I partiti politici hanno rovinato l’Italia?

A Roberto Pertici

Nei giorni 10 e 11 settembre si è svolto a Santa Margherita Ligure, col patrocinio del Comune, della Regione Liguria, del Ministero degli Affari Esteri, del Corpo Consolare di Genova, il primo Festival della Politica in Liguria. A organizzarlo è stata l’Associazione Culturale Isaiah Berlin, intitolata al grande filosofo liberale di Oxford che trascorreva diversi mesi dell’anno nella sua villa sulle alture tra Santa Margherita e Portofino. Sono stati giorni di civilissimo confronto tra giuristi, economisti, storici, filosofi, politici di diversa area ideologica ma alieni dall’insulto, dalla criminalizzazione dell’avversario, dal processo alle intenzioni che ormai caratterizzano dibattiti televisivi, talk show, interviste sui quotidiani e, soprattutto, twitter. Temi caldi come la crisi della democrazia, la globalizzazione, il sovranismo, il populismo sono stati affrontati in maniera chiara e pacata: ciascun relatore, nelle sei tavole rotonde, ha esposto le sue ragioni senza aver l’aria di possedere la verità in tasca. Qualcosa a cui non si era più abituati.

Intervenendo, anch’io, sul tema della crisi della democrazia, mi è scappato di dire, incautamente, che «a rovinare l’Italia sono stati i partiti». L’ho sempre pensato ma affermazioni come questa non si fanno en passant : se manca il tempo per motivarle storicamente e teoricamente, è meglio lasciar perdere. Giustamente, quindi, mi è stato fatto rilevare che, in Italia, sono stati i partiti a tenere unito il paese dopo la catastrofe bellica, a selezionare la nuova classe dirigente repubblicana, a porre le basi della democrazia rappresentativa. Se hanno invaso la pubblica amministrazione, ha aggiunto qualcuno, lo si deve al fatto che lo Stato controlla direttamente o indirettamente più del 50% dell’economia e, quindi, è forte la tentazione dei partiti di entrare nella “stanza dei bottoni” per assicurare vantaggi e risorse alle proprie truppe.

Per chi, come me, vede nel pensiero di Raymond Aron un muro maestro dell’edificio liberale, si tratta di considerazioni scontate. Il fenomeno dei partiti, nella società contemporanea, scriveva il grande filosofo-sociologo della Sorbonne, «diventa essenziale poiché l’unicità o la pluralità dei partiti determina la modalità della rappresentanza». Chi teme le dittature di ogni colore e ama la “libertà dei moderni”, pertanto, non può non riconoscere la funzione decisiva dei partiti politici.

 In Italia, però, non va dimenticato, bisogna fare i conti col fattore effe (fascismo) e con i suoi eredi sicché tutto quello che si può concedere ai miei critici è che, in ogni caso, la partitocrazia è il meno peggio rispetto a qualsiasi altro regime—che, ormai, non potrebbe essere più il regime del partito unico, ma il governo degli esperti, sempre più auspicato da quanti, in nome della “competenza” e dell’antipopulismo, vorrebbero tornare a Saint-Simon e alla tecnocrazia.

Che cosa significa il fattore effe? In parole semplici, significa che c’è un partito, il PNF, che non si pone al servizio della “comunità politica” (tradizioni, istituzioni, mentalità, credenze religiose, culture politiche più o meno consolidate da tempo), ma la definisce e la fonda. Non c’è un libro sacro che i sacerdoti debbono interpretare, ma sono i sacerdoti stessi che ne scrivono uno, escludendo dalla protezione dello Stato e delle leggi tutti coloro che non lo riconoscono (da ultimo toccò agli ebrei).

I partiti del CLN (in sostanza DC, PCI e PSI, i cespugli del tempo contano poco) vanno considerati, a mio avviso, i veri eredi del PNF, con la differenza fondamentale che la loro pluralità ha garantito oggettivamente quel minimo di libertà civili e politiche che il fascismo aveva azzerato. La pretesa, però, è la stessa: quella di rifondare la comunità politica, non di riconoscerla nei suoi valori secolari, e di definirla, a differenza del fascismo, in un testo costituzionale (dove, tra l’altro, si riconosce il diritto di proprietà solo per la sua “funzione sociale”, lasciando nell’ombra il significato di “funzione sociale” e gli organi che dovrebbero accertarla) che, in sostanza, vanifica la politica a favore del diritto. (Vedine gli esiti estremi nei giuristi cosmopolitici per i quali le “frontiere” sono un attentato contro i diritti universali dell’uomo).

Questo dato storico, che non trova riscontro in altri paesi occidentali—neppure in Francia dove il conflitto politico è/è stato non meno incandescente che in Italia—spiega assai bene certe modalità della politica italiana. A cominciare dalla natura carismatica dei partiti che, in quanto portatori di legittimità sostanziale, sono superiorem non recognoscentes: l’immagine di uno Stato forte e neutrale diventa, nella loro ottica, ideologia, falsa rappresentazione: un prefetto, un questore, un generale, un direttore di quotidiani, un editore etc. sono simboli di istituzioni vuote, che vanno riempite di contenuti etico-sociali concreti, che nel ventennio erano sfornati da un solo partito e, a partire dal secondo dopoguerra, da una pluralità di partiti. Il funzionario che “non guarda in faccia a nessuno” da noi è quasi un “cavaliere inesistente” che pretende di far rispettare la legge e l’ordine anche ai rappresentati consacrati dal voto popolare ma si muove come un’armatura vuota. I partiti non sono il braccio armato e intercambiabile (le loro fortune dipendono dalle urne) dello Stato, ma i suoi servi padroni o, meglio, non sono gli interpreti delle sue volontà ma coloro che ne indicano le direzioni, che dicono alla volontà ciò che deve volere.

Anni fa, in Francia, i socialisti subirono un grave scacco elettorale perché sospetti di voler mettere le mani sulla Pubblica Amministrazione. Oltralpe i diritti civili sono assicurati—con buona pace dei retori liberisti e libertari dell’anticentralismo—giacché i vari regimi politici non erodono la pianta dello Stato, accampandosi sulle sue rovine come i barbari del tardo impero. I servizi pubblici funzionano (dalla Sanità alle ferrovie) perché i politici—Parlamento ed esecutivo—esercitano funzioni doverose di mero controllo: nel nostro paese, al contrario, le nomine alla direzione degli enti diventano un terreno di scontro politico, volendo ciascun’area politica imporre “i suoi uomini”, per far valere la propria concezione del bene pubblico. Questo brutto costume di casa, paradossalmente, era ancora tollerabile quando erano vivi e vegeti i partiti tradizionali che si richiamavano a forti ideologie: l’interesse generale, allora, si identificava con quello di una parte ma questa parte riteneva, a sua volta, di battersi per i grandi valori (la solidarietà cristiana interclassista, l’ascesa del proletariato, il riscatto delle campagne etc.). Finita l’era dei “grandi racconti”, rimane solo la lotta per il potere fine a se stessa, che si svolge in un’arena—lo Stato—sempre più evanescente e privo di veri difensori, impensabili ove manchino il “senso delle istituzioni” e, me lo si lasci dire, l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità nazionale. Valori irrecuperabili per sempre se si pensa che ci si sente italiani (forse) solo all’estero giacché a definirci sono, soprattutto, le nostre opinioni politiche e le nostre collocazioni regionali.

Anteprima del testo che uscirà sul forum di Paradoxa



Tragedia del Pollino, una lezione dalla Norvegia?

Dopo la morte di 10 persone durante un’escursione nelle gole del torrente Raganello (Parco Nazionale del Pollino, provincia di Cosenza), è immediatamente partita, come sempre accade in Italia di fronte a simili tragedie, la macchina della “individuazione delle responsabilità”. Il ministero dell’Ambiente ha avviato un’inchiesta amministrativa, mentre la Procura di Castrovillari ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando i reati di omicidio colposo, lesioni colpose, inondazione e omissione di atti d’ufficio. La Procura ha anche acquisito diversi documenti da alcuni degli enti coinvolti nella gestione del Parco, nonché disposto il “sequestro probatorio” dell’area del torrente Raganello, con conseguente divieto di accesso alle gole.

Nei resoconti giornalistici sulle due inchieste si legge che si tratta di “accertare responsabilità ed omissioni che hanno provocato la morte di dieci persone”, e che il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, “è al lavoro per capire se gli amministratori locali (e non solo) avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per evitare la tragedia”.

Suppongo che la Magistratura calabrese stia facendo il proprio lavoro, e che più o meno la stessa sequenza di azioni si sarebbe prodotta in qualsiasi altra parte d’Italia. E tuttavia c’è qualcosa che mi lascia perplesso in questa vicenda, come in tante vicende consimili. Qualcosa che non saprei definire con una parola soltanto, forse perché non è un dubbio unico, ma è una catena di dubbi che ogni volta si affacciano alla mia mente.

Il primo dubbio è di natura logica. Il ragionamento secondo cui una proibizione (in questo caso di accesso all’area) avrebbe il potere di evitare una tragedia ha senso se è formulato prima dei fatti, ma diventa debolissimo a posteriori. È assolutamente ovvio che, quando accade una disgrazia, ci siano decine di comportamenti che avrebbero potuto evitarla (o renderla improbabile), ma è troppo facile indicarli con il senno di poi. Quasi tutte le disgrazie che avvengono in montagna, al mare, in gite ed escursioni, non si sarebbero mai verificate se non si fosse incentivato il turismo di massa, se l’accesso alla bellezze naturali fosse ristretto e iper-regolamentato, e inoltre legioni di poliziotti, forestali, guardie costiere fossero impegnate giorno e notte a garantire l’osservanza dei divieti. La vera domanda non è se una certa regola avrebbe impedito la disgrazia, ma se moltiplicare regole e divieti sia la strada giusta, e se in una determinata situazione è evidente a priori – non a cose fatte, dopo la disgrazia – che un divieto è necessario. E spesso è proprio la frequenza di incidenti o disgrazie, o l’intensificazione della pericolosità, il meccanismo che conduce all’introduzione di divieti, come ad esempio è accaduto a Stromboli, dove un tempo si poteva salire al vulcano senza guide alpine o vulcanologiche, mentre da qualche anno non è più possibile. Nel caso del Raganello, pur spesso teatro di incidenti (per lo più non gravi) in passato, pare che l’ultimo incidente mortale risalga a ben 60 anni fa, quando un turista tedesco, inseguendo il volo degli uccelli, perse la vita a causa del cedimento di una roccia cui si era aggrappato, un chiaro esempio di fatalità, non certo di imprudenza o di evento meteorologico estremo (così riferisce Paolo Brera in un articolo su “Repubblica”).

Ma non è solo l’accanimento con cui si cerca ad ogni costo il colpevole di qualsiasi disgrazia a lasciarmi perplesso, come se non potessimo accettare che, in certi casi, le cause di una morte possano essere semplicemente l’imprudenza e la sfortuna, anziché i mille imputati d’occasione: il sindaco che non ha emesso l’ordinanza, il presidente del Parco del Pollino che non ha ancora fatto entrare in vigore il regolamento “Gole sicure”, la Protezione civile che non ha allertato abbastanza, e poi, naturalmente, il business delle escursioni, l’avidità delle guide, in generale la cattiva organizzazione della macchina delle visite al Parco e alle sue meraviglie. Il dubbio che mi serpeggia nella mente è se non sia invece sbagliato proprio l’approccio al problema della “sicurezza turistica”, se così possiamo chiamarla, ossia l’idea che il turista sia un bambino che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere assoluto di proteggere in ogni modo, in ogni circostanza e da ogni pericolo.

Forse, quando avviene una disgrazia, la compassione per le vittime non ci dovrebbe impedire di porre la domanda fondamentale: esistono elementari regole di prudenza che, se rispettate, sarebbero state sufficienti ad evitare la disgrazia?

Nel caso del Pollino, ad esempio, le cronache non riferiscono solo che il tempo prometteva pioggia, che la Protezione civile aveva diramato un’allerta gialla (che segnala, fra l’altro, la possibilità di “repentini innalzamenti dei livelli idrometrici” dei torrenti), ma raccontano i ricordi degli anziani, secondo cui, un tempo, ai bambini si permetteva di entrare nell’area del Raganello solo “dopo tre giorni di bel tempo”, per evitare che un temporale improvviso allagasse le forre travolgendo tutto e tutti. Ma, anche restando all’oggi, le regole di prudenza non mancano, come ha ricordato uno dei primi soccorritori, da anni nella squadra calabrese del soccorso alpino: “Per prassi, quando piove nel torrente non si entra. Ieri il cielo era nero e io non sarei mai entrato in quelle condizioni”. Mentre lui, il soccorritore, in quel canyon pericoloso racconta di aver incontrato “esploratori improvvisati in costume da bagno”.

Di qui il mio dubbio: siamo sicuri che molte disgrazie non avvengano semplicemente perché abbiamo delegato ad altri, anziché a noi stessi, la tutela della nostra incolumità fisica? Non sarà che è il nostro rapporto con la Natura, e la sua immane forza, che è intrinsecamente sbagliato, perché irrealistico?

Sono anni che Reinhold Messner, il nostro più grande scalatore, ce lo ricorda. Una parte del pericolo, in montagna ma anche altrove, ovunque la Natura sia in agguato, è proprio l’iper-protezione e l’illusione di sicurezza che alimenta. Parlando del turismo di massa in montagna, ad esempio, Messner afferma: “per sciatori e snowboarders è importante che la neve ci sia; poi da qualche parte si scende senza preoccuparsi di valanghe o crepacci, mentre gli scalatori si fidano dei chiodi piantati da qualcun altro, gli alpinisti delle previsioni meteo, chi si arrampica su ghiaccio di quattro attrezzi, e  tutti, nell’eventualità, fanno affidamento sul cellulare nello zaino, con il quale è possibile chiamare l’elicottero per farsi soccorrere”.

Ma non è solo Messner ad instillare il dubbio che il rimedio non sia moltiplicare i cartelli, le allerte, le protezioni, i divieti, ma semmai rovesciare l’atteggiamento verso il rischio di turisti, esploratori, escursionisti. Perché dobbiamo renderci conto che l’approccio italiano ai problemi della sicurezza turistica non è l’unico possibile. In Norvegia, ad esempio, le autorità adottano una filosofia opposta alla nostra. Proprio perché la Natura è potente, e pericolosa, si preferisce sviluppare nel pubblico il timore per la Natura stessa, anziché perseguire l’obiettivo impossibile di transennarla tutta quanta con recinzioni, parapetti, ringhiere, staccionate.

Il caso della rocca di Preikestolen illustra bene il principio. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri, che si erge a strapiombo sul Lysefjord, uno spettacolare fiordo nel sud del paese (vedi foto accanto).

Ebbene, in cima alla piattaforma di pietra da cui centinaia di turisti possono ammirare il fiordo, e provare vertigini senza pari, non esiste alcuna protezione: né ringhiere, né parapetti, né transenne. Chiunque può avvicinarsi al bordo, sporgersi, fare foto, senza incontrare alcun ostacolo o barriera. Perché? Perché le autorità norvegesi pensano che mettere barriere sarebbe ancora più pericoloso, in quanto disincentiverebbe le persone a proteggere sé stesse con comportamenti appropriati, basati sulla circospezione e la prudenza. A nessuno, in quel paese, verrebbe in mente di accusare le autorità o il governo perché un turista è precipitato nel fiordo e forse una ringhiera ne avrebbe evitato la morte. La protezione contro la Natura selvaggia è innanzitutto in capo a chi si avventura in essa, non a istituzioni, enti, autorità investite della missione impossibile di tutelare i turisti a dispetto della loro imprudenza.

Non so, naturalmente, come siano andate esattamente le cose nella tragedia del Pollino, o nelle numerose altre del medesimo tipo che si verificano ogni anno in Italia. Ma il dubbio mi rimane: se la smettessimo di pretendere che ad assicurare la nostra sicurezza siano gli altri, chiunque essi siano, e ricominciassimo a pensare che proteggerci dai rischi è innanzitutto compito nostro, forse, alla fine, la conta dei morti sarebbe meno drammatica.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il  26 agosto 2018




Ponte Morandi, le domande che non ci facciamo

Mentre non è ancora finito il tragico conto delle vittime del disastro di Genova, mentre diverse famiglie ancora si chiedono angosciate se i propri cari siano fra i dispersi, seppelliti sotto tonnellate di cemento, i responsabili diretti e indiretti, prossimi e remoti, di questa ennesima catastrofe italiana stanno dando uno dei peggiori spettacoli cui io abbia mai assistito.

Dicendo questo non mi riferisco tanto all’incredibile ritardo con cui la società Atlantia-Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton (che ne ha il controllo indiretto) hanno trovato modo di esprimere cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime, quanto alla girandola di dichiarazioni strumentali, talora palesemente false o spudoratamente fuorvianti, con cui politici di governo e di opposizione (ma sarebbe più esatto dire: governanti di oggi e di ieri) hanno provato a trarre profitto elettorale, o a limitare possibili perdite di consenso, dal disastro del ponte Morandi.

Eppure, di fronte a quel che è successo, dovrebbe essere abbastanza chiaro che sono molti, e non uno solo, i soggetti che potrebbero farsi qualche domanda.  Certo, se come è molto probabile l’inchiesta dimostrerà che non è stato né un sabotaggio né un evento incontrollabile a provocare il disfacimento del ponte, sul banco degli accusati non potrà non salire la società privata Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha in concessione la gestione di buona parte delle autostrade italiane. La concessione prevede senza ambiguità che la responsabilità della manutenzione e della sicurezza è in capo alla concessionaria, né vi possono essere dubbi sul fatto che il ponte Morandi richiedesse ulteriori interventi (che infatti erano già stati pianificati, salvo poi rimandarli a dopo l’estate).

Fin qui tutto relativamente chiaro. Ma non è tutto. L’attuale ministro alle infrastrutture Danilo Toninelli ha dichiarato che il Ministero da lui presieduto potrebbe costituirsi parte civile nel giudizio contro Autostrade per l’Italia, il che – in concreto – significa pretendere un risarcimento in quanto parte danneggiata. Peccato che la situazione sia leggermente diversa: è vero che la società Autostrade per l’Italia ha la piena responsabilità della sicurezza, ma dal 1° ottobre 2012 è al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) che spetta la vigilanza sulle concessionarie, che prima era in capo all’ANAS. E infatti presso il ministero presieduto da Toninelli esiste una specifica “Direzione generale per la Vigilanza sulle Concessioni autostradali” (DGVCA), fra i cui compiti vi è precisamente la “verifica del rispetto dei parametri tecnici di qualità e sicurezza” da parte delle società private che gestiscono le autostrade.

Non saprei dire (non sono un giurista) se qualche vittima potrebbe costituirsi parte civile contro il Ministero delle infrastrutture, o accusare il Ministro di “omesso controllo”, ma non mi sembra possano esservi dubbi sul fatto che, su un piano politico e morale, oltre alla responsabilità della società concessionaria, vi sia anche una responsabilità da parte del concedente e cioè del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Certo, al neo-arrivato ministro Toninelli non si può imputare di non aver vigilato, ma semmai di non avere ancora capito di quante cose è tenuto ad occuparsi il suo ministero, e forse ancor più di non possedere l’umiltà di chi sta imparando un mestiere difficile. Qualche domanda potrebbero invece farsela i ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti (Del Rio, Lupi, Passera) che sono venuti prima di Toninelli, sotto i governi Gentiloni, Renzi, Letta, Monti, e cioè nel periodo in cui la vigilanza sulle concessionarie autostradali era passata dall’ANAS al MIT. Il ministro Del Rio ha dichiarato che, sulla tragedia del Ponte Morandi, “non ci dorme la notte”, e di “non aver mai ricevuto segnalazioni di alcun tipo”, senza farsi la domanda cruciale: ma il mio ministero ha vigilato abbastanza? Una domanda che, forse, i numerosi crolli, sprofondamenti, cedimenti di ponti e viadotti avvenuti degli ultimi anni avrebbero potuto suggerirgli.

Con questo non voglio certo dire che, sul banco degli accusati, dovremmo chiamare, oltre ad Atlantia (che ha la piena responsabilità della sicurezza, ed è giusto che paghi se ha sbagliato), tutti i ministri e presidenti del consiglio che hanno indirizzato la politica delle infrastrutture negli ultimi decenni. Quel che mi colpisce è quanto poco i politici (ma anche noi stessi, come cittadini) siano disposti a interrogarsi sulle proprie responsabilità, certo non penali, non dirette, non immediate, ma pur non del tutto insussistenti.

Penso a tante omissioni, a tanti sviamenti, a tante domande che potremmo farci e non ci facciamo. I Cinque Stelle, ad esempio, sono penosamente impegnati a nascondere il fatto di essere stati vicini (per usare un eufemismo) al movimento No-Gronda, fieramente avverso a chi il problema del ponte Morandi lo aveva posto, e aveva suggerito un alleggerimento mediante una nuova arteria di scorrimento. Salvini non si vergogna ad imputare all’eccesso di regole, vincoli e parametri imposti dall’Europa lo stato deplorevole delle infrastrutture in Italia, come se non fossero state italianissime (e politiche) le scelte che in questi anni hanno prima portato ad aggredire il debito pubblico vendendo i “gioielli di famiglia” (fra cui le reti stradali e di telecomunicazione) anziché eliminando gli sprechi, e poi – nei lunghi anni della crisi – a ridurre ai minimi termini gli acquisti e gli investimenti della Pubblica Amministrazione, pur di salvare le spese correnti portatrici di consenso, a partire dagli stipendi dei dipendenti pubblici e dalle pensioni più o meno anticipate.

Se fossi un politico che ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni, certe domande me le farei. Mi chiederei se sia normale che, da decenni, i costi delle opere pubbliche in Italia siano molto più alti di quelli europei. Mi chiederei se sia normale che ci siano centinaia di ospedali, strade, pontili, raccordi iniziati e mai terminati. Mi chiederei se è stato giusto elargire miliardi e miliardi di false pensioni di invalidità, anziché mettere in sicurezza gli edifici scolastici. Mi chiederei se, per entrare in Europa, anziché vendere ai privati il patrimonio pubblico, non sarebbe stato meglio provare a spendere e sprecare di meno.

Mi chiederei, infine, se anche noi, come cittadini, come società civile, come corpi intermedi, non abbiamo le nostre responsabilità, se non altro per aver permesso a chi ci ha governati di portarci al disastro di cui poco per volta stiamo prendendo atto. Soprattutto, riguardo allo stato delle nostre infrastrutture, non chiamerei in causa l’Europa. Che ha tanti e gravi difetti, limiti e colpe, ma non quella di aver impedito all’Italia e ai suoi governi di fare quel che doveva e poteva essere fatto.

Articolo pubblicato su il Messaggero il 18 agosto 2018




La gestione dell’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Perché Salvini cavalcando la battaglia contro gli sbarchi ha conquistato gli italiani?

Perché gli sbarchi, anche quando sono pochi (come oggi, e come prima di Mare Nostrum) vengono percepiti come una sorta di prepotenza, aggravata dal ricatto umanitario, come se i migranti dicessero: “voi siete così civili che ci dovete salvare in mare e accogliere una volta a terra”.

La chiusura a riccio dei confini (soprattutto dei porti) operata dal Viminale è stata applaudita dagli italiani. Perché questa paura verso l’integrazione dei migranti?

La maggior parte degli italiani non ha paura dell’integrazione, ma che l’integrazione fallisca, come in effetti è successo.

Quale è la portata di responsabilità della crisi economica e del dilagare dei social, rispetto alla crescente rabbia razzista?

Lei è sicuro che ci sia una “crescente rabbia razzista”? Penso che, ammesso che vi sia una crescita dei sentimenti razzisti, qualche responsabilità vada cercata anche nei media “seri”, che amplificano episodi marginali che ci sono sempre stati.

Un annuncio di Trenord dagli altoparlanti dei vagoni contro “gli zingari sui treni che hanno rotto i c…” ha fatto il pieno di commenti positivi su Facebook. Perché il popolo del web è unanime contro i rom e sinti?

Non esiste un popolo del web sostanzialmente diverso dal popolo non-web, semplicemente il popolo non web è invisibile, mentre il popolo-web è iper-visibile per definizione. Ma entrambi condividono l’ostilità verso i rom e i sinti, un sentimento che non è nuovo e non è solo italiano.

 “La ruspa” di Salvini e gli sgomberi dei campi rom sono sempre accolti con grande favore da destra e da sinistra.

Da dove nasce la diffidenza collettiva verso questi popoli?

Dall’esperienza. Anche se non mancano le persone di origine rom/sinti che lavorano e vivono normalmente, il fatto che una percentuale elevata (nessuno sa esattamente quale) dei membri di queste comunità viva di accattonaggio e di furti non può che suscitare diffidenza in chi vive del proprio lavoro, e magari fatica a sbarcare il lunario.

Dai sondaggi pochi italiani si dicono razzisti, ma la percezione di un ritorno dell’odio contro gli stranieri è molto forte. Qual è il reale sentimento sociale?

Più o meno quello degli ultimi decenni, con la differenza cruciale per cui oggi chi ha sentimenti razzisti, o meglio sentimenti che i media e gli intellettuali etichettano come razzisti, si sente più legittimato ad esprimerli. Ma nella maggior parte dei casi il razzismo non c’entra, semmai quel che interviene è un meccanismo di generalizzazione, che tocca un po’ tutti, anche i più illuminati difensori dei rom. Se non ci crede prenda 1000 Vip progressisti, e controlli quanti di loro hanno assunto, o assumerebbero, una colf di etnia rom/sinti…

La sinistra italiana è stata spazzata via dai populisti perché ha fallito sulla questione migranti?

Sì e no. Il problema degli sbarchi è stato sostanzialmente risolto da Minniti, ma la sinistra anziché rivendicare il risultato ha cercato di nasconderlo, continuando con la retorica del “noi siamo quelli che salvano vite umane in mare”.

Passare da “accogliamo tutti” a “non accogliamo nessuno” da un giorno all’altro che conseguenze può avere sulla società italiana?

Non accogliere nessuno lascia irrisolti i due problemi principali: gli irregolari presenti (almeno mezzo milione), e le esigenze delle imprese, che di migranti economici hanno tuttora bisogno.

Intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale il 9 agosto 2018




Quando il “fact checking” è farlocco

Chi ama informarsi su internet, girovagando fra un sito e l’altro, si sarà sicuramente accorto della recente nascita di un nuovo genere letterario: il “fact checking”, o controllo dei fatti. Sotto questa etichetta, vagamente pretenziosa, centinaia di analisti si autonominano giudici delle affermazioni di politici, giornalisti, studiosi, industriali, scrittori, figure pubbliche in genere.
Il fenomeno è interessante, e merita una riflessione. La prima cosa che colpisce è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “verifiche” delle affermazioni altrui. In perfetto stile internet, per cui uno vale uno e tutti abbiamo diritto di dire la nostra, chiunque si sente autorizzato a improvvisare audaci operazioni di fact checking, quasi sempre volte a smontare quel che qualcun altro ha detto. Ma l’aspetto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei dilettanti. La faziosità è endemica fra coloro che si occupano di temi scottanti, specie se l’analista si sente impegnato nella difesa di una buona causa.
Per capire come tutto ciò sia possibile dovremmo, prima di tutto, renderci conto che il genere letterario fact checking non è un genere omogeneo. O meglio: l’espressione fact checking è usata per tre tipi molto diversi di operazioni critiche.
Il primo tipo di fact checking potremmo, con un piemontesismo, definirlo il fact checking dei “pistini”, o dei pignoli. Esso si applica ad affermazioni relativamente poco importanti, talora espresse in modo vago, ma che è (abbastanza) facile controllare se si ha un minimo di dimestichezza con le fonti statistiche. Questo tipo di fact checking, che non interesserebbe nessuno se non coinvolgesse figure pubbliche, viene per lo più usato per punzecchiare i politici sgraditi e assolvere i politici graditi. Di norma non è erroneo, ma solo tendenzioso nella scelta dei bersagli. Il politico dice che il Pil è aumentato dell’1.7 nell’anno x, il pistino gli obietta che in realtà è aumentato dell’1.4%. Il giornalista di fama afferma che il paese y ospita la metà dei richiedenti asilo dell’Italia, il pistino gli obietta che non è esatto, che dipende dal periodo di riferimento, e comunque bisogna capire che cosa intendesse quel giornalista. L’effetto che questo tipo di fact checking esercita sui politici è più o meno quello di una mosca sulla schiena di una mucca.
Il secondo tipo di fact checking si potrebbe chiamare il fact checking delle “sentinelle”, o dei guardiani dei fatti. L’unica vera differenza con il fact checking dei pistini è che le affermazioni sottoposte a controllo riguardano fatti “caldi”, che ciascuno di noi può giudicare più o meno interessanti, ma che pochi si azzarderebbero a considerare irrilevanti. L’idea delle sentinelle è che, su certi fatti, chi ha responsabilità pubbliche o è molto conosciuto non si possa permettere di dire il falso. Non puoi dire che il debito è diminuito se è aumentato (e viceversa), non puoi dire che i morti in mare sono aumentati se sono diminuiti (e viceversa), e così via. Un caso tipico è il recente fact checking cui, sul sito lavoceinfo, è stato sottoposto un clamoroso errore di Saviano, ingenuamente convinto che “i 5 miliardi che servono per i rifugiati (…) non pesano sul debito italiano, non sulle nostre tasche”.
L’effetto che le sentinelle producono su politici e figure pubbliche è spesso modesto, a meno che non sia sfruttato e amplificato dai media (cosa che, giustamente, non avviene mai con il fact checking dei pistini).
La caratteristica logica fondamentale di questi due tipi di fact checking è che, di norma, resistono al fact checking del fact checking. Salvo casi rari di malafede o di ignoranza, è difficile che sorga una controversia sui “veri” fatti, mentre è assai comune che i colpiti dal fact checking, non dovendo rendere conto a nessuno, semplicemente se ne facciano un baffo.
Fin qui il fact checking può essere utile o inutile, ma di norma non è dannoso, e tantomeno pericoloso. Dove invece può diventarlo è con il terzo tipo di fact checking, che io chiamerò semplicemente “fake checking”, cioè controllo fasullo, o farlocco. Quel che distingue il fake checking dal fact checking è che esso non verte su fatti ma su interpretazioni dei fatti. Il fake checking comincia quando si finge di credere che certe affermazioni, che riguardano i nessi fra fatti (tipicamente i nessi di causa-effetto) siano obiettivamente verificabili, e in più si ha la pretesa di attribuire a sé stessi il ruolo di giudice di ultima istanza. E infatti la caratteristica fondamentale del fake checking è che non resiste a sua volta al fact checking. Così può accadere che qualcuno (spesso un istituto di ricerca, o un presunto esperto) produca un fact checking, e qualcun altro lo sottoponga a sua volta a critica, magari chiamando la critica stessa fact checking. E’ successo qualche tempo fa con un pretenzioso “fact checking dell’euro”, prontamente smontato mediante un fact checking del fact checking. E lo stesso si potrebbe fare oggi con i numerosi tentativi, davvero molto maldestri, di demolire la tesi del “pull factor”, secondo cui la presenza di navi pronte al soccorso avrebbe aumentato le partenze dalla Libia. Tutti questi fact checking non sono controlli dei fatti, ma proposte (spesso zeppe di errori logici e tecnici) di prendere per mano i fatti per condurli in un porto ideologicamente sicuro. Con un’aggravante, rispetto alla normale critica: la critica ammette e anzi dà per scontata la controvertibilità delle tesi che essa argomenta, il fact checking pretende di dire l’ultima parola. La critica è per sua natura aperta, la critica che si presenta sotto le mentite spoglie del fact checking, invece, ambisce a chiudere il discorso.
So naturalmente che filosofi ed epistemologi, non avendo mai fatto ricerca empirica, a questo punto del discorso immancabilmente insorgono ricordando Nietzsche (“non esistono fatti ma solo interpretazioni”), o Kuhn e Feyerabend (per i quali ogni osservazione è “carica di teoria”). Ma è un punto di vista ingenuo: per chi si occupa della realtà con i normali strumenti delle scienze sociali, la distinzione fra fatti e nessi fra fatti è quasi sempre chiarissima. Se dico che nei 36 mesi successivi all’introduzione del Jobs Act l’occupazione è aumentata di circa 700 mila unità faccio un’affermazione controllabile (con i dati Istat), se affermo che ciò è avvenuto grazie al Jobs Act, o che l’intero incremento è ad esso attribuibile, stabilisco un nesso causale che nessuno può provare in modo inoppugnabile, ma solo argomentare in modo più o meno convincente, con modelli matematico-statistici più o meno solidi: le interpretazioni dei fatti non si distinguono fra vere e false, ma semmai fra plausibili e implausibili.
Sfortunatamente il fake checking è piuttosto di moda. Esso infatti permette, a chi è affezionato a una tesi, di travestire da fatti obiettivi quelle che sono semplici ricostruzioni delle concatenazioni fra i fatti, più o meno sostenute da indizi favorevoli. Ed è mortificante che, tanto spesso, questo travestimento sia attuato da esperti o presunti tali, un fenomeno che Giovanni Guzzetta ha di recente bollato come “disinformazione di qualità”.
Ma come si fa a riconoscere il fake checking?
Non è troppo difficile, perché il fake checking ha sempre due tratti distintivi, che finiscono per smascherarlo. Il primo, come abbiamo già visto, è di chiamare fact checking un’attività che non si occupa dei fatti puri e semplici, ma della loro interpretazione: che cosa ha determinato che cosa, come sarebbero andate le cose se si fosse fatta un’altra scelta, che cosa succederebbe se si adottasse una determinata politica, eccetera eccetera. Il secondo tratto che smaschera il fake checking è di selezionare arbitrariamente i fatti, che curiosamente risultano tutti coerenti con una sola interpretazione, che guarda caso è in sintonia con le credenze di fondo dell’autore: l’assenza di dubbi è il marchio inconfondibile del fake checking.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 5 agosto 2018