Una modesta proposta

Credo che, prima o poi, si arriverà a qualcosa che limiterà la circolazione gratuita e illimitata delle informazioni su internet. Potrebbe essere un “francobollo elettronico” sulla posta trasmessa via internet, o la nascita di un circuito parallelo a pagamento, e perciò stesso sostanzialmente impermeabile allo spam e alla violenza simbolica che infesta la rete. In una società opulenta qual è diventata l’Italia sono certo che molti sarebbero ben felici di pagare un abbonamento, verosimilmente meno costoso di quelli del calcio, per proteggersi dal flusso di informazione indesiderata che ci tormenta 24 ore su 24. E’ abbastanza incredibile che non sia ancora successo nulla, nonostante due fatti incontrovertibili: la circolazione illimitata di materiale sulla rete saccheggia la nostra riserva personale di tempo; la proliferazione dei messaggi di posta elettronica, attraverso l’iper-consumo di energia sui server, danneggia l’ambiente, che pure tutti diciamo di avere a cuore (un fatto noto da almeno un decennio, ma che, sorprendentemente, solo da poco sta ricevendo la dovuta attenzione).

Quando internet non sarà più una prateria unica, su cui tutti possono scorrazzare a piacimento senza regole e senza rispetto per gli altri, certi problemi che ora infiammano gli animi, come l’hate speech (i discorsi d’odio), finiranno per appassire. Se mandare una mail o postare un messaggio avrà un costo, succederà quel che succede in tutti i campi in cui le risorse non sono illimitate: la scarsità delle risorse indurrà un loro uso più razionale, o semplicemente meno smodato.

Ma nel frattempo? Nel frattempo come facciamo a difenderci dagli scocciatori e dagli odiatori?

Sugli scocciatori non ho idee. Temo che, come nella vita è quasi impossibile liberarsi di uno scocciatore, lo stesso valga per internet e più in generale per lo spazio pubblico (ad esempio gli stadi): lo spam, l’iper-comunicazione e il tifo sono quasi impossibili da schivare. Ma sugli odiatori, sui malati di aggressività e di cattiveria, una modesta proposta per difenderci ce l’avrei. Per illustrarla, però, devo partire da una triplice osservazione: primo, il grosso dell’odio si concentra su personaggi pubblici che, per una ragione o per l’altra, sono divenuti simboli di qualcosa; secondo, quando un personaggio pubblico è sotto attacco, i media danno un enorme risalto ai messaggi che lo riguardano; terzo, la diffusione sui media dei messaggi d’odio spinge altri odiatori a imitarli, entrando a loro volta in campo, .

Ed eccomi alla proposta. Se vogliamo frenare la circolazione dell’odio, innanzitutto in rete ma non solo, la prima regola dei media dovrebbe essere: negare lo spazio. O, se preferite: non farsi strumentalizzare. Perché è un po’ ipocrita indignarsi per la volgarità della comunicazione pubblica quando ci si presta quotidianamente a farle da megafono. E’ un circolo vizioso: i malati d’odio aspirano alla notorietà, ossia precisamente a ciò che gli autorevoli censori dei loro discorsi quotidianamente concedono loro. Per un odiatore non è importante colpire il personaggio che odia, ma fare un salto di status grazie a un articolo su una quotidiano nazionale o a un servizio di un telegiornale. I media, spiace dirlo, sono i complici più utili degli odiatori. Come i tossicodipendenti, che manipolano gli psicologi raccontando loro quel che questi ultimi si aspettano, così gli odiatori manipolano i media dando loro in pasto materiale che i media stessi – immancabilmente – non resistono alla tentazione di pubblicare e fare oggetto di “dibattito”.

Perché? Dovere di informare l’opinione pubblica?

No. Allo stato attuale non ci sono strumenti per stabilire in modo obiettivo dove stia andando il “fiume immondo” del web (così Massimo Cacciari nell’ultimo film di Elisabetta Sgarbi, Vaccini, nove lezioni di scienza). Tutto dipende dalle piattaforme che si monitorano, dalle parole-chiave che si utilizzano, dai periodi di tempo che si analizzano. Non c’è alcun valore aggiunto, non c’è alcuna vera notizia, solo la stessa immota verità: sul web operano impunemente “legioni di imbecilli” (così li chiamava Umberto Eco).  E allora perché pubblichiamo e dibattiamo di tutto?

La realtà, temo, è che l’unica vera bussola del mondo dei media è suscitare emozioni, possibilmente quelle che favoriscono la propria parte politica. E’ questo che rende irrefrenabile l’impulso a pubblicare di tutto, anche se il pubblicarlo alimenta il male che si finge di voler combattere. Ed è per questo la mia modesta proposta – tacere – non potrà essere ascoltata.

Con questo non voglio dire che il silenzio, il rifiuto di dare visibilità alla miseria umana, sia l’unica via per combattere odio, disprezzo, volgarità. C’è almeno un caso in cui l’informazione, la discussione, anche l’indignazione, sono legittime, se non doverose. Questo caso è quello in cui un personaggio pubblico, che ha fama, visibilità, potere, responsabilità, viola le regole minime del vivere civile, che sono fatte di rispetto, sensibilità, capacità di ascolto. In questi casi è bene parlare, perché l’odio o il disprezzo manifestato da chi ha più potere o più voce degli altri non sono neutralizzabili semplicemente ignorandoli, ma richiedono una risposta ferma.

Il punto delicato è solo questo: dobbiamo dare una risposta, ma dobbiamo darla a 360 gradi. Non si può trovare inaccettabili le cadute di stile dei nostri avversari, e sorvolare su quelle dei nostri amici, qualsiasi cosa ciascuno di noi intenda per avversari e per amici.

Per quanto mi riguarda sono stato profondamente colpito da gesti come quello di Matteo Salvini, quando ha tenuto un comizio esponendo una bambola gonfiabile che rappresentava Laura Boldrini, o quando ha commentato la sentenza di condanna degli uccisori di Stefano Cucchi con la frase “la droga fa male”.  Ma altrettanto mi ha turbato la campagna di odio di alcuni media e di alcuni intellettuali verso Salvini, dipinto ora come non-uomo, ora addirittura come “bestia”. E ancor più mi ha sconcertato che un sedicente “artista” non abbia trovato di meglio che esporre un’opera d’arte (?) che raffigura Salvini stesso mentre spara a due immigrati-zombie, quasi che questa fosse la proposta politica della Lega in materia di immigrazione.

Finché non capiremo questo, e cioè che chi ha responsabilità pubbliche non può cavalcare la disumanizzazione dell’altro, ogni speranza di neutralizzare l’odio che circola in rete non potrà che andare delusa. Perché è la nostra faziosità che ci fa vedere il “fiume immondo” di internet non come qualcosa che possiamo sconfiggere ignorandolo, ma come una riserva infinita di strali con cui colpire i nostri avversari.

Pubblicato su Il Messaggero del 2 dicembre 2019



Quant’è bella eresia L’ impresa eccezionale è restare ortodossi…

«Fece la fine dell’abbacchio ar forno /Perchè credeva ar libbero pensiero, /Perchè se un prete je diceva: -È vero/ Lui risponneva -Nun è vero un corno!». Questi versi dell’immortale Trilussa fanno venire in mente uno dei buchi neri del carattere nazionale, la passione inesausta per gli eretici. Basta che uno scenda in piazza per dire «non è vero un corno», per riscuotere l’ammirazione e la simpatia degli italiani o meglio dell’intellighentzia che, nel nostro paese, si ritiene lo specchio più fedele dell’opinione pubblica colta e pensante. Solo da noi, se ci si pensa bene, per esaltare qualcuno—specie post mortem—si dice che «fu un eretico!». Essere stato un «ortodosso» (il contrario, appunto, di eretico) equivale a venir accusato di conformismo se non di servilismo. L’eretico può sempre contare su una buona stampa indipendentemente dall’obbligo di rispondere a domande non retoriche come: «ribellione a chi? E perché?». Il pregiudizio positivo, tipico dei popoli immaturi, porta a esaltare gli oppositori, in virtù del principio che la critica è sempre una manifestazione di vitalità. «Sono lo spirito che sempre dice no/ Ed a ragione. Nulla/c’è che nasca e non meriti/ di finire disfatto». Si direbbe che questi siano i versi del Faust di Goethe che più hanno colpito i nostri chierici. Non si spiegano, altrimenti, l’entusiasmo di non pochi storici per gli avversari radicali di Robespierre, di Stalin, di Mao, dello stesso Hitler. Cosa importa che contestassero l’Incorruttibile perché non tagliava abbastanza teste o «l’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’Umanità» (così “L’Unità” diede la notizia della morte di Stalin), di non fare abbastanza…L’importante è criticare, criticare, criticare nella certezza che dalla contestazione la libertà uscirà armata come Athena dalla testa di Zeus. Ma è proprio sempre così?

Non vorrei essere equivocato. Sappiamo tutti che senza il vento vivificatore della critica—e della stessa protesta—il lago della politica diverrebbe uno stagno malsano. In Politica in nuce, Benedetto Croce scrisse, in proposito, una delle sue riflessioni più profonde: «la vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo e i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie dell’avvenire e procurano l’avanzamento delle società umane. Per essa non vi sono altri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri dell’idea. Per essa ciascun uomo di buona volontà serve alla causa della cultura e del progresso a sua guisa, e tutti in concordia discorde». E tuttavia, come non tutte le ciambelle escono col buco, così non tutte le contestazioni dell’esistente «procurano l’avanzamento delle società umane». Anche fascisti, nazisti e comunisti rifiutavano le democrazie liberali ma non pertanto meritano la gratitudine del mal seme d’Adamo. Il 68, almeno in Italia, ha contestato scuola e università e ne ha contribuito allo sfascio irreparabile. Certo i modelli di democrazia liberale e d’istruzione pubblica, in Italia, in Germania, nella Russia di Kerensky, per molti aspetti lasciavano a desiderare ma le febbri di crescita non si guariscono con la cicuta, sopprimendo il malato tout court.

 In Italia, se si pensa ai versi commossi dedicati dalla stampa mainstream ai vari movimenti giovanili “scaturiti dal basso” —dai girotondi alle sardine—c’è un basso continuo antico che non si riesce a eliminare. Mi riferisco alla persistente contrapposizione del paese reale al paese legale. Tale contrapposizione aveva senso (eccome!) prima del suffragio universale, quando gli attori politici e sociali che contavano erano un’esigua minoranza, rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione che non aveva voce né rappresentanza. Quando la patria era quella di lor signori richiamarsi agli ‘esclusi’ non era solo democratico ma altresì liberale, giacché significava il riconoscimento della dignità di tutti i cittadini, anche di quelli male in arnese.

Col suffragio universale, però, le cose sono radicalmente cambiate: la legalità—i rappresentanti del popolo sovrano— è diventata, piaccia o no, il fondamento della legittimità—il diritto/dovere degli eletti a governare e a fare le leggi—  e continuare a opporre la seconda alla prima ingenera il sospetto che si voglia esentare le presunte “guide della nazione”—depositarie del senso elevato dello Stato e della difesa della Costituzione antifascista— dal mettersi da parte in caso di sconfitta elettorale. Di qui l’entusiasmo nei confronti dei “giovani adulti” (come il pindarico Ilvo Diamanti chiama le sardine) che riempiono le piazze mostrando che c’è un popolo che vive, che sente, che si preoccupa, che guarda, con timore e tremore, all’ascesa dei sovranismi, delle destre nazionaliste, di quanti vogliono riportare indietro le lancette della storia, che saranno pure maggioranza ma certo ‘maggioranza silenziosa’ servile e ignorante. “A foa || favola|| a l’è sempre quella”, dice una vecchia canzonetta genovese. E la “foa”, a ben riflettere, è la longue durée dell’abito mentale azionista con la sua «vocazione alla pedagogia verso gli altri partiti e verso il paese spesso più irritante che efficace», come scrisse il compianto De Caprariis, uno dei grandi storici del cenacolo crociano.

 In un articolo pubblicato su “Il Dubbio” il 27 novembre u.s., Se fanno i girotondi 2.0 finiranno per perdersi, Zeffiro Ciuffoletti ha scritto che «bisognerebbe ricordare che non sono solo le piazze a determinare la politica, e nemmeno la piattaforma Rousseau, ma semplicemente le urne elettorali che in Italia contano sempre meno, ma tuttavia restano decisive fin che saremo una democrazia». Forse, considerando il clima attuale che si respira in certi ambienti italiani, che temono sempre AnAnibale alle porte, la “nuova eresia” è questa: credere che al di fuori della legalità democratica non ci sia nessun’altra “legittimità superiore” —almeno se si resta nella dimensione della politica ovvero della vichiana “feccia di Romolo”.

Pubblicato su Il Dubbio



Le famiglie in difficoltà: quanti non riescono ad arrivare alla fine del mese?

Di seguito l’andamento trimestrale e mensile della percentuale di famiglie rispetto all’utilizzo che fanno del bilancio familiare: chi riesce a risparmiare, chi fa quadrare i conti e chi usa i risparmi o contrae debiti (le cosiddette famiglie in difficoltà)

Nel mese di novembre la percentuale di coloro che devono usare i risparmi o contrarre debiti è al 15.9%. Le variazioni degli ultimi mesi mostrano un dato in leggero aumento, è ormai lontano il trend di diminuzione che si era avuto nel 2016-2017.

Su base congiunturale (ovvero su ottobre 2019) l’aumento della percentuale di famiglie in difficoltà è vicina al punto percentuale (+0,8 pp), su base tendenziale (su novembre 2018) l’aumento è di ben 2.4 pp.

In calo rispetto a ottobre la percentuale di famiglie che riescono a risparmiare che sono il 27.2% a novembre, contro il 29.7% del mese precedente, anche su base tendenziale il dato è in calo (-2.1 pp). Infine, per quanto riguarda coloro che riescono a far quadrare i conti, che rappresentano il 56.6% delle famiglie, a novembre 2019 rispetto ad ottobre la percentuale aumenta di 1.5 punti, mentre su base tendenziale c’è una leggera flessione, -0.5 punti percentuali.

 




Anteprima- Rassegna Stampa 3 dicembre

Clamoroso

Sigle sindacali nel mondo scolastico italiano: 177. Ore di lezione perse dagli studenti per i 12 scioperi indetti nell’ultimo anno dalle 177 sigle sindacali scolastiche: due milioni e mezzo. Delle 177 sigle sindacali, 114 hanno meno di cento iscritti [Stella, CdS].

In prima pagina

  • Repubblica, Stampa & Co sono ufficialmente degli Agnelli
  • Conte si difende alla Camera sul Mes: «Tutti i ministri sapevano, contro di me accuse infamanti». Salvini: «Si vergogni»
  • Approvato il prestito ponte da 400 milioni per Alitalia. Altri sei mesi per la vendita
  • La maggioranza si spacca sulla spazzacorrotti per le fondazioni
  • Decreto Fiscale: tassi di interessi ridotti e più tempo per presentare il 730
  • Centomila euro per cenare con Renzi. Le tariffe di Bianchi
  • Al via a Madrid la conferenza dell’Onu sul clima: «Il mondo scelga, speranza o resa»
  • Boris Johnson annuncia una stretta sull’immigrazione: per entrare in Gran Bretagna serviranno visto stile Esta e passaporto
  • Francesco accoglie in Vaticano 43 migranti provenienti dall’isola di Lesbo
  • Proteste a Malta, il premier Muscat bloccato in Parlamento
  • Le prime sanzioni della Cina contro gli Usa per il sostegno alla protesta di Hong Kong
  • Dazi sull’import da Brasile e Argentina. La guerra commerciale di Trump continua
  • Il professore dell’università di Siena che elogia Hitler su Twitter
  • Dell’Utri ha scontato la pena, da oggi torna in libertà
  • Omicidio Sacchi, trovata cocaina nell’auto di Paolo Pirino
  • La Scala dei Turchi si sta sbriciolando
  • A Cagliari anche i vigili hanno la scorta
  • Raccolte otto tonnellate di cibo per i poveri
  • Chiude la Società dell’Apostrofo
  • Una nuova passeggiata spaziale per Parmitano
  • L’inganno dell’Uomo Vitruviano è un algoritmo
  • Un Cagliari da brividi sconfigge la Samp
  • Messi vince il sesto Pallone d’oro e supera Ronaldo
  • Il Brescia esonera Grosso dopo tre partite. Torna Corini
  • È morto Franco Janich, il libero del Bologna che vinse lo scudetto del 1964.
  • Gli Europei di nuoto 2022 sono stati assegnati a Roma

 

Titoli

Corriere della Sera: Conte attacca, gelo con Di Maio

la Repubblica: Ne resterà soltanto uno

La Stampa: Di Maio-Conte / il grande gelo / “Così Salvini / si prende tutto”

Il Sole 24 Ore: Fondo salva Stati: / scontro alle camere / Ue verso mini rinvio

Avvenire: «Agire o disastro»

Il Messaggero: Conte-Di Maio, il governo trema

Il Giornale: Conte trasloca nel Pd

Il Fatto: Su prescrizione / e manette, Pd / e Lega bocciati / dagli elettori

Libero: Il salva-Stati fa schifo. Lo pretende solo Conte

La Verità: Traballa la cattedra di Conte

Quotidiano del Sud: Pagliacci in parlamento

il manifesto: Il clima non è buono




MINIMA POLITICA. Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali

«Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri. C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento—comunisti e cattolici. E’ vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,’revisioniste’—c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo—il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo—si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale. D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

 Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra civic culture e su quali valori i ‘sovranisti’ intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’ANPI tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno! Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire alla Staaterei preunitaria. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

 Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La ‘costruzione dello Stato’, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate?’I trenta re che fecero la Francia’, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

 Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a ‘fare politica’, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie—anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore—era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione—a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni—l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud). Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià´? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato—che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola—non era la riprova che le ‘minoranze eroiche’ erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

 A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’« errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!