prodotte da Astrazeneca e oltre 51 milioni dall’università del Queensland in collaborazione con CSL Segirus.

Ciò ha portato a una netta accelerazione: al 15 dicembre 2021 oltre il 75% della popolazione ha ricevuto la seconda dose del vaccino (cioè all’incirca come l’Italia, benché a inizio luglio da loro si fosse appena al 6%). Anche se vi sono tuttora grosse differenze fra il Sud-Est del paese, dove la popolazione è già stata quasi completamente immunizzata, e i territori dell’Ovest, dove invece si è molto più indietro, il governo federale ha quindi deciso di cominciare ad intraprendere la strada verso il ritorno alla normalità.

Per le prossime settimane sono attesi ulteriori allentamenti: per ora, infatti, resta confermato l’obbligo di indossare la mascherina al chiuso e la capienza limitata nei locali, ma il premier Morrison ha assicurato che quando l’80-90% della popolazione sarà vaccinata si potrà procedere con l’eliminazione di altre limitazioni. Alcuni esperti si sono detti preoccupati per la possibilità di una nuova ondata di infezioni in seguito alla riapertura, ma Daniel Andrews, primo ministro dello Stato più colpito, quello di Victoria, ha affermato che «i casi stanno diventando sempre meno e poco rilevanti grazie alla percentuale di vaccinati» e, almeno per ora, i fatti gli stanno dando ragione.

Naturalmente, va tenuto nel debito conto che ciò si deve anche al fatto che là i vaccini non hanno ancora iniziato a perdere efficacia, come sta invece succedendo da noi, grazie alla velocità molto maggiore (doppia rispetto all’Italia e ancor maggior rispetto alla media di UE e USA) con cui sono stati somministrati, una volta che la campagna è decollata, dopo le incertezze iniziali. Ciò significa che per consolidare i risultati raggiunti l’Australia dovrà mantenere la stessa efficienza fin qui dimostrata anche in futuro, con la somministrazione delle terze dosi e di eventuali altri richiami che si rendessero necessari. Tuttavia, non si tratta solo di questo, perché accanto ai vaccini l’Australia continua a mantenere in funzione il suo eccellente sistema di tracciamento e quarantena, che in Europa invece è pressoché inesistente e che limita molto la diffusione dei contagi che nonostante tutto si verificano.

L’Australia è il paese che ha cambiato più volte la sua strategia, seguendone ben tre ispirate a logiche abbastanza differenti e spesso “ibridandole” almeno in parte fra di loro, ma sempre con eccellenti risultati:

1) Strategia Covid Safe (stile sudcoreano) da marzo a giugno 2020, mirata a un’accettabile convivenza con il virus “a bassa intensità”, suddivisa in tre fasi: chiusura dei confini statali e limitazione dei viaggi in entrata e in uscita; limitazione dei viaggi all’interno del territorio stesso; quarantena di 14 giorni alle persone che arrivano dall’estero.

2) Strategia Zero Covid (stile neozelandese) da luglio 2020 a ottobre 2021: niente più convivenza con il virus, bisogna puntare a sconfiggerlo del tutto con tracciamenti rigorosi, tamponi a tappeto e soprattutto lockdown duri e tempestivi, estesi in alcuni momenti fino a mezzo milione di persone. Dopo l’estinzione del grande focolaio di Melbourne, il 26 ottobre 2020 l’Australia diventa per alcuni mesi Covid-free (a parte i casi di importazione), per cui vengono mantenuti i rigorosi controlli alle frontiere, ma all’interno del paese si torna a una vita quasi normale. Le restrizioni tornano in vigore dopo il diffondersi della variante Delta, a partire dall’inizio di luglio 2021.

3) Strategia ibrida a partire dal 17 ottobre 2021: prevede il progressivo allentamento delle misure restrittive (che tuttavia in parte rimangono) di pari passo con il progredire della campagna vaccinale. Da allora ad oggi il numero dei morti è costantemente calato, anche se nelle ultime 3 settimane i contagi hanno ricominciato a crescere.

Tuttavia, tali cambiamenti non sono stati prodotti da incertezza o confusione, bensì, al contrario, da un approccio molto realista e pragmatico, per cui da un lato i governanti australiani hanno sempre cercato di prevedere l’evoluzione della situazione (anziché rincorrerla, come è invece successo in Europa), ma dall’altro hanno anche sempre verificato “sul campo” le loro strategie, non puntando mai solo su una di esse, ma utilizzando tutte quelle che hanno dimostrato di dare buoni risultati.

E proprio qui sta la lezione principale che dobbiamo trarre dalla loro esperienza, soprattutto nella situazione attuale, in cui è ormai evidente che i vaccini sono sì utilissimi, ma da soli non bastano a eliminare definitivamente il virus, risultato che invece potrebbe essere ottenuto affiancando ad una campagna vaccinale (sperabilmente più rapida ed efficiente) altre strategie di prevenzione non mediche.

https://www.bbc.com

https://www.smh.com.au

https://www.theguardian.com

https://www.abc.net.au

https://www.9news.com.au

https://www.news.com.au

https://www.news.com.au/national/scott-morrison-reveals-plan-out-of-covid-020721/audio/8e0fbfba58cf33b3a4459cc20a111112

https://tg24.sky.it

https://www.repubblica.it

https://www.rainews.it/dl/rainews

https://www.ilsole24ore.com/art/australia

https://www.theaustralian.com.au

https://www.dailytelegraph.com.au




Covid, la lezione ignorata del Titanic

Una nuova ondata epidemica attraversa l’Europa da mesi: da metà ottobre l’indice Rt ha preso ad aumentare anche nei Paesi posti più a sud e più ad ovest, inizialmente risparmiati dalla recrudescenza dei contagi, facendo così vacillare la convinzione (l’illusione?) che queste nazioni – Portogallo, Spagna, Italia – si fossero salvate grazie al maggiore tasso di vaccinazione della loro popolazione. Per la seconda estate di seguito – già durante quella del 2020 dieci illustri scienziati italiani avevano firmato il manifesto di morte di Sars-CoV2 – si è colpevolmente dato vita ad una narrazione secondo la quale il morbo era stato sconfitto, il peggio era alle spalle. Un racconto non aderente al reale, cognitivamente dissonante, che provava a giustificare i comportamenti singoli e collettivi e che andava inserendosi in una più ampia cornice narrativa dove – a suggello di un 2021 descritto come straordinariamente positivo – trovavano posto una serie di successi nazionali tra i più vari: dal maggiore prestigio internazionale del nuovo Presidente del Consiglio alla crescita del PIL, passando per vittorie sportive e canore. Nel mentre, errori, ritardi, omissioni, contraddizioni hanno continuato (e, purtroppo, continuano) a caratterizzare – ad onor del vero non solo nel nostro Paese – la gestione della pandemia. Si è pensato di poter applicare soluzioni semplici ad un problema complesso. Si è puntato quasi tutto sui vaccini, demandando quindi quasi interamente a soggetti privati (le aziende farmaceutiche) la realizzazione di strumenti in grado di proteggerci dal contagio e dalle sue conseguenze. È rimasto inascoltato l’invito di chi suggeriva di coinvolgere nella gestione dell’emergenza anche figure esterne al mondo sanitario, quali ingegneri, fisici, matematici. Poco o nulla è stato fatto sul fronte dei trasporti e sulla qualità dell’aria negli ambienti chiusi, su cui pure si dovrebbe agire, per quanto siano richiesti un impegno economico e uno sforzo organizzativo poderosi.  È stato parzialmente dismesso il lavoro a distanza. È stato riaperto tutto o quasi tutto a piena capienza. Non è stato imposto l’uso di maschere FFP2 neanche in contesti chiusi ad elevato rischio di trasmissione. Per la scuola poco, anzi nulla, è stato fatto, se non smantellare parte dell’esame di maturità, adducendo come motivazione il pericolo dei contagi, i quali inevitabilmente a fine giugno / inizio luglio saranno più contenuti per ragioni legate al clima. A proposito di clima, si è fatto finta di non sapere che l’abbassamento delle temperature avrebbe favorito moltissimo la diffusione di Sars-CoV-2 e portato ad una moltiplicazione dei casi. Il tracciamento è stato in parte abbandonato, le risorse investite nel sequenziamento genetico delle varianti circolanti non sono state sufficientemente incrementate. Abbiamo ignorato l’eventualità che, dopo la beta e la delta, comparse l’una a pochi mesi di distanza dall’altra, potesse diffondersi una nuova variante virale capace di sparigliare ancora una volta le carte. È stata data voce ad esperti (forse anche presunti tali), assecondandone le ambizioni personali, consentendo loro di iperesporsi, aumentando il rischio che potessero abbandonarsi anche a considerazioni poco caute e facendo perdere valore – perché inflazionate – alle loro parole, anche quando dettate dal buon senso. Alla maggior parte delle persone d’età compresa tra i sessanta e gli ottanta anni non è stato somministrato il vaccino, tra quelli disponibili, dotato di maggiore efficacia. Si è coltivata l’illusione secondo la quale all’aumentare del numero totale di dosi somministrate nel Paese, e quindi del numero di soggetti vaccinati, corrispondesse un aumento progressivo del grado di protezione di cui la popolazione godeva, quando invece era già intuibile che la progressiva perdita di efficacia dei vaccini stava conducendo di fatto ad un abbassamento del livello di immunizzazione collettiva. Quando era già noto che l’efficacia dei vaccini andava riducendosi ben prima che fossero trascorsi 6 mesi dall’inoculo, la durata del Green Pass è stata prolungata da 9 a 12 mesi. È stata fatta partire con ritardo la campagna di somministrazione delle dosi di richiamo, quando da mesi – per le ragioni appena esposte – era evidente l’urgenza di procedere in tale direzione. Sono state autorizzate molteplici combinazioni vaccinali sì da rendere difficilissimo in futuro stimare in modo attendibile il grado di protezione della popolazione. Temendo forse una ridotta adesione alla campagna vaccinale, è stato raccontato che i vaccini avessero una capacità prossima al 100% di proteggere da malattia grave / ospedalizzazione / morte, che si sarebbe raggiunta l’immunità di gregge una volta superato un certo valore soglia di persone vaccinate (valore rivisto più volte al rialzo) e che, almeno da un certo momento in poi, il problema era rappresentato dai soli non vaccinati. L’attenzione collettiva è passata, quasi schizofrenicamente, da coloro che cercavano di saltare la fila per vaccinarsi prima degli altri a chi della vaccinazione proprio non ne voleva sapere. Cogliendo nel Paese il mutato “sentiment”, ed anzi alimentandolo – può dirsi infatti archiviata da tempo la stagione in cui si cantava dai balconi e ci si commuoveva di fronte alla fila dei carri con dentro le bare – si è fatta abbassare la guardia ai vaccinati, promettendo loro libertà in cambio della vaccinazione, secondo la logica premiale (e basata sulla infantilizzazione dei cittadini) del do ut des. Ogni opinione critica è stata considerata eretica, accostata alle posizioni più estremiste e meno sensate di chi a prescindere era contro vaccini e Green Pass, e fatta apparire ridicola; sono stati costretti coloro che la esprimevano a premettere, prima di ogni cosa, a mo’ di salvacondotto necessario per essere presi più o meno sul serio, di essere a favore dell’uso di vaccini.  Appare oggi chiaro quanto miope e pericoloso sia continuare a pensare di poter risolvere tutto per mezzo di vaccini (in particolare, di questi vaccini) e certificati vaccinali.

Torna alla mente a questo proposito la lezione del Titanic. Il Titanic aveva un doppio fondo cieco che quindici paratie, dislocate lungo tutta la lunghezza della nave, separavano in sedici compartimenti stagni. Era stato costruito in modo tale da rimanere a galla con due dei compartimenti intermedi oppure finanche con tutti i primi quattro compartimenti di prua completamente allagati, e per questo era stato considerato inaffondabile. Nessuno aveva immaginato che potesse realizzarsi un urto così violento da creare uno squarcio tale da allagare un numero di compartimenti stagni maggiore. Non tutte le paratie avevano la stessa altezza: le prime due e le ultime cinque arrivavano al ponte D, mentre le altre otto raggiungevano il ponte E. È stato calcolato che se le paratie fossero state più alte, la nave forse non sarebbe affondata. Il motivo per cui non vennero costruite paratie così alte fu per ricavare in prima classe grandi ed eleganti saloni dove i viaggiatori potessero intrattenersi piacevolmente, socializzare, ballare, giocare, divertirsi spensieratamente mentre – abbagliati com’erano dalle luci scintillanti dei grandi lampadari di cristallo – barattavano più o meno inconsapevolmente la propria sicurezza con un effimero benessere.

Il Green Pass è stato, ed è tuttora, uno strumento coercitivo che è servito al suo scopo, giusto o sbagliato che fosse: spingere un maggior numero di persone a vaccinarsi. Vaccini e Green Pass non possono e non devono, però, essere intesi come paratie in grado di suddividere i membri di una popolazione in due distinti compartimenti e di mettere uno di questi due gruppi in assoluta sicurezza. Oggi più che ieri, poiché all’orizzonte si intravede sempre più vicina una minaccia potenzialmente in grado di produrre un urto più violento e uno squarcio più ampio di quelli che finora ci eravamo figurati. Molti, moltissimi errori sono stati compiuti, altrettanti allarmi sono rimasti inascoltati. Non è ancora troppo tardi, forse, per correggere la rotta ed evitare il peggio. Mettere in atto da subito – e questa pare essere la direzione lungo la quale si è avviato il nostro Governo – le uniche strategie che possano essere adottate con immediatezza: regole più severe anche per i vaccinati, come l’obbligo delle mascherine FFP2 e dei tamponi in determinati contesti; per quanto doloroso, progressivo ma temporaneo inasprimento delle misure di distanziamento fisico, evitando di agire in ritardo come avvenuto in passato (i peggiori nemici dell’economia si sono rivelati in passato gli “aperturisti”). Varare contestualmente, però – e qui di nuovo tutto sembra essere fermo come in un doloroso déjà vu – strategie integrative, la cui realizzazione richiede tempo; strumenti che possano affiancarsi ai vaccini innanzitutto dove questi risultano meno efficaci, e cioè nel contenimento dei contagi, ma anche in grado di ridurre l’incidenza della malattia grave: fronte sul quale – almeno fino a questo momento – i vaccini hanno dato i migliori risultati. Ricordando infine che, contrariamente agli attuali vaccini anti-Sars-Cov-2, almeno parte di tali strumenti avranno modo di poter essere sfruttati anche laddove dovessero emergere (ed emergeranno…) nuove varianti, ed anche in presenza di futuri eventi pandemici sostenuti da diversi agenti infettivi. Perché – lo dobbiamo a noi stessi e a chi di noi non c’è più – gli ultimi due anni ad imparare almeno due cose devono esserci serviti: ad analizzare con lucidità e spirito critico il presente, a costruire con lungimiranza e slancio immaginativo il futuro.




Dante, Santagata e l’italianità

Uno dei guai dell’Italia è che nessuno si rassegna a fare soltanto il proprio mestiere. Neppure il “grande dantista Marco Santagata” aveva resistito alla tentazione di invadere il campo (non suo) della storia delle idee. Facendo dell’ironia gratuita su Dante “fondatore dell’italianità” aveva detto: “Sono centinaia gli intellettuali che hanno raccontato Dante come l’eroe nazionale. Ma è un ritratto falso. Per Dante, l’Italia non esisteva. Nel suo tempo, che era il Medio Evo, esistevano tante piccole formazioni politiche che si facevano la guerra tra loro. L’idea dello stato nazione è nata secoli dopo, e non poteva rientrare nell’orizzonte dantesco. Dante aveva in mente l’Impero: un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la sicurezza di tutti i cristiani. Ma che vuole, nella storia succede continua-mente che si prendano i fatti culturali e li si rileggano alla luce delle esigenze del momento”.

“Per Dante l’Italia non esisteva” ma davvero? Davvero, almeno quanti di noi avevano fatto il liceo, avevamo dimenticato che, per il ‘ghibellin fuggiasco’, a detenere la suprema legittimità politica era l’Impero—di cui il nostro paese, però, sarebbe dovuto essere lo splendido ‘giardino’? Quante idee sbagliate ci avrebbe trasmesso la vecchia scuola se non ci fossero i demistificatori alla Marco Santagata buonanima e al vivo e vegeto Alessandro Barbero (quello che raccontava in TV che se i Persiani avessero vinto a Salamina per la Grecia non sarebbe cambiato niente, con l’aria beffarda: “beh beccati questa verità scomoda, incarta e porta a casa!”..)! Sennonché da umile storico delle idee faccio rilevare che le ragioni per cui Dante viene ritenuto ‘fondatore dell’italianità’ sono sostanzialmente tre: la linguaLe genti del bel paese là dove ‘l sì suona», (Inf. XXXIII, vv. 79-80) ; la geografia—la sicurezza con cui il Sommo Poeta delimitò i confini d’Italia–«Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Inf., Canto IX, 113-114); un’etnia culturale ( come diremmo oggi), con una sua individualità e interessi distinti dalle altre: «Ahi serva Italia di dolore ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/ non donna di provincia ma bordello» (Purg. Canto VI,76-78) Per il resto, Dante è un uomo del Medio Evo che mai avrebbe potuto pensare a uno stato nazionale italiano, un progetto che evoca idee rivoluzionarie e la ‘democrazia dei moderni’—patriota è una parola coniata, nella sua sostanza etico-politica, dalla Rivoluzione francese e ripresa nel Risorgimento dai ‘modernizzatori’, nemici giurati dell’Ancien Régime, ovvero degli Imperi e, in ispecie, degli ultimi discendenti degli Asburgo. Del cui Impero il Vate fiorentino fu il convinto cantore: “O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia e dovresti inforcar li suoi arcioni”,( Purg.,Canto VI,97-99).  Questo Dante , non a caso, mandava in visibilio i teorici dell’universalismo fascista ,che ritenevano superati i miti della ‘nazione’ e della patria’ e che guardavano non più al Risorgimento ma all’Impero di Roma, alle sue ‘quadrate legioni’, agli Stati-Civiltà etc.,  ma non credo che il buon Santagata avrebbe ‘gradito’ l’antinazionalismo del pagano Julius Evola..

Forse è venuto il momento di finirla con le picconate ai miti ‘scolastici’: la storia non è fatta per épater les bourgeois ma per far capire da dove veniamo e come il passato ha contribuito a renderci quel che siamo. Continui, pertanto, la benemerita ‘Società Dante Alighieri’ a far conoscere al mondo la nostra grande cultura, al riparo dall’ironia dei beaux esprits. Sì, Dante politicamente non ha nulla a che vedere con lo stato nazionale ma, nella definizione di una identità culturale contano solo la politica, il tipo di Stato che si ha in mente, le sue istituzioni? O non anche la lingua, le arti, il territorio, il senso di una ‘comunità di destino’? E se questi ultimi fossero irrilevanti, non sarebbe la riprova di un virus totalitario (“tutto è politica e tutto si risolve in politica!”) da cui stentiamo a liberarci? Si difende un’eredità spirituale, una lingua, una cultura indipendentemente dal tipo di Stato che si ha in mente: Carlo Cattaneo era un grande patriota italiano ma, prima del 48, non gli sarebbe dispiaciuto vedere il Lombardo-Veneto membro di uno ‘splendido dogato’—quale avrebbe potuto essere l’Austria di Maria Teresa e dell’assolutismo illuminato. Forse in un periodo come l’attuale in cui si sono fortemente indeboliti il senso dell’appartenenza e l’orgoglio delle grandi produzioni artistiche e scientifiche che, nel corso dei secoli, si sono registrate nelle diverse regioni della penisola , in anni in cui i fattori culturali sono divenuti irrilevanti (in qualche Facoltà di Lettere si insegnava Letteratura italiana in inglese e si leggevano I promessi sposi in traduzione), c’è qualcuno che può pensare:in mancanza di uno stato unitario italiano, come si può parlare di italianità? In realtà, questa antiretorica è più preoccupante della retorica delle celebrazioni ufficiali.

Ha scritto Giovanni Belardelli, storico delle dottrine politiche e autore del miglior saggio che io conosca sulle idee di Giuseppe Mazzini: “Attraverso il culto di Dante si affermava così la figura dell’intellettuale come moralista, aspro critico dei difetti dei propri connazionali”.

Cito Nicola Mirenzi, Dante l’italiano (“HuffPost del 5 dicembre 2020): “Era fondamentale rifare gli italiani. Secondo la gran parte dei patrioti, lunghi anni di dominio straniero avevano compromesso il popolo, rendendolo vile e corrotto. E l’emblema di questa italianità deteriore divenne Petrarca, che aveva la colpa di essere stato un poeta cosmopolita, a suo agio presso le corti europee. Mentre Dante, no: era rimasto intatto. Ai loro occhi, era l’incarnazione dell’italiano intransigente, l’uomo che aveva scelto con sdegno l’esilio pur di non piegarsi al nuovo potere di Firenze. L’esilio stabiliva una connessione esistenziale tra loro e Dante. Come Dante, anche molti patrioti avevano preferito pagarla cara lontano da casa anziché piegarsi allo straniero. Come Dante, testimoniavano con la vita l’attaccamento alle virtù civiche e all’ideale nazionale. Come Dante, potevano perciò anche permettersi di ridire sugli altri italiani. ‘Spesso gli esuli – mi racconta Berardelli – vivevano in condizioni miserabili all’estero, ma sapere di essere fedeli all’esempio dantesco era di grande conforto morale’”. Tutto vero, tutto innegabile ma le ‘mitologie’ non bastano a fare e a spiegare la storia. Se Dante fosse stato solo l’”italiano intransigente”, l’uomo di carattere con la ‘c’ maiuscola il fatto di essere divenuto il simbolo dell’italianità sarebbe davvero inspiegabile. (E perché Dante e non Francesco Ferrucci se è veritiero l’omaggio che gli tributava Goffredo Mameli: “Dall’Alpi a Sicilia/Dovunque è Legnano/,Ogn’uom di Ferruccio/ Ha il core, ha la mano?”).

Sempre citando Mirenzi, “nemmeno Vittorio Sermonti lasciò mai credere il contrario, sebbene con la lingua di Dante abbia deliziato a lungo gli italiani, e senza ricorrere al trucco dell’icona pop. Nel Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, venne chiamato a tenere tre giorni di lezioni nell’aula del Palazzo dei gruppi parlamentari. Premise che non aveva alcuna voglia di parlar bene dell’Italia, e che ne avrebbe parlato semplicemente con amore. Poi, raccontò che fu Virgilio a inventare la parola Italia, Dante a promuovere ‘le parlate sgangherate degli italiani alla nobile esattezza del latino’ e Verdi a rendere l’italiano finalmente popolare. Si guardò bene dal dire che Dante aveva creato l’Italia. Concesse qualcosa sulla lingua, ma specificando che si trattava di un azzardo: ‘Vogliamo dire che Dante ha fondato le basi teoriche dell’italiano?’ E diciamolo”.

Confesso un profondo fastidio per l’insostenibile leggerezza del pensare. Mettiamo da parte miti, falsi credenze, ingenuità ideologiche e guardiamo ai fatti nudi e crudi: è vero o non è vero che Dante scrisse uno dei più grandi capolavori letterari di tutti i tempi, la Divina Commedia, in italiano (una lingua, sembra, nata non a Firenze ma alla Corte di Federico II con Giacomo da Lentini e altri poeti della sua Scuola)?; è vero o non è vero che per lui l’Italia era, forse, un’espressione geografica ma un’espressione geografica tutt’altro che immaginaria e non priva, in ogni caso, di risonanze sentimentali ? è vero o non è vero che il destino della penisola—i suoi problemi, le sue traversie, le sue memorie—gli stava molto a cuore e che parlando di bolognesi, di veneziani, di genovesi, di pisani, di fiorentini ne parlava come di rami di uno stesso albero sino al punto da sentire le loro ‘peccata’ come vergogne di famiglia?

Giuseppe Mazzini, Ugo Foscolo, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo i grandi spiriti del ‘riscatto nazionale’ onorarono tutti in Dante il Padre dell’Italianità: incontrandoli nell’altro mondo, Marco Santagata e Vittorio Sermonti li sottoporranno alla doccia fredda del demisticatore televisivo Alessandro Barbero: “Guardate che Dante non era un patriota. Come credevate voi ma un imperialista?” “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” si diceva nel buon tempo antico.




“Il Governo sbaglia. Così fa abbassare la guardia ai vaccinati”. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Luca Ricolfi, in un intervento su Repubblica la settimana scorsa ha detto chiaramente che il vaccino serve, ma da solo non basta. Lo ha sostenuto prima che venissero diffusi i primi studi in pre-print da parte delle autorità sanitarie sudafricane sull’andamento della variante Omicron, che confermerebbero una maggiore velocità di contagio. È ancora più preoccupato rispetto a 7 giorni fa?

Sì, perché seguo l’andamento dell’epidemia in Africa, e lì emerge una cosa terrificante: nei paesi in cui la variante Omicron ha già preso piede, il valore di Rt, che è già molto pericoloso quando raggiunge 1,4 o 1,5, sta viaggiando a valori vicini a 2 o 3. Un valore di Rt pari a 3 significa triplicazione dei casi in meno di una settimana, decuplicazione in 2 settimane, centuplicazione in un mese. Ma anche un valore di Rt pari a 2 non scherza: significa decuplicazione dei casi in 3 settimane. Per quel poco che si riesce a ricavare dai database dei sequenziamenti, Omicron è già piuttosto diffusa in Spagna e Francia, dove infatti Rt galoppa vicino a 1,5.

E in Italia?

In Italia ci vien detto che abbiamo poche decine di casi, ma ovviamente dipende dai pochi sequenziamenti. Secondo le ultime rilevazioni, il peso di Omicron è dell’1%, il che, su 500mila tamponi, fa 5mila casi.

La velocità di propagazione di Omicron però non è tutto. I virologi insegnano che la funzione principale dei vaccini è quella di proteggerci dalle ospedalizzazioni. Tutto sommato infettarsi e avere sintomi nulli o lievi non è un problema. Non crede?

Sì, a certe condizioni. Tutto dipende da due parametri, che nessuno conosce con precisione. Il primo è l’impatto della variante Omicron sul numero dei casi, il secondo è l’efficacia dei vaccini su di essa. Può darsi che i vaccini siano altrettanto efficaci che sulla Delta, e persino che la Omicron dia sintomi meno severi. Ma che succede se, a causa della sua facilità di trasmissione, il numero di infetti decuplica? Attualmente abbiamo 800 ricoverati in terapia intensiva, 8000 non potremmo in nessun modo sostenerli.

Quindi secondo lei non siamo ancora fuori dalla pandemia ma anzi dobbiamo continuare a stare attenti. Il Governo quindi sta sbagliando a lanciare un messaggio ottimista?

È un errore madornale. Oggi è difficile stabilire se siano più pericolosi i non vaccinati o i vaccinati. I non vaccinati contagiano di più e si ammalano di più, ma hanno il vantaggio di essere pochi. I vaccinati contagiano di meno, ma sono tanti (circa il triplo dei non vaccinati), e non di rado si credono invulnerabili. Il messaggio “sei stato bravo, hai avuto senso civico, ti premio lasciandoti fare quasi tutto quel che vuoi” sta determinando effetti catastrofici. La gente abbassa la guardia proprio perché è vaccinata. E fa malissimo, perché – stanti i ritardi del Governo nella campagna per la terza dose – la maggior parte dei vaccinati è ben poco protetta rispetto al rischio di infezione. Il dato cruciale di questa fase è l’illusione vaccinale, alimentata dalle autorità politiche e sanitarie: è da giugno che sappiamo che la copertura rispetto all’infezione dura solo 4-5 mesi, eppure il green pass ne dura ancora 12, e ne durerà ancora 9 dopo il 15 dicembre (nel frattempo, paradosso dei paradossi, i soggetti positivi possono girare con un green pass valido, perché al Ministero non hanno ancora trovato un modo di bloccarne la validità). È difficile dare dei numeri incontrovertibili ma, da stime che ho effettuato su dati americani, a me risulta che almeno metà dei contagi sono dovuti a interazioni vaccinato-vaccinato. Vaccinare va benissimo, ma pensare che basti significa non aver capito come funziona questa epidemia.

Lei dice che vaccinare è condizione necessaria, ma non sufficiente. Quali sono le ulteriori misure che dovrebbero essere prese per passare dal necessario al sufficiente?

Una misura ovvia, incredibilmente messa da parte, è il tracciamento elettronico, ovviamente con una App meno problematica di Immuni. Ma la via maestra è il controllo della qualità dell’aria.

Con quali strumenti?

Con i sensori della CO2 (anidride carbonica), i filtri di purificazione dell’aria e, ancor meglio, con la Ventilazione meccanica controllata (Vmc). Tutte soluzioni fin qui completamente ignorate, non saprei dire perché. Forse perché hanno un costo economico ed organizzativo non indifferente. Forse semplicemente perché, incredibilmente, ingegneri, chimici, fisici e statistici (il mio mestiere) sono stati esclusi dalla gestione dell’epidemia. I nostri modelli matematici dicevano chiaramente che, senza misure specifiche di contenimento, la stagione fredda e il passaggio alla vita al chiuso avrebbero triplicato o quadruplicato il numero dei casi, facendo così saltare il tracciamento.

La ventilazione dei luoghi chiusi è misura che esplicherà gli effetti nel medio periodo. A breve invece, in vista dell’inverno, che fare?

Nel breve periodo non si può fare quasi nulla, salvo mandare segnali di prudenza chiari, o con degli spot o con un messaggio del Presidente del Consiglio a reti unificate. Ad esempio dicendo che le interazioni negli ambienti chiusi sono molto pericolose anche per i vaccinati, e che sui mezzi pubblici tutti devono vigilare sull’uso delle mascherine. Possibilmente FFP2, e mai con il naso scoperto. Senso civico non è solo vaccinarsi, ma anche invitare gli altri al rispetto delle regole.

Il Governo però mi sembra andare in altra direzione, punta tutto sui vaccini. Punta ad allargare ancora la platea dei vaccinati nonché arrivare nel più breve tempo possibile a estendere la terza dose a tutti quelli che ne hanno diritto ovvero chi ha scavallato i 5 mesi dalla seconda iniezione. Neanche la terza dose ci basta per proteggerci?

Io spero che basti, almeno per qualche mese. Ma c’è un indizio che suggerisce che potrebbe non bastare.

Quale indizio?

L’andamento dell’epidemia in Israele, il paese che ha vaccinato di più ed è più avanti con la terza dose. Il 22 novembre in Israele il valore di Rt ha attraversato la soglia critica di 1, e da allora è sempre rimasto al di sopra. Ora è intorno a 1,2, più o meno come qui da noi in Italia. Può anche darsi che Israele sia semplicemente vittima della sua demografia, ossia dell’altissimo numero di bambini, ragazzi e giovani, vaccinabili e non vaccinabili. Tuttavia non possiamo escludere una eventualità più inquietante: e cioè che, con la variante Omicron, anche una vaccinazione (quasi) totale non sia sufficiente a fermare la diffusione del contagio. Ma la difficoltà di Israele di riportare sotto controllo l’epidemia non è l’unica fonte di preoccupazione. Prendiamo il Portogallo, la Spagna, e gli altri 4-5 paesi che hanno vaccinato quasi tutti. Come mai, nonostante il successo della campagna vaccinale, anche in essi il valore di Rt è abbondantemente sopra 1? La mia risposta è che, pur dando un apporto modesto all’occupazione degli ospedali, i vaccinati stanno contribuendo a riaccendere l’epidemia. E le misure premiali nei loro confronti, come il Green Pass e il Super Green Pass, non fanno che gettare benzina sul fuoco.

Non crede che le sue preoccupazioni possano essere strumentalizzate dalla ridotta dei No Vax?

Ma certo, tutto quel che si dice può essere strumentalizzato, anche l’informazione ufficiale viene regolarmente deformata, manipolata e ritorta contro la campagna vaccinale. I casi aumentano? È la dimostrazione che il green pass non funziona. Un terzo dei ricoverati in terapia intensiva sono vaccinati? È la dimostrazione che vaccinarsi non serve. La copertura anticorpale dei vaccini svanisce dopo 6 mesi? Dunque il vaccino non funziona. Perciò io capovolgo la domanda: dobbiamo nascondere i dati della situazione solo perché No Vax e Ni Vax possono usare quei dati a modo loro? Non è meglio dire tutta la verità, in modo da essere più attrezzati conto il virus? A me sembra che i governanti abbiano scelto un’altra strada. Sapendo che non ce la faranno a mantenere la promessa di tenere tutto aperto (“il green pass è libertà”), stanno costruendo il capro espiatorio perfetto per quando dovranno arrendersi di fronte al dilagare dell’epidemia. È un brutto clima quello che sta montando in Italia. Chi è scettico sul vaccino si sente vittima di sopraffazioni varie. E chi crede nel vaccino tende a scaricare sui soli non vaccinati la responsabilità di una situazione che, in realtà, dipende anche dai comportamenti dei vaccinati e dalle omissioni dei governi.

Dei No Vax lei sostiene che siano ormai considerati come perfetto capro espiatorio di tutti i mali. Però come si può dare credibilità a chi si paragona a Gesù o a chi come Giorgio Agamben o Massimo Cacciari, filosofi di grande spessore, si lascia andare a similitudini con gli anni del nazismo e del controllo totalitario sulle masse? Che credibilità possono avere?

Su questo vorrei essere chiarissimo. I paragoni con il nazismo, anche se formulati in modo metaforico o paradossale, sono inaccettabili, se non altro perché offendono le vittime dei veri regimi dittatoriali. Certe analisi statistiche, secondo cui i vaccinati si contagerebbero di più dei non vaccinati, sono semplicemente ridicole, come ampiamente dimostrato dagli esperti. E mi spingo oltre: già molti mesi fa, quando ancora scrivevo sul Messaggero, avevo sostenuto che parlare di discriminazione è un abuso di terminologia. Quello che io mi rifiuto di accettare, però, è che un argomento debba essere squalificato solo perché usato, o usabile, da parte dei No Vax. È un non-sequitur, un errore logico, come nella storiella del paziente psichiatrico che dice “il fatto che io sia paranoico non implica che io non sia perseguitato”. Ineccepibile! Il fatto che un argomento sia usato da un No Vax non implica che sia infondato.

Ma quali sarebbero gli argomenti No Vax fondati?

Intanto, mi sembra doveroso fare una precisazione: No Vax è un’etichetta di comodo, per dire non allineati al racconto ufficiale. Molte critiche al green pass e alla campagna vaccinale vengono da persone plurivaccinate. Ma non voglio eludere la domanda, e le dico quali sono, secondo me, le obiezioni sostenibili. Non dico necessariamente giuste, ma di cui ha perfettamente senso discutere senza demonizzarle.

  1. Il vaccino è stato testato nello spazio (miliardi di persone) ma non nel tempo (meno di 12 mesi).
  2. I dati sul rapporto rischi-benefici, specie per la fascia 5-11 anni, sono pochi, e insufficienti a dissolvere ogni dubbio e a prendere una decisione razionale.
  3. Il contributo dei vaccinati alla diffusione del virus è sottovalutato dalle autorità sanitarie e dai grandi media.
  4. È stato un errore puntare tutte le carte sulla campagna vaccinale, trascurando misure di contenimento su trasporti, scuole, ambienti chiusi in generale.
  5. Se avessimo usato massicciamente queste ultime armi, le restrizioni alla nostra liberà avrebbero potuto essere molto minori.

Soprattutto questa ultima considerazione mi pare degna di attenzione, se non altro perché presto potremmo accorgerci che tutto quel che non si è fatto in questi due anni dovremo comunque farlo d’ora in poi, se non vogliamo farci travolgere dal virus.

Lei mette in rilievo un dato incontrovertibile: in questi due anni abbiamo consapevolmente rinunciato a parte della nostra libertà. Affermazione oggettiva. Ma non è anche vero che la nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri? Non considera un gesto di libertà vaccinarsi per contagiare un po’ meno gli altri o quanto meno per evitare che gli ospedali si riempiano e siano costretti a rinviare le ospedalizzazioni per altre malattie diverse dal Covid?

Sì, perfettamente d’accordo, vaccinarsi è fondamentalmente un gesto altruistico, per lo meno se compiuto da maggiorenni. Ma, per le persone razionali, il punto non è se aderire alla campagna vaccinale oppure no, se accettare restrizioni alla libertà oppure no. Il punto è se il quantum di illibertà che ci viene imposto sia eccessivo, ragionevole, o insufficiente. E su questo mi pare che siano soprattutto le posizioni politiche a fare la differenza.

In che senso? Chi si è mosso più saggiamente e chi meno nella gestione dell’epidemia?

Se lasciamo perdere i primi mesi della pandemia, in cui tutti hanno oscillato fra i due estremi “chiudiamo tutto” e “apriamo tutto”, la destra (più Italia Viva) è sempre stata più aperturista, e la sinistra più chiusurista. Alla luce di come sono andate le cose, mi pare chiaro che le posizioni anti-restrizioni della destra siano state incaute, e lo siano tuttora. Ma questo è solo un pezzo del discorso. Se guardiamo le cose in un orizzonte temporale più lungo, occorre riconoscere che la querelle sul quantum di apertura-chiusura non assolve nessuno: se avessimo aperto di più, come voleva la destra, le cose sarebbero andate ancora peggio, se avessimo chiuso ancora di più, come volevano i falchi del lockdown, non ne saremmo comunque usciti. Perché, a destra come a sinistra, è quasi sempre mancata la volontà di mettere in campo tutte le armi contro il virus, a partire da quelle più costose o più complicate: tamponi, tracciamento elettronico, messa in sicurezza degli ambienti chiusi, rafforzamento del trasporto locale, controlli capillari su treni, metropolitane e bus.

Non salva proprio nessuna forza politica?

Direi proprio di no. Ma la cosa che più mi colpisce è l’incoerenza di alcune posizioni. Prendiamo il duo Speranza-Ricciardi, o il Comitato tecnico scientifico, sempre schierati su posizioni di massima prudenza: perché non hanno mai fatto una battaglia per le misure alternative alle restrizioni, a partire dalla messa in sicurezza delle scuole? Ma un discorso simmetrico e speculare si potrebbe fare su Fratelli d’Italia, l’unica forza politica che quelle misure ha sempre e giustamente invocato: se erano consapevoli della gravità della situazione, e dell’insufficienza della campagna di vaccinazione, perché ogni volta che si è presentata l’alternativa aprire-chiudere si sono sempre schierati per l’aprire, contro le restrizioni?

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti: nel breve periodo le misure complesse non sono mai un’alternativa, perché la loro implementazione richiede mesi e mesi. Una forza politica responsabile dovrebbe accettare le misure restrittive quando non ne esistono altre immediatamente implementabili, e al tempo stesso pretendere il varo immediato di misure alternative, che daranno i loro frutti più avanti nel tempo.

Ultima domanda sullo stato dell’informazione in pandemia. Che ne pensa della tesi provocatoria dell’ex premier Mario Monti che ha invocato una “comunicazione di guerra” ovvero un filtro alle notizie da divulgare?

In un certo senso la penso all’opposto. A mio parere i maggiori media hanno già messo in atto una comunicazione di guerra. Il tratto distintivo fondamentale della comunicazione di guerra è che gli oppositori sono trattati come disertori. Ed io proprio questo ho visto, in innumerevoli occasioni: quando, per poter esprimere una sia pur minima critica alla linea ufficiale vaccinista, ci si sente obbligati a premettere che si è vaccinati e plurivaccinati, è già il segno che il dibattito non è libero, e che i dissidenti saranno trattati da disertori. Se devo fare un rimprovero all’informazione è di aver quasi sempre fatto rappresentare le posizioni critiche solo da macchiette ridicole, e non da studiosi seri. E soprattutto di avere idolatrato i virologi-infettivologi-immunologi-microbiologi, chiamati a pontificare su tutto, compresi molti argomenti su cui sarebbe stato molto più logico – e utile – interpellare ingegneri, fisici e statistici. Su una cosa, però, sono invece d’accordo con Monti, sempre che io abbia ben inteso il suo pensiero. Quel che è mancato quasi completamente in Italia è una informazione ufficiale autorevole e coerente, come ad esempio quella di Anthony Fauci negli Stati Uniti. Se ci fosse stata, non avremmo assistito inebetiti al festival dei virologi in tv, e non saremmo stati sommersi dai dubbi che hanno tormentato, e ancora tormentano, le nostre povere menti di cittadini senza potere e senza verità.

Intervista rilasciata a The Huffington Post, 13 dicembre 2021




Lettera di una mamma

A proposto del “danno scolastico”

Professoressa Mastrocola, Professor Ricolfi, buongiorno.

Vi scrivo questa lettera che, temo, sarà piuttosto lunga per il desiderio di portarvi la mia esperienza, da mamma, riguardo al mondo della scuola e forse anche per la necessità tutta mia personale di dare sfogo ad un urlo di rabbia che fino ad ora ho soffocato.

Non so ancora bene cosa ne verrà fuori e se potrà essere di una qualche utilità. Si vedrà. Spero di non tediarvi eccessivamente.

Mi presento. Mi chiamo Sara, ho cinquant’ anni, sono psicologa, ho tre figli maschi, di 24, 22 e 11 anni, i due grandi studiano all’ università e il piccolo è in prima media. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine, i laureati si perdono nelle generazioni degli avi. Nella mia famiglia si è sempre data moltissima importanza allo studio, alla conoscenza, alla riflessione, in generale alla cultura.

Ora dunque, i miei figli.

I due più grandi hanno frequentato sempre scuole pubbliche e non sono mai stati aiutati da me né seguiti privatamente. Hanno avuto degli insegnanti molto validi, alle elementari direi addirittura eccezionali e molto, molto esigenti. Usciti dalle scuole medie  sono andati al liceo scientifico, il maggiore a scienze applicate e l’ altro al tradizionale.

Durante i loro anni di liceo iniziarono i miei dubbi.

Il maggiore, che è sempre stato bravino e che, ritengo, abbia anche avuto dei bravi insegnanti, dedicava allo studio un tempo che poteva variare da una a due ore al giorno per non più di cinque mesi ad anno scolastico. Per i miei criteri poco, troppo poco. In diverse occasioni dissi ai suoi professori che dedicava poco tempo allo studio, anche se, confesso, non dissi mai loro di quanto poco si trattasse. Ora ha 24 anni e sta facendo la magistrale di ingegneria, è bravino, sicuramente possiede le “competenze di base”, ma non è riflessivo, non si pone domande, non è curioso, non ha interessi, non legge saggi. Ho provato a riflettere un po’ con lui dicendogli che sicuramente uscirà dall’università con una buona (aiuto, in realtà lo spero!) preparazione tecnica, ma ci sono altre competenze non tecniche da affinare. Di recente ho provato a proporgli un saggio ereditato da mio padre, “Il professionista riflessivo”(tanto per citarne uno). Ma no. Non gli interessa. Sembra che accendere la mente sia una cosa che non rientra nei suoi piani. E non era così. Io, che lo osservo da sempre, direi che si sia appiattito durante gli anni di liceo, che indubbiamente per lui sono stati molto poco stimolanti. Ricordo la sua fatica nell’ andare a scuola, cosa che all’ epoca mi stupiva molto e che non riuscivo a spiegarmi dal momento che non aveva alcun problema di rendimento. Nella vita se la caverà, ma rimane un dispiacere di fondo, un po’ di amarezza.

Quando arrivò al liceo l’altro figlio compresi la differenza fra studiare poco e studiare niente. (Permettetemi una precisazione: non abbiamo geni in famiglia, i miei figli hanno una intelligenza normalissima).

Il secondo dei miei ragazzi, mai stato bocciato, mai stato nemmeno rimandato, una unica insufficienza in pagella in una materia di un primo quadrimestre in 5 anni di liceo, studiava, forse, 15 minuti a giorni alterni (sono certa di quanto dico riguardo allo studio poichè di recente ne ho parlato con entrambi e me lo hanno confermato). Andava a scuola molto volentieri, si trattava di una specie di paese dei balocchi. Nei vari confronti/scontri avuti negli anni la sua risposta è sempre stata che se fosse stato difficile si sarebbe impegnato ma visto che era così facile non ne vedeva la necessità. Come dargli torto! E allora quando fu in quarta liceo, in marzo, mi presentai alla professoressa di matematica e fisica dicendole che mio figlio non aveva neppure i quaderni delle sue materie, che non svolgeva mai i compiti che venivano assegnati per casa e che non apriva un libro. La pregai che lo rimandasse, spiegandole che le facevo questa richiesta perché ero seriamente preoccupata che arrivasse impreparato all’università e rincarai la dose assicurandole che non la avrei denunciata se lo avesse rimandato a settembre (mia mamma ha insegnato italiano per quarant’ anni e sono ben consapevole delle paure degli insegnanti nei confronti dei genitori). Quando la professoressa si riebbe dallo shock, mi disse che non avrebbe saputo come fare, che se a giugno fosse arrivato ad avere la media matematica del 6 lei non lo avrebbe potuto rimandare. A quel punto lo shock fu mio. Pensavo che fossero i professori a decidere quali voti assegnare. Forse non era così. Forse il tutto veniva affidato ad un complicato algoritmo governato da chissà quali fattori! Chiedo scusa, nella foga del racconto mi sto un po’ facendo prendere la mano. E dunque, uscii da quel colloquio con un tale sconforto addosso e con la nettissima sensazione di dover combattere una battaglia presentandomi a lei sola e disarmata. A giugno venne promosso. Per inciso, a fine anno scolastico trovai diversi libri di testo ancora ricoperti con la pellicola di cellofan. L’ anno successivo, la sua quinta liceo, presi una leggera terapia antidepressiva per riuscire a sopportare meglio (infischiandomene un po’) questa situazione di totale, a parer mio, degrado culturale. Alla maturità, che era ancora una buona maturità con i tre scritti, la tesina e l’orale su tutte le materie, prese 80/100. Gli dissi che non lo aveva meritato. La sua risposta, la ricordo come fosse ieri, fu: “Mamma, ma tu non hai idea di come sono messi gli altri” (i suoi compagni di classe). Purtroppo penso avesse ragione; all’ epoca corressi ad una sua compagna di classe, ragazza diligente, bravina e studiosa, la tesina di maturità sull’ anoressia. Francamente era scritta maluccio (grammatica, lessico, sintassi, costruzione del periodo e struttura del testo; insomma, a parte l’ortografia, tutto). Rimasi molto stupita. Ora mio figlio sta faticosamente e con un po’ di ritardo finendo la triennale di matematica.

I miei ragazzi se la caveranno nonostante il liceo a mio parere troppo facile che hanno frequentato. Penso che nel loro caso siano state determinanti le ottime elementari fatte, il teatro per il maggiore e il pianoforte per il secondo oltre alla famiglia comprensiva di “mamma rompiscatole”, come dicono loro.

Ma che occasione mancata il liceo! Che peccato!

Ed ora il piccolo. E qua si passa probabilmente, come dite nel vostro libro, dalla tragedia alla catastrofe.

Il mio piccolo, nato nel 2010, andò alla scuola elementare che avevano frequentato i suoi fratelli. Io ebbi subito il sentore di qualcosa che non andasse, ma pensai che si dovesse semplicemente ambientare. A metà della seconda elementare era diventato estremamente oppositivo (a 7 anni!!) e sapeva a mala pena scrivere e leggere le parole. In classe c’ erano diversi bambini che disturbavano molto, alcuni anche certificati. Il risultato era una bolgia pazzesca e per tenerli buoni le insegnanti facevano fare ai bambini dei “progetti di cucina”, li facevano cucinare! Attività che erano in grado di svolgere tutti i bimbi. Il tutto ovviamente con il benestare di dirigente scolastico e genitori. Se non lo avessi vissuto non ci crederei (per inciso, io ho visto negli ultimi 10 anni un gran proliferare di certificazioni grazie alle quali spesso accade che i bambini possano tranquillamente evitare di impegnarsi per imparare e le maestre possano tranquillamente evitate di impegnarsi nell’insegnare). Ebbene, lo togliemmo dalla scuola pubblica e lo mandammo in terza elementare in una scuola privata religiosa, scuola nella quale ancora vige una certa idea di, passatemi il termine, “sacralità” dell’istituzione scolastica, dove ancora resiste l’idea che a scuola si faccia qualcosa di importante e nella quale gli insegnanti sono tuttora un po’ più esigenti che altrove (io purtroppo penso che gli insegnanti esigenti siano oramai una specie in via di estinzione, come pure i genitori severi). Perdonate il mio divagare. Riprendo. A metà della terza elementare il maestro mi chiese se volessimo far fare al bimbo le prove per la dislessia. Risposi che se anche fosse stato lievemente dislessico, cosa che peraltro non pensavo fosse, non avevo nessuna intenzione di fornirgli un alibi per non sforzarsi e per poter lavorare poco. Ora è in prima media ed ha ampiamente recuperato il distacco rispetto ai compagni, ma, mi verrebbe da dire, solo grazie alla famiglia in seno alla quale ha avuto la fortuna di nascere.

Concludo raccontando brevemente del colloquio che ho avuto con uno degli insegnanti di mio figlio. Qualche giorno fa sono andata a parlare col professore di italiano che è anche il coordinatore di classe. Dopo aver parlato delle solite cose (rendimento, comportamento, socializzazione), ho espresso il mio pensiero rispetto a cio’ che desidererei dalla scuola. Ho esordito così: “Professore, il mio obiettivo non è che mio figlio prenda dei voti altissimi e che venga a scuola sempre preparatissimo in tutto. Paradossalmente, e lo dico mordendomi la lingua, mio figlio potrebbe anche non studiare quasi per nulla una materia e studiarne benissimo un’altra; quello che mi interessa è che impari a studiare, è che colga la differenza di quando è preparato e sa le cose e di quando non lo è e non le sa. Io voglio pensare in grande e il mio obiettivo è che mio figlio diventi uomo e questo non avviene se a scuola gli spianate sempre la strada in tutto, se gli togliete ogni frustrazione, se eliminate ogni esperienza avversa. Mio figlio diventerà grande solamente se imparerà ad affrontare le difficoltà.”

Vi ringrazio moltissimo per la pazienza dimostrata e vi ringrazio per il libro che avete appena pubblicato. Spero che la vostra pubblicazione possa dar luogo ad una riflessione seria sul mondo della scuola, riflessione libera da contese e dispute in un’ottica costruttiva diversa da quella del “voler avere ragione”.

(lettera firmata)