Il muro tra Buoni e Cattivi

Mi piacerebbe intervenire nel dibattito, scottante, sui migranti. Dire come la penso, tra amici, conoscenti, vicini di casa, magari a una cena, o nell’atrio di un cinema, o durante una passeggiata al mare, in montagna.

Ma non lo faccio quasi mai. Mi sembra di avere un muro davanti, dove non riesco a trovarmi un varco. Un muro di frasi fatte, parole d’ordine, formule precostituite. Mi sembra che le persone ormai girino con questo muro attorno, senza accorgersene. Almeno, le persone che mi capita d’incontrare, di frequentare maggiormente. Dovrei dire le persone che fanno parte del mio mondo, ma che non saprei bene come definire. I ceti abbienti? Gli istruiti? I benestanti, i professionisti? Sì, un misto di tutto ciò, e altro, anche gente non così istruita e non così benestante, più media. E anche le punte estreme, intellettuali, scrittori e studiosi e giornalisti, noti e meno noti. Non so. Dovrei dire “ceti medi riflessivi”, per usare l’espressione di Ginsborg, che mi sembra la migliore ma comunque non mi soddisfa.

Di queste persone mi disturba il partito preso, l’appartenenza aprioristica, il disprezzo per l’altro, il parlare per formule, le parole d’ordine con cui riconoscersi a vicenda: se le usi, bene, appartieni allo stesso reggimento e vieni incluso, apprezzato, vezzeggiato. Se non le usi, sei fuori: appartieni ipso facto all’esercito nemico.

E quali sarebbero, poi, questi due eserciti? Credo che non esistano. Credo che esista una sola parte, che si è creata l’altra. Un po’ come, in Fichte, l’Io oppone a sé il Non-io. Voglio dire che emerge una sola rappresentazione delle cose, ed è la rappresentazione che la minoranza che si sente eletta ha dato, una volta per tutte e fin dall’inizio. In questa rappresentazione unica e univoca ci sono due schiere contrapposte. Ma in realtà ce n’è una sola, che ha costruito l’altra. Così, da una parte, per dirla in breve, ci sono i buoni dell’accoglienza-tolleranza-solidarietà; e dall’altra i cattivi della morte, desolazione, disuguaglianza, egoismo, sopruso, disprezzo della vita umana. E le due parti sono drasticamente definite: nella prima schiera intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti d’ogni genere paladini del Bene: i pochi, “illuminati”; e nella seconda il popolo bruto e rozzo dei sentimenti ignobili: i molti, dunque per contrapposizione, “bui”.

“Uomini e no”, così una recente copertina dell’”Espresso”.

Dovrei appartenere, in quanto scrittrice, alla prima schiera. Per mestiere e per cultura, dovrei stare con gli Illuminati. Ma vorrebbe dire riconoscermi in un pensiero pre-stabilito, consegnarmi agli automatismi ideologici, usare la retorica dei buoni sentimenti. Non ce la faccio. Mi vergogno delle parole dolciastre e ipocrite, e anche del compiacimento sottile di esibire le virtù, civiche, umanitarie, solidali. L’autocompiacimento azzera ogni eventuale virtù. E mi sembra troppo facile e tranchant spostare il discorso dal campo della politica alla morale, è qualcosa che taglia ogni possibile confronto, e ogni analisi. Azzera le parole. E noi ora abbiamo bisogno non solo di immagini crude e dolenti che “scuotono le coscienze” (come ci offre tanto giornalismo del cuore), ma anche, e soprattutto, di parole il più possibile chiare e oggettive, che illustrino e spieghino con esattezza le cose come stanno, e che si spingano a prospettare qualche possibile soluzione.

Penso ci siano molte persone normali, e anche diversi intellettuali non arruolati, che vorrebbero parlare ma non lo fanno, intimiditi dal muro di voci sicure e giudicanti. Persone perbene, che non hanno voglia di esporsi alla pubblica gogna, di vedere le loro idee, appena nate e magari incerte e titubanti, stritolate dai Maestri del Bene. E scelgono di tacere. Parlare vorrebbe dire essere subito etichettati tra coloro che pensano cose che è bene non pensare; o che non pensano esattamente le cose che è bene pensare. Anche se il loro pensiero fosse estremamente dubbioso e pieno di interrogativi, per il solo fatto di non mostrare le certezze granitiche dei Buoni, verrebbero collocati tra i Cattivi.

C’è una specie di costrizione al silenzio, all’astensione, alla reticenza. O meglio, non tanto una costrizione quanto una pressione, una… induzione: si è indotti, dal clima intorno, a stare zitti. Non è vigliaccheria, o timidezza. È piuttosto una rassegnazione malinconica, venata di senso dell’inutilità. Il fatto grave è che questo silenzio aiuta l’egemonia degli altri, l’affermarsi del loro unico pensiero, e il dilagare della loro retorica sdolcinata.

È su questo silenzio coatto che bisognerebbe interrogarsi. Se tutti coloro che non sono Cattivi, non vogliono la morte dei migranti in mare, né le ruspe e i rastrellamenti, ma nello stesso tempo non si riconoscono nel semplicismo delle soluzioni dei Buoni né nella loro arroganza morale, nell’esibire le virtuose formule della loro superiorità; se costoro rompessero il silenzio e si convincessero a parlare, forse i muri che ci troviamo davanti cadrebbero.

E i cosiddetti intellettuali (studiosi, professori, scrittori, artisti, attori, registi e affini…)?

Noi scrittori, per esempio. Annaspiamo, mi sembra. Ripetiamo stanche formule, mantra ideologici sopravvissuti. Interveniamo ogni tanto, sui giornali, alla radio, in tivù, sui social. Lanciamo slogan, promuoviamo manifestazioni, oppure compiamo (o annunciamo che compiremo) gesti simbolici eclatanti (e subito mediatici). E firmiamo appelli. Perché continuiamo imperterriti a firmare appelli (sempre più scarni e ignorati, peraltro)? Perché questi esibizionismi verbali, vistosi e inutili (e a costo zero!), che inducono al sospetto di una mera autopromozione?

E poi, perché gli scrittori dovrebbero avere voce in capitolo, oggi? Perché più di altri, quali sarebbero i loro meriti? Perché gli scrittori e non i medici, gli psicanalisti, gli architetti? E perché non i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai, gli imbianchini? O si dà per scontato che questi ultimi, non avendo studiato, parteggerebbero di sicuro per i Cattivi, rozzi, brutali, amorali e incivili?

Mi chiedo quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’intellettuale, ammesso che debba averne uno. Domanda molto novecentesca, e abusata. Non so proporre un ruolo chiaro, ma credo che non debba ridursi a questo schierarsi così retorico e prevedibile, a questa stucchevole aria di voler sempre salvare il mondo da catastrofi imminenti e apocalittiche. Catastrofi a volte addirittura auspicate, invocate, perché risulti meglio la cattiveria dei Cattivi e la bontà degli eroici custodi del Bene…

Il primo compito, mi viene da dire, sarebbe quello di rinchiudersi da qualche parte e riflettere, informarsi e studiare. E, per un certo tempo almeno, tacere. Stare a vedere. Pensare. Considerare gli aspetti più nascosti, meno ovvi, più controversi. E poi, semmai, porre interrogativi, provare a scardinare schemi, a vedere la scena da più di un angolo visuale. Aiutando a individuare un possibile itinerario… Essere scomodi, certo, sempre. Ma con tutti! Con il nemico, ma anche con chi la pensa come noi. Meglio ancora, stabilire dopo chi è con noi e contro di noi, non a priori, e non con questo sprezzante senso di superiorità.

Amos Oz, in una recente intervista al Tg1: “I nemici non si amano. Ma si deve dialogare, con i nemici”. Dialogare, non urlare formule contro il nemico. Sembra che abbiamo bisogno di un nemico, per esistere. Preferiamo esibire un nemico, più che un pensiero.

Siamo tutti frastornati e confusi, inutile proclamarsi per principio i migliori, unici detentori della Verità. Più utile parlarsi davvero, gli uni con gli altri, consapevoli che forse le scelte che saremo chiamati a compiere, in questa fase storica che forse si chiamerà Estinzione della civiltà europea, sono difficili, persino tragiche, e non si lasciano ridurre alla comoda opzione fra arruolarsi nell’esercito del Bene o in quello del Male.

Se proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini.

Mi stanno a cuore anche le ragioni di questi cosiddetti “cattivi”, che tanto dispiacciono a noi intellettuali. Mi capita di parlare con qualcuno di loro, a volte, anche solo superficialmente, ma quel tanto che basta per accorgermi che la loro “cattiveria”, poi, non è altro che una massiccia dose di buonsenso e disperazione. Non credo che, se manifestano paure, siano paure vigliacche, colpevoli. Mi chiedo piuttosto se non siano anche loro vittime, insieme ai poveretti degli sbarchi. Vittime almeno quanto i migranti che “accogliamo” nei containers per poi farli diventare schiavi e servi, braccianti della raccolta dei nostri pomodori e badanti dei nostri anziani. Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, “bianche”: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?

La fragilità appartiene a tutti. “Di che reggimento siete/ fratelli?/ Parola tremante /nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua fragilità/ Fratelli”.

Chi firma appelli saturi di retorica, chi fa girare video edificanti sui social, chi lancia i suoi anatemi sui novelli nazisti, spesso non ha idea di come viva la maggioranza della gente. Abita nelle sue “isole” lontane e lussuose, e predica un’accoglienza che di fatto non sa cosa sia. Accoglienza è una parola meravigliosa. Ma non dovrebbe rimanere solo una parola, tanto meno una metafora. Sono stupita di quanto poco sia intesa in senso letterale, concreto, presso i ceti medi riflessivi. Mi sembra il solito “Armiamoci e partite”. Indigniamoci e accogliete.

Bisognerebbe dare il buon esempio. Fare un gesto vero, letterale, di accoglienza. Ne vedo ben pochi, di questi gesti, nel mondo della classe agiata: com’è possibile? Allora meglio dismettere l’enfasi e la retorica, astenersi dal predicare, e dal giudizio sprezzante.

Sto leggendo Buzzati, Il reggimento parte all’alba, ora ripubblicato nelle bellissime edizioni Henry Beyle. Non l’avevo mai letto. È un inno alla nostra ineluttabile mortalità, al fatto che tutti nasciamo per morire, che a tutti compete questa partenza, un giorno.

“Tutti senza eccezione nella città e anche fuori nelle campagne, valli, rive del mare, per quanto è esteso il mondo, tutti in certo modo appartengono a un reggimento e i reggimenti sono innumerevoli, nessuno sa quanti sono, e nessuno sa neanche quale sia il suo reggimento (…). Però, quando un reggimento parte, chi gli appartiene, pure lui deve partire.

Altri dicono invece che si tratta di navi. Ciascuno è iscritto come passeggero di una nave senza sapere dove sia né il nome. E sono navi strane capaci di salpare dal centro di un arido deserto o dalla precipitosa gola di una montagna. Ma reggimento o bastimento è lo stesso, il fatto è che un bel giorno ciascuno di noi deve partire”.

Ecco, anche Buzzati parla di navi. Bastimenti. Andar per mare. E morire. Ma così come ne parla lui, nessuno è buono o cattivo. Scompaiono gli eserciti, le fazioni, i Giusti e gli Sbagliati, gli Illuminati e i Bui. Di colpo, siamo su un altro piano, pacificato. Nulla di più… egualitario.

Per fortuna ci sono i libri. Soprattutto i libri che non abbiamo letto, che ci sono sfuggiti, nella vita, e che quindi troviamo a un certo punto, inaspettati, sorprendenti. Dovremmo dedicarci a scovarli, e leggerne il più possibile, prima che la nave arrivi, invece di blaterare le formule del Pensiero Dominante. Leggere è da sempre il modo migliore di non lasciarci dominare.




Migranti/Dilaga l’appellite, ultima moda salva-coscienze

A giudicare dalla crisi di “appellite” che da qualche tempo ha colto diversi personaggi pubblici, con particolare veemenza nel mondo degli scrittori (Veronesi, Saviano, finalisti Strega), sembrerebbe che in Italia siano possibili solo due posizioni. Da una parte i sinceri democratici, preoccupati dell’involuzione “autoritaria, xenofoba e razzista” degli italiani, nonché decisi a schierarsi dalla parte del Bene; dall’altra parte tutti gli altri, che ignorano gli appelli dei maestri di virtù per viltà, ignavia, opportunismo, o semplicemente in quanto popolo rozzo e insensibile, stregato dalla propaganda leghista.

Eppure, a quanti non hanno deciso di rinunciare completamente a usare la ragione, dovrebbe essere chiaro che, per chi deve governare l’Italia, non ci sono – in materia di immigrazione – due sole opzioni, di cui una feroce e l’altra umana. No, purtroppo per chi deve decidere, ieri come oggi, ci sono solo alternative tragiche. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due (e forse anche più di due) differenti specie di male. Ecco perché, a mio modo di vedere, il primo dovere di chi studia e di chi informa non è quello di schierarsi risolutamente a favore di uno dei due mali, ma quello di raccontare il lato oscuro di ogni scelta, quel lato che, proprio perché occulta una tragedia, i politici si ostinano a non vedere, ma soprattutto a non dire.

Oggi quel lato oscuro è innanzitutto l’inferno libico. I morti nella traversata nel deserto, di cui non si saprà mai il numero. Le decine di migliaia di persone detenute in campi legali (sotto l’autorità del governo libico), in condizioni disumane. Ma, ancora più terribile, le decine di migliaia di persone ammassate in campi illegali per ottenere un riscatto in denaro o per essere vendute e rivendute come schiavi. E poi c’è l’altro lato oscuro (ma forse è solo la punta dell’iceberg), le migliaia di morti in mare per raggiungere l’Europa, fra traversie e drammi di cui pochi sanno. Chi volesse avere un’idea vivida di tutto ciò può leggere Non lasciamoli soli, un bellissimo libro di testimonianze che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti hanno da poco pubblicato con Chiarelettere.

E’ con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti. Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura.

Prendiamo, ad esempio, la linea Minniti-Salvini. So benissimo che fra Minniti e Salvini ci sono differenze, che la visione del problema migratorio è radicalmente diversa ma, nel breve periodo e sul piano concreto, i capisaldi sono sostanzialmente i medesimi. Ostacolare le partenze, con l’aiuto della guardia costiera libica. Frenare il flusso dal Niger alla Libia meridionale, con l’aiuto delle tribù locali. Aumentare i controlli dei campi legali da parte dell’Onu. Aprire corridoi umanitari direttamente dall’Africa. Incentivare i rimpatri assistiti di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Il prezzo è che migliaia di migranti che cercano di entrare in Europa via mare restano intrappolati nell’inferno libico, o vi vengono riportati dalle vedette libiche. Secondo le mie stime, negli ultimi mesi quasi metà dei partenti vengono intercettati e riportati indietro dalla guardia costiera libica. E, anche se è vero che ad attenderli c’è “personale internazionale con le pettorine azzurre”, resta il fatto che la destinazione sono i campi di detenzione governativi, controllati da militari non di rado corrotti e in combutta con i trafficanti di uomini. Questo è il lato imbarazzante della linea dura, inaugurata dal governo Gentiloni (con Minniti) e sostanzialmente confermata dal governo Conte (con Salvini).

Vediamo l’alternativa, ovvero la linea seguita dai governi di Letta e Renzi (ricordo che è stato Enrico Letta a lanciare l’operazione Mare nostrum). Questa linea non si preoccupava né di frenare gli ingressi dal Niger alla Libia, né di imporre la presenza delle organizzazioni internazionali in Libia, né di aprire canali umanitari in Africa, né di rafforzare la guardia costiera libica. Il nucleo era: lasciamoli partire, e aiutiamoli a non morire in mare. I benefici sono sempre stati chiari, e ampiamente sottolineati:  centinaia di migliaia di persone hanno avuto la possibilità di entrare in Europa, perlopiù sbarcando in Italia. Ma i costi?

Vediamoli. Il primo, il più evidente, è stato di moltiplicare i morti in mare. Nel biennio 2012-2013, ovvero subito prima di Mare nostrum, il numero di morti in mare era  relativamente basso, negli anni dell’apertura (2014-2016) è quasi decuplicato. Oggi torna a scendere, ma solo perché è crollato il numero delle partenze (la rischiosità dei viaggi sta invece aumentando). È il dramma della linea dell’apertura: riesce a portare più persone in Europa, ma moltiplica anche i morti. Ed è terribile che, in tutti gli anni del regno di Renzi, non una sola riflessione si sia sentita su questo prezzo dell’apertura.

C’è però anche un altro lato oscuro della linea dell’apertura, ed è il tributo che, senza volerlo, essa paga ai sequestri di persona e allo schiavismo: più persone si mettono in viaggio, più persone attraversano il confine meridionale della Libia. Lì la norma è essere catturati, rinchiusi in un campo illegale gestito da miliziani senza scrupoli, essere umiliati, torturati, stuprati, finché le famiglie (informate via telefono dalle urla strazianti dei prigionieri) non pagano il riscatto richiesto; altrimenti il destino è essere venduti come schiavi, o uccisi perché ormai invendibili come schiavi. Questo business, forse, è ancora più redditizio di quello dei trasferimenti via mare in Europa. La linea dell’apertura verosimilmente lo alimenta, perché il tam-tam corre veloce e, se si sa che ci sono buone possibilità di partire via mare, più persone tentano di raggiungere la Libia dall’Africa centrale, per la gioia dei trafficanti di uomini che controllano buona parte del territorio libico.

Ecco perché dicevo che, purtroppo, la scelta che sta di fronte alla politica non è fra il bene e il male, ma fra due mali diversi. Perché le azioni hanno conseguenze, e spesso le conseguenze sono diverse dalle finalità che si perseguono. Anche se volessimo ignorare del tutto il punto di vista dei ceti popolari, convinti da anni di accoglienza anarchica che in Italia non c’è più posto, e volessimo invece preoccuparci solo del bene dei migranti, il dilemma resterebbe. Non è evidente che il male che facciamo chiudendo sia più grande di quello che facciamo aprendo; così come non è evidente il contrario. Per questo le scelte della politica, almeno finché l’Europa resterà ignava come ha fatto fin qui, non possono che essere tragiche. Non c’è modo di perseguire il bene senza provocare il male. Per chi non vuole autoaccecarsi, come fece Edipo, non c’è “la cosa giusta” da fare, ma solo la scelta fra due corsi d’azione entrambi tragici nelle catene di conseguenze che mettono in moto.

E precisamente per questo gli appelli accorati al nostro “lato umano” mi sembrano quanto meno fuori bersaglio, un logoro esercizio di ostentazione etica, forse buono per rassicurare qualche coscienza, ma incapace di farci fare un solo passo nella comprensione del dramma dei migranti.

 




La solitudine dei numeri di serie A

Di mestiere mi occupo di numeri (insegno Analisi dei dati all’Università di Torino). E di numeri mi capita spessissimo di parlare, in un libro, in un saggio, in un articolo di giornale. E anche qui su “Panorama”, naturalmente. Perciò non ho potuto restare indifferente quando, negli ultimi giorni, è scoppiato il caso Boeri, con quella sua stima di 8.000 posti di lavoro perduti se passerà il “decreto dignità”. Ma lo stesso mi era accaduto quando, durante l’ultima campagna elettorale, Roberto Perotti, dalle colonne di Repubblica, ha cominciato a valutare, uno per uno, i costi dei programmi politici dei principali partiti italiani, giungendo alla conclusione che erano quasi tutti insostenibili.

Oggi come allora la reazione della politica di fronte ai numeri è la squalifica. Se i numeri sono sgraditi, il “produttore di numeri” viene istantaneamente portato sul banco degli accusati, con l’infamante accusa di “fare politica”, ovvero di manipolare le cifre a sostegno di una parte e a danno di un’altra. Un’accusa che, prima o poi, colpisce tutti coloro che maneggiano numeri delicati, o “politicamente sensibili”.

Se butti lì un stima, azzardatissima e priva di qualsiasi serio riscontro scientifico, di quante tonnellate di piselli si producono in Italia, puoi stare certo che nessuno metterà in discussione la tua stima. Ma se ti azzardi a dire quanto costerebbe l’abolizione della legge Fornero e il ritorno al sistema precedente, anche se lo fai nel modo più accurato possibile, calcolando (e dichiarando) i margini di errore delle tue stime, puoi stare certo che ci saranno un bel po’ di politici che ti azzanneranno, accusandoti di non essere super partes.

Eppure ci sono numeri che sono quelli che sono. Non nel senso che sono esatti (quasi tutti i numeri di cui si parla sono il risultato di stime, e quindi sono soggetti a margini di errore) ma nel senso che nessuno li metterebbe in discussione in un consesso di osservatori competenti e intellettualmente onesti. Detto altrimenti, ci sono numeri di serie A, difficilmente controvertibili, e numeri di serie B, e persino C, che è bene guardare con grande circospezione.

Le stime Istat dell’occupazione, ad esempio, sono di serie A, le stime dell’evasione fiscale sono di serie B, le stime dell’economia illegale sono di serie C. E, sia chiaro, quel che determina in che serie gioca un determinato numero non è solo l’autorevolezza scientifica di chi lo produce, ma anche la difficoltà del compito. Un numero può giocare in serie C, nonostante lo produca l’Istat, il Fondo Monetario o l’Ocse, semplicemente perché non ci sono strumenti affidabili per calcolarlo: è il caso delle previsioni della crescita del Pil a 1 o 2 anni, che si rivelano quasi sempre estremamente inaccurate, quando non decisamente sballate. Così un numero può giocare in serie A per il solo fatto che è meccanicamente generato da una fonte amministrativa, come accade con le quantità di auto circolanti in Italia o con il numero di unità vendute di un certo prodotto.

I politici fanno due errori logici. Il primo è di trattare numeri di serie A come se fossero numeri di serie B o C. Il secondo è di confondere impegno politico e manipolazione numerica: il fatto che un produttore di numeri faccia politica non implica che tutti i numeri che produce giochino in serie C. Questo è esattamente il caso di molte delle cifre fornite da Perotti o da Boeri, che la stragrande maggioranza degli studiosi imparziali considererebbe plausibili, senza preoccuparsi del fatto che i loro produttori siano politicamente schierati con una parte politica.

Tutta colpa dei politici, che non sanno e non vogliono riconoscere i numeri di serie A, ovvero quelle cifre che uno studioso onesto e ben informato dovrebbe accettare come sostanzialmente corrette?

No, non è tutta colpa dei politici. Anzi io li assolvo, perché in fondo fanno il loro gioco. La politica, con poche eccezioni, è manipolazione in vista del consenso. E lo è in modo così naturale e sistematico che spesso i manipolatori non se ne rendono conto. Quante volte mi è capitato di discutere, in pubblico, con dei politici sinceramente convinti che le assurde cifre che davano fossero corrette! Il fatto è che, quando si è schierati da una parte, e si è perduta ogni curiosità del mondo, si diventa macchine che immagazzinano esclusivamente le informazioni coerenti con le proprie credenze. Lo aveva scoperto negli anni ’50 il grande psicologo sociale Leon Festinger studiando le sette, ma vale perfettamente per il ceto politico di oggi (nonché per molti miei amici…).

Quel che può fare la differenza non è la qualità dei politici, ma l’ambiente in cui si trovano a operare; l’ambiente in cui sono “costretti” ad operare, mi vien da dire. Se i numeri di serie A non riescono ad imporsi, buona parte della responsabilità è di giornalisti e studiosi. In Italia la maggior parte dei giornalisti e conduttori televisivi semplicemente non sono in grado di contestare ai politici i numeri che questi ultimi enunciano con sicurezza o respingono con sdegno, neppure nei casi più clamorosi e ovvi; né vale obiettare che conoscere i numeri non è compito dell’informazione, visto che ci sono paesi (Regno Unito e USA, ad esempio) in cui i giornalisti lo sanno fare.

Ma la colpa più grande è di noi studiosi. Non solo in Italia, le discipline che si occupano di numeri (economia, sociologia, scienza politica, psicologia) hanno tuttora una fortissima componente ideologica, o di impegno sociale. E chi è fortemente identificato con una causa, specie se universalmente riconosciuta come una buona causa, per lo più non esita a piegare i dati alla causa stessa, negli infiniti modi che il nostro mestiere ci consente. Ecco perché, quando un politico si trova di fronte numeri per lui imbarazzanti, trova sempre uno studioso che gli presta la propria scienza, la propria autorevolezza, o semplicemente il suo biglietto da visita (“docente di X presso l’Università Y) per demolire quei numeri, anche se sono numeri di serie A, che in un contesto neutrale nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio.

Articolo pubblicato su Panorama il 26 luglio 2018



Il provinciale anomalo che fissò per sempre pregi e difetti dell’Italia del Dopoguerra

Giovannino Guareschi nacque il primo maggio 1908 a Fontanelle di Roccabianca (Parma) e morì a Cervia (Ravenna) il 22 luglio di sessant’anni dopo. Emblematico il giorno della nascita per uno scrittore allergico alle sinistre ma ancor più emblematico l’anno della morte. Il 1968, infatti, fu la negazione di tutto il suo ‘mondo piccolo’, della provincia profonda, in cui era vissuto, delle tradizioni che, monarchico convinto, aveva intensamente coltivato, dei costumi e dei codici morali antichi appena scalfiti dai grandi racconti ideologici del secondo Ottocento e del Novecento.

Nell’Italia di oggi, Guareschi si sarebbe sentito come un marziano, spaesato tra tanto discorrere di multiculturalismo, politicamente corretto, riconoscimento della diversità in tutte le sue espressioni.

Eppure, incallito conservatore, il «tre volte cretino» –come lo definì Palmiro Togliatti– continua ad affascinare per la sua ‘attuale inattualità’. Anche perché come Giuseppe Prezzolini, molto diverso da lui, per adoperare un facile ossimoro, era un conservatore libertario e anticonformista, come talora sono i nostalgici del ‘mondo di ieri’. Ha scritto Marcello Veneziani: «Per comporre la biografia civile di Guareschi bisogna riconoscere i suoi tre paradossi: dopo due anni nei campi di concentramento nazisti, passò per un fascista; dopo aver vinto la battaglia nel ’48, appoggiando la Dc di De Gasperi, finì in galera per la querela del medesimo De Gasperi; dopo aver umanizzato i comunisti, fondò il settimanale più efficace nella lotta al comunismo e là scrisse il primo libro nero del comunismo».

Nella sua intensa attività giornalistica e saggistica, Guareschi fu sicuramente un ‘provinciale’ ma un provinciale anomalo, che, con la sua straordinaria verve umoristica–che talora condiva pagine di grande malinconia–contribuì al successo di riviste come ‘Il Bertoldo’(1936-1943) assieme a personaggi di primo piano come Giovanni Mosca e Cesare Zavattini e che, nel secondo dopoguerra, fondò con Mosca e Giaci Mondaini (il padre di Sandra) una delle più vivaci e combattive riviste della destra, ‘Candido’(1945-1957). Dalle colonne di quest’ultima, va ricordato, diede un contributo non sottovalutabile alla sconfitta del Fronte Popolare (‘nel segreto dell’urna Dio ti guarda, Stalin no’, fu uno dei suoi folgoranti slogan) e alla battaglia anticomunista, affidata, soprattutto, al tormentone di Contrordine compagni! Una delle vignette più famose mostrava un gruppo di comunisti in camicia nera riuniti davanti alla Casa del popolo e raggiunti dal contrordine: la frase pubblicata dall’Unità che invitava a riunirsi «nell’antica fede» doveva essere corretta «nell’antica sede!».

E tuttavia la notorietà di Guareschi–segnato come tutti i comici da una vena pessimistica unita a un senso profondo della propria dignità (condannato per aver calunniato De Gasperi dando per buona una fake news rifiutò la grazia e rimase in prigione per più di un anno) e a una rivendicazione orgogliosa della propria libertà—è legata soprattutto ai racconti del ciclo ‘Mondo piccolo che videro varie trasposizioni sullo schermo—a cominciare da Don Camillo del 1952. Grazie, soprattutto, a Julien Duvivier, che si avvalse della formidabile coppia Gino Cervi (Peppone) e Fernandel (don Camillo, doppiato da Carlo Romano). L’irriducibile contrasto tra il sindaco comunista, Giuseppe Bottazzi, e il manesco parroco don Camillo ancora adesso ci parla, con tenerezza, di un’Italia che non esiste più ma che con la sua scomparsa ci ha fatto perdere qualcosa di importante.

Gianfranco Vené—uno degli studiosi più accreditati di Guareschi, con Alessandro Gnocchi, Roberto Chiarini, Giuseppe Parlato, Mario Bozzi-Sentieri, il citato Veneziani e Alberto e Carlotta Guareschi, per limitarci a questi—ha visto nello scontro/incontro tra don Camillo e Peppone quasi un incunabolo del ‘compromesso storico’. Non sono d’accordo. A mio avviso, il fascino duraturo del ‘mondo piccolo’—identificato ormai col paese di Brescello, nella cui chiesa si trova il famoso crocifisso (doppiato da Ruggero Ruggeri) che ammonisce don Camillo—sta nel suo rievocare un paesaggio spirituale, ben anteriore al tempo delle ideologie. Queste ultime risultano divisive, coi loro valori assoluti e inconciliabili ma, per fortuna, talvolta, sono casacche, indossate da personaggi integri che finiscono, sì, per trovare un compromesso ma dettato dalla consapevolezza istintiva che le persone valgono più delle idee che professano. Sta qui la vera ‘inattualità’ di Guareschi, nel ‘mito’ di un ambiente ‘paesano’ che non sarà mai ‘guastato’ dal progresso urbano e che risolverà i suoi conflitti di interesse magari anche facendo a pugni ma sempre ricorrendo a misure di buon senso antico. In un’Italia ufficiale che ancora oggi, sembra bisognosa, per sentirsi vivere, di ‘guerra civile’ e di contrapporre la luce della scienza e dei diritti alle tenebre delle regressioni tribali, Guareschi può rappresentare un simbolo umanissimo di tolleranza.

Pubblicato su Il Secolo XIX il 20 luglio 2018



Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.