Votate per il Patas!

È l’acronimo del Partito Anti Telefonini A Scuola.

Chi di voi s’iscrive?

Compassi e poesia

Se a scuola, come pare, vincerà Internet e tutti avranno il loro bravo telefonino in mano e (forse) anche un PC sul banco, sarà la fine delle cartolerie. Non serviranno più quaderni, biro, pennarelli, gomme, temperini, fogli protocollo, cartelline, righelli, squadre, goniometri, compassi, cartucce per la stilo. Si chiama smaterializzazione. Gli oggetti se ne vanno, si volatilizzano e noi restiamo sgombri, e privi.

Soprattutto veniamo privati di uno dei piaceri più belli della vita: andare in cartoleria a prendere personalmente gli oggetti che ci servono per la scuola.

(Parentesi. Come genitori, credo che dovremmo lasciare i nostri figli liberi di andare da soli in cartoleria, non accompagnarli e tanto meno comprare noi le cose di scuola o ordinarle su internet, seguendo l’arido elenco che i nostri figli ci hanno dato. Non sarebbe un servizio che facciamo loro, ma un torto. Più in generale, dovremmo smetterla di “servire” i nostri figli, bambini, adolescenti o adulti che siano. Dovremmo smettere di accompagnarli in auto ovunque, per esempio, perché andare a piedi e prendere il pullman sono due esperienze meravigliose e molto utili perché insegnano tre cose: guardare il mondo, accorgersi degli altri, e tenere in conto il valore del tempo).

Tornando al piacere della cartoleria, prendiamo un ragazzino di undici anni, a ottobre, appena entrato in prima media. Ha compiuto un grande salto, dalle elementari, e ora si sente già molto grande. È pomeriggio. Fa un po’ di compiti, fa merenda, e poi va in cartoleria. Prende il foglietto con l’elenco, si mette scarpe e giubbotto, esce. Va per le strade del suo rione, da solo. Ha in mente quel che deve comprare, sono le cose che i professori gli han detto di comprare, che gli serviranno per i suoi studi. È orgoglioso di essere già alle medie, di iniziare un corso di studi che gli è ancora ignoto ma che lo proietta dritto, a poco a poco, nel mondo degli adulti. È anche molto contento di andarsi a comprare delle cose che non sono futili, come i soliti giochi, videogiochi, aggeggi elettronici o pelouche; sono cose utili, che davvero deve comprare, ha l’obbligo perché gli servono. È una differenza molto importante, di cui stiamo perdendo un po’ coscienza: comprare cose che ci sono utili conferisce al gesto di comprare una ragione moralmente ineccepibile, nonché la piacevole sensazione di non sprecare i soldi. Sensazione piuttosto rara, oggi, in una società abituata a comprare cose di cui si potrebbe benissimo fare a meno.

Insomma, il ragazzino entra. E qui vorrei che nel negozio ci fosse un lungo bancone, dietro il quale ci fosse una commessa gentile che gli chiede cosa gli serve, gli mostra i vari articoli e, se è il caso, lo indirizza nelle scelte. Lo so che non funziona più così: uno entra ed è libero di gironzolare tra gli scaffali e prendersi quel che vuole, poi va alla cassa e paga. L’abbiamo chiamata “libertà”. Lasciar libero il cliente, non opprimerlo, non aggredirlo appena entra con la domanda, invadente e violenta: Cosa desidera? L’abbiamo chiamata libertà e salutata come un miglioramento, lo so. Ma avremmo dovuto chiamarla “solitudine dell’acquirente”. È bellissimo, invece, che qualcuno appena entriamo ci chieda cosa siamo venuti a comprare e ci aiuti a districarci nella selva delle migliaia di prodotti e varianti. È bellissimo perché possiamo parlare con quel qualcuno, e non sentirci troppo soli. Magari chiediamo un compasso, ed è possibile, soprattutto se abbiamo undici anni, che sia la prima volta che vediamo un compasso. Siamo venuti a comprarlo perché il professore ci ha dettato sul diario: compasso, ma non sappiamo bene che cosa sia, a che cosa ci servirà, non abbiamo un’idea chiara di come si usi, e ora siamo lì a comprare il primo compasso della nostra vita, e per fortuna abbiamo davanti una signorina gentile che ce ne mostra vari modelli, apre gli astucci e ci fa vedere le differenze, dal compasso basic nell’astuccio di plastica che costa meno fino al compasso super con decine di accessori, ognuno incapsulato nella sua sede dentro l’astuccio, imbottito di velluto, che costa ovviamente più caro. È una fortuna che ci sia, davanti a noi, quella gentile commessa. Così noi guardiamo allibiti, estasiati, quel compasso che di colpo assurge a simbolo della vita che verrà, di cosa faremo da grandi, o meglio di cosa diventeremo di lì a pochi mesi, alla fine della prima media, quando sapremo usare benissimo un compasso, e lo useremo per anni, sempre meglio, facendo operazioni sempre più complesse. Di colpo, lì, in quella cartoleria, abbiamo il lampo di quel che saremo, e di come andrà la vita, e anche finalmente di che cos’è la scuola. E ci verrà anche una gran voglia di andarci, a scuola, per anni e anni, per diventare qualcuno che sa fare bene qualcosa. Per diventare. Per essere, cioè, quel che saremo, ovvero quel che in fondo  siamo già senza saperlo.

È diverso se, invece, ci dirigiamo al reparto cartoleria di un immenso ipermercato e, davanti al settore Compassi, ne prendiamo più o meno a caso uno e corriamo a pagarlo alla cassa. O se il compasso ci arriva pe posta o ce lo compra nostra madre e ce lo mette davanti la sera a casa, con l’aria soddisfatta come a dire: e anche questa è fatta, che madre efficiente sono!

Non ho la minima idea se si usi ancora il compasso a scuola, e se qualcuno vada a comprarlo in cartoleria all’inizio della prima media. Ma credo che, se a scuola vincerà Internet, i cerchi li faremo con una app geometrica che ce li disegna, o con un sofisticato programma che ci avranno insegnato a “scaricare”. Se così fosse, non saremo, in breve, più capaci a usare un compasso, non sapremo forse nemmeno più che cosa sia un compasso: quindi ci sarà impossibile capire una delle più belle poesie d’amore di tutta la nostra letteratura, A Valediction: Forbidding Mourning di John Donne. Là dove il poeta parla dell’amore lontano e, per dire l’infinita sofferenza e al tempo stesso il senso assoluto di unione che ci prende quando amiamo e siamo lontani dalla persona amata, usa l’immagine metaforica dei due bracci di un compasso, che piegano l’uno sempre più distante dall’altro, ma sempre sono uniti al centro, dal perno che li tiene, dalla mano che li muove.

Non sapendo più cosa sia un compasso, non capiremo niente di questa poesia. E finiremo col non leggerla più. E John Donne sarà morto per sempre.

Compassi e telefonini

Intanto, proprio in questi giorni, la commissione di esperti voluta dal Ministero ha chiuso i lavori e redatto il decalogo per l’uso dei telefonini in classe. Leggo dai giornali che si potranno usare foto e video per documentare una gita, tracciare percorsi col Gps per conoscere una città, fare riassunti via twitter, andare su Minecraft…

Capisco che parlare di compassi, cartolerie e John Donne non abbia più tanto senso…

Mi chiedo solo perché continuiamo, nella scuola, a insegnare ai ragazzi quel che sanno già fare, quel che appartiene già al loro mondo e quindi conoscono forse anche meglio di noi (insegnare ai nativi digitali come si naviga in Internet sarebbe come insegnare ai figli dei contadini come si pota un melo), invece di insegnare cose che siano davvero nuove per loro, che appartengano a universi a loro sconosciuti: perché non insegniamo e a entrare in mondi complessi come la letteratura e l’algebra, invece che a entrare in GoogleMaps?

Mi chiedo anche se qualcuno protesterà, genitori, professori, filosofi, scrittori, opinionisti. Magari anche allievi… Già. Mi chiedo se i ragazzi, poi, siano così d’accordo a usare anche nelle ore scolastiche lo smartphone, visto che lo usano già nel resto della loro giornata. Non verrà loro a noia? Non potrebbero preferire distrarsi, di-vertirsi, con qualche bel libro, magari commentato dalla viva voce del loro insegnante che fa (ancora) lezione?

Paride e le elezioni

Siamo immersi in una campagna elettorale strana, forse la più abominevolmente stravagante che ci sia mai capitata. Una campagna elettorale di partiti-piazzisti, di politici-commercianti che urlano i loro prodotti e le loro offerte strabilianti. Un bazar, un supermercato, in cui noi elettori, temo, voteremo per chi ci promette in regalo il “prodotto” che più ci sta a cuore. Noi sceglieremo il regalo, non un’idea del mondo o una visione della società. Il nostro voto non sarà né ideologico né identitario: sarà biecamente “economico”. Sceglieremo il regalo più costoso, o più comodo, o più attraente: avere un bonus bebé, non pagare il bollo auto, andare in pensione quando si vuole, pagare meno tasse, non pagare il canone TV, ricevere una dentiera gratis, una tessera per il teatro, una cassa di vino, un panettone a Natale…

Mi torna in mente Paride, l’oscuro pastore (in realtà figlio del re di Troia!) designato a decidere chi tra le tre dee sia la più bella. Non sa a chi dare la mela d’oro, tra Atena, Era e Afrodite. Non sa valutare la bellezza. E infatti non sceglie la più bella: sceglie il dono, quindi la dea che gli promette il dono che più lo attira. Sceglierà Afrodite, perché gli promette la donna più bella del mondo.

Così faremo noi elettori, a queste elezioni così aliene. Non sceglieremo il partito che ci sembra migliore. Forse come Paride non sappiamo nemmeno valutare quale sia il migliore, e non sapremmo a chi dare la mela con la frase incisa: “al più bello”. Sceglieremo non il partito più bello, ma il partito che ci promette il dono più bello.

Ecco perché nessuno parla di scuola (meno che mai di telefonini a scuola!), in questa campagna elettorale. Nessun partito, nessun politico fa una proposta, ha in mente qualcosa per migliorare l’istruzione. Al massimo sentiamo parlare genericamente del tema scuola come di un tema molto importante per il nostro Paese, per la crescita, la democrazia, per l’uguaglianza, e blablabla…

Certo! La scuola non è un bene commerciabile, non può far parte dell’elenco dei doni “economici” che un partito promette al suo elettorato. Non è merce di scambio. Potrebbe mai un partito, per esempio, proporre di mantenere l’attuale divieto dei telefonini nelle scuole (divieto in atto in molti Paesi europei, peraltro…)? E che regalo elettorale sarebbe? Chi mai darebbe la mela d’oro a un partito del genere?

Paride, come sappiamo, causò la guerra di Troia. Dieci anni di morti e disgrazie.

Che fare? Fondare immediatamente un partito anti-telefonino-a-scuola, il PATAS?

Articolo uscito su Il Sole 24 Ore del 28 gennaio 2018



La desiderabilità sociale non esiste più

Sebbene il termine di “desiderabilità sociale” sia estraneo a molti, il concetto ad essa collegata è ben presente in ciascuno di noi. Si tratta del pervasivo bisogno di sentirsi accettato dagli altri, dal proprio gruppo di riferimento, dalla gente con cui si convive; qualcosa che ci forza ad adeguarci al pensiero comune e ad esprimere solo con grandi difficoltà opinioni che non siano largamente condivise dal resto della popolazione, della società cui apparteniamo.

Il primo che sperimentò empiricamente questo fenomeno fu un sociologo, negli anni Trenta del secolo scorso.  In un periodo dove molto alto era il pregiudizio americano contro gli asiatici, Richard LaPiere girò per gli Stati Uniti per tre mesi con due suoi amici cinesi, pernottando in decine e decine di alberghi e mangiando in centinaia di ristoranti, venendo inaspettatamente accolto con grande cordialità quasi ovunque. Tornato a casa, a LaPiere venne in mente di effettuare una sorta di piccolo sondaggio: inviò in tutti i luoghi dove aveva soggiornato un breve questionario in cui si chiedeva se avessero problemi ad ospitare cittadini asiatici. La quasi totalità delle risposte che ottenne, conformemente alla desiderabilità sociale di quel tempo, fu ovviamente negativa: salvo in un paio di casi, tutti coloro che avevano ospitato i suoi amici cinesi dichiararono infatti che non l’avrebbero mai fatto.

Cosa era accaduto? Qualcosa di molto simile a quanto ho descritto nel mio libricino “Attenti al sondaggio!” (Laterza) e che ho chiamato “spirale del silenzio demoscopico”: quando un uomo politico, o un partito, soffre di un clima elettorale negativo nei suoi confronti, gli intervistati tendono a non dichiarare il proprio voto per quel partito, che conseguentemente avrà stime sempre più basse, aumentando la negatività del clima elettorale. Ma, nel segreto dell’urna, quegli stessi elettori torneranno a votare per quella forza politica cui si sentono comunque vicini.

Per decenni, il tarlo della desiderabilità sociale ha dunque minacciato seriamente l’affidabilità dei risultati dei sondaggi, provocando errate sovrastime e, più spesso, sottostime. Quando Berlusconi era in auge, molti intervistati si dichiaravano berlusconiani, sebbene non lo fossero; quando cadeva in disgrazia, non si riuscivano più a trovare elettori che nelle indagini demoscopiche si pronunciavano a favore del suo partito. E così accadeva per tutte le altre forze politiche, a seconda del momento specifico. O per l’alterità nei confronti dei meridionali, o degli extra-comunitari, o della difesa contro i rapinatori: semplicemente, si faceva fatica ad ammettere di essere razzisti, o xenofobi, o favorevoli a sparare ai ladri.

Ma da qualche tempo, qualcosa è cambiato. Pare sempre più facile dichiarare il proprio pensiero, per negativo o impopolare possa sembrare, senza più remore. E’ vero: Trump era stato leggermente sottostimato, dai sondaggi dell’epoca, ma era una sottostima molto ridotta, di un paio di punti percentuali, nulla di più. La stessa cosa è accaduta per la Brexit, o per i partiti di estrema destra populista, in diversi paesi d’Europa. Gli intervistati non avevano remore a presentarsi come vicini a forze politiche di stampo anti-democratico. 

Così, oggi non fa più paura dichiarare all’intervistatore di odiare gli extra-comunitari, o di essere un po’ fascisti, o di essere disposti ad ammazzare chi ci ruba a casa nostra nottetempo. E’ un bene o un male? Per la società non saprei ma, dal punto di vista dei sondaggisti, è sicuramente un bene, non essere costretti ad inserire domande trabocchetto per riuscire ad ottenere una risposta sincera, questo è ovvio. Se ne è parlato in occasione delle recenti elezioni siciliane. Ci si chiedeva: quale partito, quale coalizione soffre di scarsa desiderabilità sociale, tanto da venir sottostimata nei sondaggi? Non trovavamo risposta. Oggi, tutti possono dire tutto, senza il problema di sentirsi “indesiderati”. Si può fare tutto, si può pensarla come ci pare, diceva Giorgio Gaber anni fa. Una società liberata, o no?

Forse, oggi, l’unica dichiarazione che si fa fatica ad estorcere agli intervistati, per le imminenti elezioni politiche, è la propria vicinanza al Partito Democratico, la propria fiducia in Matteo Renzi. Il paradosso di questa nuova campagna elettorale…

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 27 novembre 2017 su “Gli Stati Generali



Sussidi e redditi integrativi: l’intervista a Luca Ricolfi

Berlusconi promette fino a mille euro grazie al suo “reddito di dignità”. I Cinquestelle dicono di aver trovato 17 miliardi per finanziare “il loro reddito di cittadinanza”. Ma tutti questi soldi ci sono? E soprattutto, non si rischia di innescare nella società spinte parassitarie o favorire il lavoro in nero?

I 17 miliardi all’anno non ci sono, a meno di tornare a una crescita del Pil di almeno il 3%. Tanto più che le coperture previste dai Cinque Stelle sono in gran parte costituite da nuove tasse o aumenti di gettito di tasse preesistenti. Per non parlare delle clausole di salvaguardia da disinnescare, che da sole limitano i margini di manovra di qualsiasi governo.

Quanto alle spinte parassitarie e al lavoro nero, bisogna essere ciechi per non vedere che sarebbero la principale conseguenza del “reddito di cittadinanza” (in realtà: reddito minimo) proposto dai Cinque Stelle.

Tornando al “reddito di dignità” proposto da Berlusconi, può veramente annoverarsi tra le imposte negative rilanciate da Friedman e dalla scuola austriaca?

Nulla osta a introdurre un’imposta negativa, e poi chiamarla “reddito di dignità”. Questa espressione peraltro non è nuova (un sussidio denominato reddito di dignità esiste già in Puglia, e si chiama ReD), anche se a me non piace, per il suo sapore paternalistico-assistenziale.

Anche lei in passato è sembrato favorevole a questo modello. Perché? E quali sono le altre soluzioni per sconfiggere la povertà?

Bisogna distinguere. Se per “sconfiggere la povertà” si intende sradicare la povertà assoluta, allora l’imposta negativa non è la soluzione, perché essa colma solo in parte la differenza fra reddito effettivo e soglia di povertà. Per garantire che un’imposta negativa del 50% (questa è l’aliquota di cui normalmente si parla) sradichi la povertà assoluta occorrerebbe posizionare l’asticella della povertà a un livello doppio rispetto alla soglia Istat, che per un single fluttua intorno ai 700 euro al mese in funzione del livello dei prezzi (al Sud può scendere a 550 euro, al Nord può salire oltre gli 800). Il costo per le casse dello Stato sarebbe enorme.

Se invece quel che si desidera è fornire un sostegno ai poveri che al tempo stesso non disincentivi la ricerca di un lavoro, l’imposta negativa è un’ottima soluzione, naturalmente con un’asticella posta in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Più in generale ci spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, e quali categorie fino che grado di intervento da parte del pubblico è auspicabile per non generare storture.

Il reddito minimo è rivolto solo ai poveri, e comporta il rispetto di alcuni doveri (accettare un lavoro, seguire corsi di formazione, ecc.). Il reddito di cittadinanza invece è rivolto a tutti, anche ai ricchi, e non comporta alcun dovere. La proposta dei Cinque Stelle è una proposta di reddito minimo, denominata reddito di cittadinanza al solo scopo di attirare il consenso degli elettori.

Evitare le storture, ossia la rinuncia alla ricerca di un lavoro la ricerca di lavori in nero per poterli cumulare con il sussidio, non è facile. Anzi, è il problema dei problemi che nessuno stato europeo ha risolto in modo soddisfacente.

Nessuno ha la soluzione in tasca, ma ci si può muovere lungo due direzioni principali, ed opposte: sussidi più apparato di monitoraggio e accompagnamento (soluzione statalista), oppure imposta negativa più voucher per la formazione professionale (soluzione di mercato).

Partendo da questa distinzione, possiamo fare un bilancio del Rei?

Il sussidio governativo è meglio di niente, ma ha due limiti molto gravi. Il primo è di essere troppo limitato sia nell’importo sia nei destinatari. Il secondo è di non poter contare su un apparato amministrativo capace di seguire individualmente chi cerca un lavoro ed evitare gli abusi. In un certo senso è un ibrido, che combina i difetti delle due soluzioni estreme: i lavoratori saranno al tempo stesso vessati (come nell’approccio statalista) ed abbandonati (come nell’approccio di mercato). Un capolavoro di cecità politica.

Nell’ultimo contratto per i lavoratori pubblici viene garantito un bonus di 20 euro agli statali più poveri. Siamo di fronte a un nuovo caso di quello che lei chiama “Reddito Arlecchino”?

Sì, una misura del genere va esattamente nella direzione sbagliata: qualsiasi proposta seria di contrasto alla povertà dovrebbe assorbire e unificare su base nazionale tutti i sussidi (anche di natura locale) preesistenti, se non altro per ragioni di equità. E inoltre dovrebbe cercare, in qualche modo, di tenere conto delle enormi differenze territoriali nel livello dei prezzi, anche qui innanzitutto per ragioni di equità (anche se, secondo alcuni, una differenzazione dei sussidi su base territoriale potrebbe sollevare problemi di costituzionalità). Fra le proposte esistenti solo il “minimo vitale” dell’Istituto Bruno Leoni tiene conto del livello dei prezzi.

La Germania è ripartita dopo che con la riforma HartzIV ha rivisto in senso restrittivo il sistema dei sussidi. La politica italiana avrebbe la forza di prendere una decisione simile?

No, ma comunque non basterebbe (ammesso che fosse giusto: il nostro sistema di sussidi non è troppo generoso, semai ha un problema di mancati controlli). Per far ripartire l’Italia non basta riformare il mercato del lavoro, un punto su cui mi sento di condividere alcune obiezioni sindacali.

Con la disoccupazione che cresce tra i quarantenni, non sarebbe il caso di utilizzare queste risorse per processi di outplacement?

Ho i miei dubbi: finché non si torna a tassi di crescita sostenuti (almeno il 3%) accanirsi sul collocamento è una fatica di Sisifo. Tanto più che, spesso, il problema delle imprese non è il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente il fatto che, per certe competenze (specie tecniche), l’offerta di lavoro semplicemente non c’è, o è insufficiente.

Può l’apparato burocratico italiano, arretrato e frastagliato viste le diverse competenze concorrenti, gestire e far funzionare processi come questi?

No, la burocrazia è una delle due grandi palle al piede dell’Italia (l’altra sono le tasse sui produttori), e un handicap del genere non si neutralizza in pochi anni.

Intervista a cura di Francesco Pacifico pubblicata da Il Mattino il 28 dicembre 2017



Molestie: meglio denunce in procura che processi mediatici.

Il futuro appartiene alle Lady Weinstein in gonnella, il che mi rincuora.  Le donne scalano posizioni di potere, presto o tardi tra loro, anzi tra noi, affioreranno i casi di quelle sessualmente infoiate che fanno chiacchierare di sé poiché aduse, in preda alla frenesia erotica, a molestare giovani e ambiziosi sottoposti pur di non rincasare, da sole, a tarda sera. Non tutte si accontentano di sorseggiare una tazza di latte, e di valletti disposti a portarti a letto per ottenere un favore il mondo è affollatissimo. Il sofà del produttore, come la poltrona del politico, la scrivania del magistrato, il dopocena con il direttore, sono luoghi dove il fascino del potere e il suo abuso si riflettono dinanzi allo specchio della coscienza individuale. Non a caso, al produttore potente come pochi e allupato come innumerevoli altri, alcune aspiranti attrici replicavano ‘no, grazie’, altre si spalmavano le mani di unguento. Uno stupro, con cortese richiesta di servigi sessuali e attesa di risposta e convenevoli vari, non si era mai visto. Nei giorni nostri, in cui non Weinstein ma la virilità in quanto tale è categoria spregevole del genere umano, vilipesa e mortificata (come se mascolinità e machismo fossero sinonimi), ci siamo inventati lo ‘stupro cordiale’, preludio di relazioni pluriennali, collaborazioni professionali, vacanze e tate condivise, che spettacolo.

Verrebbe da ridere se non fosse che la violenza contro le donne è un abisso di lacrime. Da qui il mio accorato appello: chi si ritiene vittima di reato deve correre in procura e denunciare secondo i tempi e i modi stabiliti dalla legge. Rivolgersi alle redazioni giornalistiche, e non agli uffici giudiziari, evoca una concezione di giustizia vendicativa di stampo tribale. Mai mi schiererò dalla parte di chi usa la gogna contro un presunto colpevole. Se il porco è anche orco, lo decida un tribunale, non uno studio televisivo. Per il resto, vi confesso che resto in trepidante attesa che un prode maschietto squarci il velo dell’ipocrisia pudica, si levi in piedi e punti il dito contro la Weinstein sui tacchi a spillo. Per la normale routine rosa, vale la saggezza antica: sotto i diciotto anni una ragazza è protetta dalla legge, sopra i sessantacinque dalla natura, nel mezzo è caccia aperta. Attente al lupo.

Pubblicato il 19 dicembre 2017



Mercato della politica/ Così i giovani pagheranno la caccia al voto degli anziani

Che gli anziani siano un segmento elettorale appetibile non è una novità. E tuttavia fa una certa impressione constatare quanto serrato sia il corteggiamento di cui oggi, a meno di tre mesi dal voto, sono fatti oggetto un po’ da tutte le forze politiche.

Berlusconi ha aggiornato la vecchia promessa di portare le pensioni minime a 1 milione di lire al mese (“Contratto con gli italiani”, 2001): ora l’impegno è ad alzare l’importo minimo a 1000 euro al mese. Pd e governo, a loro volta, molto hanno puntato sulla cosiddetta Ape social, ovvero sulla possibilità di andare in pensione anticipatamente senza perdite di reddito. Il movimento di Bersani e d’Alema (ora capeggiato da Pietro Grasso), ha appoggiato la posizione della Cgil, ostile alla legge Fornero e determinata ad impedire l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita. Quanto ai Cinque Stelle, a prima vista i più in sintonia con il mondo giovanile, la loro proposta di reddito minimo (erroneamente denominato “reddito di cittadinanza”) in realtà riguarda tutti, e dunque anche anziani e pensionati.

Naturalmente non è difficile indovinare le ragioni di tante premure verso gli anziani. La quota di popolazione over 64 sfiora il 27% dell’elettorato ed è in costante aumento, mentre la quota dei giovani dai 18 ai 34 anni è molto più bassa e in costante ritirata (oggi è appena sopra il 21%). A ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione al voto tiene di più fra gli anziani che fra i giovani e, nel caso della sinistra, la circostanza che la base sociale delle forze di sinistra (e della Cgil) sia sbilanciata verso gli strati più anziani della popolazione.

Ma è giustificata tanta attenzione verso gli anziani?

In linea di principio certo che sì: non sono pochi gli anziani che vivono in condizioni di grave disagio economico, per non parlare dei mille guai (innanzitutto di salute) che tendono ad aggravarsi con il procedere dell’età. Se però ragioniamo in termini politici, ovvero di scelte che la politica è chiamata a fare, la diagnosi si capovolge completamente. In una situazione di risorse limitate, la domanda cruciale non è se un determinato gruppo sociale sia meritevole di attenzione oppure no, ma se lo sia più di altri. Detto altrimenti, l’interrogativo è se, dato un certo stock di risorse aggiuntive, sia ragionevole indirizzarle verso certi gruppi sociali piuttosto che verso altri. Viste da questa angolatura le cose cambiano completamente, per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che, comparativamente, l’Italia è uno dei paesi che destinano la quota più alta di risorse alle pensioni, nonché uno dei paesi nei quali, di fatto, in si va in pensione più presto, a circa 62 anni gli uomini, a 61 le donne (fra i grandi paesi solo la Francia ha un sistema pensionistico più generosa del nostro: lì si va in pensione a 60 anni).

La seconda ragione ha a che fare con la crisi e l’evoluzione della diseguaglianza in questi ultimi anni. Nel periodo cruciale della crisi, ovvero dal 2007 al 2015, il reddito relativo (rispetto alla famiglia italiana tipo) delle varie fasce d’età ha seguito dinamiche diversissime, ma l’unica fascia di età che ha migliorato la propria posizione (+18.4%) è stata quella degli anziani, mentre quella che ha registrato il più drammatico arretramento è stata quella dei giovani (-10.4%). Una tendenza che è purtroppo confermata dalle indagini sulla povertà assoluta, che da anni registrano un deterioramento delle condizioni delle famiglie con capofamiglia giovane, e più in generale delle famiglie con minori a carico. Insomma, voglio dire che, se c’è una frattura che in questi anni ha reso la società italiana più diseguale, questa frattura è quella fra giovani e anziani. Un dramma, quello della condizione giovanile in Italia, che i dati più recenti sul mercato del lavoro purtroppo non fanno che ribadire: l’anno scorso, per la prima volta da quando esistono statistiche comparabili, l’Italia ha fatto registrare il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa, dietro Grecia e Turchia.

Ma c’è anche un altro senso, più sottile, nel quale i giovani sono penalizzati dalle forze politiche, da tutte le forze politiche. La stragrande maggioranza delle promesse che cominciano a circolare in vista delle elezioni dell’anno prossimo sono promesse di maggiori spese, ora a favore di una categoria ora a favore di un’altra. E nessuna forza politica prende veramente sul serio il nostro problema numero uno, che è il macigno del debito pubblico.

Ebbene, che cos’è l’incremento del debito pubblico? L’incremento del debito non è semplicemente un freno alla crescita, ovvero al tenore di vita futuro di tutti, ma è anche un prestito che gli adulti e gli anziani sottoscrivono oggi per poter consumare di più, e che i giovani di oggi, divenuti adulti domani, dovranno restituire comprimendo i loro consumi futuri. Alla faccia della solidarietà fra generazioni.

Articolo pubblicato il 16 dicembre 2017 su Il Messaggero