Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018



Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018



La linea d’ombra dell’esperienza

A proposito della mania attuale dell’ “autorealizzazione”, e delle riflessioni di Luca Ricolfi sulla volontaria sequestrata in Kenya (Silvia Romano), vorrei aggiungere qualcosa. 

Anzitutto una premessa. Può darsi che da quella scelta derivassero alla ragazza gratificazioni  particolari, e che da essa venisse nutrito il suo narcisismo. Per rispetto verso Silvia Romano bisognerebbe però riconoscere una cosa. Il solo fatto di far coincidere autorealizzazione e altruismo, piacere e sacrificio di sé, abnegazione e vanità, mi sembra comunque una conquista altissima, che evita tra l’altro qualsiasi approccio moralistico alla morale (la benevolenza è almeno altrettanto naturale e “gratificante”dell’ aggressività).

Mi soffermo però sull’aspirazione universale –  che caratterizza il nostro presente –  alla felicità personale e appunto all’autorealizzazione (a tutti i costi),  sulla ossessione della creatività. Si ritiene infatti che esista un diritto alla creatività e al talento: tutti poeti, come volevano i surrealisti! Tutti romanzieri! Tutti virtuosi del clarinetto! E invece il talento è distribuito in modo disuguale. Dio è tendenzialmente di destra. Dunque quella aspirazione, essendo perlopiù disattesa, genera frustrazione e invidia. In altre epoche e in altre civiltà si accoglie serenamente il proprio destino, si accetta la parte –  sia pure essa “mediocre” –  che il caso ci ha assegnato. Non ci si sente tutti artisti incompresi, vittime di qualche complotto. Che fare? Dobbiamo auspicare  l’amor fati degli stoici o magari una rassegnazione   alla provvidenza, come la Lucia manzoniana? Suggerisco due risposte possibili.

La prima è tentare di vedere la “creatività” là dove uno di solito non la cerca,  magari in una nostra attività anonima, silenziosa, fuori dai riflettori. Una volta Borges dichiarò di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto!  Non sarà ricordato nelle storie letterarie per questo. Eppure era orgoglioso dei libri letti. Bisognerebbe contribuire a diffondere modelli diversi di creatività.  Rivalutare la creatività che si manifesta come passività ricettiva, come attività  appartata,  ad esempio come gusto di un lavoro ben fatto, di una soluzione ingegnosa a un problema pratico, etc. (anche senza che ci siano spettatori o testimoni). E passo al secondo punto, che riguarda l’esperienza.

Nella Linea d’ombra di Conrad il giovane al suo primo comando scopre che la “realtà” non si trova lì dove se l’aspettava. L’esperienza vera non è infatti sfidare tifoni e tempeste – e passare alla Storia -, esponendosi  intrepidamente a qualche prova eroica (un po’ troppo pianificata e in fondo “letteraria”), ma sopportare 21 giorni di imprevista, prosaica  bonaccia, senza cedere alla follia. L’esperienza vera non coincide tanto con l’avventura spettacolare, con l’Impresa di Fiume,  quanto  con la esperienza della nostra sostanziale impotenza di fronte alla realtà. La maturità per Conrad consiste precisamente in questo: accettare la noia, l’opacità  e il vuoto che sono parte dell’esistenza (senza perdere la testa),  elaborare volta a volta strategie adattive  di fronte agli eventi, saper attendere e  soprattutto però tenersi pronti, cogliere l’occasione che anche la situazione più sventurata può implicare.




Una riflessione controcorrente sulla Prima Guerra Mondiale

Negli articoli e saggi scritti durante gli anni della grande guerra, Max Weber, così giustificava lo scatenamento del conflitto da parte della Germania imperiale: «Un popolo di 70 milioni di abitanti, posto tra le potenze conquistatrici del mondo, aveva il dovere di diventare uno stato di grande potenza. Dovevamo essere una grande potenza, e per poter far sentire anche il nostro peso nelle grandi decisioni del mondo, dovevamo arrischiare questa guerra. Avremmo dovuto farlo anche se avessimo potuto temere di soccombere. L’imponeva l’onore del nostro patrimonio etnico-culturale. Non è in gioco solo la nostra esistenza. Solo l’equilibrio reciproco delle grandi potenze garantisce la libertà dei piccoli stati. Se non avessimo voluto arrischiare questa guerra, ebbene, allora avremmo potuto rinunziare alla creazione del Reich e avremmo potuto continuare ad esistere come un popolo di piccoli stati».

Oggi queste sembrano a noi «parole di colore oscuro». Se pensiamo all’inferno delle trincee—evocato in film come Orizzonti di gloria di S. Kubrick o La Grande guerra di M. Monicelli—alle devastazioni di territori un tempo fertili, alle vittime di strategie militari che sottovalutavano la potenza delle nuove tecnologie, alle lacerazioni sociali, morali e culturali di un  dopoguerra che vide la nascita di opposti totalitarismi e di movimenti politici radicali responsabili, col terrore, di carneficine quantitativamente ben superiori a quelle belliche, alla irrimediabile finis Europae e all’ascesa di Grandi Potenze extraeuropee, ci è difficile non dare ragione al Papa che, nel 1917, avrebbe voluto mettere fine all’«inutile strage». Sennonché, come ha avvertito Rosario Romeo, uno storico la cui altezza d’ingegno era pari soltanto alla sua probità morale, col metro di Benedetto XV, non si comprende il passato. In una visione ispirata all’assolutismo etico, non solo la Prima Guerra Mondiale ma «le rivoluzioni nazionali del ’48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate», diventano inutili massacri. Anzi  l’intera vicenda umana finirebbe per «apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi  nei quali idea­li interessi e aspirazioni del nostro presente vengono as­sunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che  non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di al­tri interessi aspirazioni ed ideali». L’unico scienziato politico italiano che si sia occupato dell’azzardo del 1915, Gian Enrico Rusconi, è arrivato a conclusioni non dissimili. «È tempo, ha scritto, di riprendere e rivisitare i paradigmi classici della politica’ e della guerra e di ripercorrere con essi il processo decisionale che ha portato l’Italia dentro alla ‘ca­tastrofe originaria’ del secolo passato — mentre poteva non entrarci o entrarci in altro modo. Per noi oggi è facile criticare la predominanza dei paradigmi dello ‘stato di potenza’ che influenzano il ceto dirigente italiano del 1915, soprattutto quando si esprimono in modo esclusivo nella dimensione militare. Ma non possiamo proiettare antistoricamente i nostri attuali criteri di giudizio etico-politico—che si sono formati proprio sulle esperienze negative di quel passato—in contesti politici che vanno giudicati secondo altri criteri.».

Riportandoci ai “contesti”, la “guerra civile europea” non nacque da impulsi irrazionali e tribali ma da logiche specifiche e tipiche del tempo, da un ‘gioco del potere’ finito in maniera catastrofica per vinti e per vincitori apprendisti stregoni incapaci di tenere sotto controllo un rischio che si voleva calcolato. Non pertanto le loro motivazioni erano campate in aria. E ciò valeva non solo per la Germania che, nel 1913, avendo superato come potenza industriale, l’Inghilterra, rimasta tuttavia signora degli Oceani, se ne sentiva il fiato sul collo ma anche per l’Italia. Come rilevò il principe della storiografia liberale britannica, George Macaulay Trevelyan, che aveva trascorso più di tre anni al fronte italiano: la nazionalità d’Italia era «incompleta, e la sua indipendenza politica minacciata». Perciò essa doveva unirsi alla guerra comune contro quella Potenza che, vincendo, avrebbe «distrutto la sua indipendenza e che da lungo tempo» aveva «minato con la pene­trazione pacifica le fondamenta della sua «nazionalità incompleta». Non a caso «gli idealisti della Penisola, quasi senza eccezione, divennero il partito della guerra, poiché videro nella guerra contro le Potenze Centrali l’unica via per salvare l’indipendenza, le tradizioni, l’anima della Patria».

Anche per l’Italia valeva la domanda: quale senso avrebbe avuto l’unificazione delle sue membra sparse se non si fosse tradotta nell’accesso al club di Stati che decidevano i destini del mondo? Protesa nel Mediterraneo, la penisola sarebbe rimasta terra di conquista per i paesi affacciati sul mare nostrum ¸tirata da una parte o dall’altra da quanti non avrebbero esitato a seminar zizzania e a resuscitare i vecchi “partiti” o, meglio i vecchi partigiani di questo o quel governo straniero.

È fuori di dubbio che l’Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare senza il tuono dei cannoni di agosto, ma il fatto è che la conflagrazione era scoppiata e che si trattava per le sue classi dirigenti di decidere su quale piatto della bilancia porre il suo peso decisivo. Per Gaetano Salvemini, storico insigne e interventista convinto, la vittoria degli Imperi Centrali avrebbe ridotto il paese a stato vassallo e va ricordato che del suo avviso era gran parte della società civile colta.

Oggi ripeto quel mondo—eserciti, “peso determinante”, egemonie politiche, zone mediterranee d’influenza– ci è divenuto del tutto estraneo: abbiamo messo tanti fiori nei nostri cannoni da renderli irriconoscibili. E tuttavia, a ben riflettere, siamo diventati devoti della Dea Pace e della Dea Umanità perché non siamo più noi a dover sopportare il peso della difesa e degli armamenti né siamo più in grado di condizionare gli eventi e le relazioni internazionali. È come se la perdita netta di potere—dovuta alla catastrofe bellica—ci avesse privato della facoltà di intenderne la dura necessità. Una felice incoscienza in un sistema internazionale bipolare ma sempre più pericolosa nel mondo dei Trump, dei Putin, dei Xi Jinping, dei Ram Nath Kovind, leader di stati continentali oceanici che giocano oggi le partite che ieri furono mortali per la vecchia Europa.

Pubblicato su Il Giornale del 29 novembre 2018



Abusi edilizi del nonno, difendo Luigi Di Maio

Del populismo mi piacciono due cose soltanto: lo sforzo di usare un linguaggio comprensibile, e il rispetto per i sentimenti della gente comune. Tutto il resto, a partire dalla politica economica e sociale, mi lascia perplesso, non saprei dire se di più o di meno di quanto mi lasciassero perplesso le gesta dei governi precedenti, che molto hanno contribuito, insieme ai nostri comportamenti quotidiani, a portare l’Italia nella palude in cui tuttora si trova.

La mia lontananza dalle idee sovraniste e populiste, tuttavia, non mi impedisce oggi di dire una cosa: il trattamento che una parte del mondo dell’informazione, e in particolare i media schierati con l’opposizione, hanno riservato a Luigi Di Maio (per la vicenda di un abuso edilizio sanato con un condono) non è degno di un paese civile. Anzi, vorrei dire di più: non è degno di un paese occidentale moderno, e meno che mai di una democrazia liberale.

Non che Di Maio sia l’unica vittima, naturalmente. E’ successo a decine di politici di essere messi alla gogna per presunti illeciti compiuti dai loro familiari. Recentemente è capitato a Maria Elena Boschi per le condotte del padre in banca Etruria, e a Matteo Renzi, anche lui per affari sospetti del padre. Ma, a mia memoria, mai era successo che un politico venisse crocefisso per un illecito (in materia edilizia) compiuto da suo nonno mezzo secolo prima, sanato da suo padre prima che il malcapitato uomo politico di oggi fosse venuto al mondo. Un quotidiano arriva ad accusare Di Maio di non aver tenuto gli occhi ben aperti quando, 12 anni fa, il padre ricevette comunicazione che la domanda di condono – da lui inoltrata venti anni prima – era stata finalmente accolta.

Eppure, più che aberrante, questa vicenda è molto istruttiva. Essa ci permette, infatti, di accorgerci di quanto radicalmente la nostra società e, dentro di essa, il mondo della comunicazione, si siano allontanati dai principi liberali che per tanti decenni sono stati alla base delle nostre istituzioni.

Ce ne siamo allontanati, tanto per cominciare, perché i difensori di quei principi sono i primi a calpestarli. Fa una certa impressione constatare che siano proprio i paladini delle istituzioni liberali, giustamente preoccupati di ogni indebolimento dello stato di diritto, a dimenticare che – nelle società moderne – la responsabilità è personale, e che le (eventuali) colpe dei padri non possono essere imputate ai figli: il superamento della legge del genos, per cui la colpa si trasmette lungo le generazioni, e la vendetta può abbattersi sui discendenti, è un caposaldo della nostra civiltà, uno dei punti cruciali che la separa dalle tante barbarie del passato.

Ma fa ancora più impressione il meccanismo di propagazione mediatica del fango. Quando una notizia, più o meno vera, più o meno completa, più o meno infamante, viene messa in circolo, essa entra istantaneamente nel tritacarne dei social, senza mediazioni, senza contrappesi, senza alcuna reale possibilità di autodifesa dei diretti interessati. Anzi, la tentata autodifesa non fa che peggiorare la situazione, favorendo la propagazione del fango, moltiplicando le voci che pretendono, senza alcuna cognizione di causa, di esibire i propri istinti e i propri impulsi.

Ed è qui che le cose diventano interessanti, e istruttive per chi volesse non chiudere gli occhi. La ragione per cui le figure pubbliche possono sì raccogliere rapidamente un enorme consenso, ma anche risultare improvvisamente vulnerabilissime, è precisamente che sono saltati tutti gli argini che, ancora pochi decenni fa, mettevano un limite all’arbitrio comunicativo: la realtà è che oggi chiunque può dire quel che desidera senza renderne conto a nessuno, i media non hanno alcuno scrupolo nel nascondere le notizie, nell’inventarle, nel deformarle, tecnici ed esperti sono guardati con sospetto, nessuno è considerato al di sopra delle parti, i fatti sono trattati come opinioni, eventi e comportamenti sono sistematicamente giudicati con due pesi e due misure, nessuno è chiamato a rendere conto delle affermazioni che fa, o a scusarsi per le bugie che dice. Insomma: se “uno vale uno”, e tutti siamo felicemente collegati via internet, allora tutte le opinioni sono sullo stesso piano, e quel che è fake ha esattamente gli stessi diritti di quel che non lo è.

In questo senso la vicenda Di Maio è illuminante, ma lo è per tutti. Si può accusare una parte della stampa di faziosità, o addirittura di aver montato un caso per colpire un avversario politico (non è certo il caso della Raggi, che non è partito dagli organi di informazione). Ma ci si dovrebbe rendere conto che il meccanismo è il medesimo che, una decina di giorni fa, aveva condotto la stessa parte politica, da sempre fustigatrice del cattivo giornalismo, ad ospitare sul proprio sito un video completamente manipolato, in cui a un’autorità europea (nella persona di Jeroen Dijsselbloem) venivano messe in bocca dichiarazioni gravissime (un invito ai mercati finanziari ad attaccare l’Italia) ma completamente inventate. E ancora prima aveva condotto a cavalcare le vicende di Renzi e Boschi con la stessa spregiudicatezza con cui oggi gli avversari dei Cinque Stelle cavalcano le malefatte edilizie del nonno di Di Maio.

Ecco, credo che questa vicenda innanzitutto questo ci insegni: allontanarsi troppo dalle istituzioni liberali, con i loro filtri, le loro mediazioni, i loro meccanismi di tutela della verità e della reputazione, può apparire liberatorio, ma è molto pericoloso. Perché un mondo in cui ciò che è fake e irragionevole conta tanto quanto ciò che è vero e ben fondato, può andare in qualsiasi direzione. Anche le più impreviste e inquietanti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero di martedì 13 novembre 2018