Malati di scrittura internettiana

Chi sono gli haters? Chi sono coloro che insultano, minacciano, sputano veleno, irridono, calpestano, umiliano, lanciano volgarità e violenza sprizzando odio via web? Schermati da un video, lontani dai loro interlocutori, assenti ma comunicanti, esistono veramente? Ne conosciamo qualcuno? Sono persone, robot, marziani? Siamo noi?

Ma soprattutto, perché diamo loro tanta importanza? Perché ne parliamo, perché li ri-postiamo e li inoltriamo, moltiplicando all’infinito il loro effetto devastante? Perché non li ignoriamo?

Credo che la risposta sia in un’altra domanda: perché a nostra volta usiamo il web quando vogliamo esprimere il nostro pacato e nobile pensiero, cioè ci consegniamo a un luogo dove necessariamente quel nostro pensiero incontrerà non pacati e non nobili non-pensieri?  Perché affidiamo le nostre riflessioni (che avrebbero tutta l’ambizione di essere profonde) allo spazio di poche righe, dove dovranno necessariamente adeguarsi a essere non-profonde e fluttuare in una banalità sconfortante? Perché, insomma, amiamo la scrittura internettiana, contratta e nervosa, schematica e superficiale, per forza di cose fatta di formule? Perché abbiamo scelto di parlare per formule, o per video, invece che con la parola e la sua meravigliosa complessità?

Ovvio che, se esprimiamo via web (quindi attraverso formule) le nostre convinzioni, riceveremo via web i commenti, che non potranno che essere altrettante formule, frasette ridotte all’osso, direi al nulla. E che cosa mai oggi, più che un insulto, risponde ai valori che implicitamente affermiamo di apprezzare? Brevità, velocità, concisione. Abbiamo volutamente espulso dalla nostra vita tutto ciò che è lungo e implica ragionamenti complessi. Dunque, se in una riga ci mandano a quel paese, mi vien da dire che riceviamo pan per focaccia.

Il fatto è che il web è, per la maggioranza di noi, irresistibile. Temo che la verità (poco dicibile) sia questa. Parlare via web vuol dire raggiungere tutti in un attimo. Quindi avere il mondo in pugno. E a chi non fa gola? Diventare noti, forse anche famosi. La fama corre sul web. Invisibile, imprendibile; irresponsabile, amorale, ignobile e catastrofica. Com’era la divinità alata che l’ha preceduta nei secoli. Fama, la dea Fama. La “voce pubblica”. Un gigantesco mostro capace di spostarsi a velocità siderali, una specie di uccellaccio coperto di piume, che sotto ogni piuma celava un occhio. Infiniti occhi per vedere, infinite orecchie per ascoltare, infinite bocche per parlare e diffondere ciò che aveva visto e sentito: perfetta antesignana del web.

Ovidio è il primo che ci dice dove abita: al centro del mondo, in un edificio tutto buchi, infiniti ingressi senza porte, sempre aperti, notte e giorno, perché entrino le voci di tutti, indistintamente. Espressione massima di democrazia, già allora. Ma Ovidio è un poeta, Ovidio distingue. Non è vero che ogni parola si equivale e ha pari diritto, la parola saggia e la parola stupida, la parola frutto di studi e la parola estemporanea che ti esce dalle viscere, la diceria, la calunnia e la verità. Non è vero che non importa cosa è vero e cosa è falso. Certo, tutti devono avere la possibilità di parlare, nella casa della Fama tutte le parole sono accolte, ma ognuna avrà il termine preciso che la definisce, la fissa per quel che è, e la giudica. Il giudizio è imprescindibile, è il filtro. Non è detto che democrazia voglia dire rinunciare ai filtri. Distinguere, filtrare. Controllare il lessico, innanzi tutto. Aprire alle sfumature di senso, alle varianti. Contro la piattezza linguistica, l’ignoranza. (Ma Ovidio viveva in un tempo strano, in cui la poesia aveva voce).

Ciò che è irresistibile per tutti noi, credo, è poter raggiungere il maggior numero di nostri simili con fatica zero, con tempo zero. L’attimo di digitare quattro parole e siamo nell’aere. (Digitare, non direi mai scrivere! Noi oggi digitiamo, non scriviamo. Siamo digitanti. Usiamo le dita, non il cervello). Ma anche poter ricevere subito un feed back. Ci rispondono immediatamente, dall’aere: ci sono migliaia di “altri”, come noi viaggianti per l’aria, pronti a captare gli altrui segnali. Non fanno altro. Non facciamo altro…

Piccola parentesi, con qualche dato. Pare che il tempo medio che un adulto (dai 16 anni ai 64) passa su internet (tra social, video e musica) sia di sei ore al giorno. Gli italiani connessi sono quasi 55 milioni (cioè 9 su 10). Il 70% di noi appena si sveglia, come prima cosa, guarda il telefonino, il 63% lo controlla ogni sera prima di addormentarsi. Sul lavoro veniamo interrotti ogni 180 secondi (tra notifiche, gruppi WhatsApp, mail, conference call) e impieghiamo ogni volta 24 minuti per tornare proficuamente al compito che abbiamo sospeso. Così racconta Digital Detox, di Alessio Carciofi (Hoepli, 2017). Che siamo dipendenti da smartphone è chiaro a tutti, ma questi dati aggiungono una notizia importante: l’ampiezza delle proporzioni.

Dicevo, siamo antenne in perenne attesa di captare qualcosa. Se il segnale per un po’ non arriva, ci chiediamo cosa non va, siamo inquieti, tesi, tristi. Abbiamo anche la “sindrome della vibrazione fantasma”: crediamo di sentir vibrare il cellulare anche quando non vibra. Ansia da squillo. Vibranxiety.

Siamo astronauti dispersi, che hanno perduto l’astronave e vagolano nel nero spazio con la loro tuta grassa e bianca che li rende impacciati e chiusi, e con il tubo, quel tubo bianco che li collegava a qualcosa, a un motore, a un’intelligenza, a una boa, e che ora invece spencola nel vuoto e cerca di collegarsi a destra e a manca con il nulla. Major Tom! Siamo tutti molto simili a major Tom, in quella meravigliosa canzone che è Space Oddity. “Can you hear me, major Tom?” Ma non siamo lui, che era veramente solo nello spazio. Noi riusciamo a essere sperduti, e affollati. Soli, e dialoganti. Ci rimbalziamo a vicenda le nostre solitudini, e le chiamiamo condivisione. Viviamo in un rumore costante, e ci portiamo dentro il nostro silenzio, ognuno il suo. Usiamo la parola, ma parlare per formule non è parlare. Non sappiamo più condurlo, un ragionamento, portarlo a maturazione lenta, fase per fase. Ci abbiamo rinunciato, a ragionare. E a aspettare. Troppo lungo, troppo inutile.

Torniamo alla domanda: perché abbiamo scelto così in massa di affidare a facebook, o consimili, il nostro pensiero? Perché ci facciamo una pagina, un sito, un blog, esponendoci così alla triturazione altrui? Perché affidiamo le nostre idee a un video di un minuto e mezzo? Perché ci siamo arresi a tanta pochezza, ristrettezza, di tempi, di spazi?

Credo che sia perché ci conviene. Moltiplica la visibilità. Quindi aiuta il nostro lavoro, aumenta l’audience, le vendite dei nostri prodotti, siano essi libri, film, o borsette o piatti prelibati. Dunque, è autopromozione. Parliamo sul web perché lì possiamo far “crescere la nostra pagina”. Far conoscere sempre di più la nostra opera, il nostro nome. Aumentare la fama. Gli haters, alla fine, non sono che un inevitabile inconveniente, sgradevole, ma necessario: anch’essi amplificano la fama, forse sono addirittura il segno del successo. Famosi e diffamati, pazienza. Anche se si tratta di un successo immediato e labile, nemmeno un riflettore temporaneamente puntato su di noi, bensì la luce di un fiammifero. E siccome il fiammifero dura pochi secondi, la soluzione è aumentare il numero dei fiammiferi.

È questo bisogno di luce perenne intorno che m’incuriosisce, il bisogno di essere “seguiti”. Non riusciamo più a dire niente senza voltarci a vedere chi c’è dietro. Camminiamo con la testa perennemente voltata. Parliamo per vedere quanti ci ascoltano. Forse non ci importa nemmeno più quel che diciamo, ma solo la fila dietro, il fiammifero in più. La conseguenza è che finiamo per adeguare quel che diciamo al consenso altrui: diciamo quel che la gente vuole sentire, scriviamo i libri che la gente vuole leggere, votiamo il partito che la gente (o meglio, la “nostra” gente) vota. Seguiamo l’onda, il main stream. Il pensiero libero, originale, indipendente, per sua stessa natura, non ha seguaci. Dunque, non esiste.

Sia chiaro, a tutti fa piacere suscitare apprezzamento, ammirazione. Registrare una reazione positiva a quel che stiamo facendo, sul lavoro, per esempio. Lavoriamo meglio, se qualcuno ci dice bravo.

Ma anche lavorare e basta, senza chiedersi a chi “piace”, avrebbe un suo fascino. Anche essere non visti, non cliccati, non postati, non inoltrati. Anche l’invisibilità è un valore. Inestimabile. Andare per la propria strada, per la strada che riteniamo giusta in base ai nostri ideali, alle convinzioni che abbiamo maturato nel tempo, ai principi morali a cui abbiamo deciso di attenerci e, anche, alle nostre passioni. Così il maestro diceva a Dante: “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia che l’andare allenti? Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti; sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”.

Anche tacere, volendo, ogni tanto, sarebbe un valore. “La più vera ragione è di chi tace”.

Ma siamo sempre nell’ambito della poesia, caro major Tom. Soli nel tuo spazio infinito.

Articolo pubblicato sul Il Sole 24 del 26 agosto 2016



Il senso (perduto) delle proporzioni

Ricordate la strage del 2011 nell’isoletta norvegese di Utøya, quando in odio agli immigrati islamici un fanatico di nome Breivik uccise a sangue freddo 77 ragazzi, colpevoli di essere socialisti?
Ebbene lo sconcerto, la rabbia e l’indignazione furono unanimi. E altrettanto unanime fu lo sconcerto quando il medesimo Breivik, condannato a 21 anni di carcere (il massimo della pena nella civilissima Norvegia), intentò causa allo Stato e alle autorità carcerarie per “trattamento inumano”. Tra le lamentele di Breivik, ospitato in una prigione ultra-confortevole (un trilocale con tanto di doccia e palestra personale), lo stato di isolamento cui era stato costretto, la versione troppo vecchia della playstation, la paghetta settimanale insufficiente, i videogiochi troppo infantili. Per quanto mi riguarda lo stupore si trasformò in incredulità quando appresi che la giustizia norvegese, progressista, illuminata, avanzatissima, diede ragione all’assassino para-nazista Breivik e torto allo Stato e alle autorità carcerarie.

Questa storia mi è tornata alla mente in questi giorni, di fronte all’espressione “trattamento inumano” da alcuni adoperata per descrivere quel che è successo a uno dei due giovani americani arrestati per l’assassinio del carabiniere Mario Cerciello Rega, che prima (o dopo) un regolare interrogatorio videoregistrato e in presenza di un avvocato, è stato tenuto legato e bendato su una sedia, pare per cinque minuti. La storia di Utøya non mi è venuta in mente perché i due casi siano simili (non lo sono affatto), ma perché il caso norvegese illustra molto bene un fenomeno più generale, che è presente in entrambe le circostanze e in molti altri casi di tutt’altra specie: la completa perdita del senso delle proporzioni.

Un concetto come quello di trattamento disumano, inumano o degradante è stato coniato per individuare pratiche gravemente lesive della dignità umana, come la tortura, la riduzione in schiavitù, la detenzione in condizioni estreme, da Guantanamo ai campi libici. Estenderlo ad episodi più o meno gravi e riprovevoli ma che non hanno nulla a che fare con i comportamenti cui il concetto si riferisce, o addirittura applicarlo a casi ridicoli come illustra il caso norvegese, è un pericoloso abuso di linguaggio, che alla lunga può produrre effetti aberranti. Se la giustizia norvegese ha potuto dare ragione ai capricci di un assassino spietato, colpevole della morte di 77 ragazzi innocenti, è anche perché abbiamo smarrito il senso delle proporzioni. O, se preferite, perché siamo affetti da un eccesso di civiltà, che ormai ci impedisce di mettere i fatti nelle giuste categorie, e di usare le parole appropriate.

Può così accadere che un professore americano sia punito e addirittura perda il posto perché il materiale cui espone gli studenti (sia esso la Divina Commedia o un testo di Mark Twain) infliggerebbe alle loro menti sensibili un “danno emotivo”. O che un ministro sia accusato di “sequestro di persona” perché non fa scendere tempestivamente da una nave dei migranti salvati in mare. O che un genitore che dà uno schiaffo a un bambino venga accusato di “violenza su minore” (succede anche questo, nei paesi più civili).

Quel che colpisce, in tutti questi casi, non è il giudizio che si dà verso il colpevole, sia esso lo Stato norvegese, l’Arma dei Carabinieri, il professore americano, il ministro della Repubblica, o il genitore, ma che il meccanismo accusatorio si basi sulla medesima tecnica retorica obliqua: anziché contestare francamente la violazione di qualche regola o l’urto di qualche sensibilità individuale, si importano parole forti, cariche di emotività, e che non lasciano dubbi di colpevolezza (trattamento inumano, danno emotivo, sequestro di persona, violenza) per descrivere comportamenti che stanno in tutt’altro ambito. Con ciò si smarrisce una delle fondamentali capacità dell’essere umano, o perlomeno dell’essere umano qual era prima che l’ossessione del politicamente corretto e l’abuso della cultura dei diritti tentassero di riprogrammarlo da zero: la capacità di cogliere la sostanza di un comportamento, e di graduarne la gravità.

Una capacità che è importante, perché connessa al comune senso di giustizia. Chi perde il senso delle proporzioni, perde la capacità di soppesare il bene e il male, o di riconoscere il male estremo per quello che è. E finisce, con la sua indifferenza, per infliggere nuovo dolore a chi dal male estremo è stato colpito.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 agosto 2019



Con lo ius soli un senegalese diventato italiano si interesserebbe a Dante?

Essere contrari allo ius soli significa, oggi, essere relegati in un lebbrosario morale, diventare un esempio di quel processo di disumanizzazione che, per la political culture dominante, ha investito la destra italiana, anche quella un tempo rispettabile (ma rispettata poi da chi?). Non condividere una tesi non significa ispirarsi a valori diversi da quelli diffusi dalla stragrande maggioranza dei media ( giornali, radio, tv, social, etc..) ma militare nella schiera dei retrogradi, incattiviti dalla loro scarsa presenza nelle sedi in cui si forgia lo “spirito pubblico” e oggi si elaborano le parole d’ordine del politicamente corretto.

 Forse il malcostume segna sia il pensiero conservatore che quello progressista. Parlar male di Bolsonaro e dello scempio che sta consentendo della foresta amazzonica (un vero crimine contro l’umanità) significa irriducibile ostilità ideologica alla società industriale, al mercato, al progresso tecnologico (valori, peraltro, estranei alla destra tradizionalista).

 Avere forti riserve su Carola Rackete espone all’accusa di razzismo, di crudeltà d’animo, di insensibilità verso la tragedia epocale dell’emigrazione. Nessun sospetto che anche gli avversari abbiano buone frecce nella loro faretra etica. La lotta politica è sempre tra Dio e Satana, tra il Bene e il Male, tra la passione e la ragione. E’ la fuoruscita (semmai c’è stata un’entrata) da quella democrazia liberale che trova il suo esempio più alto nello stipendio che, in Inghilterra, viene dato al capo dell’opposizione di Sua Maestà Britannica. Se non si non si fosse ritenuto che anche gli avversari del premier in carica avrebbero potuto avere delle buone ragioni per combatterlo, quella norma non avrebbe avuto alcun senso. Chi si oppone tout court al “bene comune” perché dovrebbe venire stipendiato?

In questo clima culturale, per le argomentazioni di quanti sono contrari allo ius soli non c’è spazio. Anche nelle tv “moderate” (quelle Mediaset?) non mi è mai capitato di sentire un solo esponente dell’attuale maggioranza o della destra all’opposizione ( FI, FdI) spiegare perché in aula non hanno sostenuto la battaglia di quanti intendevano conferire la cittadinanza italiana, d’ufficio, a tutti i nati nel nostro Paese. Un diniego, di cui quasi ci si vergogna, in controtendenza com’è rispetto al buonismo imperante: bergogliesco o universalistico/ illuministico che sia. Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere (Non ridere, non piangere nè detestare ma cerca solo di comprendere). Avendo preso sul serio il monito di Baruch Spinoza, mi sono chiesto quale sia la ragione della criminalizzazione degli avversari dello ius soli, sempre nel rispetto delle varie posizioni. E’ un nefasto equivoco quello che induce a vedere nel pluralismo la coesistenza di valori opposti e irriducibili. In realtà, in una vera democrazia liberale, tutti condividono i valori di tutti e il pluralismo sta nel diverso peso che si è disposti a dare a ciascuno. Tutti ritengono ‘‘ cosa buona e giusta” la sicurezza sociale e ne affidano la tutela agli apparati pubblici ma non tutti alla sicurezza sociale sono disposti a sacrificare, oltre una certa misura, la libertà individuale (che, anche qui, tutti apprezzano).

Tornando allo ius soli la spiegazione della messa sotto accusa dei suoi avversari – è la conclusione alla quale sono pervenuto – non dipende da malafede, né è soltanto una risorsa simbolica dello scontro politico ma rappresenta il risultato del tramonto (forse definitivo) del valore che stava a fondamento dell’identità etico- sociale del cittadino, lo Stato nazionale. In una società che, come ho più volte fatto rilevare, riduce tutto il mondo umano, nella sua insondabile complessità, a interessi e a diritti individuali, ovvero a economia ( universalismo del mercato, di matrice anglosassone) e a diritto (universalismo giuridico di matrice francese e illuministica) si dissolve la comunità politica che esclude chi non ne fa parte e assicura tutela, sicurezza e benessere solo ai suoi membri, ciò che non esclude trattamenti umani, civili, verso lo straniero, il meteco.

 Quel che ormai si ha in mente è molto semplice: la riduzione del rapporto sociale a scambio di utilità. Se si assume un prestatore d’opera, lo si mette in regola, si garantisce pensione e assistenza sanitaria a lui e alla famiglia, gli si consente, una volta trovato il lavoro, di procurarsi un tetto, un asilo e una scuola per i suoi figli, e alle stesse condizioni degli altri, palestre, giardini, parchi pubblici, spiagge etc. etc., perché al riconoscimento di questi diritti sociali non dovrebbe seguire la concessione della cittadinanza ovvero i diritti politici?

U n tempo la riposta sarebbe stata semplice: perché oltre al lavoro, alla tutela sindacale, ai contributi previdenziali c’è una realtà, l’identità nazionale, che non può esaurirsi nei rapporti di lavoro e negli obblighi che ne derivano. La ragione per cui se ne fa parte sta nella volontà di custodire, arricchire e preservare un patrimonio ideale, una tradizione spirituale, una lingua, una cultura in cui siamo stati educati e formati.

Certe cose si comprendono a partire dal quotidiano. Uno studioso torinese, autore di tanti articoli e saggi dedicati alla sua amatissima città, Pier Franco Quaglieni–cofondatore e animatore del prestigioso Centro Mario Pannunzio – sul quotidiano il Torinese del 25 luglio scorso, ha tessuto l’elogio di «un oscuro deputato barese del M5S, l’onorevole Michele Nitti», promotore di una iniziativa parlamentare intesa a istituire una giornata dantesca, nel settimo centenario della morte del Poeta ( 2021). Alla proposta lanciata dal Corriere della Sera hanno aderito il ministro Enzo Moavero Milanesi e il linguista Claudio Marazzini ma, scrive Quaglieni, con comprensibile amarezza; «ha taciuto finora sul “Dantedi” la storica Società Dante Alighieri, attualmente presieduta dall’ex ministro Andrea Riccardi, non certo la persona più qualificata, nel suo incontenibile multiculturalismo, per questa carica, ricoperta per tanto tempo, con esiti brillanti, dall’ambasciatore Bottai. |…| La Società, fondata da Giosuè Carducci nel 1889, entrava naturaliter nella vita di ogni italiano fin da quando era bambino, una scelta molto importante del percorso formativo. La ‘ Dante’ per il VI centenario fu protagonista nel 1921 delle celebrazioni dantesche e dell’emissione di una memorabile serie di francobolli».

Poniamo il caso che le celebrazioni di Dante, oltre al Dantedì, comprendano iniziative molto costose per lo Stato e per le regioni più direttamente interessate e che le spese previste vengano coperte dall’introduzione di nuove imposte o dalla decurtazione (relativa) dei fondi destinati a Scuola, a Sanità o ad altri compiti dello Stato: perché i nuovi italiani, ci si chiede, dovrebbero essere interessati a vedersi ridurre (sia pure minimamente) il loro portafogli e, con esso, la loro capacità di spesa? Cosa possono mai interessare Dante, la Divina Commedia, la nascita della lingua italiana a un senegalese, a un indiano, a un cinese divenuti cittadini italiani? E perché dovrebbero essere entusiasti, specie se di religione islamica, della destinazione di cospicui fondi al restauro delle Chiese storiche o dei monumenti che hanno fatto la nostra identità?

E’ vero che non occorre essere nati all’estero per restare indifferenti alla preservazione del nostro patrimonio storico e artistico – si pensi alla miseria delle ultime celebrazioni del Risorgimento – ma a quanti non si rassegnano alla finis Italiae bisogna riservare la gogna mediatica?

Che cosa fare dell’Italia, dello Stato nazionale, delle nostre tradizioni? Dobbiamo deciderlo soltanto noi, italiani del nostro tempo, o dobbiamo ammettere alla discussione anche quanti accogliamo nel nostro Paese perché (come ci vien detto) abbiamo bisogno di gente disposta a fare i lavori ai quali gli Italiani si sottraggono… compreso l’assolvimento al debito coniugale senza contraccettivi?

LA PAURA DI INQUINAMENTO CULTURALE O SEMPLICEMENTE DEL DISINTERESSE DI CHI VIENE DA ALTRE CIVILTÀ E HA DIFFERENTI RIFERIMENTI ETICI E STORICI

Pubblicato su Il Dubbio del 30 giugno 2019



Rassegna stampa – Anteprima 31 luglio

Clamoroso

In Russia il tasso di sconto è stato abbassato al 7,5% [Sole]

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In prima pagina

• Il vicebrigadiere Cerciello aveva dimenticato la pistola quando andò in borghese dai due americani

• Scontro tra Tir sull’A14 a Borgo Panigale, autista muore carbonizzato

Il figlio di Salvini sulla moto d’acqua della polizia

• La Lega sale ancora nei sondaggi, Fratelli d’Italia supera Forza Italia

• Lo spread a quota 203, poi chiude a 197

• La Cassazione ha stabilito che a scuola gli alunni non possono portarsi il pranzo da casa

• È stata aperta un’inchiesta sulla nave Gregoretti ancora ferma al porto di Augusta con 115 migranti a bordo

• Rivolta in un carcere brasiliano, 57 morti, 16 dei quali decapitati

• A 18 anni dal delitto, sono stati chiesti cinque rinvii a giudizio per l’omicidio di Serena Mollicone

• Neymar non sarà accusato di stupro

• La Juventus ha venduto Kean all’Everton per 40 milioni, il Milan presenta l’attaccante Leao

 

Titoli

Corriere della Sera: L’ultimo mistero: / il carabiniere ucciso / era senza pistola

la Repubblica: Scacco ai 5stelle / Salvini punta al Sud

La Stampa: Di Maio: dopo Bibbiano / basta solci a coop e onlus

Il Sole 24 Ore: Lombardia, la locomotiva rallenta

Avvenire: L’azzardo di Agcom

Il Messaggero: Senza pistola davanti al killer

Il Giornale: Guerra ai carabinieri

Qn: Il carabiniere era senza pistola

Il Fatto: Savoini, 150 mila / euro dal Marocco / caduti nel cesso

Libero: «Se volete l’autonomia / pagate il Mezzogiorno»

La Verità: «Il carabiniere non poteva sparare / perché sarebbe stato incriminato»

Quotidiano del Sud: Voragine partecipate / quasi tutta targata Nord

il manifesto: La nave dei fantasmi

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Rassegna stampa – Anteprima 30 luglio

Clamoroso

Dal 2010 a oggi le vendite di bidet negli Statu Uniti sono aumentate del 10 per cento l’anno [Arletti, Venerdì].

 

In prima pagina

• Scuola, via libera all’assunzione di 53 mila insegnanti

• Il lungo applauso ai funerali del vicebrigadiere Cerciello Rega

• Il collega di Cerciello Rega era con l’uomo derubato già un’ora prima della chiamata al 112

• Colpi di mitra a un festival in California. Tra le vittime un bambino di 6 anni. Il killer è un italo-iraniano. La polizia lo ha ammazzato

• Trump licenzia il capo dei servizi d’intelligence Coats e nomina un suo fedelissimo

• L’audio in cui Di Maio si sfoga con i militanti: «Ogni volta devo fare un accordo con quell’altro»

• Dalla nave Gregoretti scendono 16 minorenni. La Germania si dice disponibile ad accogliere i migranti che si trovano a bordo

• Parmitano vede la Terra dallo spazio e lancia l’allarme sul riscaldamento globale

• Takeway offre 5 miliardi di sterline per comprare Just Eat

• Elton John festeggia 29 anni di sobrietà

• Sono morti George Hilton e Paolo Giaccio

• Serie A: Juve-Napoli e il derby romano alla seconda giornata, Inter-Juve alla settima

 

Titoli

Corriere della Sera: «Hanno ucciso, non sono pentiti»

la Repubblica: Nistri: basta coltellate / Ma il caso non è chiuso

La Stampa: Sulla nave 115 migranti / Nessuno li fa scendere

Il Sole 24 Ore: Risparmio / gestito / commissioni / sotto tiro

Avvenire: «Eroe è chi serve»

Il Messaggero: L’urlo della vedova: tutelate noi

Il Giornale: xxx

Qn: Le imprese: governo di sonnambuli

Il Fatto: I due amanti sul Tav

Libero: Carabinieri e poliziotti / non possono difendersi

La Verità: Parla la prima «pentita» di Bibbiano / «Pensavano solo a togliere i bambini»

Quotidiano del Sud: Il forte no dell’Università / Autonomia cavallo di Troia

il manifesto: Arma a doppio taglio

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