Il diario della talpa. Terzo episodio

3. GLI INDISPENSABILI E GLI INUTILI

Che poi, io dico dico ma non è vero, non sono tutti diventati talpe: alcuni sono rimasti quel che erano. Si muovono. Escono. Vanno e vengono. Stanno all’aperto, prendono aria. 

Non è vero che ci siamo fermati tutti.

Si sono fermati gli Inutili.

Gli altri, gli Indispensabili, hanno continuato a vivere. Anzi, vivono più che mai. Lavorano il doppio, si muovono il triplo. Fin tropo, poveretti. Escono di casa al mattino presto, prendono l’auto, vanno al lavoro e per otto dieci ore stanno lì a lavorare come matti.

Ci è molto chiaro chi sono oggi gli Indispensabili: le commesse del supermercato, gli autisti dei camion, dei treni, degli autobus, i benzinai, i panettieri, i macellai, i verdurai. Ovviamente prima di tutti i medici, infermieri e farmacisti. Ma poi anche gli insegnanti: per quanto in modi davvero bizzarri, stando a casa, hanno continuato a far lezione, interrogare, dare i voti. Anche i politici e i giornalisti non si sono fermati (ma su di loro mi asterrei, non saprei dire se sono tra gli Indispensabili: mi limito a dire che non si sono fermati…).

Tutti gli altri hanno potuto tranquillamente fermarsi perché non sono così utili, o lo sono molto meno. Tra questi anche alcune categorie che mai avremmo detto inutili, come ad esempio i baristi, gli avvocati, gli ingegneri, i cuochi, gli architetti, gli arredatori d‘interni, le estetiste, gli agenti immobiliari, i personal trainer. Persone utilissime per carità, ma in tempi normali, non ora. Utili, ma non indispensabili. Li catalogherei come “tra l’utile e l’inutile”. Anche i parrucchieri. Persino di loro abbiamo scoperto di poter fare a meno, e non l’avremmo mai detto. Ora ci lasciamo venire la pelliccia folta, oppure ce la tagliamo noi da soli, davanti allo specchio, come si può.

Si è fermato anche il mondo dello sport, e il mondo della cultura. Ma questo era ovvio, nulla è più inutile della cultura e dello sport. Anche se c’è stata, intorno al tema, qualche vivace e tesa discussione, dal momento che sia lo sport sia la cultura muovono fette piuttosto ingenti dell’economia! Comunque tutti a casa. Tennisti, calciatori, nuotatori, giocatori di golf. Librai, editori, bibliotecari, attori, cantanti, musicisti, registi, scenografi, tecnici delle luci e dell’audio.

È strano. Si sono create delle nuove gerarchie, tra le professioni. E questo è un bene. Oggi vale molto di più un verduraio di un nuotatore, un autista di un editore, un medico di un attore anche premiato con l’Oscar. Finalmente! Abbiamo ribaltato un po’ le cose. Adesso che ci penso, succedeva solo a Carnevale (a parte le grandi rivoluzioni della Storia).

Che il contagio abbia in sé qualcosa di carnevalesco?

E si sono fermati, naturalmente, gli Inutili per eccellenza: i pensionati, i senzatetto, gli anziani. I marginali, gli emarginati. Tutti coloro che erano già considerati fermi, fuori dai ruoli sociali, dai processi produttivi, incapaci di generare anche un solo milionesimo di PIL.

Si sono fermati nel senso che li hanno fermati: non possono più andare da nessuna parte, neanche a passeggio. Sono additati a vista e multati, appena osano mettere il naso fuori. Untori, gente scriteriata che mette a rischio i giovani, i lavoratori, i produttori, gli imprenditori.

Se non si fosse capito, questo paese ha un unico valore: il mercato, la produzione, l’economia. Viviamo solo per lavorare. Lavoriamo solo per crescere. E dobbiamo crescere a dismisura. Se non cresciamo almeno di un centesimo di un punto Pil, non siamo niente. Nessuno ha mai pensato che la crescita non può essere infinita? Anche un baobab a un certo punto si ferma e non tocca il cielo. Anche un bambino, quando diventa adulto, cosa può raggiungere, i due metri? D’accordo, un metro e ottanta, due metri e poi si ferma. Solo il PIL ha una crescita illimitata?

Se non era chiaro, ora lo è. Questo è un paese che non ama i vecchi. Non può amarli, non può volerli, perché essendo improduttivi, fragili e non più potenti, sono soltanto un peso. Gravano sulle famiglie e sullo Stato. Anche se hanno pagato tutta la vita i loro contributi per il servizio nazionale sanitario, ora (proprio ora che rischiano di ammalarsi), non si ha nessuna voglia di occuparsi della loro salute. Perché si dovrebbe? Sono a scadenza, non portano nessun futuro, nessun beneficio tangibile. Nessun guadagno. Quindi è probabile che li lasceremo a casa a lungo.

In realtà, sarebbero i testimoni del passato, coloro che tramandano conoscenze e valori, che sanciscono il senso di continuità della Storia, la preziosità delle tradizioni. Porterebbero esperienza e saggezza, insegnerebbero il tempo che passa e tutto travolge, e la salvezza della memoria. Ma per una sorte sventurata e perversa, queste son tutte cose che le nuove generazioni di governanti (e non solo di governanti) non apprezzano nemmeno un po’ e non vedono l’ora di far fuori.

C’è però una falla, in questo demoniaco piano di distruzione, non so fino a che punto consapevole o involontario. Qualcuno che si salva, che ha trovato il varco nella rete…

C’è una particolare categoria di Inutili che non si è fermata, pur essendo inutile, direi inutilissima. Non importa se sono giovani o vecchi. Una categoria di persone così inutili che è perfettamente uguale, per la società, se si fermano o no. E questo è davvero divertente…

Sto parlando degli artisti.

L’artista ha continuato imperterrito a lavorare tale quale a prima. E certo, non ha bisogno di niente. Non è come il nuotatore che ha bisogno di una piscina, l’attore di un teatro, l’egittologo di un museo aperto, il cantante (e parimenti il calciatore) di uno stadio. All’artista servono quattro cosucce in croce: a seconda di quale arte esercita, gli bastano tele e pennelli, carta e penna, un computer, un pezzo di creta, un blocco di marmo e uno scalpello, un violino, una chitarra, un’arpa… Se poi esercita l’arte dello studio, gli serve ancora meno: qualche libro, un taccuino, al massimo una lavagna su cui scrivere le sue formule.

L’artista suona, scrive, dipinge, studia, scolpisce, inventa, anche se non ha un luogo dove esibirsi (forse non ci tiene particolarmente, a esibirsi?), anche se nessuno lo vede. Lui continua. Al buio. Nascosto. È abituato così, in fondo.

In realtà gli artisti non vengono percepiti molto nemmeno quando il mondo è aperto e funziona a pieno ritmo: nessuno si accorge di loro, che lavorano chiusi nei loro atelier, studi, biblioteche o stanzucce romite. Quindi ora loro hanno continuato così, non percepiti. Invisibili. Sono talpe meravigliose, gli artisti.

Il governo meno che mai si occupa di loro. Non se ne occupava prima, figuriamoci adesso. Forse li ritiene non contagiosi… Impermeabili al virus, o già malati in partenza… O estinti.

Meglio così. Lavorano indisturbati alle loro opere, che un giorno il mondo vedrà. O non vedrà.

Leggi gli episodi precedenti

Copyright 2020 Paola Mastrocola
Tutti i diritti riservati




Il diario della talpa. Secondo episodio

2. AL BUIO E ZITTI

Il mio mondo si è improvvisamente popolato. Ora moltissimi vivono come me, sottoterra. Una moltitudine infinita. Tutti a scavare con le unghie la propria tana. Tutti talpe! C’è stata come un’invasione. Per carità, non vedo nessuno perché ognuno è preso dentro la sua galleria, ci mancherebbe. Però lo sento che c’è un gran trambusto intorno.

Così, il mondo mi si è ristretto perché devo star rinchiusa, ma mi si è anche enormemente allargato: siamo, ora, un intero pianeta di talpe!

E succede una cosa strana: che siamo soli, ma non siamo soli. Siamo, come posso dire…? tutti solitariamente insieme, in una talpitudine gigante.

Abbiamo persino raggiunto una specie di uguaglianza. Certo permangono alcune piccole differenze: chi ha il terrazzo e chi non ce l’ha, per esempio; ma più o meno adesso possiamo dire che viviamo tutti nello stesso modo. Lo stare rinchiusi ci unisce, ci uniforma.

Chi l’avrebbe detto che bastava una prigione?

Viviamo quindi tutti (quasi tutti…) sottoterra, al buio completo di quel che succede fuori. Non usciamo. Non camminiamo. Facciamo piccoli movimenti intorno (intorno a cosa non importa). Saliamo ogni tanto le scale e le scendiamo, su e giù (chi le ha, delle scale…), per tenerci in forma. Siamo anchilosati, doloranti, rigidi come pali, asfittici. Non vediamo altri animali, strade, case, auto, i dehors dei bar. Non vediamo proprio. Non usiamo più gli occhi, se non per percorrere mille volte i cunicoli di casa, guardare i mobili e gli oggetti di sempre, che ci affanniamo a spostare e rispostare, spolverare, mettere in ordine, aggiustare se hanno crepe, imperfezioni, malfunzionamenti. A volte ci prende una smania e buttiamo via qualcosa, carte, piatti vecchi, ricordini che non ci ricordano più niente. Già, ricordare… Ci appelliamo alla memoria, rivediamo nella mente le persone con cui siamo stati, i viaggi che abbiamo fatto, le estati che abbiamo passato al mare, in montagna, i musei, i monumenti, i figli piccoli che abbiamo avuto e che adesso sono grandi e non vivono più con noi (fanno le talpe in altre città, in altri continenti). Torniamo bambini e ripassiamo anche la nostra, di infanzia. A volte ci ritroviamo soli su una poltroncina, a parlare con i nostri genitori, che oggi avrebbero cent’anni.

Ci fa bene tutto questo ricordare, ma anche un po’ male. Ci fa volgere al passato come se non avessimo un futuro. Facciamo confusione. Sogniamo che il passato ritorni e lo chiamiamo futuro. Ma non ci caschiamo fino in fondo, nemmeno nei nostri sogni.

La cosa più dolorosa è il buio. Questo essere tenuti al buio. Ciechi come talpe. Inondati da previsioni, resoconti, dati, computi, grafici, statistiche, relazioni degli esperti, ma ciò nonostante al buio: è così che ci sentiamo. Non riusciamo a districarci. Nessuna chiarezza. Nessuna visione. Nessuna fiducia.

I numeri che ci vengono mostrati ci sembrano parziali, e approssimati. Esistono altri numeri, che nessuno ci dice: i numeri occulti. Fantasmatici, inquietanti. Cifre impressionanti, che non riusciamo nemmeno a immaginare.

In tutto ciò scaviamo, pazienti, le nostre gallerie. Almeno qua sotto si sta al sicuro, sembra. Così ci dicono…

Ma che ne sappiamo?

Siamo anche, oltre che senza occhi per vedere e senza zampe per camminare, senza voce. Siamo diventati muti come talpe. Non possiamo più protestare, criticare, anche solo debolmente esprimere qualche dubbio, o riserva. Se lo facciamo, qualcuno subito ci impone di star zitti e ci rimprovera: Ma come puoi criticare in questa situazione così drammatica? Zitto e obbedisci! Semmai poi, quando tutto sarà passato, potrai dire cosa non va. Sì, ma sarà tardi, avremo fatto troppi errori. È adesso che bisogna criticare, per cambiare direzione, nel caso ne avessimo preso una sbagliata. Se diciamo che qualcosa ci pare malfatto, è perché speriamo che cambi e diventi benfatto.

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno ancora curarci? Perché abbiamo posti limitati in ospedale, pochi medici e infermieri, poche mascherine, una quantità di tamponi e test ridicola rispetto al fabbisogno, medicine che non sappiamo ancora se funzionano, nessun modo di essere seguiti a casa se ci ammaliamo?

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno cosa stia veramente succedendo? Se non avessero un’idea chiara della situazione? Se fossero all’oscuro come talpe anche i nostri governanti?

Siamo, ora, molto sospettosi. E scettici. Non ci facciamo abbindolare da una retorica dolciastra e fumosa. La sensazione che abbiamo è di vedere solo una minima parte del macigno, il resto rimane nascosto da un pesante tendone. Ogni tanto si solleva un lembo, un piccolo triangolino di stoffa, e di lì sbirciamo una quantità infinitesimale di realtà. Ma nessuno solleverà mai del tutto quel tendone. Ci vorrebbe un colpo di vento…

Senza conoscere la realtà e senza avere ancora gli strumenti, ovvio che l’unica strategia possibile è stata di non farci uscire più di casa. Abbiamo limitato i rischi, certo. E siamo anche diventati responsabili di quel che ci succede: se usciamo e ci ammaliamo o facciamo ammalare altri, è colpa nostra. Quindi, tutti reclusi e fermi, immobili, ciechi. E zitti.

Talpe.

Scaviamo, cos’altro possiamo fare?

Ma quando scaviamo con le nostre enormi zampe da talpa scarnificandoci gli unghioni, abbiamo una speranza, ardita e segreta: che un giorno, magari per un errore di scavo, le gallerie s’incontrino, che ci ritroviamo tra noi talpe sperdute e impaurite. E che una di queste gallerie sbuchi all’aperto, prima o poi.

Leggi il primo episodio LA VITA INTERIORE

Copyright 2020 Paola Mastrocola

Tutti i diritti riservati




Il diario della talpa. Primo episodio

  1. LA VITA INTERIORE

È un po’ che non usciamo. Direi più o meno una cinquantina di giorni.

In realtà non usciamo quasi mai, noi talpe, non ci viene tanto. Viviamo di norma abbastanza appartate e nascoste, all’ombra. Ma un conto è appartarsi perché è nella nostra natura, un altro è avere l’obbligo di stare rinchiusi. Allora cambia tutto. La vita appartata è una scelta, e funziona soltanto se si alterna a momenti di vita sociale, non dico colossali manifestazioni di massa, ma qualcosa che preveda la presenza di qualche altro essere umano intorno. Se invece la solitudine e l’isolamento diventano l’unica esistenza possibile, non funziona più.

Invece oggi tutti lì a esortarci a coltivare la nostra vita interiore. La capacità di stare da soli, di trovare in noi stessi le risorse, appellandoci alla nostra parte spirituale, e via così. Be’, dunque, parliamone. La vita interiore è un affare serio e complicato. Intanto, mi viene da dire: e prima? In tutti questi anni appena trascorsi, o anche solo tre mesi fa, dove ce l’eravamo dimenticata, la nostra meravigliosa vita interiore? Sotterrata? Abolita?

E poi, non è che tutti sono portati per una vita solitaria e schiva. Chi nasce talpa va bene, ma gli altri, quelli che oggi si trovano a esser talpe per forza? Talpe temporanee, le chiamerei: momentanee, precarie, a scadenza; talpe che poi, finita l’emergenza, torneranno a essere non-talpe. Voglio dire che ci sono specie e specie, di animali, ognuna con le sue caratteristiche. Prendiamo i pesci per esempio, acciughe o sardine, quel che vi pare: guai se non vanno tutte ammassate insieme in un enorme banco. Più numerose sono, più stanno le une attaccate alle altre, più sono felici. Che problema c’è? Sono fatte così, sardine, acciughe: molto sociali. O gli storni, pensiamo alle gigantesche figure volanti che riescono a comporre in cielo, unendosi a migliaia, tutti compatti insieme… Chissà come soffrono adesso, gli storni, le sardine, le pecore, le mucche, i bisonti, tutti quegli animali abituati a vivere in branco, in stormi, in mandrie, in greggi, e ora forzati a vivere da soli.

Noi talpe sembreremmo davvero le più fortunate, in questo momento.

Ma anche qui, fino a un certo punto… La vita interiore è un lusso. Nessuno di noi, talpa o non talpa, se lo può prendere sempre, questo lusso. Sarebbe come, se ci piacciono i dolci, mangiare dolci tutto il giorno tutti i giorni. Bisogna dosare, equilibrare.

E poi non siamo così monoliticamente solitarie nemmeno noi talpe. Certo, mai visto un assembramento di talpe, questo no. Ma non è che stiamo sempre a contemplare il soffitto, leggere romanzi, studiare filosofia, scrivere poesie e fantasticare su cavalli alati. Ci piace anche lavorare, scavare, costruire stanze, puntellare, andare a scovare vermicelli. Magari anche uscire a farci un giro, e incontrare un’altra talpa o due. In certi periodi, una volta all’anno, addirittura ci accoppiamo, e poi per un po’ di tempo badiamo anche ai figli.

È una questione di equilibrio, di alternanza: dentro e fuori, correre e star fermi, esporsi e rintanarsi, oziare e lavorare. Luci della ribalta e buio del bugigattolo.

Quindi è piuttosto irritante che adesso facciano appello alle nostre risorse interiori, ci esortino all’isolamento, e ci reputino colpevoli se scalpitiamo per uscire. Risorse ne abbiamo, ma non illimitate.

Non dico che dovremmo trasgredire gli ordini, questo no. Sappiamo bene che è rischioso uscire, stare vicini, toccarsi, sputacchiare goccioline. Ma almeno lasciateci recalcitrare, graffiare con le unghie la prigione, pretendere vie d’uscita. Almeno lasciateci il diritto di non dirci felici e contenti.

Copyright 2020 Paola Mastrocola
Tutti i diritti riservati




Morti COVID e numero oscuro: l’importanza della granularità

Abstract

È ormai convinzione pressoché unanime che il numero di decessi COVID-19 positivi sia ampiamente sottostimato. A partire dai dati sulla mortalità generale pubblicati dal SISMG e dall’ISTAT diversi studi hanno cercato di individuare dei moltiplicatori, coefficienti calcolati come il rapporto tra il numero di decessi in eccesso rispetto alla mortalità attesa e il numero di decessi COVID-19 positivi ufficialmente censiti. Grazie a un tweet di Giorgio Gori sappiamo che a Bergamo dal 1 marzo al 12 aprile a fronte di 626 decessi in eccesso rispetto alla media storica risultavano appena 272 decessi ufficialmente COVID-19 positivi. Se per Bergamo, al 12 aprile, è possibile affermare che il moltiplicatore è 2.3, per la maggior parte dei comuni italiani non è possibile fare un calcolo esatto.

Ovviamente è sempre possibile tentare delle stime, ma uno dei problemi principali è la mancanza di dati ufficiali dotati di un livello di dettaglio significativo: anche conoscendo la mortalità in eccesso rispetto alla media storica di un determinato comune non è possibile calcolare con sicurezza alcun moltiplicatore proprio perché il dato sui decessi ufficialmente COVID-19 positivi è generalmente disponibile soltanto come aggregato regionale.

Tra i tanti lavori sull’eccesso di mortalità meritano particolare attenzione quelli dei fisici Daniele Del Re e Paolo Meridiani. Analizzando alcuni dei loro risultati è possibile ad esempio ipotizzare che al 3 aprile i moltiplicatori di alcuni capoluoghi del Nord Italia (Milano 2.4, Torino 2.7, Genova 4.4) fossero significativamente inferiori rispetto a quelli di alcuni capoluoghi del Sud Italia (Messina 12.5, Bari 7.2, Palermo 6.8). Si tratta ovviamente di stime, per di più all’interno di intervalli di confidenza talvolta abbastanza ampi.

Scopo di questo articolo è evidenziare come la diffusa disponibilità di dati ufficiali meno aggregati rispetto a quelli della Protezione Civile possa contribuire a ridurre significativamente il margine di errore in cui ogni stima necessariamente incorre.

Introduzione

È ormai convinzione pressoché unanime che il numero di decessi ufficialmente positivi a COVID-19 sia ampiamente sottostimato. Il notevole incremento della mortalità generale registrato nelle zone più colpite dall’epidemia di COVID-19, rilevato inizialmente da inchieste indipendenti come quella condotta dal Sindaco di Nembro (BG), successivamente confermato in Italia dal SISMG ha recentemente trovato ulteriori riscontri grazie alla diffusione dei primi dati sulla mortalità generale rilasciati da ISTAT.

Diversi studi, per diversi scopi, hanno cercato di individuare dei moltiplicatori, coefficienti calcolati ad esempio come il rapporto tra il numero di decessi in eccesso rispetto alla mortalità attesa e il numero di decessi COVID-19 positivi comunicati dalla Protezione Civile[1]. Uno dei problemi principali è la mancanza di dati ufficiali dotati di un livello di dettaglio significativo: senza conoscere ad esempio quanti sono i decessi COVID-19 positivi nel comune di Milano, giorno per giorno, o almeno settima per settimana, risulta difficile stimare un ipotetico moltiplicatore per il comune di Milano. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha comunicato che nella città da lui amministrata “dal 1/3 al 12/4 sono deceduti 795 residenti, 626 più della media – nello stesso periodo – dei dieci anni precedenti. L’aumento è del 370%. I decessi ufficialmente ricondotti a Covid-19 sono stati 272, gli unici sottoposti a tampone”. Per il comune di Bergamo calcolando il rapporto tra i decessi in eccesso (626) e i decessi COVID-19 positivi (272) si ottiene il moltiplicatore è 2.3. E nel resto d’Italia? Come ragionevolmente rilevato da Andrea Gentile, Gianluca Dotti e Riccardo Saporiti su Wired, “la capacità del Sistema Sanitario di intercettare i malati di Covid-19 è cambiata nel tempo e non è omogenea nelle diverse aree geografiche” e quindi probabilmente il moltiplicatore non è né omogeneo sul territorio nazionale né costante nel tempo.

L’idea dei fisici Daniele Del Re e Paolo Meridiani è partire dal dato ufficiale dei decessi a livello regionale per stimare il numero di decessi ufficiali a livello provinciale, e a partire da quest’ultimo stimare il numero di decessi ufficialmente COVID-19 positivi a livello comunale o per la porzione di territorio interessata. Analizzando alcuni dei loro risultati è possibile calcolare i moltiplicatori come rapporto tra decessi COVID-19 stimati (calcolati a partire dalla mortalità in eccesso rilevata dal SISMG) e decessi COVID-19 ufficiali (ricavati a partire dai dati della Protezione Civile) e ipotizzare che al 3 aprile i moltiplicatori di alcuni capoluoghi del Nord Italia (Milano 2.4, Torino 2.7, Genova 4.4) fossero significativamente inferiori rispetto a quelli di alcuni capoluoghi del Sud Italia (ad esempio Messina 12.5, Bari 7.2, Palermo 6.8). Si tratta ovviamente di stime, per di più all’interno di intervalli di confidenza talvolta abbastanza ampi.

In questo documento viene preliminarmente illustrata una procedura per stimare il numero di decessi ufficialmente COVID-19 positivi a livello comunale che riprende l’idea generale proposta e collaudata da Del Re e Meridiani. Successivamente si evidenzia come la diffusa disponibilità di dati ufficiali meno aggregati rispetto a quelli della Protezione Civile possa contribuire a ridurre significativamente il margine di errore in cui ogni stima necessariamente incorre.

L’importanza della granularità

Per capire l’importanza della granularità dei dati – qui intesa come livello di dettaglio delle informazioni di pubblico dominio sull’esatto numero di decessi di positivi al COVID-19 – può essere conveniente partire dal pionieristico lavoro condotto da Sergio Cima su Scienza in Rete: confrontare giorno per giorno l’eccesso di mortalità registrato dal SISMG con il numero di decessi COVID-19 positivi registrato nella città di Brescia. L’esperimento di Cima è stato possibile soltanto perché l’ATS di Brescia  dirama quotidianamente un bollettino con il dato dei decessi giornalieri e questo bollettino viene ripreso da alcune tesate locali, tra cui Brescia Today.

Nella tabella seguente sono riportati il numero di decessi rilevati dal SISMG (dati ricavati dal quarto rapporto pubblicato il 17 aprile), la mortalità attesa (SISMG baseline), l’eccesso di mortalità rilevato (SISMG excess) e il numero di decessi positivi stimato a partire dai bollettini ATS Brescia. Dal momento che ATS Brescia non comunica l’età dei deceduti positivi, per consentire il confronto è necessario stimare il numero di decessi positivi appartenenti alla popolazione 65+ anni (Decessi 65+ positivi), calcolato per semplicità come meglio spiegato più avanti come il 90% del numero di decessi ufficialmente positivi. Viene infine mostrato il moltiplicatore calcolato come il rapporto tra l’eccesso di mortalità rilevato dal SISMG e il numero di decessi 65+ positivi stimato.

Purtroppo per la maggior parte dei comuni italiani il dato dei morti COVID-19 positivi non è disponibile. Una possibile soluzione è quindi stimare il numero di decessi a partire dai pochi dati resi quotidianamente disponibili per tutto il territorio nazionale dalla Protezione Civile: il numero di decessi a livello regionale e il numero totale di casi positivi a livello provinciale. Nei prossimi paragrafi viene presentata una procedura per la stima dei decessi comunali COVID-19 positivi, che ricalca il metodo adottato da Del Re e Meridiani. Sostanzialmente alla stima finale si arriva per gradi: prima si passa dal regionale al provinciale e quindi dal provinciale al comunale. Per confrontare le stime ottenute con i dati di mortalità rilevati dal SISMG si rende necessario un terzo passaggio, dal comunale al comunale ristretto alla popolazione 65+ anni.

Passo 1 – Dal regionale al provinciale

Ogni giorno, e quindi ogni settimana, il numero di decessi COVID-19 positivi provinciali è ovviamente una parte di quelli regionali, e ovviamente il numero di decessi di un giorno sono una parte dei casi  positivi rilevati nei giorni precedenti. In altri termini i decessi di oggi sono funzione dei casi attivi dei giorni precedenti, ammettendo di trascurare due categorie: le persone decedute il giorno stesso in cui vengono dichiarate positive e i deceduti a cui viene effettuato un tampone post mortem. Purtroppo il numero di casi attivi è un’informazione disponibile soltanto su base regionale, e comunque è risultata essere priva della dovuta precisione e attendibilità, come evidenziato da un’eccellente inchiesta di GIMBE e Youtrend.

Per stimare il numero di decessi provinciali si estrapolano dunque dai bollettini quotidiani diramati dalla Protezione Civile:
– il dato del totale decessi a livello regionale
– il dato del totale casi positivi a livello regionale
– il dato del totale casi positivi a livello provinciale per la provincia di interesse[2]

Su base settimanale si calcola quindi il rapporto tra i nuovi casi positivi registrati nella provincia di interesse e i nuovi casi positivi registrati in tutta la regione e tale rapporto viene utilizzato per stimare il numero di decessi della settimana successiva. Il rapporto tra nuovi casi positivi provinciali e nuovi casi positivi regionali della settimana X viene moltiplicato per il numero di decessi regionali della settimana X+1 per ottenere una stima del numero di decessi provinciali nella settimana X+1.

Assumere che i decessi di una certa settimana siano proporzionali ai nuovi casi positivi registrati nella settimana precedente è chiaramente una forte semplificazione ed è sicuramente possibile studiare criteri più raffinati e precisi. Si segnala ad esempio un interessante e approfondito studio di Francesco Furno che per altri scopi stima come trascorrano “cinque giorni in media tra il momento in cui viene diagnosticato il caso (e quindi venga conteggiato nei casi totali) e il momento in cui viene registrato il decesso”, evidenziando inoltre come questo dato presenti “significative differenze regionali”. In generale – parafrasando Gentile, Dotti e Saporiti – dal momento che la capacità del Sistema Sanitario di salvare la vita ai malati di Covid-19 è cambiata nel tempo e non è omogenea nelle diverse aree geografiche, potrebbe essere complicato individuare criteri precisi e validi continuamente nel tempo e ovunque nello spazio per stimare il numero di decessi provinciale a partire dal dato regionale.

Passo 2 – Dal provinciale al comunale

In assenza di dati migliori, una volta stimato il numero di decessi a livello provinciale è possibile attribuire ad ogni comune un numero di decessi proporzionale al numero di abitanti. Questa scelta è chiaramente un’approssimazione: così come passando dal livello regionale a quello provinciale è meglio tener conto del numero di casi positivi piuttosto che guardare al numero di abitanti, un discorso analogo potrebbe valere per il passaggio dal livello provinciale a quello comunale.

Effettuare il passaggio dalla provincia al comune utilizzando come criterio il numero di residenti potrebbe causare errori significativi in alcuni comuni. Si segnala tra tutti il caso di Roma: in base ai dati resi disponibili dal DEP-LAZIO a fronte del 66% dei residenti nella capitale rispetto al totale dei residenti della Provincia, risultano soltanto il 47% dei casi positivi provinciali (1732 positivi nel comune di Roma a fronte di 3665 positivi nella provincia di Roma, dato aggiornato al 15 aprile). Senza considerare altri fattori, sarebbe quindi lecito aspettarsi che il rapporto tra il numero di decessi nel Comune di Roma rispetto al numero di decessi in Provincia di Roma sia più vicino al 47% piuttosto che al 66%.

Passo 3 – Dal comunale alla popolazione 65+ anni

Partendo dalle informazioni disponibili nel “Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 in Italia” curato e aggiornato bisettimanalmente dall’ISS, si assume che il 90% dei decessi COVID-19 positivi abbia più di 65 anni. Si tratta di un’approssimazione semplificativa, anche perché questa percentuale potrebbe essere variabile nel tempo e disomogenea sul territorio nazionale.

Esempio di verifica della stima per il comune di Brescia

Nella seguente tabella si riportano i dati raccolti per la Regione Lombardia e la Provincia di Brescia che consentono di stimare il numero di decessi COVID-19 positivi comunali secondo la procedura precedentemente illustrata. Viene anche mostrato un confronto con i dati ufficiali forniti da ATS Brescia e calcolato l’errore come differenza tra la stima e i dati ufficiali.

Nella tabella seguente si propone un confronto tra il moltiplicatore calcolato a partire dai dati ufficiali di ATS Brescia e quello calcolato a partire dai dati stimati, indicati come stima classica.

Sebbene per la città di Brescia la stima classica possa ritenersi almeno complessivamente una buona approssimazione del dato ufficiale, per altri comuni l’approssimazione potrebbe risultare significativamente lontana dai dati reali. E sebbene per la maggior parte dei comuni non sia disponibile un’informazione dettagliata e precisa come nel caso di Brescia, va segnalato che esiste una diffusa disponibilità di dati oltre a quelli della Protezione Civile che rendono possibile migliorare la stima finale. Nei paragrafi seguenti vengono mostrati due esempi a tal proposito.

Migliorare la stima: Lombardia

Per la Lombardia è disponibile un dataset che contiene informazioni sul numero di decessi provinciali, curato e aggiornato grazie al prezioso lavoro di documentazione e analisi dal giornalista dell’Eco di Bergamo Isaia Invernizzi. Si ritiene in generale che la disponibilità di tali dati possa contribuire a migliorare significativamente la stima finale, e che la metodologia di seguito descritta possa ragionevolmente essere generalizzata a tutto il territorio lombardo.

Verifichiamo quindi come e quanto l’utilizzo del “dataset Invernizzi” consenta di migliorare la stima finale, sempre utilizzando come parametro di confronto il comune di Brescia per il quale si hanno a disposizione informazioni precise sul numero di decessi COVID-19 positivi.

Il dataset contiene al momento informazioni sul numero di decessi provinciali per sei giornate comprese tra il 14 marzo e il 14 aprile. A partire da questi punti fissati e attraverso una serie di interpolazioni è possibile costruire una curva che descriva l’andamento del numero totale di decessi provinciali negli intervalli di tempo compresi tra i giorni per cui è noto il numero totale di decessi. Il grafico seguente mostra una stima del numero di decessi totali di COVID-19 positivi per la provincia di Brescia ottenuta a partire dai punti fissi contenuti nel dataset.

Si precisa che tale curva ha un valore puramente descrittivo e non predittivo: se può essere utile per stimare il numero di decessi avvenuto tra il 14 marzo e il 14 aprile, non avrebbe molto senso utilizzarla per stimare il numero di decessi delle settimane a venire. Nella speranza che questo dataset continui ad essere aggiornato come lo è stato finora, si ritiene che la stima del numero di decessi provinciali COVID-19 positivi attraverso questi dati sia da preferire ad altre possibili tecniche di stima.

Nella tabella seguente la stima dei decessi settimanali della Provincia di Brescia calcolata utilizzando la procedura classica viene confrontata con quella ottenuta partendo dal dataset Invernizzi.

Per concludere si propone un confronto sulla stima del moltiplicatore, confrontando il moltiplicatore “esatto”, calcolato a partire dai dati di ATS Brescia e il moltiplicatore stimato, calcolato a partire dai dati presenti nel dataset di Invernizzi.

Migliorare la stima: Piemonte, Puglia, Emilia Romagna

Alcune Regioni (tra le altre Piemonte, Puglia, Emilia Romagna) forniscono quotidianamente il dato relativo al numero di decessi a livello provinciale. Si propone quindi per la Provincia di Torino un confronto tra la stima classica e il dato ufficiale.

Si evidenzia come la stima risulti complessivamente superiore ai dati ufficiali. Questo può essere legato al fatto che in Provincia di Torino l’età media dei casi positivi è inferiore rispetto alla media regionale[3]: a parità di casi positivi in Provincia di Torino si registra un numero inferiore di decessi rispetto alle altre province della regione.

Si ritiene che la disponibilità di informazioni ufficiali sul numero di decessi provinciali consenta di migliorare significativamente la stima finale, evitando le approssimazioni dovute al passaggio dal livello regionale a quello provinciale.

A proposito dell’importanza del livello di dettaglio dei dati va segnalato che proprio mentre veniva scritto questo articolo l’Associazione OnData “liberava” un database sui tamponi effettuati dalla Regione Lombardia. Una miniera di dati finalmente a disposizione di tutti.

***

Note

[1] A scanso di equivoci si ritiene che non si possa che far corrispondere automaticamente il numero di morti in eccesso rispetto alla media storica con il numero “reale” di decessi COVID-19 positivi. Da un lato come evidenziato tra gli altri da Carra e Satolli su Scienza in Rete “è probabile infatti che anche altre malattie siano esitate in morte prima del tempo probabilmente anche a causa dell’intasamento dei pronto soccorso”. Dall’altro una parte dei decessi clinicamente correlabili al COVID-19 rientrano nella mortalità attesa. Se il Governatore della Liguria Toti probabilmente sbaglia quando afferma “escludo che ci siano morti di COVID-19 non censiti in Liguria”, ha almeno parzialmente ragione quando spiega che esistano “morti censiti come COVID-19 [che] probabilmente sarebbero morti ugualmente data la loro età”.

[2] Si segnala che quotidianamente una parte di casi positivi è privo di attribuzione provinciale (nei bollettini della Protezione Civile è indicato alla voce “Altro/In fase di verifica”): a voler essere precisi tale dato, soprattutto dove e quando appare significativo, andrebbe tenuto in considerazione.

[3] In base ai dati elaborati dal SEREMI (aggiornamento al 16 aprile) risulta ad esempio che in Provincia di Torino i contagiati con più di 40 anni siano l’82.5%, mentre ad Alessandria siano il 90.2%.




Voltaire e l’illuminismo oscurato dalle catastrofi

Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana

Mentre nel mondo infuria il Covid19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l’intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto –philosophes e uomini comuni – sconvolto dal terremoto di Lisbona che, nel 1755 provocò, vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le desastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio.

Principe indiscusso dell’età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad es. la “Semiramide” che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini o l'”Alzira” messa in musica da Giuseppe Verdi), l’ever green Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice – uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu – per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l’uomo del terzo millennio (Ed. Mimesis con una sobria e illuminante  Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l’attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare.

In riferimento al tema della catastrofe naturale, che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un’ottima guida al Disastro di Lisbona nel senso che ci permette di inquadrarne il “messaggio” nel più vasto ambito dell’etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con “le magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura ma è il bastone che permette all’umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?» dirà Candido il più famoso dei suoi personaggi.

«Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all’elefante, si legge in Prendere partito, la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l’equivalente dell’astuzia e della ferocia con cui l’esecrabile ragno cattura e divora l’innocente mosca». Eppure queste considerazioni, che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell’umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L’uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L’uomo appare al suo posto nell’ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate “contraddizioni”, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l’uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal così lo è da Rousseau che, in una lettera dell’agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro  di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell’ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell’ottimismo razionalistico di Leibnitz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione – dal peccato originale  al quale non credeva, all’ordine immutabile dell’universo – per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. «La natura è muta e la s’interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/consolare il debole, illuminare l’ingegno».

E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta – allontanandolo dal trionfalismo illuministico – ad una sorta di etica del destino. «Come voi, scrive ad Allamand nel dicembre 1755, ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell’uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al  Pantheon dei suoi resti morali.

Pubblicato su Il Giornale dell’11 aprile 2020