Pirati per necessità

Nei giorni scorsi un mercantile turco, che aveva tratto in salvo oltre centro naufraghi al largo della Libia, è stato dirottato (verso Malta) da alcuni di coloro che aveva messo in salvo. Ora, grazie all’intervento delle forze armate maltesi, i dirottatori sono agli arresti, mentre gli altri naufraghi sono ospitati nei centri di accoglienza maltesi. Non appena si è capito che la vicenda non avrebbe interessato direttamente l’Italia ma avrebbe toccato solo Malta, l’eco della notizia si è però rapidamente spento sulla maggior parte della grande stampa. Non saprei se la ragione sia il provincialismo, che fa sembrare rilevanti solo le notizie che riguardano l’Italia, o sia più semplicemente il timore di mettere in cattiva luce i migranti (da poveri naufraghi a dirottatori), ma resta il fatto che di quella vicenda si parla poco. Ed è un vero peccato, perché proprio il fatto che, finalmente, noi non c’entriamo e il cattivo Salvini non ha alcun ruolo (se non quello di appioppare l’epiteto di “pirati” ai naufraghi), ci metterebbe nella condizioni ideali per fare una riflessione non troppo condizionata dall’emotività e dai pregiudizi ideologici.
Eppure questo tipo di riflessione è quanto mai urgente. L’avvicinarsi della bella stagione non può non moltiplicare i tentativi di entrare in Europa via mare, ed è gravissimo che l’Europa stessa non abbia una linea, o meglio abbia come unica linea quella di ritirare quel poco di controllo delle frontiere che aveva messo in piedi con l’operazione Sophia (ora sostanzialmente dismessa), lasciando all’Italia e a Malta il cerino acceso dei naufragi e degli sbarchi.
L’episodio del dirottamento mostra che ci troviamo, ormai, di fronte ad un problema insolubile nel quadro delle regole vigenti. La legislazione internazionale che impone il soccorso in mare e l’accompagnamento nel porto sicuro più vicino richiede non solo un accordo chiaro su che cosa si debba intendere per “porto sicuro” ma anche una disponibilità dei porti sicuri ad accogliere i naufraghi. E’ difficile sostenere, al tempo stesso, che dobbiamo aiutare la Libia a bloccare le partenze, ma non possiamo riportare in Libia i naufraghi salvati lungo le sue coste perché la Libia non è un approdo sicuro. Per non parlare dei porti della Tunisia, considerati sicuri o meno a seconda delle circostanze e dei punti di vista, e comunque tutt’altro che pronti a farsi carico dei naufraghi.
Ma supponiamo pure che, a un certo punto, si arrivi a stabilire quali porti sono sicuri e quali no, e persino che Francia, Spagna, Grecia e Cipro (gli altri paesi euro-mediterranei, oltre a Italia e Malta), aprano improvvisamente e generosamente i loro porti. Sarebbe una soluzione? Potremmo dire che l’Europa, non lasciando più “sole” Italia e Malta, ha finalmente capito il problema?
Temo che la risposta sia no. Una linea del genere, infatti, non farebbe che moltiplicare le partenze dall’Africa, arricchendo il business dei trafficanti. Naufragi programmati e dirottamenti si moltiplicherebbero: una volta affermato il principio che chiunque riesca a farsi salvare in mare, persino se dirotta o fa dirottare una nave, ha il diritto di essere condotto in Europa per fare una domanda di asilo (che nel 90-95% dei casi sarà respinta), il risultato non potrà che essere un aggravamento del problema degli ingressi illegali: accanto a una piccola minoranza di rifugiati, non potrà non crescere la massa degli irregolari, che già tante tensioni sta suscitando in quasi tutti i paesi europei.
Naturalmente si può obiettare che, in realtà, dovremmo accogliere tutti, che i mercantili devono essere pronti, all’occasione, a comportarsi come navi delle Ong, e persino assuefarsi al “dirottamento per necessità”. La ragione sarebbe che chi parte dalla Libia fugge da veri e propri campi di concentramento, come quelli dei nazisti.
Ebbene, forse è giunto il momento di dire chiaramente almeno due cose. La prima è che il principio dell’asilo politico è stato concepito, a suo tempo, per gestire casi individuali o di piccoli gruppi. Nessuno Stato può accettare il principio per cui basta provenire da un paese che non rispetta i diritti umani per acquisire il diritto di entrare in un paese democratico. Chi sostiene questo principio deve essere pronto a portarlo alle estreme conseguenze, prima fra tutte la circostanza che sono alcuni miliardi le persone che potrebbero pretendere di usufruire di questo diritto. Un discorso analogo vale per l’obbligo di salvataggio in mare, un nobile principio che fu concepito senza immaginare che un giorno sarebbe stato sfruttato dai trafficanti di uomini per pianificare viaggi pericolosi, che senza la prospettiva del soccorso in mare non sarebbero stati intrapresi.
La seconda cosa che vorrei dire è che dovremmo avere un po’ più di rispetto per gli ebrei e per tutte le vittime della ferocia nazista. La narrazione per cui sui su barconi e gommoni ci sarebbero essenzialmente persone fuggite dai campi di prigionia del governo libico, dipinti come lager nazisti, è incompatibile con quel poco che si sa dei flussi migratori che alimentano le traversate del mediterraneo. La maggior parte dei resoconti su torture, stupri, vendita come schiavi, sequestri a scopo di estorsione non riguardano i campi governativi (sicuramente non degni di un paese civile), ma provengono dalle testimonianze di persone che sono state catturate e imprigionate in campi di prigionia completamente illegali, gestiti dai signori della guerra che spadroneggiano sul suolo libico, specie nel sud e al confine con il Niger. E’ qui, a quel che risulta da molte testimonianze, che si consuma il vero dramma dei migranti: chi ha abbastanza soldi per pagare viaggio e traversata tenta di arrivare sulla costa (spesso dall’Africa subsahariana), ma una volta arrivato nel sud della Libia viene sequestrato e portato in campi illegali, dove i trafficanti di uomini gli estorcono altro denaro, per lo più ricattando le famiglie. E questo traffico, con il carico immane di violenze che porta con sé, è alimentato precisamente dalla possibilità di attraversare il mediterraneo, grazie al combinato disposto di scafisti, Ong, navi mercantili costrette a salvare i naufraghi, ed ora anche a portarli dove vogliono loro.
Forse, più che dividerci fra buoni e cattivi sulle politiche migratorie, sarebbe il caso di prendere atto che nessuno, né l’Europa assente, né il crudele governo giallo-verde, né la sinistra dura pura e generosa, sono ancora stati capaci di trovare una soluzione non dico ragionevole (perché probabilmente una tale soluzione non esiste), ma anche solo decente a questo dramma dei nostri tempi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 marzo 2019




Automazione e perdita di controllo

Ha suscitato una viva impressione il disastro aereo del Boeing 737 dell’aviazione etiope, che è costato la vita a 157 persone. Impressione, certo, perché un disastro aereo fa sempre impressione. Ma impressione anche per altri motivi. In Europa occidentale non siamo più abituati ai disastri aerei (l’ultimo risale a 11 anni fa, in Spagna). La compagnia produttrice dell’aereo, l’americana Boeing, è il più grande produttore di aerei civili del mondo. E poi, soprattutto, le cause presunte del disastro: la ipotesi più accreditata è che il disastro, in questo caso come in un altro di pochi mesi fa in Indonesia, sia stato provocato da un difetto di un sottosistema di controllo automatico (software) della stabilità e correttezza dell’assetto del velivolo, che sarebbe entrato in conflitto con il sistema di guida manuale, ovvero con i tentativi del pilota (essere umano) di correggere gli ordini del “software”.
Sapremo, forse, come sono andate le cose, solo quando i tecnici avranno recuperato e analizzato i dati della scatola nera, nonché raccolto tutte le altre informazioni necessarie per tentare una ricostruzione attendibile di quel che è successo. Fin da ora, però, c’è una cosa che possiamo registrare: l’ipotesi di un disastro dovuto a una cattiva interazione fra operatore umano e software è considerata verosimile. Anche se si scoprisse che la causa è stata tutt’altra (la meno accreditata: un attentato) resterebbe il fatto che le cose potrebbero essere andate così, e comunque quasi sicuramente sono andate più o meno così in un precedente disastro, sempre con un Boeing 737, avvenuto pochi mesi fa in Indonesia (in quel caso con 189 vittime).
Di fronte a questa eventualità, e cioè che sia stata una cattiva interazione fra operatore umano e procedure automatiche a causare il disastro, possiamo naturalmente liquidare la questione (qualcuno lo ha già fatto) notando che sono molto più numerosi i casi in cui la tecnologia evita i disastri che quelli in cui li provoca. Possiamo anche spingerci ad accusare di luddismo, o di avversione irrazionale al progresso, quanti segnalano i rischi talora connessi all’interazione uomo-macchina. Ma sarebbe saggio?
A mio parere no. Perché se è vero che ci sono innumerevoli situazioni in cui la cooperazione fra operatori umani e supporti tecnologici più o meno automatici funziona perfettamente, è altrettanto vero che ci sono ambiti nei quali le cose sono assai più problematiche.
Alcuni di tali ambiti sono apparentemente innocenti. Se lascio libero il correttore automatico di infierire sull’articolo che sto scrivendo, posso star sicuro che la parola Pasolini verrà sostituita con ‘pisolini’, e hackeraggio con ‘shakeraggio’. Se messaggio distrattamente con il telefonino, dovrò vigilare perché la mia firma (ricolfi) non diventi ‘rivolgi’.
Ma prendete un caso più serio. Se programmo in un certo linguaggio, e uso un editor amichevole (cioè rivolto a un utente ignorante), non è infrequente che il programma mi suggerisca, e talora mi imponga, che cosa scrivere dopo una certa istruzione. O mi avverta continuamente che non ho completato una espressione, o che ho commesso un errore di sintassi. Questi interventi sono quasi sempre fastidiosi, e non di rado dannosi (perché devi perdere tempo a scovare dove il software ha messo le sue parole al posto delle tue). Ma soprattutto sono rischiosi, perché attenuano la nostra vigilanza e le nostre capacità di attenzione: a forza di essere assistiti da un programma, diventiamo meno bravi a scrivere programmi complessi, che richiedono piena padronanza di una sequenza complicata di passaggi.
Andiamo oltre. Se apri il computer può capitare che il sistema operativo ti obblighi a interagire con una nuova risorsa (per esempio un assistente vocale), che tu non hai richiesto, né hai la minima intenzione di usare. Per non parlare di una qualsiasi, normalissima, visita a un sito internet. Prima di poter fare, finalmente, quello per cui ti sei recato colà, ecco una serie di perentorie richieste di interazione: approvi le nostre politiche sulla privacy? ci autorizzi a usare cookies, cioè a schedarti e pedinarti (naturalmente “per migliorare il servizio”)? vuoi accedere a quell’informazione (se sì devi registrarti)? ti piace quel che hai visto? perché non lasci un commento?
Fin qui, direte, è solo interazione molesta. Niente a che fare con il dramma dell’aereo precipitato. Può darsi, ma non ne sarei sicuro: in entrambi i casi, pur nell’enorme differenza fra una immane tragedia e uno sciame di seccature, c’è una sostanziale perdita di controllo dell’operatore umano, che può incontrare difficoltà ad affrancarsi dalla tutela del software, o può non esserne capace, o semplicemente può trovarsi nell’impossibilità di farlo perché il software non lo consente. Una perdita di controllo che può diventare insopportabile quando, a essere obbligati a interagire con il software (e spesso solo con il software), sono i disperati cittadini di fronte ai mostri burocratici che governano le reti elettriche, il gas, la telefonia, la previdenza, tutti enti divenuti ormai inaccessibili agli esseri umani, costretti a interagire a distanza, inviando mail cui, di norma, risponderà automaticamente un apposito software. Né oso immaginare che cosa potrà succedere quando, con Internet of things e le reti 5G, tutti saremo collegati con tutto, con conseguente moltiplicazione dei rischi e delle vulnerabilità, dai furti informatici agli hackeraggi ai black-out.
Ma dove la cooperazione fra software ed esseri umani sta assumendo i tratti più inquietanti è, probabilmente, nei due pilastri dello Stato sociale, ossia la sanità e l’istruzione. Qui proprio la disponibilità di supporti più o meno intelligenti, di dispositivi più o meno autonomi, spesso rischia di prosciugare le capacità di chi con essi deve interagire e cooperare. Accade così che strumenti nati per potenziare le prestazioni di operatori umani, in un primo momento migliorino il servizio, perché i rispettivi contributi si sommano, ma poi lo peggiorino, perché i contributi si sottraggono: l’operatore umano rinuncia a sapere quel che presume possa sapere al posto suo il software cui lui si affida.
Non sarebbe grave, se si trattasse solo di taxisti che, a navigatore spento, non ti sanno portare da nessuna parte, o di automobilisti che non sono in grado di cambiare una ruota dell’auto perché non c’è campo, e quindi non possono chiedere a Google come si fa (così in The mule, ultimo film di Clint Eastwood). Ma il problema si fa serio quando un professore non è in grado di tenere due ore di lezione senza una montagna di slide. O quando un medico non è in grado di fare una visita clinica, o di formulare una diagnosi senza una caterva di esami strumentali.
In questi casi il mito dell’interazione uomo-macchina perde un po’ del suo smalto, perché rivela quel che essa in realtà è: nient’altro che un Giano bifronte, come la maggior parte delle conquiste dell’umanità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2019




In attesa di nuovi leader. Intervista a Luca Ricolfi

L’idea dell’accoglienza, evocata dal Papa, è un’idea molto cristiana ma non è di sinistra. Il giorno dopo sentire risuonare queste parole da un sociologo di sinistra come lei può impressionare. Può spiegare meglio che cosa intende?

Il papa e l’ONU possono permettersi il lusso di rivolgersi all’umanità intera, come se vivessimo sotto un unico super-regime mondiale, più o meno orwelliano. Invece i governanti, finché ci sono gli Stati nazionali, hanno il dovere di difendere i propri cittadini, da cui sono stati eletti. Se poi sono di sinistra hanno anche il dovere di occuparsi degli ultimi, ovvero operai, disoccupati, precari, esclusi, svantaggiati, eccetera. Se non lo fanno, e tendono a sostituirsi al Papa e all’ONU in nome del dovere dell’accoglienza di cittadini provenienti da altri Stati, vengono puniti dai loro elettori. Il governo gialloverde non è una meteora piombata sulla politica italiana dal cielo, ma la logica conseguenza della rinuncia dell’establishment progressista ad occuparsi degli ultimi.

Ministri fuori dai ministeri, politici fuori dalle Camere e presentissimi sui social network e in tv. È una degenerazione senza via di uscita o un mutamento dell’idea di rappresentanza?

Come mutamento dell’idea di rappresentanza mi pare poco riuscito, almeno nel caso dei Cinque Stelle: il 98% dei votanti per i Cinque Stelle non è iscritto alla piattaforma Rousseau.

E chi ci governa davvero dal momento che chi dovrebbe farlo è impegnato a comunicare ciò che non ha più il tempo di fare?

In realtà il tempo per il “fare” lo trovano. Solo che è un fare demoralizzante: nomine, spartizioni, lottizzazioni, regole cucite su misura di lobby varie (taxisti, per esempio) e di segmenti elettorali più o meno di nicchia. Tutto per acchiappare consenso, non certo per affrontare i problemi del paese…

È trascorso un anno dal 4 marzo 2018, il voto che anche a suo dire ha modificato e anzi ‘sconquassato’ le modalità della lotta politica. Sì è solo imbarbarita o è una mutazione genetica più profonda? E si può tornare indietro?

La mutazione riguarda la società italiana, prima ancora della politica. Quindi suppongo che non si possa tornare indietro. A meno che per ‘tornare indietro’ si intenda un ritorno della sinistra al governo, evento invece perfettamente possibile.

La ricchezza del Paese in quest’anno è sensibilmente diminuita. Gli ultimi dati parlano però di un bilancio degli operatori finanziari tornato positivo. Vuol dire che si allarga la forbice tra chi perde e chi guadagna? O si può intravedere qualche segnale di ottimismo?

Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, non è vero che – sul piano economico – tutto va male da quando c’è il governo Conte: va male quasi tutto, non tutto. Fra le cose che non vanno male c’è l’occupazione (che è stabile da qualche trimestre) e la ricchezza finanziaria, che è minore di com’era il 4 marzo dell’anno scorso, ma maggiore (per un ammontare di 21 miliardi) di com’era a fine maggio, quando si è insediato il governo giallo-verde.

La cosa interessante è che il colpo più micidiale alla ricchezza finanziaria del sistema-Italia non l’ha dato la polemica sull’Europa (quelle perdite virtuali sono già state riassorbite) ma il trimestre di incertezza nella formazione del governo, culminato con l’azzardo Cottarelli (per i dettagli: fondazionehume.it).

L’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, è una delle sue tesi più note, sta creando cittadini assistiti più ricchi dei lavoratori cosiddetti atipici o forse sarebbe meglio dire sottopagati. Teme che questa contraddizione deflagri in uno scontro sociale?

Più che temerlo, me lo auguro, naturalmente a condizione che il conflitto resti pacifico. Chi come me è contro i privilegi e le diseguaglianze ingiustificate non può veder bene l’emergere di una frattura sociale, quella che separerà chi guadagna sudando e chi nullafacendo.

La Lega sembra aver capitalizzato la fiducia degli italiani nonostante sulla sicurezza non sembrano essere stati fatti passi avanti. Al contrario, i casi di cronaca nera sono sempre più paurosi. E non si intravedono nuove politiche sull’immigrazione. Come se lo spiega?

La gente non era arrabbiata perché criminalità e immigrazione dilagano, ma perché il precedente governo negava l’esistenza del problema. E’ possibile che prima o poi anche a Salvini venga chiesto il conto, ma si dimentica troppo spesso una cosa: per mettere in crisi Salvini bisognerebbe strillare che la criminalità e gli ingressi irregolari sono in aumento, e questa è precisamente la cosa che i media progressisti sono propensi a non fare, sia quando l’allarme è giustificato sia quando non lo è. Fossi Salvini dormirei ancora per un po’ fra due guanciali (però non metterei l’immagine su internet).

Rispetto al Contratto, che pure è stato già un grave vulnus nel modo di vedere la rappresentanza nella nostra Repubblica, che cosa può dire che è stato attuato e che cosa no? Vede promesse mantenute?

Sì, ne vedo, anche se in modo alquanto parziale: reddito di cittadinanza al 30%, Fornero e quota 100 al 25%, flat tax al 2%.

Come si esce da quello che lei ha definito il trash della politica? In questa mediatizzazione che scavalca i contenuti pensa che l’elezione di Zingaretti sia una delle conseguenze dell’effetto Montalbano?

No, penso sia una conseguenza della disciplina del popolo di sinistra.

Una domanda da profeta più che da studioso: si attende la nascita di nuovi leader?

Sì, mi attendo che qualcuno ci provi.

In quale area esiste il vuoto da cui può nascere un Macron o un De Gasperi?

L’area in cui può nascere qualcosa di nuovo è una sola: è l’area degli smarriti.

E cioè?

Gente semplice, che non frequenta i salotti, ma viene disprezzata perché non urla e conserva un po’ di educazione.

Intervista a cura di Sabrina Cottone pubblicata su Il Giornale de 5 marzo 2019



L’anno che cambiò la politica

E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.

Articolo pubblicato il  2 marzo su Il Messaggero




L’arte della separazione, stile di pensiero liberale

Da Jan Palach alle foibe carsiche, Guido Crainz si è assunto il compito di riscattare la cultura di sinistra in Italia (post-comunista, post-azionista, post-dossettiana etc etc.) dall’accusa di insensibilità dinanzi alle tragedie storiche causate da uomini e ideologie  che fanno parte dell’album di famiglia.

Nell’articolo pubblicato da ‘Repubblica’ domenica 10 febbraio, Mattarella e il dramma delle foibe, lo storico scrive, in linea con il discorso  fatto dal Presidente della Repubblica nel giorno della memoria:« Quelle migliaia di uccisioni, quel clima di terrore che segnò l’autunno del 1943 in Istria e il maggio-giugno del 1945 nell’intera zona occupata da Tito—e che portò all’esodo della quali totalità della popolazione italiana—non sono riducibili a ‘una ritorsione contro i torti del fascismo’, per citare ancora Mattarella». Averlo riconosciuto in un paese in cui la Sezione di Rovigo dell’Anpi in un suo comunicato negazionista scrive che quegli eccidi sono un ‘invenzione dei fascisti’, non è poco. Si sarebbe voluto, però, che, oltre al nazionalcomunismo di Tito, venissero ricordati anche i partigiani comunisti italiani che collaborarono al massacro nonché i portuali genovesi—la Superba è sempre stata il semenzaio del peggiore fanatismo estremista—che volevano impedire ai reduci istriani di sbarcare in Italia in quanto nazifascisti.

Comunque non è tanto su questa dimenticanza (se si scrive su ‘Repubblica’ ci si autocensura) quanto su un vecchio e deprecabile ‘costume di casa’ che porta i nostri intellettuali impegnati all’uso strumentale della ‘storicizzazione’. Quando si tratta delle malefatte dei neri, il giudizio etico prevale su ogni altra considerazione: un giudizio terribile, inappellabile, che non fa sperare nella remissio peccatorum neppure nell’altro mondo. Quando si tratta, invece, delle malefatte dei rossi ci si richiama al ‘contesto politico’ sicché alla cerimonia commemorativa delle vittime—alle quali si rende onore con anni e anni di ritardo—si accompagna una bella lezione di storia. E’ come se accanto al sacerdote che officia la messa e ricorda il sacrificio di nostro Signore ci fosse un professore di storia antica a spiegare il ‘contesto’che portò alla crocifissione, le buone ragioni dei custodi delle leggi giudaiche e il motivo reale per cui Ponzio Pilato fece il gran rifiuto.

Si tratta di un ‘costume di casa’ che è la negazione pura e semplice (una delle tante) dello ‘stile di pensiero’proprio della democrazia liberale e altre volte rievocato su queste pagine. In questo caso, si ignora (si vuole ignorare) che le cerimonie pubbliche appartengono alla dimensione religiosa e hanno una funzione intensamente comunitaria :sono un collante sentimentale e valoriale non la rievocazione di come si sono effettivamente svolti i fatti, per citare Leopold  von Ranke.

«Quel clima—aggiunge Crainz a un discorso condividibile—non è comprensibile appieno però ove non si consideri nel suo insieme la lunga storia di quest’area: dal trauma della prima guerra mondiale sino alla politica anti-slovena e anti-croata perseguita dal fascismo. E sino all’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941, nello scenario di una guerra che fu—a est più ancora che altrove—guerra di sterminio» Ed eccoci, così, tornati al vizietto dell’intellettuale organico—una figura da noi sempre verde:Crainz plaude al Presidente Mattarella (l’officiante del rito delle foibe) ma non dimentica di affiancargli il professore di storia contemporanea che dice agli Italiani: ora asciugatevi le lacrime perché è venuto il momento di dirvi «perché è successo».

  Intendiamoci, se ci si trovasse nel laboratorio  delle scienze storiche e sociali condividerei, sul piano metodologico, quanto scrive Crainz  sulla necessità di storicizzare gli eventi, ma che c’azzeccano gli strumenti della ricerca con la giornata della memoria? Non solo. E perché quando si rievocano e si depongono corone di fiori sui luoghi dei delitti compiuti dal fascismo—ad esempio, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia  dove venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti—non si parla—e giustamente, ci tengo a sottolinearlo—di ‘contesto’ ovvero delle cause sociali, culturali, economiche, politiche che portarono il Duce al potere e che spiegano ‘gli anni del consenso’, le adesioni di larghissimi strati sociali al regime, le grandi trasformazioni—non tutte negative—che se ne ebbero nel paese?

 Lo storicismo è ,e da tempo, nel nostro paese, un po’ come le leggi di cui parlava il buon Giovanni Giolitti: è una misura che si applica agli amici (vincitori) e si nega ai nemici (i vinti). Sinceramente dispero che si ci possa liberare di questo doppiopesismo della mente e che si possa porre a fondamento della ‘società aperta’ l’arte della separazione dei piani, che nasce dal senso profondo della varietà delle dimensioni esistenziali e dei relativi codici. Sennonché quella che sembra l’invasione di campo di una scienza che antropofacizza  la sfera del mito e del sentimento, è, in realtà, ideologia con  maschera di scienza. Si ha, a volte, la penosa impressione che nelle nostre aule universitarie, sulle pagine culturali dei grandi quotidiani, nelle redazioni delle riviste, nei documentari televisivi, il ‘sapere’ serva solo a devitalizzare il dente cariato del ’senso comune’ quando non è in sintonia col pensiero egemone.Nel caso delle foibe, curiosamente, si accusano ancora oggi le destre di averne parlato in modo strumentale come se ciò non fosse vero per tutte le parti politiche che selezionano, nell’infinita varietà dei fatti storici quelli che «fanno il loro gioco».