I già contagiati sono 10 milioni. Intervista di Alessandra Ricciardi a Paolo Gasparini

Riproponiamo l’intervista di Alessandra Ricciardi a Paolo Gasparini, ordinario di genetica all’Università di Trieste, pubblicata il 15 aprile 2020 su ItaliaOggi.

I già contagiati sono 10 milioni




Contagion. Come si esce vivi da un film catastrofico?

Facciamo un gioco.
“Stiamo analizzando l’efficacia di molti farmaci. Ma finora la nostra migliore difesa è il distanziamento sociale. Evitare strette di mano, stare a casa se ci si ammala, lavarsi spesso le mani”.
Chi ha detto questa frase?
Borrelli nella conferenza stampa delle 18? Franco Locatelli del CSS? Il presidente Conte?
No. L’ha detta Laurence Fishburne nel 2011, interpretando il dottor Cheever nel film “Contagion” di Steven Soderbergh.
La battuta l’ha scritta Scott Z.Burns, autore della sceneggiatura, ed è perfettamente realistica, come quasi tutto il resto.
In “Contagion”, una pandemia che arriva da un pipistrello di Hong Kong fino all’uomo miete qualche milione di vittime tutto il mondo. La dinamica di trasmissione, i dialoghi tra i medici, l’armamentario di mascherine e guanti sembra uscito dalle cronache del 2020.
Preveggenza?
Ovviamente no, solamente cinema ben fatto. All’epoca Soderbergh e Burns si sono avvalsi della consulenza di Ian Lipkin, celebre virologo del Center for Infection and Immunity della Columbia University, che si è limitato a immaginare ciò che era perfettamente immaginabile.
Qualche giorno fa Ian Lipkin ha annunciato di aver preso il Coronavirus.
Una bizzarra e crudele forma di contrappasso: è come se una fantasia fosse arrivata a vendicarsi di chi l’ha pensata.
La cosa interessante però non è notare le somiglianze tra “Contagion” e la realtà, quanto vedere le differenze.
Una su tutte. Nel film, intorno al giorno 30 dall’inizio della pandemia, esplodono violente tensioni sociali. Rivolte, incendi, saccheggi, vetri in frantumi, supermercati assaltati.
Immagino le riunioni di sceneggiatura tra Soderbergh e Burns, e ammetto che non so come dare loro torto su quella scelta. Era uno scenario perfettamente credibile.
Però nella realtà non è successo.
Fino ad ora, la risposta della comunità alla più grande emergenza degli ultimi ottanta anni è stata più composta, più pacifica, più riflessiva di come più o meno tutti avremmo potuto immaginare.
Abbiamo avuto la prova, casomai ce ne fosse bisogno, che i cattivoni da film catastrofico pronti a prendere d’assedio tutti e tutto non ci sono, o se ci sono sono pochi.
Le persone, tutte, reagiscono in funzione dei loro bisogni: assaltano i supermercati solo se non hanno più nessuna alternativa, e quindi, più che immaginare sempre le colpe degli altri, sarebbe il caso di darla, una alternativa, prima che la predizione di “Contagion” possa, alla fine, farsi reale.
Cosa vuol dire “dare un’alternativa”?
Non vuol dire riaccendere la macchina il prima possibile, rimandare tutti a lavorare prima del dovuto, questo lo abbiamo capito.
Il tempo della medicina è quello che comanda, ed è un tempo lento e tirannico, che non concede sconti nemmeno a chi è abituato a fare ciò che vuole con le vite degli altri.
E’ una occasione da cogliere, questa revisione delle priorità. Da troppi anni ci è stato raccontato che la produzione è un dogma indiscutibile, che è un valore in sé, che prescinde dalla qualità della vita di chi lavora nel nome del bene supremo dell’aumento della ricchezza.
Non ci si può fermare. E’ impossibile, impensabile.
Beh, ci si è fermati.
Il Coronavirus ha scassato il giocattolo.
E ora si chiede agli stati, che nel paradigma pre-pandemia il mercato voleva sempre più deboli e asserviti a logiche economiche, di tornare forti.
Si chiede agli stati di assistere e sostenere, di immaginare un futuro e governarlo. Si chiede insomma agli stati di fare quello che, in tempi di crisi, il mercato non riesce a fare.
Lo stesso mercato che ha rotto gli equilibri, che ha squarciato il tessuto sociale, che ha creato sacche di povertà e disparità inimmaginabili solo pochi decenni fa, ora chiede a qualcun altro di raccogliere i cocci.
Ma il danno era già lì. Se non ci si poteva fermare era perché si stava correndo troppo veloce, evidentemente.
Sarà il caso che i governi, e gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Europa, raccolgano questo invito.
L’alternativa è l’assalto ai supermercati, e sarebbe un assalto con delle buone ragioni.
Sarà il caso che la politica raccolga questo invito a tornare centrale nelle vite delle persone, ma per farlo deve avere una visione.
Lo stato di ansia ci spinge a sperare che tutto torni come prima il più in fretta possibile.
E’ comprensibile, perfino sano. Una normale reazione al dolore.
Ma non è a prima che bisogna tornare.
Il “prima” è ciò che ha generato tutto questo.
Se la reazione si ridurrà a prestare un po’ di soldi alle imprese perché la macchina riparta più o meno com’era, rabberciata e zoppicante, alla lunga da questa crisi usciremo soltanto tutti ancora più poveri e più fragili.
Se invece coglieremo l’occasione per creare un mondo più equo, forse, nel dramma, almeno questo maledetto morbo sarà servito a qualcosa.
Perché, vista da qui, mentre la gente muore, la realtà com’era anche solo sei mesi fa sembra meravigliosa.
Ma è una illusione ottica.
Il mondo non era un granché nemmeno prima. Non dimentichiamocelo.




Umbria e Basilicata: la lepre e la lumaca nella lotta al Coronavirus

(il termometro della Fondazione Hume regione per regione)

Da lunedì 6 aprile la Fondazione David Hume inizia la pubblicazione di un bollettino settimanale sull’andamento dell’epidemia nelle 19 Regioni italiane e nelle 2 Province autonome di Trento e Bolzano.
Il bollettino settimanale sulle Regioni e Province si affianca al bollettino giornaliero sull’Italia nel suo insieme, che esce ogni giorno alle 20 sul sito della Fondazione, nonché, alla medesima ora, nell’ambito del telegiornale di La7.
Entrambi i bollettini forniscono una valutazione dell’andamento dell’epidemia mediante un nuovo indice sintetico e intuitivo. L’indice si legge come una temperatura, e misura la velocità di propagazione del contagio su una scala che va da 42° (epidemia galoppante) a 37° (epidemia sostanzialmente arrestata).

Risultati dell’ultima settimana. Nel corso della settimana che va da lunedì 6 aprile a lunedì 13 aprile la temperatura dell’epidemia è scesa nella maggior parte delle regioni.
Sei sono invece le regioni che registrano una tendenza all’aumento: Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Friuli V.G., Piemonte e Molise.

Se consideriamo le tendenze più recenti, ovvero gli ultimi due giorni della settimana, la regione con la temperatura più bassa (ossia con la dinamica del contagio più lenta) è risultata l’Umbria, quella con la temperatura più alta (ovvero con la dinamica del contagio più pronunciata) è stata la Basilicata.
Oltre all’Umbria, anche altre cinque regioni mostrano un andamento migliore di quello dell’Italia nel suo insieme: Calabria, Marche, Lombardia, Sardegna e Campania.
Per questa settimana la regione-lepre (la più rapida nella corsa ai 37 gradi) è l’Umbria, che ha già raggiunto 37.0.
La regione-lumaca (la più lenta) è la Basilicata, con 38.6.
Questa settimana, nessuna regione ha più di 40 di febbre.

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Appendice

Riportiamo, di seguito, i diagrammi dell’evoluzione settimanale della temperatura nelle 21 Regioni e Province.




Coronavirus, come stanno andando le cose

(bollettino di martedì 14 aprile, ore 20.00)

A partire da lunedì 30 marzo 2020 la Fondazione David Hume rende pubblico quotidianamente (alle ore 20.30) un nuovo indice sintetico utile per capire come sta procedendo l’epidemia di Coronavirus (per maggiori dettagli vedi oltre).

Risultati
Oggi (martedì 14 aprile), per la prima volta da 20 giorni, la temperatura, anziché scendere o rimanere costante, è salita, portandosi da 37.6 a 37.7.

Di per sé una risalita di 1 linea non sarebbe preoccupante, perché è perfettamente possibile che, in un processo di raffreddamento tendenziale dell’epidemia, ci siano piccole pause e persino lievi passi indietro, come quello di oggi. Il problema è che il trend non è più di raffreddamento, come nelle settimane scorse, ma è di sostanziale stagnazione: la temperatura di oggi (37.7) è la stessa di 3 giorni fa.
Alla base di questa inattesa inversione di tendenza vi sono soprattutto i decessi e i ricoveri ordinari: più nuovi morti rispetto a ieri (602 contro 566), interruzione del processo di riduzione dei ricoveri ordinari.
La riduzione settimanale della temperatura (da martedì a martedì) è di sole 2 linee, mai così modesta da quando è iniziata la nostra rilevazione.

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APPENDICE. Il progetto “Temperatura Italia”

A partire da lunedì 30 marzo 2020 la Fondazione David Hume pubblica su questo sito, entro le ore 21, un nuovo indice sintetico che misura la velocità di espansione dell’epidemia. L’indice si basa sui dati comunicati poche ore prima dalla Protezione Civile, ma li rielabora per renderli più stabili e più agevolmente interpretabili.

 Perché abbiamo pensato a un nuovo indice

 L’idea di costruire un indice quotidiano è nata dalla nostra profonda insoddisfazione sia per la natura dei dati della Protezione Civile, sia per il modo in cui essi vengono quotidianamente comunicati e commentati.

A nostro avviso i principali difetti dei dati sono due:

  1. la variazione giornaliera del numero di positivi al test è scarsamente informativa (e spesso fuorviante), perché pesantemente influenzata dal numero di tamponi;
  2. tutte le variazioni giornaliere (non solo quella del numero di positivi) risentono gravemente dei ritardi nella trasmissione e registrazione dei dati.

In sostanza: non è possibile capire se le variazioni osservate riflettono la realtà o le politiche e le procedure messe in atto (quanti tamponi fare, quando trasmettere i dati).

L’indice sintetico di “temperatura” della Fondazione Hume, che misura la temperatura del paziente Italia (ossia l’avanzata dell’epidemia), è costruito per minimizzare l’impatto di questi difetti.

A questo scopo l’indice di temperatura utilizza esclusivamente le tre serie più affidabili e informative (ricoverati con sintomi, ricoverati in terapia intensiva, deceduti) e calcola il tasso di crescita in modo poco sensibile alle fluttuazioni nel processo di trasmissione dei dati.

Come si legge l’indice

L’indice ha una interpretazione estremamente semplice e intuitiva, essendo costruito come un comune termometro che misura la febbre (del malato Italia, nel nostro caso), su una scala da 37 a 42 gradi. Una temperatura di 42° indica che l’epidemia sta galoppando a una velocità assai alta (15% al giorno), come di solito accade solo nelle fasi iniziali di un’epidemia. Una temperatura di 37° gradi indica che l’epidemia è sostanzialmente sopita, perché la velocità di crescita è prossima a zero.

La velocità tendenziale viene ricalcolata ogni giorno, tenendo conto dell’andamento delle ospedalizzazioni e dei decessi degli ultimi tre giorni.




7 domande senza risposta

Supponiamo che a un certo punto, speriamo presto, vi siano buoni motivi per pensare di essere vicini alla meta di nuovi contagi-zero. In sostanza significherebbe che, con i sacrifici dei cittadini, si è arrivati ad avere pochissimi nuovi contagiati ogni giorno (nessun nuovo contagiato è ovviamente impossibile, nel breve periodo).

Bene, a quel punto la pressione di tutti, famiglie e imprese, per ripartire diventerebbe fortissima. Ascolteremmo discorsi del tipo: noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso lasciateci tornare a vivere e a lavorare.

Supponiamo anche, giusto per stare sul concreto, che quel giorno sia fra 3 settimane, ovvero ai primi di maggio.

Ebbene, a quel punto potremmo riaprire?

La risposta è che questo non dipende da noi comuni cittadini ma dipende dai nostri governanti. Se loro avranno fatto la loro parte, i nostri sacrifici non saranno stati vani. Ma se invece non l’avranno fatta, sarà perfettamente inutile quel che abbiamo patito fin qui perché l’epidemia ripartirà. Prima a macchia di leopardo, con pochi e piccoli focolai un po’ in ogni parte d’Italia, poi alla grande, quando i nuovi focolai si espanderanno, più o meno come è già successo dalla fine di febbraio.

Ecco perché dobbiamo farci la domanda: ma loro sono pronti? Hanno fatto i compiti?

E’ una domanda che, meritoriamente, alcuni mezzi di informazione pongono, e ripropongono quotidianamente, a politici e funzionari quando li interrogano su cose come tamponi, mascherine, test sierologici, ma è anche una domanda cui seguono balbettamenti, frasi involute, vaghe intenzioni, riflessioni e valutazioni che sarebbero in corso, rivendicazioni di quel che si è fatto, ma nessuna chiara e univoca risposta, in un frastuono di voci ora confuse, ora discordanti.

Eppure è la domanda cruciale: siete pronti? Se oggi fossimo a contagi zero sareste in condizione di gestire la fase due?

Quel che si è capito fin qui è che loro non sono affatto pronti. Perché se lo fossero ci direbbero cose come quelle che seguono.

  1. Ci siamo approvvigionati, ci sono mascherine per tutti, abbiamo calcolato che ce ne vogliono 100 milioni al giorno (almeno 2 a testa), le farmacie sono rifornite.
  2. Di tamponi ne facciamo ancora pochi, ma entro la settimana prossima arriveranno tamponi e reagenti, e saremo in grado di farne 500 mila alla settimana come la Germania.
  3. Abbiamo deciso di rinunciare al monopolio pubblico dei test, da oggi chiunque lo desideri può sottoporsi a tamponi e test sierologici in una struttura privata, o mediante prelievi a domicilio; episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori, non si ripeteranno più.
  4. E’ pronta una app per il tracciamento dei contatti, ed è già operativa una task force di 5000 persone che ricostruirà i contatti di ogni caso risultato positivo.
  5. Ci sono 10 mila posti, in alberghi e strutture para-ospedaliere, pronti ad accogliere chi non può passare la quarantena a casa perché rischia di infettare i familiari.
  6. L’Istat sta svolgendo un’indagine a campione in tutto il territorio nazionale, entro una settimana avremo i dati fondamentali per governare l’epidemia, a partire da quelli sul numero di asintomatici e pauci-sintomatici.
  7. Abbiamo deciso di de-secretare i micro-dati (anagrafici e clinici) dell’Istituto Superiore di Sanità sui positivi, per permettere agli studiosi di dare il loro contributo alla comprensione dell’epidemia.

Sfortunatamente, di rassicurazioni di questo tipo non v’è la minima traccia.

Ecco perché, da oggi in poi, noi ve lo chiederemo sempre. Abbiamo preparato 7 domande, una per ciascuno dei 7 punti precedenti, e le ripeteremo periodicamente, per fare il punto, e sapere se avete fatto progressi, e a che punto siete. Potete non risponderci, ma la vostra non-risposta sarà più eloquente di qualsiasi risposta.

Noi cittadini, la nostra parte la stiamo facendo. Ora tocca a voi, che vi siete presi i pieni poteri per gestire l’epidemia, dimostrarci che state facendo la vostra.

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Bozza di questionario

1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
2. Quanti tamponi al giorno, al momento, è in grado di effettuare la Sanità Pubblica?
3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone (oltre ai 74 esperti), finora, sono state reclutate a questo scopo?
5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2020