L’anno che cambiò la politica

E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.

Articolo pubblicato il  2 marzo su Il Messaggero




L’arte della separazione, stile di pensiero liberale

Da Jan Palach alle foibe carsiche, Guido Crainz si è assunto il compito di riscattare la cultura di sinistra in Italia (post-comunista, post-azionista, post-dossettiana etc etc.) dall’accusa di insensibilità dinanzi alle tragedie storiche causate da uomini e ideologie  che fanno parte dell’album di famiglia.

Nell’articolo pubblicato da ‘Repubblica’ domenica 10 febbraio, Mattarella e il dramma delle foibe, lo storico scrive, in linea con il discorso  fatto dal Presidente della Repubblica nel giorno della memoria:« Quelle migliaia di uccisioni, quel clima di terrore che segnò l’autunno del 1943 in Istria e il maggio-giugno del 1945 nell’intera zona occupata da Tito—e che portò all’esodo della quali totalità della popolazione italiana—non sono riducibili a ‘una ritorsione contro i torti del fascismo’, per citare ancora Mattarella». Averlo riconosciuto in un paese in cui la Sezione di Rovigo dell’Anpi in un suo comunicato negazionista scrive che quegli eccidi sono un ‘invenzione dei fascisti’, non è poco. Si sarebbe voluto, però, che, oltre al nazionalcomunismo di Tito, venissero ricordati anche i partigiani comunisti italiani che collaborarono al massacro nonché i portuali genovesi—la Superba è sempre stata il semenzaio del peggiore fanatismo estremista—che volevano impedire ai reduci istriani di sbarcare in Italia in quanto nazifascisti.

Comunque non è tanto su questa dimenticanza (se si scrive su ‘Repubblica’ ci si autocensura) quanto su un vecchio e deprecabile ‘costume di casa’ che porta i nostri intellettuali impegnati all’uso strumentale della ‘storicizzazione’. Quando si tratta delle malefatte dei neri, il giudizio etico prevale su ogni altra considerazione: un giudizio terribile, inappellabile, che non fa sperare nella remissio peccatorum neppure nell’altro mondo. Quando si tratta, invece, delle malefatte dei rossi ci si richiama al ‘contesto politico’ sicché alla cerimonia commemorativa delle vittime—alle quali si rende onore con anni e anni di ritardo—si accompagna una bella lezione di storia. E’ come se accanto al sacerdote che officia la messa e ricorda il sacrificio di nostro Signore ci fosse un professore di storia antica a spiegare il ‘contesto’che portò alla crocifissione, le buone ragioni dei custodi delle leggi giudaiche e il motivo reale per cui Ponzio Pilato fece il gran rifiuto.

Si tratta di un ‘costume di casa’ che è la negazione pura e semplice (una delle tante) dello ‘stile di pensiero’proprio della democrazia liberale e altre volte rievocato su queste pagine. In questo caso, si ignora (si vuole ignorare) che le cerimonie pubbliche appartengono alla dimensione religiosa e hanno una funzione intensamente comunitaria :sono un collante sentimentale e valoriale non la rievocazione di come si sono effettivamente svolti i fatti, per citare Leopold  von Ranke.

«Quel clima—aggiunge Crainz a un discorso condividibile—non è comprensibile appieno però ove non si consideri nel suo insieme la lunga storia di quest’area: dal trauma della prima guerra mondiale sino alla politica anti-slovena e anti-croata perseguita dal fascismo. E sino all’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941, nello scenario di una guerra che fu—a est più ancora che altrove—guerra di sterminio» Ed eccoci, così, tornati al vizietto dell’intellettuale organico—una figura da noi sempre verde:Crainz plaude al Presidente Mattarella (l’officiante del rito delle foibe) ma non dimentica di affiancargli il professore di storia contemporanea che dice agli Italiani: ora asciugatevi le lacrime perché è venuto il momento di dirvi «perché è successo».

  Intendiamoci, se ci si trovasse nel laboratorio  delle scienze storiche e sociali condividerei, sul piano metodologico, quanto scrive Crainz  sulla necessità di storicizzare gli eventi, ma che c’azzeccano gli strumenti della ricerca con la giornata della memoria? Non solo. E perché quando si rievocano e si depongono corone di fiori sui luoghi dei delitti compiuti dal fascismo—ad esempio, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia  dove venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti—non si parla—e giustamente, ci tengo a sottolinearlo—di ‘contesto’ ovvero delle cause sociali, culturali, economiche, politiche che portarono il Duce al potere e che spiegano ‘gli anni del consenso’, le adesioni di larghissimi strati sociali al regime, le grandi trasformazioni—non tutte negative—che se ne ebbero nel paese?

 Lo storicismo è ,e da tempo, nel nostro paese, un po’ come le leggi di cui parlava il buon Giovanni Giolitti: è una misura che si applica agli amici (vincitori) e si nega ai nemici (i vinti). Sinceramente dispero che si ci possa liberare di questo doppiopesismo della mente e che si possa porre a fondamento della ‘società aperta’ l’arte della separazione dei piani, che nasce dal senso profondo della varietà delle dimensioni esistenziali e dei relativi codici. Sennonché quella che sembra l’invasione di campo di una scienza che antropofacizza  la sfera del mito e del sentimento, è, in realtà, ideologia con  maschera di scienza. Si ha, a volte, la penosa impressione che nelle nostre aule universitarie, sulle pagine culturali dei grandi quotidiani, nelle redazioni delle riviste, nei documentari televisivi, il ‘sapere’ serva solo a devitalizzare il dente cariato del ’senso comune’ quando non è in sintonia col pensiero egemone.Nel caso delle foibe, curiosamente, si accusano ancora oggi le destre di averne parlato in modo strumentale come se ciò non fosse vero per tutte le parti politiche che selezionano, nell’infinita varietà dei fatti storici quelli che «fanno il loro gioco».




Diseguaglianza e povertà

Il reddito di cittadinanza per un singolo inoccupato ammonterà a 780 euro al mese. Ma sono moltissimi i lavoratori che, in Italia, guadagnano meno di 800 euro al mese, spesso facendo lavori molto faticosi e impegnativi. Di qui la domanda che un po’ tutti ci facciamo in questi giorni: un reddito minimo garantito di 780 euro non è un po’ troppo alto per il nostro paese? Che cosa potrà pensare, un occupato che deve sudare sette camicie per portare a casa 800 euro al mese, del suo vicino di casa che riesce a ottenere lo stesso reddito non facendo nulla?

Ma soprattutto: dopo i falsi invalidi e i falsi disoccupati, di cui sono piene le cronache (e gli studi) degli ultimi decenni, dovremo anche assistere impotenti alla crescita di un esercito di falsi poveri?

Vorrei notare subito una cosa: quasi nessuno, a livello politico, ha titolo per ergersi a giudice delle storture del reddito di cittadinanza. Il godimento indebito di un sussidio, di un’agevolazione, di uno sconto è una costante della nostra storia nazionale. Sappiamo benissimo, e da decenni, che appena si fa un controllo si scopre che una percentuale enorme (talora prossima al 50%) di soggetti che autocertifica una condizione economica disagiata non ha affatto diritto ai benefici che riceve. Sappiamo anche benissimo che, nel virtuosissimo Nord, un esercito di lavoratori “estivi” del turismo e dell’agricoltura, non appena arriva la stagione fredda, cumula salario di disoccupazione e lavoro in nero. Ma nessun partito, sindacato o associazione, che ora si indigna per il reddito di cittadinanza, ha mai veramente combattuto questo genere di fenomeni. E si potrebbe pure aggiungere, su questa linea di non demonizzazione del reddito di cittadinanza, che per certi versi lo scandalo non è che si possano guadagnare ben 800 euro non facendo nulla, ma che se ne possano guadagnare appena 800 ammazzandosi di fatica.

Detto tutto questo, però, il problema rimane. Che i censori del reddito di cittadinanza non abbiano le carte in regola per parlare, non implica che il reddito di cittadinanza – così com’è concepito – sia una misura saggia. Perché una misura non va giudicata per le sue intenzioni (in questo caso senz’altro lodevoli) ma per le conseguenze che è verosimile che produca, al di là delle illusioni più o meno sincere dei suoi proponenti.

Ma per capire le conseguenze di una misura, occorre partire dalla “realtà effettuale”, ossia dall’Italia così com’è, non come ce la raccontano i politici per blandirci ed autoassolversi. E la realtà alcune cose molto chiare ce le dice. La prima è che il costume delle autocertificazioni false non riguarda una piccola minoranza di disonesti. La seconda è che i controlli sono e non potranno che restare del tutto insufficienti, se non altro per il loro costo. La terza è che fornire ad alcuni milioni di persone piani individuali di formazione e offerte di lavoro congrue è semplicemente impossibile, anche qui già solo per il fatto che nessuno ha stanziato il volume di risorse necessario, né si è dato il tempo che un piano del genere richiederebbe (almeno un paio di anni).

La cosa più importante, però, è un’altra ancora: l’argomento secondo cui occorrerebbe alzare i salari, non abbassare il reddito di cittadinanza, è eticamente pesuasivo ma non regge a un’analisi disincantata della realtà italiana. Se i salari medi sono scandalosamente bassi, la prima ragione non è certo l’iper-sfruttamento della mano d’opera, che pure esiste (vedi la raccolta del pomodoro, o l’industria delle consegne a domicilio), ma è a causa del ristagno ventennale della produttività del lavoro, un fenomeno che – fra i paesi avanzati – è dato osservare solo in Italia, e che nessuno studioso è ancora riuscito a spiegare in modo convincente. Poiché questa è la pietrosa realtà dell’economia italiana, un salario di cittadinanza a 780 euro, introdotto in un paese in cui non ci sono margini per aumenti salariali significativi, non potrà non avere le conseguenze che la teoria e l’esperienza prevedono: una riduzione del numero di persone effettivamente disposte a lavorare, un aumento del costo unitario del lavoro per le imprese, una contrazione dei posti di lavoro. Tutti processi che l’eventuale introduzione di un salario minimo legale (caldeggiato anche dal Pd, almeno in campagna elettorale) non potrà che aggravare, perché un salario minimo legale di 8-9 euro l’ora (come quello prospettato in questi giorni) non potrà che far esplodere il lavoro nero.

Di qui un paradosso. Nato per “cancellare la povertà”, il reddito di cittadinanza potrebbe anche riuscirci, sempre che i soldi non finiscano prima del tempo (quelli stanziati ammontano a circa 1/3 di quelli necessari), ma a un prezzo paradossale: far esplodere le diseguaglianze, e l’invidia sociale, all’interno delle fasce deboli della popolazione. Diseguaglianze e invidie fra chi guadagna lavorando e chi guadagna senza lavorare, ma anche fra chi usufruisce del sussidio dove i prezzi sono alti e chi ne usufrusice dove i prezzi sono bassi, fra chi riesce a lavorare in nero senza incappare nei controlli, e chi ci prova ma finisce nella rete del fisco.

Insomma, un’Italia incattivita dalla proliferazione degli arbitri e dal dilagare del caso. Il colmo per un provvedimento che – modulato con saggezza e con misura – avrebbe una sua logica e una sua piena giustificazione, e rischia invece di rovesciarsi nel suo contrario per un fatale difetto di fabbricazione.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 febbraio 2019



Il singhiozzo delle élites

Oggi che si parla molto di popolo, populismo e élites, mi torna in mente una trasmissione radiofonica di quasi mezzo secolo fa: Chiamate Roma 3131. Fu una vera rivoluzione perché per la prima volta si poteva “chiamare la radio” e parlare in diretta. Anche il più comune e anonimo ascoltatore, senza alcun merito o particolarità distintiva o privilegio, poteva prendere il telefono, fare il numero 3131, parlare col conduttore e essere ascoltato da tutti. Poteva per esempio chiedere di mandare in onda una certa canzone, per dedicarla al fidanzato o fidanzata: a Francesco, a Giovanni, a Maria, Elisabetta, mia nonna, la mia vicina, il mio panettiere…

Era il 1969. Avevo 13 anni, e mi capitava di ascoltare la radio certe mattine d’estate, con mia madre che lavorava in casa. Mi piaceva sentire la musica, aspettavo con trepidazione che trasmettessero le mie canzoni preferite, e quando succedeva mi sembrava un segno fortunato della sorte. Invece a un certo punto la mia radio fu invasa da quelle voci estranee, prosaiche, noiose. Me lo ricordo molto bene. Di colpo, ascoltare la radio divenne per me una barba infinita. Tutta quella gente che interveniva, interrompendo il flusso delle canzoni, senza avere in fondo niente da dire…

Prima di allora la radio trasmetteva canzoni, notizie, drammi radiofonici: trasmetteva e basta, in una sua solitudine assoluta e inavvicinabile; era una voce a cui nessuno poteva rivolgersi, che si poteva solo ascoltare. Credo che dovette sembrarci, a un certo punto, una cosa terribile, un errore a cui si doveva quanto prima porre rimedio. Non so come si giunse a questo sentimento colpevole, ma credo che fu una naturale conseguenza del nuovo clima che si era instaurato dal ’68 in poi e che tanto drasticamente cambiò il nostro mondo.

Oggi la radio è quasi esclusivamente fatta dagli ascoltatori che intervengono, a raccontare qualcosa di sé, della propria vita, o dire come la pensano su ogni argomento. Radio, tivù, giornali e social: un sottofondo costante di voci, un brusio composto perlopiù da una retorica comune e generica che si moltiplica, che si avvoltola senza fine su se stessa: Rumori, per dirla con il libro di Attali del 1978.

A me sembra che sia cominciato tutto lì, in radio, con Chiamate Roma 3131. O meglio, è il primo segnale concreto che io ricordi di questa che chiamerei “volontà di compartecipazione”, del desiderio, cioè, che ci prese allora e oggi è più che mai vivo, di aprire tutto a tutti, perché non esista più un solo spazio, nemmeno un angolino, che possa sembrare riservato ai pochi, o peggio che mai ai singoli. L’idea insopportabile che sia uno solo a parlare e tutti gli altri condannati al silenzio. Sembrava ingiusto, vagamente dittatoriale. Si iniziò allora a pensare che ascoltare era troppo poco, privilegiava i pochi “parlanti” e condannava gli altri a un ruolo passivo, subordinato.

Anche a scuola. Si cominciò ad “aprire” ai bambini, che dicessero la loro durante le lezioni, qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ci piaceva che “intervenissero”, anche interrompendo la lezione. Sapeva di libertà, estroversione, democrazia. Allo stesso modo si aprì ai genitori, con i Decreti delegati dei primi anni ‘70, perché avessero parte diretta nella vita della classe, nella conduzione della scuola. Poi, circa vent’anni fa, si cominciò a dire che far lezione non andava più bene: ormai chiamata “lezione frontale”, è oggi additata come l’esempio più esecrabile della scuola del passato, il marchio da cancellare, l’errore di una scuola d’élite. Fino alla recentissima didattica della “classe capovolta”, dove nessuno fa più lezione: gli allievi lavorano in gruppo, e gli insegnanti organizzano il lavoro, assistono, controllano che tutto funzioni.

Anche in chiesa. A un certo punto abbiamo preferito che il prete smettesse di parlare latino, e di guardare l’altare dando le spalle ai fedeli. Come abbiamo voluto che l’insegnante la smettesse di sentirsi in cattedra e “scendesse”, così abbiamo voluto un prete di fronte, aperto, trasparente, e che la gente interagisse nella messa, per esempio scambiandosi il segno di pace. Così che tutti avessero la sensazione di partecipare più attivamente, e non si sentissero in qualche modo estromessi dal vivo della funzione.

Allo stesso modo in teatro, spesso chiamiamo il pubblico sul palco a recitare, gli diamo una parte perché non si senta pubblico passivo. Rompiamo la quarta parete e lo convochiamo a contribuire allo spettacolo. È come se pensassimo che non è bello che siano solo gli attori a fare gli attori. Anche nei libri, nei fumetti: chiediamo da anni ai lettori di esser loro a suggerire il prosieguo della trama, l’aggiunta di un personaggio, un finale diverso. Perché non è bello che lo scrittore sia uno solo; è bene che anche i lettori si sentano parte del processo creativo, tutti in qualche modo scrittori, non puri e inerti spettatori dei pochi che hanno il privilegio di inventare.

I lettori che scrivono con lo scrittore. I fedeli che officiano con il prete. Gli studenti che insegnano con l’insegnante. Gli spettatori che recitano con l’attore. I radioascoltatori che conducono con il conduttore…. Sono tutti esempi di uno stesso copione. A un certo punto ci è parso importante che non ci fosse uno solo che dirige, conduce, scrive, crea, recita, insegna. Quell’uno ci sembrava un privilegiato. Ci sembrava… élite.

Piano piano, abbiamo cominciato a smantellare anche i luoghi dove ci pareva che qualcuno o qualcosa emergesse, avesse un ruolo superiore, si distinguesse o, cosa ben peggiore, dominasse qualcosa e qualcuno: per esempio abbiamo allargato il concetto di libreria, così che accanto ai libri si venda anche la pasta, il vino, le matite, i peluches, i computer e le ceramiche dipinte. Abbiamo allargato il concetto di libro a comprendere qualsiasi testo scritto e pubblicato. E abbiamo allargato il concetto stesso di cultura perché avevamo il terrore che la cultura fosse soltanto libri, studio, ricerca, cioè qualcosa che riguardava i pochi. Abbiamo declassato a inutile ogni sapere, e eletto unico sapere utile l’unico che fosse accessibile a tutti: il web.

Il bello è che sia stata l’élite ad aver fatto tutto questo.

Ha cominciato tanti anni fa a autodenunciarsi, e autodistruggersi. E forse il fenomeno di quel che oggi chiamiamo populismo può leggersi (anche) così: il risultato del senso di colpa delle élites. Parlo delle élites culturali, soprattutto, ovvero di coloro, persone ma anche enti, che detenevano non dico il potere ma almeno una notevole autorevolezza: radio e tivù, insegnanti, artisti, studiosi, librerie, case editrici, intellettuali, scrittori, teatri….

È l’élite a non sopportare di essere élite. Ha una paura fottuta di essere élite e si spende il più possibile per non esserlo, e nemmeno sembrarlo. Ha il terrore dell’esclusione: non di essere lei esclusa, ma di escludere. Non ammettere, non condividere, non inglobare, non accogliere… Vuole che siano tutti non solo uguali, ma protagonisti: nella scuola, a teatro, in radio, in chiesa, in tivù e anche al governo.

Per questo l’élite oggi è molto grata alla tecnologia. Pensa che il web sia stata la più grande fortuna, lo strumento massimo di quella rivoluzione democratica che finalmente dà voce al popolo e contribuirà a sconfiggere le disuguaglianze. Ed è felice che, grazie ai social, il popolo abbia accesso diretto anche al governo delle città e dello Stato.

Sì, ogni tanto l’élite lamenta un certo dilagare di volgarità, soprattutto nel linguaggio, fors’anche una certa ineleganza nel vestire, e certi toni un po’ fascisteggianti… Ma sono solo i postumi di un aristocratismo difficile da guarire, ancora un po’ di pazienza e le passerà.

Bisognerebbe leggere Pascal Bruckner. O, avendolo letto, ricordare (e citare) di più i suoi libri. Per esempio Il singhiozzo dell’uomo bianco (1983, Guanda 2008), o La tirannia della penitenza (2006, Guanda 2007). Lì vien detto splendidamente che l’Occidente è affetto da sensi di colpa almeno dal secondo dopoguerra in poi, che siamo fermi alla vecchia dottrina del peccato originale, e che dalla caduta del muro di Berlino l’Europa “si macera nella vergogna di sé”.

“In terra giudaico-cristiana non esiste miglior sprone del senso di colpa (…). Come diceva Nietzsche in nome dell’umanità le ideologie laiche non hanno fatto altro che sovracristianizzare il cristianesimo e potenziarne il messaggio”. E ancora: “E’ l’eterno movimento: un pensiero critico, dapprima sovversivo, si ritorce contro se stesso trasformandosi in un nuovo conformismo, il quale conserva tuttavia l’aura, il ricordo dell’antica ribellione”. E ancora: “La casta degli intellettuali, alle nostre latitudini, è la casta penitenziale per eccellenza, erede diretta del clero dell’Ancien Régime”. “Così come esistono predicatori di odio nell’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie, soprattutto fra le élite intellettuali”.

Il mea culpa delle élites di fronte ai populismi insorgenti è dunque il solito masochistico refrain dei privilegiati che desiderano abbassarsi a “capire” il popolo, ne giustificano le intemperanze in nome di una rivoluzione santa, dovuta e condivisa, e riprendono la consueta autoflagellazione in odore di martirio. Tutto molto conformistico.

Eppure sembrerebbe chiaro che qualcuno deve dir messa, qualcuno deve fare lezione, qualcuno deve recitare Amleto, qualcuno deve scrivere libri. E quel qualcuno normalmente deve essere un singolo. Quel che le élites intellettuali non sopportano è proprio questa necessità del singolo, questa inevitabilità che certe funzioni siano demandate a singoli, e possano non essere allargabili ai tutti. E’ il singolo stesso a sentirsi a disagio, a vergognarsi della sua “singolarità”, che gli sembra subito maledettamente élitaria, non democratica. Quindi colpevolmente chiede scusa e si adopera perché il suo ruolo sia condiviso e partecipato dalla più grande moltitudine possibile.

Eppure, ripeto, dovrebbe essere chiaro. E ci è chiaro, ma soltanto in ambito sanitario, sembrerebbe. Lì ci appare lampante che il chirurgo debba essere lasciato solo, ovvero con la sua équipe di altrettanti chirurghi ma certamente non affiancato dal popolo dei pazienti. Sarebbe assurdo che il paziente collaborasse e intervenisse alla propria operazione per sentirsi meno passivo. Eppure, se ci pensiamo, è proprio quel che capita nell’ambito dell’istruzione: lì non abbiamo la minima remora a pensare che accanto all’insegnante (anzi, meglio, al suo posto) ci debba essere l’allievo che partecipa alla sua propria educazione…

Dovremmo accettare che una certa funzione non possa che essere svolta dai pochi. E, soprattutto, i pochi dovrebbero accettare di essere soli a svolgere la loro funzione, e non convocare sempre le masse accanto a sé: per il bene di tutti. Certamente dovremmo adoperarci perché tutti (qui sì davvero tutti!) possano diventare quei pochi, perché tutti cioè abbiano la via spianata, economicamente e culturalmente, per accedere a quei pochi posti dove si svolgono funzioni ai livelli più alti.

È bello e giusto pensare che tutti possano diventare chirurghi. Ma pensare che tutti debbano affiancare il chirurgo, anche i pazienti stessi, anche coloro che non hanno alcuna competenza, soltanto per mitigare il senso di colpa dell’uomo bianco perennemente singhiozzante, questo no, sarebbe pura follia.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 29 gennaio 2019



Un futuro senza lavoro?

Uno spettro si aggira sulle economie occidentali: lo spettro della scomparsa del lavoro.

Spaventati dal progresso tecnologico, dall’avanzata dell’automazione, dai successi dell’intelligenza artificiale, dalla crescita senza precedenti delle reti di comunicazione, sono sempre più numerosi gli osservatori e gli analisti che profetizzano la nascita di una società completamente diversa da quelle del passato. E se alcuni cercano di vedere il lato positivo di questi processi, immaginando un’umanità liberata, in cui l’ozio creativo prende il posto del duro lavoro, più numerosi sono quanti sottolineano il lato distruttivo, per non dire catastrofico, di questi processi. E’ anzi diventato una sorta di spietato esercizio contabile quello di calcolare quanti e quali tipi di lavoro sono destinati a scomparire nel giro di 10, 20, 30 anni, travolti dal progresso tecnico e organizzativo.

E poiché il sospetto che si sta facendo strada è che il numero di posti di lavoro distrutti non sarà, come in passato, compensato da altrettanti posti di lavoro di tipo nuovo, c’è chi comincia a domandarsi: se i posti saranno sempre di meno, e il lavoro diventerà un attributo di pochi eletti (o sfortunati), quale sarà il destino di tutti gli altri? Che cosa faranno, ma soprattutto come si manterranno, coloro che non hanno un lavoro?

E’ in questo contesto che, sempre più spesso, viene evocata la necessità di un “reddito di base”, talora qualificato anche come universale, incondizionato o di cittadinanza (nulla a che fare con quello dei Cinque stelle, che è una normalissima forma di reddito minimo: quanto ben congegnata lo vedremo solo fra 2-3 anni). Esiste addirittura un network di università e centri studi che di reddito di base si occupa da oltre trent’anni, cercando di sensibilizzare sul tema opinione pubblica e studiosi (si chiama BIEN, ossia Basic Income Earth Network). L’idea è tanto semplice quanto difficile da realizzare: fornire a tutti, ricchi e poveri, un minimo vitale permanente e incondizionato, in modo da non scoraggiare la ricerca di un lavoro (se il sussidio è per gli inoccupati, il timore di perdere il sussidio può scoraggiare la ricerca di un’occupazione, o indurre a cercare solo lavori in nero).

Come si vede, si tratta di un modo di raccontare i problemi del mercato del lavoro molto diverso dagli approcci classici. Nella tradizione socialista e socialdemocratica l’obiettivo fondamentale della politica economica è ridurre al minimo al disoccupazione, offrendo un lavoro a tutti (è il mito della “piena occupazione”). Nella tradizione liberale si dà per scontato che non tutti riescano, anche impegnandosi, a mantenersi con il proprio lavoro, e quindi si caldeggia un qualche tipo di sostegno economico per chi è rimasto indietro (imposta negativa, sussidi ai poveri). Ma né gli uni né gli altri partono dal timore che l’era del lavoro sia destinata a finire, e che quindi diventi inevitabile erogare un reddito a tutti.

Nei fautori del reddito di base, invece, la profezia di una drastica contrazione dei posti di lavoro sembra svolgere un ruolo cruciale. La cosa curiosa, tuttavia, è che l’evidenza empirica a sostegno di questa profezia è quanto mai frammentaria, aneddotica, per non dire evanescente. E’ anche possibile, naturalmente, che fra 20 o 30 anni ci troveremo a constatare la scomparsa di milioni di posti di lavoro, nonché una contrazione complessiva del tasso di occupazione. Ma nel frattempo, che cosa dicono i dati? Quali sono le tendenze in atto nelle economie avanzate o relativamente avanzate? Si può affermare, ad esempio, che dopo la lunga crisi iniziata nel 2007-2008 il tasso di occupazione è oggi più basso di quello di una decina di anni fa?

Nel caso dell’Italia la risposta è purtroppo affermativa: fra il 2007 e il 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi), il tasso di occupazione è diminuito. E lo stesso vale per altri paesi colpiti da violente crisi finanziarie, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, Cipro, ma anche per paesi più solidi come Norvegia e Stati Uniti. Se però guardiamo al complesso dei paesi avanzati (appartenenti all’Oecd o all’Unione Europea) il quadro che ci si presenta è ben diverso. Su 41 paesi avanzati, sono solo 9 quelli in cui il tasso di occupazione è diminuito, e sono ben 29 (più del triplo!) i paesi in cui è aumentato (nei restanti 3 paesi il tasso è il medesimo di 10 anni fa). E fra i 29 paesi che hanno aumentato l’occupazione ben 12 appartengono all’Eurozona. Questo significa, in sintesi, che la teoria secondo cui, nelle società avanzate, sarebbe in atto una tendenza a distruggere più posti di lavoro di quanti se ne creino, è sostanzialmente incompatibile con i dati.

Di qui, forse, una lezione. Può anche darsi che, in certi paesi, ci si debba prima o poi rassegnare a garantire un reddito a un esercito di inoccupati, che altrimenti non avrebbero di che sostentarsi. Quel che non possiamo fare, tuttavia, è considerare questa scelta, che è tutta politica, come una sorta di scelta obbligata, conseguenza ineluttabile del progresso tecnico o dell’iper-modernità divoratrice di posti di lavoro. No, la realtà è che nella maggior parte dei paesi avanzati si è riusciti, a dispetto del progresso tecnico e della lunga crisi del 2007-2013, a creare più posti di lavoro di quanti se ne perdevano. Se qualche paese è rimasto indietro, è solo a sé stesso (e all’inadeguatezza della sua classe dirigente), che deve guardare.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 febbraio 2019