Rassegna Anteprima- 22 luglio

Clamoroso

Dal 2008 al 2017 gli omicidi in Italia sono diminuiti del 43 per cento. Nello stesso periodo gli ergastolani sono aumentati del 25 per cento [Mattia Feltri, Sta].

 

In prima pagina

• Le morti di Francesco Saverio Borrelli, Ágnes Heller, Ilaria Occhini, Mattia Torre

• Zaia e Fontana attaccano Conte sull’Autonomia: «Se continua questa farsa non firmiamo». Appuntamenti chiave per la sopravvivenza del governo: mercoledì prima Conte e poi Salvini parlano alla Camera della cosiddetta Moscopoli. Giovedì vertice sul testo definitivo della legge che regolerà le autonomie di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Gli analisti concordi: il vero avversario di Salvini adesso è Conte.

• Salvini chiede che i capi della rivolta di sabato sera contro il cantiere dell’Alta Velocità a Chiomonte in Val di Susa siano arrestati. Il M5s non replica e condanna ogni forma di violenza.

• Haftar lancia «l’ora zero» dell’offensiva su Tripoli

• Salvini scrive alla Francia: «L’Italia non è il campo profughi d’Europa». Oggi non si presenterà alla riunione europea di Parigi sui migranti

• Abe vince le elezioni in Giappone, avrà una forte maggioranza, ma non sufficiente a cambiare la Costituzione

• Luca Parmitano è sulla Stazione Spaziale Internazionale

• Medici Senza Frontiere e Sos Méditerranée tornano a salvare i migranti nel Mediterraneo

• La Lega sale al 35,6% nei sondaggi, M5s stabile al 17%

• Berlusconi condannato per aver dato del «fallito» a Soru

• Nel Pd è scoppiato un caso Faraone: renziani e zingarettiani litigano

• Amadeus condurrà Sanremo: lo conferma Fiorello

• Cento chili d’oro in lingotti sequestrati all’aeroporto di Heathrow

• Larissa, figlia di Fiona May, ripete l’impresa di sua madre e vince l’oro nel salto in lungo agli Europei Under 20

• Bronzo di Detti nei 400 stile libero ai Mondiali di nuoto

• Alaphilippe potrebbe anche perdere il Tour, lo incalzano Pinot e Bernal

 

Titoli

Corriere della Sera: «Autonomia vera al Nord»

la Repubblica: Conte, bersaglio grosso

La Stampa: Strappo sull’autonomia / Il Nord: non firmeremo / Conte pronto a trattare

Il Sole 24 Ore: Professionisti / e imprese / alla roulette / delle pagelle fiscali

Il Messaggero: Scontro sui fondi alle Regioni

Il Giornale: Il Nord licenzia Conte

Qn: Verso il sì alla Tav, furia antagonista

Il Fatto: Autonomia light: ecco le prove / del Sì leghista a Conte e 5stelle

Libero: Salvini primo grazie ai nemici

La Verità: Tutte le querele dietro la fuffa del Rubligate

Quotidiano del Sud: Il cuore mette radici ovunque

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Contro l’inferno libico

Non ha convinto quasi nessuno, nelle sue prime dichiarazioni, Ursula von der Leyen, candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea. E La ragione è piuttosto semplice: le forze politiche tradizionali, presunte vincitrici delle elezioni europee, sono in grave disaccordo fra loro su molte questioni cruciali, fra le quali quella migratoria.

Se si esaminano attentamente le sue dichiarazioni, si capisce facilmente perché. Come spesso accade ai governanti europei, la loro preoccupazione centrale è l’affermazione di principi astratti che possano raccogliere il più ampio consenso possibile, ma la loro attenzione alla soluzione concreta dei problemi è minima. Di qui la curiosa diffusione in Europa di una retorica, quella del “ma-anchismo” (voglio A, ma anche B), di cui erroneamente avevamo attribuito l’esclusiva a Walter Veltroni, ai tempi in cui stoicamente tentava di dare una guida alla sinistra italiana.

Oggi il ma-anchismo si ripresenta nelle parole della von der Leyen: difendere i confini, “ma anche” rafforzare i salvataggi in mare; non lasciare sola l’Italia “ma anche” non obbligare gli altri paesi europei a prendere chi sbarca in Italia; no agli scafisti “ma anche” no ai porti chiusi.

Che così dicendo la candidata alla Presidenza della Commissione rischi di scontentare tutti è meno grave del fatto che il ma-anchismo non sia una politica. Una vera politica dovrebbe, per cominciare, offrire un’analisi convincente di come le cose effettivamente funzionano, ed accettare il dato di fatto che, per determinati tipi di problemi, non esistono soluzioni in grado di rispettare tutti i nobili principi cui i politici amano richiamarsi. L’importante è che almeno i problemi risolvibili vengano risolti, e su quelli irrisolvibili ci sia un’assunzione di responsabilità, che inevitabilmente significa avere il coraggio di scegliere, quasi mai fra il male e il bene, e quasi sempre fra un male e un male minore.

Fra i problemi risolvibili vi è quello di sostenere davvero, e non solo a parole, l’UNCHR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) nel suo lavoro di trasferimento in Europa delle persone che riesce a liberare dai campi libici e che hanno diritto allo status di rifugiato. E’ oltre un anno che l’UNCHR insiste sul fatto che in Africa (in particolare in Niger e in Libia) ci sono già alcuni centri nei quali l’UNCHR stessa riesce a raccogliere i soggetti più vulnerabili e ad effettuare i colloqui necessari per accertare il diritto alla protezione internazionale, ma tutto si scontra con la lentezza e l’opportunismo dei governi europei, che sulla carta promettono posti (4000) ma poi sono lentissimi nel rendere effettivi i trasferimenti in Europa. Voglio dire che il problema dei corridoi umanitari non è la loro inesistenza, ma il fatto che quei pochi che esistono e potrebbero funzionare ad alto regime (primo fra tutti quello che parte dal Niger) si scontrano con l’inerzia e la lentezza dell’Europa. E’ importante sottolineare che stiamo comunque parlando di numeri piccoli (4000 posti promessi da Unione Europea, Norvegia e Canada), e di un problema risolvibilissimo solo che lo si voglia affrontare. E’ noto che i soggetti che hanno diritto allo status di rifugiato, e di cui specificamente si occupa l’UNCHR, sono una piccola frazione del totale dei soggetti in movimento. Anche in Africa il problema più grosso non sono i richiedenti asilo che ne hanno diritto, ma sono gli sfollati delle zone di guerra (in particolare in Libia), e i migranti economici di cui si occupa soprattutto l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), con programmi di rientro assistito (ed economicamente incentivato) nei paesi di partenza.

Ci sono poi i problemi irrisolvibili, o meglio risolvibili solo pagando un prezzo che pochi politici sarebbero disposti a pagare. Il principale di tali problemi è quello del traffico di esseri umani in Africa, un traffico che non è fatto solo di scafisti, ma di campi di prigionia legali e illegali, con bande armate che spadroneggiano nel territorio macchiandosi dei peggiori crimini: torture, violenze sessuali, umiliazioni, estorsione di denaro, lavori forzati, vendita come schiavi.

E’ il caso di notare che buona parte del problema sta nel business dei guerriglieri che, nel sud della Libia, intercettano le persone in transito per imbarcarsi in Europa. Un’altra parte del problema è costituita dal fatto che i migranti sfuggiti ai campi di prigionia dei signori della guerra spesso, essendo entrati illegalmente in Libia, vengono rinchiusi (in condizioni disumane) nei campi di prigionia governativi, dove fioriscono due ulteriori business, quello della liberazione a pagamento, e quello del trasbordo (sempre a pagamento) su un’imbarcazione diretta in Europa.

Si può fare qualcosa di risolutivo contro questo inferno in terra?

Se escludiamo (e facciamo bene…) l’ennesimo intervento militare occidentale più o meno mascherato da missione umanitaria, l’unica strada efficace che resta aperta è quella di stroncare il traffico di esseri umani rendendolo non profittevole. Sfortunatamente, l’unico modo per renderlo non profittevole è quello di affermare, e mettere fermamente in pratica, il principio che in Europa si entra solo per via legale. Finché l’Europa consente, e per certi versi incentiva, gli ingressi via mare, il progetto di stroncare il traffico di esseri umani resta del tutto velleitario.

E’ qui che nascono i problemi. Per impedire gli ingressi illegali occorrerebbe allargare i canali di ingresso regolari sia per i richiedenti asilo (corridoi umanitari) sia per i migranti economici (sistema di quote), ma al tempo stesso, una volta assicurata la possibilità di entrare legalmente in Europa, occorrerebbe difendere i confini con risolutezza. Questi due gesti, grazie alla velocità del tam tam nell’era di internet, sarebbero un colpo durissimo per i trafficanti, esattamente come lo sarebbe la droga di Stato per gli spacciatori (a proposito, perché i radicali non fanno il medesimo ragionamento pro-legalità quando si tratta di traffico di persone?).

Quello di cui sarebbe ora di prendere atto è che, per quanto scaldi i cuori e faccia la felicità dei media, ogni sbarco irregolare riuscito, che avvenga in Italia o altrove, che sia gestito da una Ong o da uno scafista, è di fatto un formidabile incentivo al business che si dice di voler stroncare. E’ terribile dirlo, ma l’inferno libico è anche la conseguenza della speranza di riuscire a entrare in qualche modo in Europa che un po’ tutti contribuiamo a tener viva, spesso con le migliori intenzioni.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 luglio 2019



Riflessioni su deferenza e rispetto

Mi folgora la parola deferenza. Non la incontravo da decenni e ora mi arriva da un libro di Kenneth Minogue, che mi passeggiava per casa e ho aperto per curiosità, al capitolo 2, “Il progetto di livellare il mondo”.

Il libro è uscito nel 2012 per IBL Libri, s’intitola La mente servile.

Leggo: “Il rango generava autorità e comportava deferenza. In quell’epoca (l’Europa del XV-XVI secolo) la deferenza era la chiave dei rapporti sociali perché implicava un rispetto più o meno automatico”.

La deferenza è ossequio, riverenza, rispetto. È un movimento, in un certo senso, verso il basso (de-ferre), è un abbassarsi, dovuto, doveroso, davanti a qualcuno riconosciuto come superiore.

Intanto c’è l’idea che qualcuno sia superiore. Che esista un sopra e un sotto, un alto e un basso. Può essere un grado socialmente elevato, o una funzione, un ruolo, un’autorità riconosciuta, o anche soltanto una maggiore esperienza, o l’età.

E poi c’è l’idea di un automatismo: il “rispetto automatico” è il rispetto dovuto a qualcuno a priori, non per i suoi meriti personali, ma per la sua funzione, o ruolo, o posto nella società, a cui tutti riconoscono un valore di per sé. Un anziano, un insegnante, un preside, un ufficiale dell’esercito, un vescovo, un direttore di banca.

Minogue dice che nell’Inghilterra dei secoli passati la deferenza era dovuta ai “rappresentanti di una classe che includeva non solo gli aristocratici e i nobili di campagna, ma anche i datori di lavoro, i padroni di servi, i maestri e i docenti universitari, le gentildonne, i preti, i giudici, le donne di una certa età e molti altri”.

Il rispetto non automatico sarebbe invece quello che ognuno di noi sente di dovere a qualcuno, perché gli riconosce dei meriti speciali, a esempio un talento artistico, una genialità, una grandezza d’animo, una nobiltà di sentimenti. Un rispetto che ci verrebbe naturale, e avrebbe molto a che fare con l’ammirazione, persino con la riverenza.

Molti della mia generazione provavano riverenza verso i propri insegnanti, i maestri, i grandi scrittori, artisti, scienziati, registi.

Ricordo che a vent’anni mi capitava di chiudere certe lettere (non so ora dire rivolte a chi) con l’espressione: Deferenti saluti. Mi chiedo se si usi ancora, o sia ritenuta una formula ridicola.

Deferenza oggi? Potrebbe significare non dire parole volgari, non fare gesti triviali, vestirsi in modo acconcio (non andare dal Preside con gli infradito, per esempio), usare il lei, e anche le maiuscole (tipo Professore, Ingegnere, Direttore).

Mantenere distanza. Una certa distanza.

Minogue: “La deferenza richiedeva formalità nei rapporti, il cui scopo era di mantenere la distanza tra le persone. Dietro questo formalismo c’era la convinzione che la distanza fosse una condizione necessaria del rispetto”.

Oggi non vogliamo deferenza anche perché non vogliamo distanza, ma il più possibile vicinanza, contiguità. Non facciamo altro che “abbattere le distanze”. Ci fa sentire più uniti, più fratelli.

Non vogliamo mostrare deferenza verso altri, ma non vogliamo nemmeno essere noi oggetto di deferenza. Ci metterebbe fortemente a disagio. Così come ci mette a disagio ogni forma che sia segnale di una qualche superiorità che noi attribuiamo ad altri o che altri attribuiscono a noi. Sarebbe la crisi del nostro credo egualitario.

Oggi una donna anziana potrebbe anche offendersi se un giovane sul tram le cedesse il posto. Lei sta facendo di tutto per apparire giovane, va in palestra, fa dieta, prende gli integratori giusti, si veste alla moda, e un giovane che le cedesse il posto la smaschererebbe, rendendo vano il suo duro lavoro.

Anche una donna, di fronte alla cavalleria di un uomo, oggi potrebbe sentirsi offesa. Ma come? Mi apri la portiera, mi offri il pranzo? Magari mi prendi anche in braccio, in una gita in montagna, per attraversare un torrentello, in modo che io non mi bagni le scarpe? Ma sei matto? E dove starebbe l’uguaglianza? Io sono uguale a te, quindi dividiamo il conto, io mi apro la portiera, io vado a piedi sulle pietre del ruscello perché sono perfettamente in grado di farlo, almeno quanto te. Se poi mi mandi dei fiori, attento! Ti denuncio per molestie.

Non voglio dire, con tutto ciò, che c’è un abisso tra il 1500 e oggi, o anche solo tra i nostri anni ’60 e oggi, o addirittura rispetto a quand’ero giovane io, cioè quarant’anni fa. Sarebbe piuttosto ovvio. Mi sto solo chiedendo se dobbiamo davvero, oggi, lasciar cadere tutto ciò, se davvero parole come rispetto e deferenza debbano farci venire l’orticaria e le vogliamo espellere per sempre dal nostro lessico, e soprattutto dalla nostra vita.

D’altronde, se i politici vanno in felpa, se appaiono in tivù in camicia con le maniche arrotolate e il colletto slacciato (perché è estate e sì, in estate fa caldo); se le condizioni atmosferiche dunque prevalgono sul concetto di rispetto e formalità; se odiamo la parola forma e connessi (formalità, formalismo) perché ci paiono irredimibilmente lontani da quella autenticità-spontaneità-naturalezza che è  attualmente il nostro mito da aspiranti neoselvaggi; se “mettere distanza” ci fa orrore e non facciamo altro che “ridurre le distanze”, abbracciandoci tra sconosciuti in un amplesso selfico (voglio dire “da selfie”);  se mantenere la nostra posizione eretta difronte a un bambino ci fa problema e sentiamo subito l’esigenza di metterci in ginocchio per essere alla sua altezza; se l’idea di una predella in classe, che sopraelevi la cattedra, ci fa vergognare perché ci sembrerebbe ignobile anche solo immaginarlo.

Se tutto ciò è vero, non vedo come potremmo auspicare la presenza, nella nostra vita sociale, di deferenza e rispetto.

In realtà noi usiamo molto, oggi, la parola rispetto. Aleggia ovunque. È una delle parole più gettonate. Anzi, ne abbiamo fatto una stucchevole litania. Ma è sempre e soltanto il rispetto in relazione a ciò che è diverso, straniero, in qualche modo vulnerabile. Sempre e dovunque predichiamo il rispetto per le minoranze etniche, per i migranti, i profughi, i disabili, i poveri, e ogni sorta di sventurati e svantaggiati. Sacrosanto, ci mancherebbe! Quel che però non ci viene nemmeno in mente è il rispetto per chi è di più, per chi è più in alto e sta meglio, o è più bravo in qualcosa, o ne sa di più: per chi insomma è superiore, come abbiamo detto, in grado, funzione, talento o altro. Questo non ci piace. Non ci pare dovuto. Anzi, ci pare indebito e scorretto. Perché contraddice il principio di uguaglianza. Sarebbe come ammettere che no, non siamo tutti uguali, tu sei meglio di me, o sei più in alto. Quindi, il rispetto che ti dovrei sarebbe la prova di una insopportabile, inaccettabile, disuguaglianza tra me e te.

Lo dico meglio con Minogue: “La democrazia ha concepito la deferenza come una forma di servilismo (…). Non c’è qualcosa di degradante, o di servile, nel mostrare deferenza verso un altro essere umano? Non siamo sostanzialmente tutti uguali? Non accade spesso che molti personaggi altolocati non ci siano affatto superiori per saggezza, sapere o competenza? La deferenza si potrebbe estendere al concetto di saper stare al proprio posto e saper stare al proprio posto è diventato un problema nel momento in cui la società è ormai sempre meno un insieme di posti”.

E ancora: i politologi hanno concettualizzato la deferenza “come un residuo irrazionale del feudalesimo e, di conseguenza, anche come un insulto alla democrazia”.

Ecco. Ma allora, se rispetto e deferenza portano in sé il virus di un’antidemocraticità, se implicano un’ammissione di non uguaglianza; se, quindi, in nome dei valori democratici, umanitari, solidali, siamo convinti che il rispetto e la deferenza siano un male, non dovremmo mai indignarci né protestare di fronte al genitore che va a picchiare l’insegnante perché ha dato un quattro a suo figlio. In fondo, sta dimostrando una condizione paritetica: lui, l’insegnante e il figlio studente sono finalmente – e a dispetto del ruolo, dell’età, dell’esperienza (e magari anche dell’intelligenza, sapienza, e altre innominabili doti) – tre entità perfettamente uguali, che non si devono niente l’un l’altro, meno che mai deferenza. Non è così?

Fine.

Era solo un inizio di riflessione, pensieri errabondi di inizio estate, su parole molto complesse, e molto desuete.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 luglio 2019



Punire quanto ci fa soffrire!

Giorni fa (2 maggio 2019 ndr), è comparsa la notizia che si abolivano le note e le sospensioni alle scuole elementari. Pare fosse un semplice adattamento alla normativa già vigente alle superiori, ma ha scatenato un ripullulare di opinioni e dibattiti sul tema punizioni a scuola, e più in generale teorie educative. Ben venga, non mi sottraggo.

Punizione è una parola che oggi non ci piace per niente e pronunciamo malvolentieri. Bizzarro che invece la tolleriamo benissimo nel mondo calcistico: pare normale che ai giocatori l’arbitro affibbi punizioni, ad esempio in presenza di un fallo. Ma a parte lo sport che, si sa, è un altro mondo, non credo di generalizzare dicendo che la posizione della stragrande maggioranza è contraria a ogni sanzione che abbia anche il più tenue sentore punitivo. “Non credo alle punizioni” è frase consueta, ripetuta. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare intorno a noi?

L’ultima volta mi è capitato, appunto, pochi giorni fa proprio in riferimento all’abolizione delle note a scuola. Una mia lettrice, madre di due figli, mi comunica il suo entusiastico accordo, e scrive esattamente la frase: non credo alle punizioni. Per la prima volta mi sono fermata. Mi sono chiesta cosa vogliano dire davvero le parole non credo alle punizioni. Naturalmente è implicito un verbo, una frase subordinata, un’oggettiva: non credo che le punizioni servano a qualcosa. Ecco, così è più chiaro il senso.

Ma in che cosa dovremmo credere? E a che cosa dovrebbero servire le punizioni? Be’, è piuttosto evidente, vorremmo che si producessero due effetti. Il primo, esterno, oggettivo e immediato: che tu non ripeta il “fallo” per cui sei stato punito; il secondo, soggettivo, a lento rilascio, e pertinente alla sfera dell’anima: che dentro di te avvenga una riflessione che ti condurrà a essere una persona migliore.

A nessuno, però, piace infliggere punizioni. Punendo ci si prende un rischio, e si paga un prezzo. La persona punita infatti potrebbe arrivare a odiare il suo punitore. E la prospettiva dell’odio altrui ovviamente ci disturba.

Ogni volta che anche solo imponiamo qualcosa, o che ci imponiamo all’altro (contrapponendogli la nostra opinione, o facendo valere una regola, un diritto) ci esponiamo all’altrui disapprovazione. Diventiamo antipatici, odiosi. Creiamo fastidio.

Faccio tre esempi. Al ristorante, mandiamo indietro una bottiglia perché il vino sa di tappo. Per strada, vediamo una persona che butta una cicca in terra e le diciamo per favore di raccoglierla (possiamo anche aggiungere un rimprovero esplicito). In casa nostra, alle nove di sera ordiniamo a nostro figlio di smetterla coi videogiochi e andare a dormire.

Tre esempi in cui è chiaro che ci imponiamo. Imponiamo la nostra presenza nel mondo, la nostra azione (vorrei dire la nostra autorità, ma so che la parola creerebbe ulteriore disagio). In tutti e tre i casi dimostriamo di non essere passivi, indifferenti, apatici, sornioni, inattivi, silenti. Diciamo, facciamo. Esprimiamo con forza il nostro parere e esigiamo un certo comportamento dagli altri. Cioè, interveniamo (interferiamo?).

Opinione personale: credo che tutto ciò migliori il mondo. Ad esempio se avessimo richiesto con forza all’umanità intera (sanzionandola o anche punendola) di non buttare bottiglie di plastica in mare, adesso l’isola galleggiante d’immondizia nel Pacifico, il Pacific Trash Vortex, non esisterebbe.

Non voglio, con ciò, in nessun modo esortare alle punizioni. Direi soltanto che forse dovremmo avere il coraggio, ove occorra, di sobbarcarci l’onere di punire. In fondo non è che il gesto successivo alla esposizione di una regola, di una legge, di un divieto. Un gesto ulteriore, comparativo di oltre; o ancor meglio il suo superlativo, ultimo. La punizione come ultimo, “più lontano” gesto…

Mi spiego meglio, torniamo all’esempio del bambino a cui diciamo di andare a letto alle nove. Glielo ripetiamo una volta, due. Alla terza, se lui ancora si ostina a non obbedire (altra parola tabù), che si fa? In genere il genitore di oggi apre allo spazio di una contrattazione infinita, convinto che si debbano educare i figli attraverso l’uso della ragione e della logica più stringente (e questo è il lato positivo: stiamo insegnando ai nostri ragazzi la sublime e raffinata arte oratoria delle suasoriae e controversiae). D’accordo. Ma come ne usciamo? Il ragazzino otterrà di non andare a dormire alle nove? Molto probabilmente si concluderà con un compromesso: lui proponeva le dieci, noi le nove, dunque andrà a letto alle nove e mezza. Mezzora in più, niente di tragico. L’unico tarlo è che, così facendo, affermiamo indubitabilmente il concetto che non c’è mai legge definita, ovvero che ogni legge è discutibile, controvertibile, di fatto aggirabile. Non sarebbe meglio affermare una regola (si va a letto ogni sera alle nove), e poi applicare una (lieve) punizione (domani non andrai a giocare da Francesco) nel caso il figlio non la rispetti?

Vietando di punire, accettiamo di rinunciare alle richieste che abbiamo appena fatto, più in generale ai principi, alle regole che enunciamo e che ameremmo veder rispettate. È come dichiarare che non ci teniamo abbastanza, che forse non ci crediamo nemmeno noi: sì, figlio mio, ti ho appena detto di andare a dormire alle nove (perché è per il tuo bene, hai bisogno di dormire molto, domani ti sveglio presto perché devi andare a scuola), ma, visto che tu non sei d’accordo e non cambi idea nemmeno di fronte alle ragioni che ti espongo con rigore logico adamantino, va bene, allora recedo dalle mie convinzioni, annullo la regola che ti ho appena esposto, mi contraddico, calpesto la mia stessa autorità, vengo a compromessi, accetto il tuo punto di vista e le tue preferenze. Preferisci andare a dormire più tardi? E va bene, fai come vuoi.

Che fatica! Mi affatico anche solo a scriverla, una scena simile, figuriamoci a viverla! La punizione sarebbe anche un modo per tagliar corto: ultimo gesto, basta con le sceneggiate estenuanti: io ti punisco (non ti mando a giocare da Francesco), tu patisci questo (piccolo) dolore, ne tieni memoria, impari il concetto e non ripeti il comportamento: vai a dormire alle nove. Semplice. E riposante. Cosa c’è che non va?

C’è che punire ci fa molto soffrire. È entrare in uno stato di conflitto che non siamo capaci di sostenere. Dopo aver inflitto una punizione, siamo scontenti di noi, pensiamo a come deve sentirsi l’altro, al male che gli abbiamo fatto e ci chiediamo perché abbiamo agito così, e se non era evitabile. Sapere che il colpevole soffre a causa nostra ci è insopportabile. Non punire, dunque, è pensare (soprattutto) al nostro bene. È un gesto egoistico e salvifico, salva noi stessi da un abisso di domande, dubbi, pentimenti e insoddisfazioni.

Inoltre punendo ci sentiamo immediatamente dalla parte sbagliata dell’umanità, gli unici che ancora persistono in questa pratica ignobile e datata. Ecco un ulteriore aspetto negativo: la punizione ai nostri occhi appartiene al passato, a un tempo remoto che viene automaticamente bollato come incivile. In effetti, noi degli anni ’50 siamo stati, a volte, puniti. Abbiamo preso qualche schiaffetto o sculacciata. Ma, a una rapida e superficiale occhiata ai miei coetanei, non mi pare che questo abbia prodotto “guasti” rilevanti, scatenato odi profondi, disagio psichico o difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Il malessere che proviamo punendo è dunque il segno che è sbagliato punire? O è la spia che oggi rifuggiamo da tutto ciò che ci fa provare malessere?

Benessere è la parola clou dei nostri tempi. Abbiamo eretto i più svariati templi alla religione del benessere, fisico e mentale: centri massaggio, terme, palestre, corsi di meditazione, spa. Abbiamo imparato a vivere meglio pensando di più a noi stessi: lavorare meno, fare più viaggi, mangiar fuori, prendere l’aperitivo. Specularmente, sappiamo di dover evitare il male-essere, tutto ciò che ci fa vivere male: stress, ansia, superlavoro, solitudine. Il proprio piacere innanzi tutto, il dovere meno che mai. Punire è un dovere (sociale, innanzi tutto), che produce malessere.

Quand’ero insegnante ho dato poche note, direi soltanto quando mi sentivo impotente e disperata di fronte a comportamenti intollerabili dei miei allievi: sapevo che niente e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto, quindi brandivo la spuntata arma della nota. Dare note è avvilente, e svilente: svilisce il nostro operato, intacca la nostra fiducia nel potere della parola persuasiva e nella capacità umana di capire gli sbagli. Ma è anche l’unico strumento rimasto, l’unico modo visibile di reagire, di non subire, di mostrare al resto della classe (e alle famiglie) che esiste ancora un barlume di ordine morale, con regole definite.

So che molti pensano che dare una nota sia come ammettere il proprio fallimento di educatore. Ma non sono d’accordo. Penso che dovremmo prenderla in un modo più tranquillo e sereno, più sul tecnico-oggettivo: ispirandoci davvero alla semplice chiarezza del regolamentato mondo del calcio. La nota è molto simile a una ammonizione: è il cartellino giallo mostrato al calciatore colpevole di un fallo. Gesto chiaro e immediato. Direi un rito abbreviato. E anche indolore: nessuno muore, nessuno si offende. Al massimo, se per due volte un calciatore viene ammonito, il cartellino giallo diventa rosso ed egli verrà espulso dal campo. Tutto lì, poi a un certo punto rientra… D’altronde, ce lo immaginiamo un arbitro che in piena partita, invece di ammonire, convoca il giocatore e per un quarto d’ora gli spiega dove e perché ha sbagliato?

Una volta, alle medie, mi capitò di prendere una nota. Avevo dimenticato a casa un quaderno. Uscii da scuola quel giorno provando una enorme vergogna. Mi chiedo se oggi un ragazzo che prende una nota vada a casa con un po’ di quella vergogna. Mi auguro di sì, ma non ci giurerei. Una nota oggi sortisce il seguente, unico effetto: che il genitore si precipiti immediatamente al “colloquio parenti” e, molto risentito, esiga una spiegazione dall’insegnante (non certo dal figlio). E, a meno che il suddetto allievo non prenda un numero spropositato di note, tutto finisce lì.

Alla fine, cara signora che mi scrive, la vera domanda che mi sta a cuore è la seguente: siamo sicuri di voler esimere i nostri figli dal sentimento, certo sgradevole e doloroso ma anche molto benefico, della vergogna di sé, di quella insoddisfazione del proprio operato, da cui però poi sgorga il desiderio di riscattarsi, comportarsi bene, presentare agli altri la parte buona di sé? Siamo sicuri che provare almeno un po’ questo sentimento di – come possiamo dire? – contrizione, non li potrebbe aiutare a migliorare, come studenti, come cittadini, come esseri umani nel mondo?

Non so. Per quel che mi riguarda, non sono sicura di niente. Ma se ancora facessi l’insegnante, qualche nota ogni tanto la metterei.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2019



Quanti sono i poveri in Italia?

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza: al 31 maggio il numero totale di domande presentate era di 1 milione e 252 mila, di cui 674 mila accolte, 277 mila respinte e il resto (301 mila) sospese o ancora da elaborare. Complessivamente le domande accolte sono circa il 71% di quelle analizzate.
Il ritmo delle domande è in netto calo: sono state 820 mila il primo mese (marzo), poi 243 mila (aprile), infine 188 mila (maggio). Il governo prevede che, alla fine, le domande accolte saranno circa 1 milione, ovvero parecchie meno di quel che si attendeva.
Poiché il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo l’Istat (indagine 2018), si aggira intorno al milione e 800 mila, parrebbe che i conti non tornino. Le domande già accolte (674 mila) sono poco più di 1/3 del numero di famiglie povere. Aggiungendo quelle già presentate ma non ancora valutate si arriverà intorno a 884 mila domande accolte, meno della metà (48.5%) del dato Istat. Infine, dando per buona la previsione del governo si dovrebbe arrivare a 1 milione entro fine anno, poco più della metà (54.9%) del dato Istat.
Qualcosa sembrerebbe non tornare. Possibile che a tre mesi dal varo della legge, pur includendo nel calcolo le numerose domande già presentate ma non ancora accolte, si sia sotto il 50%? Quali possono essere le ragioni di una discrepanza così macroscopica?
Una prima ragione, abbastanza ovvia, è che la definizione di povertà assoluta dell’Istat non corrisponde alla definizione implicita nella legge sul reddito di cittadinanza. Le differenze fra le due definizioni sono tantissime, ma la più importante è che la definizione Istat lavora sul potere di acquisto del reddito, e quindi tiene conto del livello dei prezzi della zona in cui la famiglia risiede, mentre la legge considera solo il reddito nominale. Questa è la ragione principale per cui, finora, le domande accolte nel Nord sono state molte di meno dei poveri assoluti residenti in tali regioni; e viceversa quelle del Mezzogiorno, che sono state molte di più. Insomma, il reddito di cittadinanza è servito ben poco ai poveri delle regioni del Nord, specie se abitanti in grandi città: chi è povero al Nord risulta tale se si tiene conto del livello dei prezzi (definizione Istat), ma cessa di esserlo se si ignora il costo della vita (definizione del governo).
C’è però anche una seconda ragione della discrepanza, una ragione che troppo spesso si dimentica. Fra i requisiti della legge vi è la residenza stabile in Italia da almeno 10 anni, un requisito che penalizza severamente sia gli stranieri, sia gli italiani senza fissa dimora. Le prime cifre circolate indicano che fra le domande accolte gli stranieri siano circa il 10%, mentre l’Istat ha stimato che le famiglie straniere in condizione di povertà assoluta siano ben il 31.1%, nonostante gli stranieri siano meno del 9% della popolazione. In altre parole: le domande sono molte meno delle attese anche perché la maggior parte degli stranieri poveri non ha fatto domanda, ben sapendo di non avere i requisiti.
Se teniamo conto di questo fattore le cifre si avvicinano. Le famiglie di italiani in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione e 255 mila, le domande di famiglie italiane già accolte sono circa 600 mila, ma potrebbero salire a circa 900 mila entro la fine dell’anno. In questo caso lo scarto sarebbe di 3-400 mila famiglie, che risultano povere secondo l’Istat ma non richiedono il reddito di cittadinanza. In breve: fatto 100 il numero di famiglie povere Istat, solo circa 70 fanno domanda.
Che cosa ci dice un dato del genere?
Essenzialmente che non è infondato il sospetto che i poveri effettivi siano sensibilmente di meno di quello che si potrebbe dedurre dai dati Istat. E’ perfettamente possibile che diverse famiglie risultino povere semplicemente perché il lavoro in nero di alcuni membri non viene dichiarato, con conseguente sottostima del reddito familiare complessivo. E’ ragionevole pensare che il timore di sanzioni (e di perdere i redditi in nero) abbia indotto molti a non presentare domanda.
Ma è anche possibile che questo timore svanisca (forse sta già svanendo) man mano che dovesse rafforzarsi la convinzione che i controlli saranno rarissimi, che i centri per l’impiego non funzioneranno, e di conseguenza il rischio di ricevere offerte di lavoro che si preferirebbe non ricevere (ma si è tenuti ad accettare) è bassissimo. E’ possibile, in altre parole, che il trend delle domande si affievolisca ancora un po’ nei prossimi mesi, ma poi riprenda vigore ove il governo non potesse o non volesse far scattare controlli e sanzioni.
Se queste valutazioni hanno un qualche fondamento, allora sembra inevitabile trarne due conclusioni. La prima è che il problema della povertà, in Italia, riguarda soprattutto gli immigrati (sono povere più di 1 famiglia straniera su 4), e il reddito di cittadinanza lo aggrava. La seconda è che il tasso di povertà degli italiani non solo è molto minore di quello degli stranieri, ma è probabilmente sovrastimato. Per l’Istat le famiglie italiane povere sono il 5.3% (circa 1 su 20), ma le domande del reddito di cittadinanza pervenute fin qui suggeriscono che siano dell’ordine del 3.7% (1 su 27).
Sempre troppe, ovviamente, ma comunque un po’ minori delle cifre pre-crisi, e molto minori di quelle degli stranieri: il problema della povertà nel nostro paese, più che un dramma italiano, è un aspetto cruciale del problema migratorio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 giugno 2019