Il fantasma dei morti di troppo

Un fantasma si aggira per l’Occidente: il fantasma dei morti di troppo. Dopo due mesi di Covid, con oltre 250 mila morti accertate (e almeno altrettante occulte), qualcuno si comincia a domandare: potevano essere di meno, molte di meno? chi doveva gestire l’emergenza sanitaria ha fatto il possibile per contenere il numero delle vittime? quante morti sono una conseguenza di “errori umani” evitabili?

Queste domande aleggiano un po’ dappertutto, ma risuonano con particolare angoscia nei paesi in cui il costo umano dell’epidemia ha raggiunto proporzioni apocalittiche.

Negli Stati Uniti, ad esempio, chi passa per Times Square (la piazza principale di New York), può apprendere quanto è costato agli americani il ritardo con cui Trump si è deciso a proclamare il lockdown: 45 mila morti su 75 mila. E’ una stima, naturalmente, ma non campata per aria, perché si basa su studi epidemiologici.

Nel Regno Unito, un paio di settimane fa, Stephen Buranyi, un coraggioso giornalista scientifico free lance, ha pubblicato su Prospect Magazine un’approfondita inchiesta sulle differenze fra le risposte sanitarie al Covid-19 di Regno Unito e Germania. La domanda è: quante vite umane si sarebbero potute salvare adottando fin da principio l’approccio della Germania? L’autore non si sbilancia fornendo un numero, ma lascia intendere che il numero di vittime dovute a clamorosi errori politici ed organizzativi del governo britannico sia molto grande.

In Francia, fin da metà marzo in una drammatica intervista Agnès Buzyn, ex ministra della salute, ricostruiva la storia dei suoi avvertimenti inascoltati (fin da gennaio!) a Macron e al primo ministro francese, denunciava l’errore di aver ritardato il lockdown per salvare le elezioni comunali, e pronosticava migliaia di morti come conseguenza di questo errore fatale (la Francia, in effetti, si avvia verso le 30 mila vittime ufficiali, poche di meno dell’Italia). Negli stessi giorni 600 medici e operatori sanitari francesi denunciavano alla Corte di giustizia della Repubblica (l’unica abilitata a giudicare gli atti commessi da membri del governo) il primo ministro Edouard Philippe e la stessa Agnes Buzyn, che fino metà febbraio era rimasta al suo posto di ministra della sanità.

E in Italia?

In Italia l’opinione pubblica è estremamente mansueta, e il governo ha sempre respinto ogni responsabilità. Meno di 3 settimane fa (28 aprile), con i morti giornalieri che ancora fluttuavano intorno ai 400 al giorno, il premier dichiarava con invidiabile serenità: tornassi indietro, rifarei tutto eguale. Quanto al commissario Arcuri, il giorno dopo (29 aprile) trovava il coraggio di dichiarare: “Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti” (notizia letteralmente falsa, e sostanzialmente erronea).

Negli ultimi giorni, tuttavia, grazie alle inchieste giornalistiche e agli studi scientifici, alcune verità stanno venendo a galla. Alcune sono ovvie, come il fatto che la scelta di ritardare il lockdown, a dispetto degli avvertimenti di tanti studiosi, è costato migliaia di morti, in Italia come altrove. Altre sono meno ovvie, o meglio diventeranno ovvie solo per gli storici di domani, quando le resistenze e gli interessi del momento presente non riusciranno più a farsi sentire. Fra queste verità la più importante è che la scelta di limitare il numero di tamponi e i ritardi nella organizzazione del tracciamento hanno avuto, e continuano ad avere, un costo umano enorme.

Da qualche giorno sembrano essersene accorte anche le autorità sanitarie. Le stesse autorità che all’inizio dell’epidemia “sgridavano” il Veneto, accusandolo di fare troppi tamponi, così deviando dalle sacre direttive dell’organizzazione Mondiale della Sanità, ora invitano a fare “come il Veneto” e improvvisamente si accorgono di aver trascurato l’essenziale, ossia l’approvvigionamento di reagenti, il coinvolgimento delle università, l’apertura agli operatori del settore privato.

Verso di loro serpeggiano le domande che, molto opportunamente, Franco Debenedetti e Natale D’Amico nei giorni scorsi hanno affidato al “Corriere della Sera”: “Lo dice perfino il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità: sui tamponi bisogna cambiare strategia. Perché solo adesso? C’era l’esempio del Veneto: perché in Lombardia no? Perché Sala (sindaco di Milano) deve mandare i tamponi da esaminare in Francia?”

Già, perché?

Perché l’Italia, anche dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva riconosciuto il proprio errore, ha aspettato il 5 maggio per manifestare l’intenzione di cambiare linea?

Perché non ci si è mossi subito per garantire l’approvvigionamento di reagenti e allargare il numero di laboratori autorizzati a fare test? Perché questo monopolio pubblico dei tamponi? Perché non abbiamo fatto come la Germania, che ha invitato a testare e tracciare tutti i soggetti sintomatici?

Non so se queste domande meritino la costituzione di “un’alta commissione  indipendente” (come suggerisce Franco Debenedetti), o l’avvio di nuove inchieste giudiziarie dopo quelle sulle residenze per anziani (come altri auspicano). So solo che le stime più prudenti del costo di aver scoraggiato i tamponi sono scioccanti (le pubblicherà a giorni la Fondazione Hume), che il numero di morti effettivi è almeno il doppio del numero ufficiale, e che continuare così costerà altre vittime, oltre a quelle che la riapertura inevitabilmente comporta.

Aver avviato la Fase 2 senza aver costruito le sue precondizioni fondamentali (mascherine, tamponi, tracciamento, indagine nazionale sulla diffusione) è stato certamente un errore, che ci sta già costando caro. Lo ha rilevato con preoccupazione il prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano) che, intervistato pochi giorni fa da Selvaggia Lucarelli, ha sconsolatamente osservato: “Possiamo solo affidarci a Santa Mascherina (…) Non è mai stato fatto un esperimento analogo nel mondo. E’ la prima volta che si tenta di arginare un’epidemia dicendo: esci con la mascherina e osserva il distanziamento. Io le dico che non esiste un lavoro scientifico che provi l’efficacia di questa strada”.

Ora che l’errore è stato fatto, e che il rischio ce lo siamo preso, possiamo solo augurarci una cosa: che il timore di dover riconoscere che si è sbagliato, non induca la classe politica, nazionale e locale, a perseverare nell’errore.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 maggio 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 15 maggio) la temperatura dell’epidemia è pari a 20.3 gradi pseudo-Kelvin, in diminuzione di poco meno di 1 grado (8 decimi di grado) rispetto a quella del giorno precedente.

Come ieri, il miglioramento della temperatura si deve alla diminuzione dei nuovi contagi e al calo degli ingressi ospedalieri. Ancora stabili i decessi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa, in pieno lockdown.

***

Nota tecnica

Abbiamo abbandonato lo strumento precedente perché, in una fase di ospedalizzazioni decrescenti come quella in corso da qualche settimana, avrebbe richiesto informazioni che la Protezione Civile non fornisce.

Il nuovo strumento si fonda su 3 tipi di informazioni:

  1. l’andamento dei decessi ufficialmente registrati;
  2. una stima del numero quotidiano di ingressi di pazienti Covid negli ospedali;
  3. l’andamento dei nuovi contagi, corretto per tenere conto del ciclo settimanale e della politica dei tamponi.

Il livello della temperatura è proporzionale al flusso medio giornaliero di nuovi contagi 2-3 settimane fa, epoca cui necessariamente si riferiscono tutti gli indicatori disponibili su base quotidiana.

Una temperatura zero corrisponde a una situazione in cui tutti e tre gli indicatori segnalano un sostanziale arresto dei nuovi contagi: zero nuovi morti, zero nuovi ingressi in ospedale, zero nuovi casi.

Una temperatura pari a 100 corrisponde a un flusso quotidiano di nuovi contagiati intenso come quello registrato nella settimana di picco, collocata fra la fine di marzo e i primi di aprile.

Allo stato attuale dell’informazione, è impossibile stabilire con esattezza a quale temperatura corrisponde 1 grado pseudo-Kelvin. Una stima ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia del 2% e il “numero oscuro” dei casi non rilevati sia un po’ minore di 2:1, suggerisce di interpretare ogni grado in più o in meno come una variazione pari a 1000 nuovi contagiati. Una stima meno ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia dell’1%, suggerisce che 1 grado pseudo-Kelvin corrisponda a 2000 nuovi casi al giorno.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 14 maggio) la temperatura dell’epidemia è pari a 21.1, in diminuzione di poco meno di 1 grado pseudo-Kelvin rispetto a quella del giorno precedente.

Il miglioramento della temperatura è dovuto alla diminuzione dei nuovi contagi e soprattutto al calo degli ingressi ospedalieri. Torna ad essere modesta la riduzione dei decessi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa, in pieno lockdown.

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Nota tecnica

Abbiamo abbandonato lo strumento precedente perché, in una fase di ospedalizzazioni decrescenti come quella in corso da qualche settimana, avrebbe richiesto informazioni che la Protezione Civile non fornisce.

Il nuovo strumento si fonda su 3 tipi di informazioni:

  1. l’andamento dei decessi ufficialmente registrati;
  2. una stima del numero quotidiano di ingressi di pazienti Covid negli ospedali;
  3. l’andamento dei nuovi contagi, corretto per tenere conto del ciclo settimanale e della politica dei tamponi.

Il livello della temperatura è proporzionale al flusso medio giornaliero di nuovi contagi 2-3 settimane fa, epoca cui necessariamente si riferiscono tutti gli indicatori disponibili su base quotidiana.

Una temperatura zero corrisponde a una situazione in cui tutti e tre gli indicatori segnalano un sostanziale arresto dei nuovi contagi: zero nuovi morti, zero nuovi ingressi in ospedale, zero nuovi casi.

Una temperatura pari a 100 corrisponde a un flusso quotidiano di nuovi contagiati intenso come quello registrato nella settimana di picco, collocata fra la fine di marzo e i primi di aprile.

Allo stato attuale dell’informazione, è impossibile stabilire con esattezza a quale temperatura corrisponde 1 grado pseudo-Kelvin. Una stima ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia del 2% e il “numero oscuro” dei casi non rilevati sia un po’ minore di 2:1, suggerisce di interpretare ogni grado in più o in meno come una variazione pari a 1000 nuovi contagiati. Una stima meno ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia dell’1%, suggerisce che 1 grado pseudo-Kelvin corrisponda a 2000 nuovi casi al giorno.

 




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 13 maggio) la temperatura dell’epidemia è calata significativamente (-2,5 gradi pseudo-Kelvin rispetto a quella del giorno precedente), passando da 24.5 a 22.0 gradi pseudo-Kelvin.

Il calo è dovuto al miglioramento di tutte e tre le componenti che compongono l’indice: diminuiscono i nuovi contagi, le ospedalizzazioni e soprattutto i decessi giornalieri.

Il miglioramento osservato (-2.5 gradi pseudo-Kelvin) è il più alto registrato nelle due ultime settimane.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa, in pieno lockdown.

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Nota tecnica

Abbiamo abbandonato lo strumento precedente perché, in una fase di ospedalizzazioni decrescenti come quella in corso da qualche settimana, avrebbe richiesto informazioni che la Protezione Civile non fornisce.

Il nuovo strumento si fonda su 3 tipi di informazioni:

  1. l’andamento dei decessi ufficialmente registrati;
  2. una stima del numero quotidiano di ingressi di pazienti Covid negli ospedali;
  3. l’andamento dei nuovi contagi, corretto per tenere conto del ciclo settimanale e della politica dei tamponi.

Il livello della temperatura è proporzionale al flusso medio giornaliero di nuovi contagi 2-3 settimane fa, epoca cui necessariamente si riferiscono tutti gli indicatori disponibili su base quotidiana.

Una temperatura zero corrisponde a una situazione in cui tutti e tre gli indicatori segnalano un sostanziale arresto dei nuovi contagi: zero nuovi morti, zero nuovi ingressi in ospedale, zero nuovi casi.

Una temperatura pari a 100 corrisponde a un flusso quotidiano di nuovi contagiati intenso come quello registrato nella settimana di picco, collocata fra la fine di marzo e i primi di aprile.

Allo stato attuale dell’informazione, è impossibile stabilire con esattezza a quale temperatura corrisponde 1 grado pseudo-Kelvin. Una stima ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia del 2% e il “numero oscuro” dei casi non rilevati sia un po’ minore di 2:1, suggerisce di interpretare ogni grado in più o in meno come una variazione pari a 1000 nuovi contagiati. Una stima meno ottimistica, che assume che il tasso di letalità sia dell’1%, suggerisce che 1 grado pseudo-Kelvin corrisponda a 2000 nuovi casi al giorno.




Liberalismi tra libertà civili e politiche E lo Stato fa da braccio armato del diritto

A mio avviso, il fatto nuovo del nostro tempo è il grande scisma che ha investito il mondo liberale. Negli anni ’70 un assistente universitario che aveva chiesto di poter insegnare Storia delle dottrine politiche in una facoltà letteraria del Nord, aveva incontrato il veto di un noto antichista che aveva obiettato al suo sponsor: «Ma è un liberale!». Il veto rientrò dietro assicurazione che il candidato era, sì, liberale, ma vicino a Norberto Bobbio. Se fosse stato un simpatizzante di Giovanni Malagodi rien à faire. In seguito, siamo diventati tutti liberali al punto che, tranne forse il Manifesto non c’è quotidiano o schieramento politico che non si dichiari ligio a Locke, a Montesquieu, a Constant.

Oggi, però, grazie soprattutto ai dibattiti su populismo, nazionalismo, sovranismo, l’unanimità si va dissolvendo come i nostri bellissimi ghiacciai e ci si va rendendo conto che l’etichetta liberale copre due bottiglie diverse.

Una bottiglia contiene il liberalismo storicista, l’altra il liberalismo universalista. L’uno nasce nell’età romantica con Edmund Burke, con M.me de Stael, con Benjamin Constant come critica al razionalismo rivoluzionario in guerra con la tradizione, la storia, la comunità politica etc.. L’altro nasce nel ’700 come critica delle istituzioni secolari – gli Stati d’ancien régime – che non riconoscono i diritti degli individui. Il liberalismo universalista appartiene alla famiglia per così dire mercatista (o liberista) dell’illuminismo e, pertanto, è decisamente ostile al ramo giacobino e poi socialista. Ad accomunare i due fratelli coltelli, tuttavia, è il fatto che, per entrambi, i diritti individuali sono al centro della legittimazione politica: lo Stato è unicamente al servizio dei cittadini al di sopra dei quali ci sono soltanto ‘astrazioni’, fantasmi inquietanti, divinità esigenti che possono imporre perfino il sacrificio della vita. La differenza rinvia alla  diversa estensione dei diritti che debbono venir tutelati: per i liberisti, vanno assicurati l’ordine pubblico, il rispetto dei contratti, le libertà civili e quelle politiche; per i loro avversari, queste ultime non hanno senso se non vengono garantiti dallo Stato i diritti sociali: alla salute, alla casa, al lavoro etc. Ivan Krastev e Stephen Holmes, autori de La rivolta antiliberale. Come l’Occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia (Ed. Rizzoli) scrivono, quasi con rimpianto, che il periodo della guerra fredda ha visto lo scontro «di due ideologie universalistiche – liberalismo occidentale e comunismo sovietico – entrambe nate dalla tradizione dell’illuminismo europeo» e che la mancanza di alternative ideologiche è un problema con cui dovremo confrontarci a lungo. Ma siamo poi sicuri che i ’fratelli germani’, con la ‘fine della Storia’, non stiano per riconciliarsi?

La comune opposizione al ‘sovranismo’ in realtà, sembra ricongiungere l’illuminismo occidentale e l’illuminismo postcomunista in una sorta di union sacreé contro il neo-comunitarismo, visto come reincarnazione del fascismo: il vecchio vizio illuministico di far di tutta l’erba un solo fascio (littorio). Sennonché come l’illuminismo anche il Romanticismo ha avuto un parto gemellare, lo storicismo liberale e il tribalismo ideologico. Entrambi hanno valorizzato le ‘radici’, le ‘eredità’, le affinità profonde ma mentre il primo ne ha fatto il terreno concreto su cui costruire le istituzioni della libertà, il secondo lo ha eretto a Moloch a cui tutto sacrificare. Gli eventi tragici sfociati nelle due guerre mondiali hanno portato gran parte del pensiero politico contemporaneo a una demonizzazione insuperabile dello ‘Stato nazionale’ su cui si è riversata la stessa fatwa che gli illuministi avevano emesso contro le monarchie assolute. E’ una condanna che ha finito per investire lo Stato in quanto tale, tollerato ormai solo in quanto braccio armato del Diritto. Nel suo commento a Montesquieu, Condorcet aveva scritto: «Non si vede perché tutte le province di uno Stato o anche tutti gli Stati non debbono avere le stesse leggi criminali, le stesse leggi civili, le stesse leggi che regolano il commercio. Una buona legge deve essere buona per tutti gli uomini, come una proposizione vera è vera per tutti». Per i liberali illuministi, grazie all’Europa (primo passo verso gli Stati Uniti del Mondo), grazie alle istituzioni internazionali e agli accordi finanziari sempre più vincolanti tra gli stati, la verità enunciata da Condorcet seppellirà le differenze artificiali mantenute in vita dagli Stati nazionali.

Cosa ci riserva il futuro non è dato sapere. Va rilevato, comunque, che la filosofia universalista non garantisce la pace perpetua. A ragione o a torto, uomini e donne rivendicano la diversità come un valore e chiedono all’autorità politica di proteggerla, anche a costo di limitare i diritti. Come ha scritto Umberto Vincenti in un saggio magistrale, La religione dei diritti umani (in Giuseppe Valditara, a cura di, Sovranità democrazia e libertà, Ed. Aracne): «I diritti nati per liberare gli uomini dai vincoli della cetualità medievale e delle religioni di Stato hanno finito con il promuovere la libertà di azione del singolo in ogni dove, spesso in danno di altri e dell’interesse generale o diffuso». Ma possono esistere, si chiede il giurista, “sovranità popolare e democrazia se al popolo” è “interdetto di decidere, almeno oltre una certa misura, sulla libertà d’azione dei singoli individui”? Quello di Vincenti è il liberalismo storicistico che dall’800 arriva fino a Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice. Forse i libertarian genere Alberto Mingardi non hanno ancora vinto la partita.

Pubblicato su Il Dubbio del 9 maggio 2020