Immigrazione: I dilemmi dell’asilo politico

Dal gennaio 2014 all’agosto 2017, l’Italia ha registrato l’arrivo di 605.147 immigrati giunti attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale (sul tema “sbarchi”, vedi anche la scheda a cura di Rossana Cima). Il marcato incremento degli arrivi ha portato, nello stesso periodo, ad un’impennata nel numero di richieste di asilo politico presentate in Italia. La figura 1 mostra il numero di richieste di asilo dal 1990 al 2016.

Figura 1. Richieste di asilo politico (persone, 1990 – 2016)
Fonte: Ministero dell’Interno

Gli ultimi tre anni, 2014-2016, hanno fatto registrare 271.026 richieste di asilo mentre il totale dei 24 anni precedenti è stato di 370.294 (il 2016, da solo, rappresenta un quarto delle richieste di asilo presentate in Italia dal 1990). L’apertura degli hot spot per l’identificazione degli immigrati e l’introduzione di stringenti controlli di frontiera da parte dei paesi europei confinanti, anche se membri dell’area Schengen, ha fatto sì che l’Italia sia sempre meno un paese di transito e sempre più un paese di destinazione. Il rapporto richiedenti asilo/migranti sbarcati era dello 0.37 nel 2014 per poi salire allo 0.55 nel 2015 e infine 0.68 nel 2016. E’ probabile che questo rapporto aumenti ulteriormente nel 2017. Quale è stato l’esito di queste richieste di asilo?

Tabella 1. Esiti domande di asilo politico, anni 2014-2016.
Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Interno. Nota: (*) esaminati nell’anno indipendentemente dalla data di richiesta asilo.

La tabella mostra che solamente nel 6% dei casi viene effettivamente riconosciuto lo status di rifugiato. Una larga parte dei richiedenti riceve altre forme di protezione e con esse il permesso di risiedere in Italia: al 15,8% dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e al 22,6% la protezione umanitaria. La protezione sussidiaria è uno status molto simile a quello di rifugiato e da’ diritto ad un permesso di soggiorno di durata quinquennale (rinnovabile), consente l’accesso allo studio e alla formazione, e allo svolgimento di una attività lavorativa. La protezione umanitaria offre le stesse possibilità, ma con un orizzonte temporale decisamente più ristretto: nei fatti, da sei mesi a due anni. Complessivamente, per ogni cento richiedenti asilo, solamente 44 ottengono il permesso di risiedere e lavorare in Italia (22 ricevono un permesso della durata di cinque anni, ossia l’orizzonte temporale più consono per favorire l’inserimento nella società italiana e una piena integrazione).

I dati del periodo 2014-2016 mostrano, quindi, che la maggioranza dei richiedenti asilo (56 su cento) vede la propria domanda rifiutata, e con essa la possibilità di vivere e lavorare legalmente in Italia (le persone a cui la domanda di asilo è stata rifiutata vengono definite in gergo i “diniegati”). Questa quota è in aumento: nel 2016, sei domande su 10 sono state bocciate. E questo, a mio avviso, costituisce un serio problema che richiede una risposta politica in tempi brevi.

I “diniegati” perdono la possibilità di risiedere e lavorare legalmente in Italia, spesso dopo un iter di 1-2 anni. A questo punto – per definizione – le uniche opportunità di lavoro saranno di tipo informale o illegale. E questo, ovviamente, porta ad ulteriori problemi di ordine pubblico. Inoltre, per molti richiedenti asilo, lo stato italiano ha già speso risorse per la formazione, l’insegnamento della lingua italiana e, talvolta, l’inserimento in percorsi lavorativi in attesa della decisione finale sul loro status giuridico. Quale risposta adottare, quindi, per affrontare il problema dei 100,000+ “diniegati”? La decisione, ovviamente, spetta alla politica, ma vale la pena ricordare qui alcuni elementi utili.

Il primo: i dati presentati mostrano i limiti di una procedura largamente basata sull’asilo politico come strumento per la gestione dei flussi migratori. In una situazione come quella italiana, in cui le risorse sono estremamente scarse, mi pare che questo sistema porti ad una allocazione di tali risorse decisamente sub-ottimale (si pensi dal 60% di dinieghi registrati nel 2016 spesso dopo un lungo iter burocratico). Inoltre, anche nella situazione “ideal-tipica” in cui lo status di rifugiato viene conferito quasi di default – come nel caso dei profughi siriani in fuga dalla guerra – la procedura attuale comunque richiede che il profugo raggiunga una delle nazioni dell’Unione Europea per presentare la propria domanda. In questo modo si creano enormi opportunità per i gruppi criminali che organizzano i viaggi attraverso il Mediterraneo. Decisamente meglio sarebbe avere dei “corridoi umanitari” praticabili, sull’esempio di altri paesi come il Canada.  Il sistema attuale va ripensato al più presto.

Il secondo: i rimpatri forzati sono molto costosi, lenti e difficili da attuare dal punto di vista legale. Inoltre, provocano un impatto piuttosto radicale sulle vite delle persone se condotti dopo molto tempo dall’arrivo.

Il terzo: le operazioni di salvataggio in mare, che hanno fornito una risposta nobile e generosa all’emergenza sbarchi, stanno adesso dimostrando i loro limiti (tra cui la creazione di un massiccio e crescente numero di “diniegati”). L’idea europea di trasformare le operazioni Sofia e Triton in strumenti per combattere i cosiddetti “trafficanti” semplicemente non sta funzionando, e difficilmente funzionerà. La soluzione a questo riguardo è probabilmente da ricercare in politiche di terra e non navali. Un’estensione a tempo indeterminato di queste operazioni rischia di creare un sistema di incentivi perverso da cui diventa sempre più difficile uscire.

Credo che il punto tre sia la pre-condizione per attuare delle politiche che portino ad una soluzione al problema dei “diniegati” che sia, allo stesso tempo, umanitaria, efficiente dal punto di vista della risorse già impiegate e che minimizzi gli incentivi di tipo illegale. Un calo sostanziale degli arrivi può aprire la strada ad una legalizzazione di coloro che siano ancora presenti sul territorio italiano, che abbiamo seguito un percorso di formazione o inserimento lavorativo come richiedenti asilo, e che non abbiano commesso reati (ad eccezione, ovviamente, del reato di clandestinità). Una possibilità sarebbe di attuare questa legalizzazione nel contesto degli accordi di ricollocamento intra-UE: accordi che per il momento non stanno funzionando, ma che il Governo italiano potrebbe cercare di sbloccare in sede europea, anche nel contesto della discussione sulla revisione della Convenzione di Dublino sul diritto di asilo. Politicamente, questa potrebbe essere una strada molto difficile da percorrere. Ma il costo politico dell’inerzia potrebbe essere ugualmente elevato.




Ipotesi sulla disuguaglianza

A scuola vanno bene solo i figli di papà.  Studiano solo i ragazzi nelle cui case ci sono libri. Vanno al liceo e si laureano solo i figli di coloro che sono andati al liceo e si sono laureati. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale, non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza, non fa che certificare e riprodurre privilegi e differenze. Il figlio del notaio fa il notaio, il figlio dell’idraulico fa l’idraulico.

Questa mi pare, in riassunto, la tesi di chi ritiene che la scuola debba essere democratica, includere tutti, e soprattutto dare a tutti pari opportunità azzerando la disparità delle condizioni di partenza. È un’idea che ha animato la scuola, e la politica, almeno da un cinquantennio, e mi pare debba essere più che mai perseguita. Con qualche precisazione e variante, però.

Intanto no, il figlio dell’idraulico non fa quasi mai l’idraulico. Si diploma e spesso va all’università. Ma spesso non la finisce (vedremo poi perché).

Il figlio del notaio invece sì, è quasi certo che farà il notaio (sempre che abbia voglia di studiare, se no si fermerà a fare solo l’avvocato). Ahimè, questo è drammaticamente vero. Ho detto in più luoghi che mi piacerebbe un mondo in cui il figlio dell’idraulico possa diventare notaio, se vuole. Ma anche un mondo in cui il figlio del notaio diventi idraulico, se non ha voglia di studiare o non ne ha le capacità. Non ci siamo ancora. Succede, spesso, la prima. Non succede mai (tranne rarissime eccezioni che io non ho il bene di conoscere) la seconda.

Perché?

Qui si gioca la questione. La stragrande maggioranza, direi la totalità dei sostenitori della “scuola democratica” (ma chi mai potrebbe essere per una scuola non-democratica…?) è convinta, oggi come ieri, che a bloccare gli studi dei ragazzi svantaggiati economicamente e socialmente sia proprio la loro condizione di partenza: impossibile studiare e raggiungere la meta (diploma, laurea e quindi professione adeguata) se si è nati in una famiglia poco abbiente.

Credo sia così. E i dati lo confermano.

Credo altresì che la controprova sia vera: chi nasce bene va avanti. Chi appartiene a una famiglia medio-alta e ha le risorse (economiche, culturali e relazionali) arriva comunque, quasi sempre, a fare il liceo e a laurearsi. E ci arriva, questo ragazzo-bene, anche qualora non abbia mai avuto la minima voglia di studiare, non abbia quasi mai aperto un libro, abbia raccolto una serie infinita di insufficienze, debiti, giudizi sospesi e anche bocciature: va avanti lo stesso, sicuramente con qualche fastidio e intoppo, ma va avanti.

Uno dei più potenti, scandalosi e immorali motori del suo avanzamento sono le lezioni private. Quel cumulo sterminato e inenarrabile di ore alla settimana che per anni (per anni!) i suoi genitori lo hanno costretto a fare, presso insegnanti che al mattino insegnano normalmente in scuole statali e al pomeriggio danno tranquillamente lezioni private in nero, fornendo ai loro allievi clandestini e abbienti, svogliati e apatici, tutto l’aiuto assistenziale e personalizzato che serve loro per “passare” l’anno.

Aiuto che arriva sempre a buon fine. Eh sì. Chi prende selvaggiamente lezioni private dalla prima liceo fino alla laurea ce la fa: si laurea, spesso anche bene! Pur essendo stato un pessimo studente, che non ha mai aperto un libro, mai ascoltato una lezione, mai preso la sufficienza in certe materie (quelle difficili), non importa: al pomeriggio c’è qualcuno che lo guida, lo tallona, gli sta dietro, gli tiene la manina per fare i compiti, per passare interrogazioni, esami. Alla fine ce la fa, certo che ce la fa. Sto elogiando le capacità degli insegnanti double face, statali al mattino e privati al pomeriggio? No, non è (solo) il loro talento e la loro pervicace pazienza. È la palese dimostrazione che l’unico vero metodo didattico che funzioni è stare alle calcagna tutto il giorno tutti i giorni a ogni singolo ragazzo. È il trionfo dell’istitutore privato. La scuola sarà mai in grado di emularlo, con i suoi 30 ragazzi per classe…? (Certo, detto tra parentesi, un primo passo potrebbe essere che l’insegnante, al pomeriggio, invece di ricevere a casa propria i signorini in nero, rimanga a scuola, non a sbrigare burocratiche faccende o partecipare a inutili commissioni, ma dedicandosi a un serrato coaching face to face con i propri allievi del mattino, quelli più in difficoltà, aiutandoli gratis… ).

All’università, sembra incredibile, stessa cosa! I ragazzi prendono lezioni private anche durante gli anni d’università! È un fenomeno piuttosto recente, e agghiacciante. Ragazzi ventenni che non riuscirebbero a passare gli esami, soprattutto quelli più difficili, in corsi di laurea duri, vanno a lezione privata come imberbi adolescenti! Lezioni pagate dai genitori. Notai. Ingegneri. Avvocati. Che vogliono che i figli facciano i notai, gli avvocati, gli ingegneri. E ci riescono! I loro figli ce la fanno. Fotocopia dei padri. Un po’ aiutati…

È questo lo scandalo.

L’ho visto con i miei occhi, insegnando per 35 anni. E l’ho denunciato sempre, ogni volta e in ogni luogo abbia potuto farlo. È la vergogna della scuola, e della società, italiana.

Va bene, la tesi “democratica” è dunque più che confermata: le origini e l’ambiente contano. Cose risapute. E ripetute fino alla nausea. Ma la loro tesi si ferma qui. Non mi basta, mi sembra ne manchi un pezzo molto importante. Un aspetto che viene sempre trascurato. Un “piccolo dettaglio” che da anni cerco di mettere in evidenza. E che è anche la ragione per cui, nonostante queste mie idee vadano inequivocabilmente verso l’idea di una scuola molto democratica (mi vien da dire iper-democratica!), io non sia così d’accordo con i sostenitori standard, tradizionali e istituzionali, della scuola democratica.

Questo aspetto trascurato, questo minuscolo dettaglio, è… la preparazione. Il livello di studio. La qualità e quantità delle “cose” insegnate-imparate.

Torno al figlio dell’idraulico (perché di lui ci importa, no?) e formulo la mia ipotesi: se spesso non arriva a laurearsi, forse non è soltanto perché è figlio dell’idraulico (ipotesi vecchia, datata, fortemente ideologica: insomma, troppo facile!); forse non fa il liceo e non arriva a laurearsi… perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato abbastanza.

Ecco. Per questo mi arrabbio da una ventina d’anni (una ventina d’anni, direi dalla riforma Belinguer in poi: governo progressista, incredibile!). Perché io questo ho visto, nella scuola. Ho visto ragazzi (non solo figli di idraulici, ma figli di quella classe media non così svantaggiata ma neanche così agiata) che arrivano in prima liceo totalmente digiuni delle nozioni basilari, di quel minimo di conoscenze dovute e, soprattutto, necessarie ad andare avanti negli studi.

È vero, sto parlando dei ceti medi e medio-bassi, e non dei veri svantaggiati delle vere zone disagiate, da Cinisello a Secondigliano, tanto per intenderci. Mah… intanto ognuno parla di quel che ha sotto gli occhi. Io non ho insegnato in periferia o in zone segnate da droga, camorra e povertà. Mea culpa? Ho insegnato in licei di provincia, medi. Ho visto e incontrato la medietà. La normalità, se volete. Che però è l’80% degli studenti di un liceo. Scusate se mi sono occupata solo di loro…

Questo non implica che io non riconosca l’enorme problema di portare istruzione e cultura là, soprattutto in quei luoghi. Ma quel che voglio denunciare è un’altra cosa (che riguarda, lo ripeto, almeno il 70-80% della popolazione scolastica, non mi par poco!): una scuola abbassata, facilitata, non aiuta le classi medio-basse. Abbassare il livello culturale dello studio non è democratico, anzi, è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare e, grazie a fenomeni quali le lezioni private a gogò, ce la faranno sempre.

Bisogna rendere in grado i “poveri” (gli umili, gli svantaggiati, i ceti meno abbienti) di fare le scuole migliori. Rendere in grado! Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per 8 anni (5 di elementari e 3 di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose! Non farà né il liceo né l’università, un ragazzo, se non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso (profondo, sfumato, metaforico, ironico…) di quel che legge, e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato. Siamo stati noi a farne uno svantaggiato, uno che non parte uguale, che non ha le stesse opportunità iniziali. Siamo noi i colpevoli. Noi!

Ma non ho le prove.

Posso solo dire che questo ho visto, nella mia esperienza pluriennale di insegnante, soprattutto negli ultimi vent’anni, da inizio millennio a oggi.

Vorrei le prove. Vorrei che qualcuno mi dimostrasse, attraverso i dati, se ho ragione o no, se è vero che c’è anche questa componente a svantaggio degli svantaggiati, non solo l’estrazione sociale, l’handicap famigliare e ambientale, ma anche l’enorme buco di conoscenze e cultura di cui noi, come insegnanti e governanti, siamo drammaticamente responsabili.

 Vorrei che si riuscisse a mostrare che questa è una delle ragioni, se non la ragione principale, di quella che chiamiamo “dispersione scolastica”. Intanto, vorrei dire che i ragazzi “si disperdono” in vario modo: non solo abbandonando per sempre la scuola, ma anche cambiando scuola, essendo cioè obbligati a scegliere scuole degradate (i due anni in uno, le scuole online, o il professionale-tecnico invece del liceo). Ho visto, in questi anni, decine di ragazzi, miei allievi, che a metà anno erano costretti a lasciare la classe dove si trovavano benissimo, il liceo che avevano scelto, perché non ce la facevano, perché non avevano le basi: mai letto un libro, mai fatto grammatica, mai scritto un tema… Molti di loro avevano le lacrime agli occhi, lasciando i compagni e noi insegnanti. E tornavano poi ogni tanto a salutarci, negli anni successivi, con nostalgia, con un barlume di rimpianto.

Non è giusto. Non dovrebbe succedere. Dovremmo rendere tutti in grado di fare la scuola che vogliono. E invece cosa facciamo per questi ragazzi che noi abbiamo perduto? Corsi di orientamento e ri-orientamento! È questo il nostro ipocrita e fallace sostegno ai ragazzi che non ce la fanno, non troviamo altro modo di aiutarli se non depistandoli: ri-orientandoli!

E non è dispersione scolastica, questa? Tali ragazzi “si disperdono” altrove perché non hanno le basi per andare avanti, perché in prima liceo non sono in grado di capire un libro di testo, e non sanno niente di storia, geografia, matematica…. Eppure hanno fatto 8 anni di scuola. Non possiamo lasciarli uscire così impreparati dopo 8 anni di scuola! Allo stesso modo, all’università non sono in grado di affrontare gli esami (se non quelli più facili delle facoltà cosiddette deboli, la cui laurea però non li porterà purtroppo da nessuna parte), per cui s’iscrivono, arrancano un anno o due e poi mollano. Per questo mollano: per questa loro inadeguatezza cognitiva e culturale, che è il risultato delle scelte scriteriate che noi abbiamo compiuto nella scuola, soprattutto, lo ripeto, negli ultimi vent’anni. Mollano a causa della scuola che noi abbiamo deciso per loro, non è il colmo?

Sono solo mie impressioni, interpretazioni personali, illazioni? Può darsi. Volevo solo formulare un’ipotesi un po’ diversa sulla disuguaglianza, ecco.

Ma se mai ci fossero le prove che quel che dico è vero, sarebbe più che mai il caso di cambiare rotta e, affinché la scuola sia veramente per tutti, provare ad innalzare il livello degli studi, negli anni dell’obbligo scolastico, fin dalla prima elementare. Sarebbe nostro dovere, credo. Porgendo anche infinite scuse, ai ragazzi e alle loro famiglie.




Nuovi emigranti

Ha suscitato qualche preoccupazione il quadro dell’Italia dipinto da un recente rapporto dell’Ocse sullo stato dell’istruzione nelle società avanzate. Pur lodando riforme che qui suscitano minore apprezzamento, dal Jobs Act alla Buona scuola, l’Ocse mette il dito sulla piaga: da noi i laureati sono pochissimi (appena 1 giovane su 5), gli stipendi sono decisamente bassi, i disoccupati sono tantissimi, anche perché i giovani italiani si ostinano a laurearsi in discipline che hanno poco mercato, come la maggior parte di quelle umanistiche. E, comunque, in generale gli studenti italiani risultano molto indietro nei confronti internazionali (i famosi test PISA) in competenze critiche come lettura e matematica.

Di qui, sempre secondo l’Ocse, avrebbe origine il ristagno della produttività, del Pil e quindi dell’occupazione. Se il nostro paese non cresce, è perché si è instaurato un circolo vizioso fra la domanda delle imprese, che tiene in scarso conto i laureati, e l’offerta di lavoro, che risponde in modo bifronte: sempre meno giovani italiani proseguono gli studi oltre il diploma, sempre più sovente chi riesce a laurearsi sceglie l’emigrazione all’estero (la cosiddetta “fuga dei cervelli”). Una diagnosi da cui scaturisce la solita ricetta, cui nessuno si sente di obiettare: più istruzione, più istruzione, più istruzione, secondo il mantra coniato da Tony Blair giusto vent’anni fa (Education, education, education).

Premesso che si tratta di temi complicati, e che nessuno è in grado di ricostruire con certezza quali sono i meccanismi che governano le scelte dei giovani e quelle delle imprese, vorrei almeno insinuare qualche dubbio su questa diagnosi e sulla relativa terapia.

Il primo dubbio è questo: siamo sicuri che la stagnazione dell’economia italiana dipenda così strettamente dalla scarsità di figure professionali qualificate? Dico questo non solo perché, per circa mezzo secolo (dal 1945 al 1995), un ritardo in termini di istruzione ancora maggiore di quello di oggi non ha impedito all’Italia di crescere a ritmi molto elevati, superiori alla media dei paesi Ocse, ma perché sono talmente tanti e gravi i fattori diversi dalla bassa istruzione che secondo tutti gli studi azzoppano la crescita, dalle alte tasse sulle imprese a una burocrazia soffocante, che mettere sul banco degli imputati il cosiddetto capitale umano ha tutto il sapore di una forzatura, quasi un diversivo per non concentrarsi sui problemi veri, la cui soluzione richiede purtroppo interventi molto più radicali e dolorosi.

C’è anche un secondo dubbio, però. Se la qualità della nostra scuola è così bassa, come si spiega il fatto che tanto spesso i giovani italiani che emigrano all’estero intraprendano brillanti carriere e ottengano grandi riconoscimenti? E come conciliare il fatto che, quasi invariabilmente, i nostri studenti liceali che frequentano un anno di scuola all’estero, ritornano stupefatti per il basso livello degli studi dei loro coetanei stranieri?

Una possibile spiegazione è questa. La nostra scuola e la nostra università, oltre ad essere gravemente sottodotate di strutture materiali e organizzative, sono anche arretrate nei percorsi di studio, che restano relativamente tradizionali nei metodi (lezione frontale, studio teorico) e nei contenuti (programmi poco cambiati rispetto al passato). Questo certamente le svantaggia nei test PISA, che sono concepiti per sistemi scolastici più modernizzati, ma crea anche un curioso fenomeno di polarizzazione delle capacità. Da un lato, agli studenti che non hanno voglia o capacità di studiare, ma al tempo tesso non intendono rinunciare al pezzo di carta, è spessissimo offerta la possibilità di conseguirlo pur essendo sprovvisti delle conoscenze e competenze che quel diploma certifica. Dall’altro, agli studenti (ma più spesso: alle studentesse) cui piace lo studio (non più di 1 su 3, secondo la mia esperienza), è offerto un percorso che, specie nelle scuole del centro-nord, li può portare molto in alto nella padronanza delle materie che la scuola e l’università insegnano.

Un fenomeno, questo, di cui esistono indizi anche nei test Pisa, che mostrano un enorme divario fra gli apprendimenti delle scuole del sud e quelle del centro-nord, con le prime molto al di sotto della media Ocse, e alcune delle seconde un po’ al di sopra. Può accadere così che un laureato italiano che ha frequentato una buona università o politecnico, spesso collocato nel centro-nord, possa rapidamente trasformare in un vantaggio lo studio “troppo teorico” che ha compiuto in Italia, arricchendolo con le esperienze pratiche che il lavoro comporta (un percorso, sia detto per inciso, che è molto più difficile compiere il cammino a ritroso, colmando sul posto di lavoro basi teoriche insufficienti). Del resto, pure di questi percorsi esistono indizi statistici. Quando si parla della fuga dei giovani italiani all’estero, un fenomeno che è esploso in questi ultimi 10 anni, tendiamo a pensare a una massa di giovani con titoli di studio elevati: in realtà i laureati sono meno di 1 su 3, e provengono prevalentemente dalle regioni del centro-nord, quelle che secondo le statistiche hanno le scuole e le università migliori.

Ed ecco l’ultimo dubbio. Perché i giovani italiani hanno cominciato a fuggire all’estero? Le statistiche, e gli esperti, suggeriscono che la crisi, con la distruzione di due milioni di posti di lavoro, abbia avuto un ruolo importante. Ma l’esperienza diretta racconta anche un’altra storia: se quelli che se ne vanno sono spesso i migliori è perché il talento è l’unica risorsa che, in Italia, non si può spendere se non si ha anche un santo protettore, una rete di conoscenze, un’entratura nelle stanze che contano. E i nostri giovani questo l’hanno capito: un curriculum in Italia ha alte probabilità di essere cestinato, all’estero viene letto e preso in considerazione.

E’ forse questo, più che la mancanza di investimenti in istruzione, il male oscuro del nostro Paese.

Pubblicato su Panorama l’11 ottobre 2017



Nelle nostre università chi ricerca non trova

Non c’è pace a Firenze. Dopo i due carabinieri accusati di aver violentato due studentesse americane, ora sono finiti nel mirino della Procura di quella città alcune dozzine di professori universitari, accusati di aver manipolato dei concorsi e intimidito un candidato, invitandolo a non presentarsi.

Da quando la notizia si è diffusa, non passa giorno senza che qualche collega professore universitario (anch’io insegno, nel Dipartimento di Psicologia di Torino) intervenga sulla vicenda. Leggendo i loro articoli e le loro prese di posizione, però,  mi rendo conto che – quando si parla di università – ognuno di noi pare aver visto un film diverso. C’è chi, come il celebre fisico Carlo Rovelli, racconta di essere stato ripetutamente escluso dall’Università italiana, ma conserva un’immagine mitica e idealizzata del mondo dell’Università stessa (“una delle migliori del mondo”) e della popolazione cui si rivolge (“una delle più colte, intellettualmente brillanti e vivaci del mondo”). Dunque l’Università ha solo bisogno “di risorse e di fiducia”.

C’è chi, come Massimo Cacciari, forse proprio perché non ne è stato escluso affatto, e la conosce dall’interno, si sofferma sul mondo kafkiano di regole e procedure in cui siamo costretti ad operare, e denuncia la finzione dell’autonomia degli atenei, che autonomi non sono affatto.

C’è chi, come Alessandro De Nicola, critica (giustamente, secondo me) i rimedi suggeriti da Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, e ripropone la via maestra dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.

E infine c’è chi, come Elena Cattaneo (scienziata e senatrice a vita), si indigna e invita i ragazzi che aspirano a una carriera universitaria a ribellarsi, denunciando abusi e vessazioni, quasi fossero loro, con il loro coraggio e la loro dirittura morale, a poter cambiare l’Università e i suoi meccanismi.

E’ strano ma io, che lavoro all’Università dalla metà degli anni ’70, ho visto un altro film. Non è che non veda i problemi su cui i colleghi attirano l’attenzione, ma mi stupisco che così poca attenzione venga rivolta a due nodi che, almeno ai miei occhi e nei campi che mi è capitato di attraversare, sono molto più grandi di tutti gli altri.

Il primo nodo è che l’assenza di cultura meritocratica, nell’Università come nella maggior parte delle professioni intellettuali, è endemica, e sostanzialmente invariata rispetto a mezzo secolo fa. Gli episodi che ogni tanto vengono alla luce dalle rare inchieste della magistratura non sono dovuti a malversazioni di singoli professori, ma alla mentalità che da sempre circola nelle nostre istituzioni. Riassumerei questa mentalità con un semplice esempio. Quasi mai un professore, in Italia, perde la reputazione o il suo potere di influenza se mette in cattedra un mediocre, e neppure se promuove un perfetto imbecille.  E’ anzi abbastanza frequente che, proprio la capacità di promuovere chi non lo merita dimostri, agli occhi di molti colleghi, quanto potente egli sia. Un meccanismo, questo, che è sostanzialmente assente nelle grandi università degli altri paesi.

Quando si criticano i politici per le innumerevoli riforme sbagliate dell’Università si dovrebbe riflettere di più sul fatto che nessuna riforma può eliminare questa mentalità, e che viceversa basterebbe il declino di questa mentalità per rendere molto più meritocratiche le carriere universitarie. Insomma, nel film che ho visto io i professori sono protagonisti, non comparse incolpevoli vittime della cattiva politica.

Questo non vuol dire in alcun modo che la politica non abbia gravissime responsabilità nel disastro che ha colpito la scuola e l’università italiane. E qui veniamo al secondo nodo, di cui mi pare si parli troppo poco. In Italia, e solo in Italia, è stato messo in piedi un meccanismo di valutazione della produttività scientifica semplicemente aberrante, anche se basato su buone, anzi buonissime intenzioni (evitare gli arbitri). Ed è da tale meccanismo che dipendono le carriere dei giovani ricercatori.

Per spiegare ai non addetti ai lavori in che cosa questo meccanismo consista faccio un esempio. Ricordate Nadia Comăneci, la giovanissima ginnasta rumena che vinse innumerevoli medaglie negli anni ’70? Come si sa la carriera di una ginnasta dipende dai punteggi che le assegnano i giudici. Ebbene, immaginate che, dieci anni prima dei successi di Nadia, il ministro dello sport rumeno, per evitare favoritismi nelle assegnazioni dei punteggi, avesse sentenziato: “dato che i punteggi sono frutto di giudizi soggettivi, stabiliamo regole certe, assolutamente oggettive e impersonali: vince chi conclude l’esercizio nel tempo più breve”. E’ facile immaginare che nessuna ginnasta sarebbe diventata come Nadia Comăneci, e la sua disciplina avrebbe subito un’involuzione, per cui sgraziate fanciulle diventano abilissime nella particolare abilità che viene misurata e premiata.

E’ quel che sta succedendo all’Università italiana: poiché ogni ambito fissa minuziosamente le regole di valutazione, stiamo spegnendo ogni genuino interesse per gli interrogativi importanti della ricerca, e stiamo incentivando legioni di giovani a diventare macchine per massimizzare il criterio oggettivo su cui saranno giudicati (pubblicare su certi argomenti, certi tipi di lavori, in certe riviste, ecc.). Conosco persone che, non avendo ancora perso il gusto per la ricerca, allocano metà del loro tempo a fare “vera ricerca” e l’altra metà a pubblicare selvaggiamente cose che ritengono banali o irrilevanti ma che servono a non essere completamente esclusi dai percorsi di carriera.

E’ il caso di notare che questa aberrazione non investe solo i concorsi universitari, ma anche l’insegnamento nelle scuole. Proprio il fatto che studenti e insegnanti sappiano ex ante e con precisione in base a quali criteri verranno giudicati (in quale materia, in base a quali test) sta incentivando le pratiche del cosiddetto “teaching for the test”: preparare gli studenti non già a padroneggiare un campo del sapere, ma a superare un tipo particolarissimo di prove (ad esempio i test Invalsi).

Ma il punto è che è il principio in quanto tale che non funziona, non la sua cattiva o inadeguata applicazione. Se in un’attività complessa, in nome dell’oggettività, si viene giudicati solo in base a un suo aspetto particolare e quantificabile, quell’attività – alla lunga – non può non cambiare natura, impoverendosi e banalizzandosi.

Per concludere: checché ne pensino i magistrati e il pubblico, il nuovo sistema ha fortemente ridotto l’arbitrio nei concorsi; i casi come quello di Firenze sono molto più rari di un tempo. Il problema è che, per contenere l’arbitrio dei commissari dei concorsi, si stanno distruggendo le condizioni di base della ricerca, che deve essere libera, aperta, e sganciata dall’utile immediato. Una scelta sciagurata della politica, cui però la maggior parte del mondo universitario, negli ultimi dieci anni, ha trovato abbastanza facile adattarsi. Ancor oggi mi chiedo perché.

Pubblica su Panorama il 5 ottobre 2017



Selezionare i migranti per contrastare la povertà

A seconda di come la si guarda, la storia economica di questi ultimi 10 anni si presenta con due facce opposte.

Il dato più confortante, a mio parere, è che nel corso del 2107, finalmente, la percentuale di famiglie in difficoltà è finalmente scesa più o meno al livello del 2007, ossia al livello pre-crisi. Per “famiglie in difficoltà” non intendo le famiglie povere (qualsiasi cosa si intenda per povero) bensì le famiglie che, alla fine del mese, sono costrette ad attingere ai risparmi o fare debiti. Questo insieme di famiglie, che storicamente si colloca fra il 10 e il 15% del totale, aveva raggiunto la cifra record del 30-35% nella fase acuta della crisi (2012-2013), ma dal 2014 è costantemente e regolarmente diminuito, fino a dimezzarsi rispetto al picco del biennio 2012-2013: oggi sono circa il 15% del totale, 1 famiglia su 7.

A questa recente diminuzione hanno contributo, a mio parere, soprattutto tre fattori. Il primo è la ripresa del Pil. Il secondo è la politica dei bonus (80 euro e incentivi alle assunzioni). Il terzo è l’accresciuta capacità delle famiglie di fronteggiare la diminuzione del potere di acquisto sfruttando la moltiplicazione delle promozioni e delle offerte di prodotti gratuiti (o apparentemente gratuiti). Quest’ultimo fattore può apparire marginale, o strano, ma lo è meno di quel che sembra se riflettiamo sul fatto che il peso delle famiglie che quadrano il bilancio, o addirittura risparmiano, è tornato ad essere quello di 10 anni fa, mentre il potere di acquisto pro capite è ancora abbondantemente al di sotto dei livelli pre-crisi (-10%). Forse a fronte di un minore potere di acquisto teorico (quello calcolato dall’Istat), le famiglie hanno messo in campo strategie di spesa più attente e sofisticate.

Tutto bene dunque, almeno dal punto di vista delle famiglie?

Non esattamente. Accanto a questo dato positivo, infatti, ve n’è un altro che appare di segno opposto: il numero dei poveri è aumentato. Per l’esattezza è quasi triplicato in 9 anni, dal 2007 al 2016. E anche negli ultimi 3-4 anni, con la ripresa del Pil e dell’occupazione, ha continuato ad aumentare, sia pure di poco. Nel 2007 gli individui che vivevano in povertà erano meno di 2 milioni, oggi sfiorano i 5: come è possibile, visto che la percentuale di famiglie in difficoltà è tornata ai livelli pre-crisi?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto sgomberare il campo da un dubbio: per poveri intendiamo i poveri veri e propri, ossia coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di sussistenza (definita dall’Istat), e non una delle numerose definizioni allargate di povertà, quelle che – secondo Kenneth Minogue – i governanti continuamente producono per giustificare il proprio ruolo, ovvero il crescente intervento dello Stato per combattere la povertà stessa (Breve introduzione alla politica, IBL Libri 2014).

Dunque i poveri, i veri poveri, sono molti di più di 10 anni fa, e sono (leggermente) aumentati anche mentre il numero di famiglie in difficoltà diminuiva. Come è possibile?

Una prima risposta è che, se quasi tutte le famiglie povere risultano in difficoltà, non tutte le famiglie in difficoltà sono povere: una parte non è affatto povera, semplicemente spende più di quel che guadagna. E’ questo, verosimilmente, il segmento sociale che più ha beneficiato della ripresa e della politica dei bonus, una politica che ha lasciato a bocca asciutta i veri poveri, ovvero quanti, o perché inoccupati, o perché disoccupati, o perché occupati precari, irregolari o a basso reddito, non guadagnavano abbastanza per pagare le tasse e quindi usufruire del bonus (che, lo ricordiamo, non è un assegno, ma uno sgravio fiscale).

C’è però anche una seconda risposta possibile, forse più inquietante. Se andiamo a vedere chi sono i poveri oggi in Italia, scopriamo che quasi il 40% di essi sono stranieri, e che negli ultimi 4 anni questa quota è molto aumentata (prima del 2013, sfortunatamente, mancano i dati). Se poi andiamo a vedere come è cambiato il tasso di occupazione negli anni della crisi, scopriamo che quello degli italiani è diminuito, ma quello degli stranieri ha subito un vero e proprio crollo, molto più accentuato di quello degli italiani. In poche parole: l’aumento della povertà negli ultimi anni è interamente dovuto alla componente straniera, mentre la componente italiana è in sia pur lenta diminuzione. Ed è forse significativo che questo aumento del numero di stranieri poveri si sia prodotto negli ultimi 4 anni, ossia proprio nel periodo che ha visto un flusso senza precedenti di richiedenti asilo e migranti economici, con strutture di accoglienza chiaramente non all’altezza della situazione.

Difficile sottovalutare l’importanza di questi dati in vista delle prossime elezioni, in cui certamente temi come le politiche di contrasto alla povertà e il reddito di cittadinanza la faranno da padroni. Da questa analisi è infatti possibile trarre due ordini di conclusioni opposte.

Per alcuni l’aumento degli stranieri poveri dimostra soltanto che l’accoglienza non funziona se non è accompagnata da politiche di integrazione e di inserimento dei migranti.

Per altri dimostra invece che l’accoglienza genera povertà, e che le future politiche di sostegno del reddito rischiano di dirottare la maggior parte delle risorse sugli immigrati, a tutto discapito dei cittadini italiani.

Comunque la si pensi, una cosa è certa: dopo 10 anni di crisi, il problema della povertà e quello dell’immigrazione non possono più essere tenuti distinti. Di qui un dilemma, su cui gli elettori saranno chiamati a scegliere: o mobilitare sempre maggiori risorse pubbliche per sostenere il reddito degli immigrati poveri, o rendere molto più selettive le politiche di accoglienza, chiudendo le porte a chi non è in grado di sostentarsi.

Pubblicato da Il Messaggero