Dobbiamo fermarci un paio di mesi. Intervista a Luca Ricolfi

Con gli attuali trend, si può arrivare, nelle mie simulazioni, anche ad avere 2-300mila decessi. Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila.

Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che al momento non è noto, ma che, a mio parere, è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti.

I dati noti con i quali misurarsi nel modello sono le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

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Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo aiuterebbe la circolazione del virus, potrebbe essere la catastrofe». Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino, ha letto le informazioni disponibili sul Coronavirus- contagio, ammalati, morti- utilizzando le sue competenze statistiche. I risultati delle simulazioni fatte per la Fondazione David Hume, di cui è presidente, sono choccanti: con gli attuali tassi di prorogazione, se il virus non verrà rallentato drasticamente, potrebbero esserci centinaia di migliaia di decessi in pochi mesi. Decisiva una politica rigorosa di contenimento, in tal senso «le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione». I 3,6 miliardi di sforamento del deficit che la UE potrebbe autorizzarci? «Andrebbero utilizzati non per dare aiuti a pioggia alle imprese ma a rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto. Altrimenti si rischia il collasso».

Professore, lei stima che, con gli attuali trend di contagio e di morte, si possa arrivare anche ad avere 2-300mila decessi. Una cifra terribile. Come arriva a questa conclusione? Qual è il metodo di calcolo?
Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato, da solo, ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che dipende da tanti fattori e al momento non è noto, ma a mio parere è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti, ossia con le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

E cosa dicono le sue simulazioni?
Ebbene, le simulazioni mostrano che, se si vogliono generare serie storiche compatibili con la dinamica di quelle osservate, si è costretti a ipotizzare un tasso di propagazione più alto di 2.5. Qualche esperto, come il prof. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, è arrivato a ipotizzare un tasso di 4 o 5 contagiati per infettato, che nelle simulazioni risulta più compatibile con i dati storici di un tasso di 2 o di 2.5. Ma il dramma è che, se il tasso di propagazione è davvero 4 o 5, e non si interviene con politiche di contenimento drastiche, il numero degli infettati non ci metterà molto ad arrivare a qualche milione, come accade con l’influenza stagionale.

Il calcolo statistico non sconta variabili, nella fattispecie potrebbero essere il caldo della primavera, l’indebolimento del virus stesso o l’efficacia delle misure prese dal governo. Che margini di errore hanno di solito analisi di questo tipo?
Le analisi basate su modelli matematici possono solo formulare ipotesi su eventuali meccanismi di attenuazione (o di amplificazione), perché la capacità di propagazione del virus non è un dato assoluto, o intrinseco, ma dipende da numerose condizioni al contorno, perlopiù sconosciute nelle loro dimensioni e nel loro impatto. Cionondimeno, la mera osservazione della dinamica attuale basta a suggerire che, per frenare il virus, occorrerebbero fattori di grandissimo impatto, come una elevata sensibilità al caldo, o una tendenza all’indebolimento nel ciclo delle mutazioni.
Fra i fattori potenzialmente frenanti, però, ve n’è uno fondamentale, che nei miei modelli ho chiamato qt.

Cosa indica qt?
È la quota di malati “ritirati” dalla scena pubblica al tempo t e collocati in quarantena, in quanto precocemente diagnosticati come positivi al coronavirus. Ebbene, poiché (insieme alle norme comportamentali) l’incremento di q mediante una campagna massiccia di tamponi è l’unica arma che abbiamo, considero irresponsabile (per non dire altro) il comportamento del premier Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha esortato a fare meno tamponi.
Se anziché straparlare di numero eccessivo di tamponi il governo avesse seguito il saggio consiglio del virologo Roberto Burioni di moltiplicarli, prevedendoli per chiunque abbia anche solo 37 gradi e mezzo di febbre, oggi la progressione del contagio sarebbe sensibilmente più lenta, e avremmo qualche speranza di fermarlo.

Tra Nord e Sud c’è qualche differenza? Ad oggi ci sono meno contagi.
Penso che l’esplosione dei contagi al Nord sia dovuta a due fattori distinti. Il primo è il caso, ossia che il Nord abbia avuto un paziente super-spreader (ultra-capace di infettare), che da solo ha dato luogo a una catena di contagi molto vasta, favorita dai protocolli seguiti nell’ospedale di Codogno, che per quel che ne so erano quelli vigenti, anche se inadeguati.
Il secondo, decisivo, fattore è che sono tutte del Nord le regioni più produttive e internazionalizzate del Paese, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Io ho fatto calcoli separati per la propagazione al Nord e al Sud e, allo stato attuale dell’informazione disponibile mi risulta che la velocità di propagazione sia analoga.

L’Italia da zona franca è diventato focolaio europeo. Ma c’è chi sostiene che la differenza sia proprio nel numero (in eccesso) di tamponi fatti in Italia.
La considero una sciocchezza. In Italia il processo è partito un po’ prima, per ragioni casuali, ma temo che gli altri paesi vedranno il medesimo film, a meno che qualche paese si decida a percorrere la strada-Burioni anziché il precipizio-Conte. Lì si vedrà quali paesi hanno una classe dirigente all’altezza.

A fronte di questa situazione, le autorità stanno via via riavviando le attività. Che segnali arrivano alla popolazione?
Errati. Le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione.
Io però distinguo nettamente fra l’intervento assistenziale e riparativo dello Stato (che è opportuno) e il tentativo di riaprire le attività, tornando alla vita normale (che produrrebbe effetti catastrofici). Quest’ultima cosa, il ritorno alla normalità, non possiamo ancora assolutamente permettercela.

Senza risorse massicce, il servizio sanitario nazionale rischia di non farcela.
Rischia il collasso. A mio parere è praticamente certo che, nel giro di poche settimane, si comincerà a morire perché non ci sono abbastanza posti nei reparti di terapia intensiva. È il guaio delle democrazie, che non possono costruire un ospedale in 10 giorni, né rinchiudere qualche milione di abitanti in una zona rossa, né proclamare il coprifuoco.

Lei sta seguendo il flusso di informazioni dei media? Come lo giudica?
Ne sono disgustato. Tutto continua con i consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro. È come la scena finale del Titanic, con la gente che balla mentre la nave affonda.

Che stima è possibile fare per quanto riguarda gli effetti sul Pil?
Stime vere e proprie sono impossibili. Se proprio devo azzardare, però, di stime ne farei non una ma due. Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo – come è elementare prevedere – anziché frenare il virus aiuta la sua circolazione, potrebbe essere la catastrofe. Che a quel punto non si misura sui punti di Pil perduti ma, come in guerra, sul numero di morti.

Il governo italiano si accinge a incassare uno sforamento dei vincoli Ue pari a 3,6 miliardi di euro di maggiori risorse. Che effetto avrà?
Sono sempre stato ostile agli sforamenti del deficit, ma questo è uno dei pochi casi in cui lo troverei sacrosanto. Il problema, però, è come usarli i 3.6 milioni di euro. Io prevedo che il grosso sarà usato per soddisfare le innumerevoli richieste di risarcimento danni che pioveranno sul tavolo del governo, e ben poco resterà per l’unica vera emergenza: rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 4 marzo 2020



Coronavirus, fermare la catastrofe

Posso sbagliarmi, lo voglio dire subito. Anzi, spero di sbagliarmi, e che domani – retrospettivamente – tutto quel che sto per dire possa apparirmi esagerato, o fuori bersaglio.
Però non me la sento di non raccontare la situazione come si presenta ai miei occhi di osservatore e di studioso di Analisi dei dati.

1. Il pericolo che l’Italia sta affrontando è molto più grave di come ci viene raccontato. L’epidemia di coronavirus somiglia alla classica influenza stagionale per quanto riguarda la capacità di diffondersi (il che è una pessima notizia: l’influenza raggiunge ogni anno circa 8 milioni di persone), ma è enormemente più letale (3 morti ogni 100 contagiati). Anche considerando come morte per influenza tutte le persone che ogni anno muoiono per complicanze ad essa connesse, il rischio di morte è di 1 caso su 1000, mentre nel caso del coronavirus è di 30 casi su 1000, ossia 30 volte superiore.
In concreto significa questo: se non riusciamo a fermare l’epidemia di coronavirus, e i pazienti contagiati diventano quanti quelli della comune influenza, i morti potrebbero essere dell’ordine di 2-300 mila. Non voglio nemmeno immaginare quel che succederebbe se, come alcuni esperti considerano possibile, l’epidemia di coronavirus raggiungesse una % di contagiati vicina al 100% della popolazione.

2. I dati finora disponibili non sono sufficienti per prevedere la traiettoria del contagio, tuttavia si possono fare alcuni esercizi di simulazione. I risultati dicono che, se la velocità di diffusione dovesse restare analoga a quella attuale, o dovesse ridursi in modo marginale, già a Pasqua (12 aprile) i contagiati potrebbero essere parecchi milioni.
E’ comprensibile che le autorità si ingegnino a sostenere che questa velocità si deve al trauma eccezionale di Codogno-Vo’ (18-20 febbraio), e al fatto che le misure restrittive adottate negli ultimi 10 giorni non hanno ancora avuto il tempo di esercitare i loro effetti. Ma si devono fare tre osservazioni:
a) la velocità del contagio nelle zone del centro-sud è analoga, se non superiore, a quella del nord;
b) il tasso di crescita del numero di contagiati non solo non sta dando segni di rallentamento, ma nella giornata di domenica 1° marzo ha subito una violentissima accelerazione (645 nuovi casi in un solo giorno, contro una media giornaliera di 139 casi nei 7 giorni precedenti, e di 161 il giorno prima);
c) anche il numero dei morti è in costante ascesa: erano 1 al giorno una settimana fa, sono saliti a 12 nella giornata di domenica.

3. A fronte di questi processi, la maggior parte delle autorità si sta muovendo su una triplice direttrice.
Primo, favorire la ripresa delle attività produttive quanto prima, non solo con (doverosi) sussidi a chi ha subito gravi perdite in termini di posti di lavoro e di redditi, ma anche e soprattutto accelerando la riapertura di uffici, fabbriche, negozi, alberghi, musei, scuole, chiese, luoghi pubblici in genere.
Secondo, scaricare sulla popolazione la responsabilità di contenere il contagio. A giudicare dai messaggi ossessivamente ripetuti dagli schermi televisivi, sembra che –fin da oggi fuori della “zona rossa”, e da domani anche in essa – l’unico presidio contro il coronavirus sia la prudenza dei cittadini: lavarsi le mani, disinfettare le superfici, minimizzare i contatti sociali non necessari, non stringersi la mano, non abbracciarsi.
Terzo, contenere l’allarme sociale limitando i tamponi. Molti politici (e molti giornalisti) paiono convinti che se ci sono tanti casi accertati di coronavirus in Italia è perché abbiamo fatto troppi tamponi, e che occorre fare marcia indietro per evitare la catastrofe dell’industria turistica.
Curioso. Prima le autorità fanno di tutto per convincerci che non c’è alcun pericolo di contagio, dalla visita di Mattarella alla scuola con tanti bimbi cinesi alle foto dei politici nei ristoranti cinesi; poi si dichiara lo stato di emergenza, si chiudono massicciamente i luoghi pubblici, si invita a minimizzare i contatti sociali, si segrega la gente in casa; infine, si stigmatizza l’“isteria collettiva” che conduce la medesima gente a fare provviste nei super-mercati…

4. Spero di sbagliarmi ma, studiando i meccanismi di propagazione del coronavirus, mi sono convinto che questa strategia sia perdente, anzi catastrofica. Per tre motivi fondamentali.
Primo motivo. Gli sforzi per far ripartire le attività produttive e commerciali, se concentrati in questo momento, avranno solo l’effetto di accelerare il contagio, rendendo enormemente più difficile e più remota nel tempo la ripresa dell’economia. Meglio perdere un mese di Pil oggi, che subire una catastrofe di dimensioni molto superiori domani.
Secondo motivo. In questo momento la priorità economica fondamentale è evitare il collasso degli ospedali, che già fra pochissimo tempo non saranno in grado di far fronte alla domanda di posti letto, specie nei reparti di terapia intensiva.
E’ triste dirlo, ma è possibile che la Cina, grazie ai poteri speciali di cui godono le dittature, ne esca prima e meglio di noi. Il minimo che possiamo fare è nominare un commissario per l’emergenza coronavirus, con un budget e dei poteri che gli consentano di fare – senza interferenze della magistratura e della politica – quel che la situazione potrà richiedere, ossia assistenza per centinaia di migliaia di persone, molte delle quali in condizioni gravissime.
Terzo motivo. Le simulazioni mostrano chiaramente che, con un contagio così veloce, l’unica strategia di contenimento che ha qualche possibilità di arginare l’epidemia è la ricerca a tappeto dei contagiati e la loro messa in quarantena. Lo ha detto chiaramente una settimana fa Roberto Burioni, suggerendo un tampone anche a chi ha solo 37 gradi e mezzo di febbre: mi chiedo se basterebbe, o non occorrerebbe fare ancora di più, organizzando lo screening più ampio possibile, usando tutte le risorse diagnostiche disponibili.
La velocità del contagio, infatti, ha due fonti fondamentali: la contagiosità intrinseca del virus, che con comportamenti appropriati si può solo attenuare, e il tasso di ritiro dallo spazio pubblico (quarantena) dei già contagiati. E’ solo individuando e mettendo in quarantena coloro che, a propria insaputa, stanno veicolando il virus, che possiamo sperare di vincere la battaglia.
Ecco perché considero enormemente grave, e segno di totale irresponsabilità, il fatto che il premier, anziché accogliere e cercare di rendere attuabile la proposta di Burioni di moltiplicare i tamponi, abbia imboccato la strada opposta. Come se l’immagine dell’Italia all’estero fosse più importante dalla nostra salute, per non dire della nostra sopravvivenza.

[2 marzo 2020]



La prudenza e la paura

Quel che sta accadendo da una decina di giorni sul problema del Coronavirus è decisamente illuminante, perché mostra nel modo più spietato a quali aberrazioni possa portare il politicamente corretto.

Mentre le persone normali, con più o meno ansia a seconda della personalità di ciascuno, si domandano semplicemente che cosa fare per proteggere sé stessi e i propri cari, i guardiani del bene vedono nel coronavirus l’ennesima, insperata occasione per istruirci e redarguirci. Secondo loro, la paura è irrazionale, i bimbi provenienti dalla Cina vanno accolti nelle classi “senza alcuna limitazione”, il problema vero non è il virus ma il rischio che si verifichino “episodi di discriminazione”. Se c’è un’epidemia, è “un’epidemia di stupidità”. E il vero problema è arginare il “cretinismo di massa” e “l’isteria popolare”. Chi ha ruoli politici, ammonisce il presidente del Consiglio, “ha anche il dovere, la responsabilità di dare messaggi di tranquillità e serenità. La situazione è sotto controllo”. I governatori se ne facciano una ragione, e si fidino di “chi ha specifica competenza”.

Può accadere così che una lettera, molto rispettosa e ragionevole, redatta da alcuni governatori del Nord raccogliendo le preoccupazioni delle famiglie, venga respinta al mittente perché “non ci sono i presupposti per allarme o panico”. Curioso. Il governo ha appena decretato lo stato di emergenza sanitaria, ma si oppone a un provvedimento elementare e assai blando suggerito dai governatori.

Che cosa proponevano i governatori del Nord nella loro lettera?

Semplice, che i bambini italiani e cinesi appena stati in Cina per il capodanno (che lì quest’anno è caduto il 25 gennaio), attendano 14 giorni prima di rientrare a scuola. Che è lo tesso tipo di misura adottata per gli adulti che, negli stessi giorni, il nostro governo aveva fatto rientrare in Italia dalla Cina con un volo speciale dell’Aeronautica militare. Se è sembrato prudente isolare per un breve periodo gli adulti, perché non fare la medesima cosa con i bambini, tanto più che l’ambiente scolastico è notoriamente adatto alla trasmissione dei virus?

Già, perché?

La domanda sorge spontanea non tanto e non solo perché l’argomentazione dei governatori era tutt’altro che irragionevole, ma perché nella medesima direzione si è espressa una delle voci più autorevoli in materia, quella del virologo Roberto Burioni, che ha spigato come, in assenza di un vaccino o di una cura, quella dell’isolamento temporaneo dei soggetti potenzialmente portatori del virus sia al momento l’unica difesa possibile. E’ vero che il Coronavirus pare meno letale di quello della Sars, ma il suo potenziale di diffusione è molto maggiore: “il Coronavirus ha le potenzialità per diffondersi in tutto il mondo e anche se avesse mortalità più bassa potrebbe causare più morti”. In breve, dice Burioni, quella attuale “è la situazione più grave che ho visto nella mia carriera”.

Il bello è che, sulla medesima linea di prudenza, si stanno muovendo molte famiglie e comunità cinesi. Anziché esigere che i propri figli siano immediatamente ammessi a scuola, anziché accusare di razzismo le famiglie che temono il contatto con i bambini (cinesi e italiani) provenienti dalla Cina, stanno scegliendo spontaneamente di mettere in quarantena i loro bambini, con l’importante risultato di tranquillizzare le famiglie dei bambini altrui, e di non esporre i propri figli ad atteggiamenti di rifiuto e di timore da parte dei loro compagni.

Dunque, di nuovo torno a chiedermelo: perché, anziché adottare (o consentire di adottare), una misura così elementare, il governo emana una circolare in cui scarica tutte le responsabilità sul personale scolastico?

Già, perché la circolare ministeriale proprio questo fa: al personale scolastico, docente e non, raccomanda di prestare “particolare attenzione a favorire l’adozione di comportamenti atti a ridurre la possibilità di contaminazione con secrezioni delle vie aeree, anche attraverso oggetti (giocattoli, matite, etc.)”.

Ma ci rendiamo conto? Supponete che, in uno dei prossimi giorni, un bambino appena stato in Cina finisca per trasmettere il virus a qualche compagno, e che nella sua scuola anche un solo bambino si ammali e muoia. Penserete mica che il governo centrale, a quel punto, si scuserebbe e riconoscerebbe la giustezza delle preoccupazioni dei governatori?

No, a quel punto succederebbe un’altra cosa. Un magistrato aprirebbe un’inchiesta, e il personale scolastico verrebbe setacciato e scannerizzato giorno per giorno, ora per ora, classe per classe per appurare se ha ottemperato alla circolare ministeriale. Ha fatto o non ha fatto tutto il possibile per “l’adozione di comportamenti atti a ridurre la possibilità di contaminazione?” Ha considerato solo il rischio di contaminazione “con secrezioni delle vie aeree”, oppure, come puntigliosamente prescrive la circolare, ha anche diligentemente controllato che la contaminazione non avvenisse “attraverso oggetti (giocattoli, matite, etc.)”? Ha ingiunto ai bimbi di lavarsi le mani con il sapone, e di farlo spesso, per almeno 20 secondi, specie dopo essersi scambiati giocattoli e matite? Si è assicurato che il sapone fosse disponibile a scuola, magari incluso nel “materiale didattico” come talora incredibilmente è dato osservare?

Insomma, scatterebbe – come sempre in Italia – la commedia della ricerca del colpevole, perché “la tragedia si poteva evitare”. Mente le autorità cinesi tengono sequestrate nelle loro case decine di milioni di famiglie, noi preferiamo caricare di responsabilità ingestibili il personale scolastico pur di evitare di tenere qualche giorno a casa poche migliaia di bambini che hanno passato le vacanze in Cina.

Quindi me lo richiedo per la terza volta. Perché?

Forse, solo perché l’impulso pedagogico dei benpensanti è irrefrenabile. Per loro ogni occasione è buona per insegnarci come dobbiamo vivere, come dobbiamo agire, come dobbiamo pensare. Per loro è essenziale ricordarci che in tutti noi cova il virus del razzismo, della discriminazione, del rifiuto dell’altro. Se questa è la missione, anche una tragedia come quella che il mondo rischia di vivere, è un’occasione da non sprecare. Anche i bambini potenzialmente infetti, e le paure più o meno proporzionate che ogni pandemia suscita, sono opportunità preziose per ribadire che loro sono gli illuminati, e noi, con le nostre paure e la nostra stupidità, siamo solo gregge cui indicare la via.

Salvare vite umane potrà essere anche importante. Ma più importante, per loro, è cogliere anche questa occasione per ricordarci che loro sono gli illuminati, i buoni, i giusti, e noi siamo materiale umano di scarto, vittime delle nostre paure e dei demagoghi che le alimentano. Non sanno, gli illuminati, che anche la paura fa parte della vita, e quel che a loro pare sempre e soltanto paura, o irrazionalità, è spesso semplicemente prudenza. Una virtù ormai sopita, ma che riemerge ogniqualvolta il mondo torna a mostrare il suo volto minaccioso.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 febbraio 2020



Ma guai se il festival vuole dividere tra buoni e cattivi

«Bellissimo» ha definito Amadeus il monologo di Rula Jebreal sul femminicidio, in cui – come si legge nell’articolo  sul “Dubbio” di Giulia Merlo – «racconta storie di donne, tra le quali quella di sua madre» vittime di stupri in tutto il mondo e «declama versi delle canzoni di uomini» meravigliandosi che sanno scrivere di donne in modo così rispettoso. Poi chiede che si parli di come lei era vestita a Sanremo, ma non di come era vestita una donna la notte in cui è stata stuprata. Che le donne vengano “lasciate essere” ciò che vogliono. Tutto giusto, lacrime tra il pubblico e anche negli occhi della Jebreal, standing ovation». Una battaglia civile, quella di Rula Jebreal, che condivido in toto, specie se penso alle domande di certi magistrati alle donne che hanno denunciato la violenza subita: le stesse degli anni in cui Pietro Germi girava uno dei suoi capolavori, Sedotta e abbandonata (1964). Altrettanto civile ritengo l’impegno dell’Associazione Luca Coscioni a favore dei malati di SLA e del diritto alle disposizioni anticipate di trattamento che dovrebbe essere pienamente riconosciuto.

Tutto bene, quindi? No: alla stampa nazionale che esalta Amadeus e considera le performances di Rula Jebreal e di Maria Antonietta Farina Coscioni – che ha portato sul palcoscenico dell’Ariston un ventunenne colpito dalla SLA, Paolo Palumbo – e parla di un “vero” successo, mi sento di rispondere, si licet magnis componere parva, come Giordano Bruno, nel celebre sonetto di Trilussa, «nun è vero un corno» (con la tranquilla sicurezza, però, di non fare «la fine dell’abbacchio ar forno”).

Sanremo, ha detto la Farina, non è solo le “canzonette” «spesso è anche “impegno”, nel senso più alto, più nobile, della parola. Un palcoscenico per comunicare, far sapere, rendere consapevoli». Sorvolo sul termine “canzonette” che fa pensare (impropriamente) a forme d’arte minori e plebee e vengo al punto. Ma è normale, mi chiedo, utilizzare, solo per questioni di audience, uno spettacolo musicale seguito da milioni di telespettatori, al fine di far conoscere all’opinione pubblica l’autentica passione civile che anima la bella giornalista palestinese e la matura signora italiana? Nel mondo, la fabbrica del dolore e della sofferenza è attiva in ogni continente e le cause degne di attenzione sono infinite. Chi sceglie quelle da portare all’attenzione del paese? E in base a quali criteri selettivi?

Sennonché anche se le cause grancassate a Sanremo trovassero concordi tutti i membri dell’ideale giuria preposta alla selezione, resta la domanda: ma che tipo di società stiamo costruendo? Vogliamo vivere in un paese in cui non ci sono domeniche per l’impegno civile, per la partecipazione alle battaglie ideali, per l’esenzione ad essere sempre vigili e memori? E non è questo l’ideale dei regimi (e dei partiti) totalitari? E’ un’ideologia di questo tipo che ha  sostituito alla satira politica l’ironia sarcastica di “Fratelli di Crozza”; che ha preteso che la scuola diventasse il luogo in cui indottrinare i giovani col catechismo repubblicano (altro non è l’“educazione civica” ricomparsa ora al posto del ben più utile insegnamento di “Elementi di diritto costituzionale italiano ed europeo”); che ha delegittimato tutti coloro che non si riconoscono nella retorica antifascista giacché credono che la democrazia liberale sia un valore più alto e più “universale” dell’antifascismo di marca azionista o comunista; che si riservano il diritto di criticare quanti, se dipendesse da loro, istituirebbero non uno ma cento, mille, giorni della memoria e vorrebbero che tutti ci cospargessimo il capo di cenere per delitti commessi quando non eravamo nemmeno nati.

Stiamo ben attenti. A Sanremo si è vista la politicizzazione (per altro non nuova) di un momento collettivo di svago, in cui il dolore del ricordo e la sofferenza del presente hanno – sia pure inconsapevolmente – segnato sulla grande lavagna repubblicana i nomi dei buoni e quelli dei cattivi.

A scanso di equivoci, riconosco a ogni essere umano il diritto all’autodeterminazione – come del resto ha raccontato Paolo, il ragazzo affetto da SLA che lotta ogni giorno per sopravvivere e realizzarsi, grazie all’aiuto della sua famiglia – ma non voglio vincere la partita per decisione dell’arbitro e prima ancora che le squadre rivali scendano in campo. Quando al liceo qualche professore, a lezione, infilava nel discorso le sue opinioni politiche mi sentivo a disagio: soprattutto se erano anche le mie!

Oggi si è parlato di stupri e di liberazione dei malati terminali dal carcere della vita, domani si potrebbe parlare dell’obbligo di accoglienza universale, degli orrori del capitalismo e del mercato, del diritto della magistratura a perseguire i reati con ogni mezzo. Tutte battaglie legittime (anche se non le condivido) ma che vanno combattute negli spazi ad esse assegnati da una società civile che nella separazione delle “sfere vitali” vede l’essenza dell’etica liberale.




Dalla tribù all’universo, e il nazionalismo diventa il male assoluto

Da tempo, grazie anche alle esortazioni di figure istituzionali come il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, veniamo invitati a distinguere tra il patriottismo, valore alto e positivo, e il nazionalismo, negazione di ogni virtù civica. Cominciò Giuseppe Mazzini, in un testo del 1871, Nazionalità e nazionalismo, a porre sullo stesso piano il fraintendimento delle parole “tolleranza” e “indifferenza” con quello che rendeva sinonimi «la santa parola Nazionalità» e il «gretto geloso nazionalismo. È lo stesso errore che confonde Religione e superstizione o Unità e «concentramento amministrativo». In realtà, il nazionalismo al quale si riferiva l’apostolo genovese non aveva nulla a che vedere con quello moderno, riferendosi piuttosto agli ingrandimenti degli Stati promossi da dinastie avide e prive di scrupoli. Per i retori del patriottismo e del republicanism, però, tutto fa brodo. Anche il richiamo a Benedetto Croce che, nel 1943, scriveva sulla ‘parola desueta: l’amor di patria’ che «si potrebbe dire che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio». Il senatore, qualche anno dopo, tuonava contro il Trattato di Pace imposto all’Italia, che toglieva allo Stato nazionale lembi sacri di territorio e le colonie ma questo non interessa chi nella storia cerca solo argomenti a sostegno di una tesi ideologica.

Certo si può distinguere il patriottismo dal nazionalismo, rifacendosi al lungo Ottocento, ma non è lecito ignorare un dato fondamentale: che negli scrittori dell’età postrisorgimentale, il nazionalismo era la degenerazione di una cosa buona mentre oggi è diventato il segno stesso del male radicale, di un pendio al fondo del quale si trovano razzismo, fascismo, antisemitismo etc. Un grande e dimenticato filosofo del diritto, Alessandro Levi – assieme a Rodolfo Mondolfo espressione di un socialismo riformista, europeista e occidentale scriveva nell’articolo La crisi della democrazia ( 1912): «La democrazia che non chiuda gli occhi alla realtà non può disconoscere la verità storica e anche l’efficienza civile delle lotte fra le classi e fra i popoli. Né può negare, se non voglia addormentarsi cullata dalle nenie di un bamboleggiante pacifismo, che, nella vita nazionale e internazionale, ‘pace è vocabolo/ Mal certo’. E sa la democrazia che non si perda in rosei sogni, come gli individui, le classi, le Nazioni nulla ottengono se non si fanno valere».

Oggi queste parole sarebbero inconcepibili: il rigetto del nazionalismo è così radicale da estendersi allo stesso concetto di Nazione. Con le parole di un allievo di Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, «il concetto di Nazione è in se stesso inconsistente e implausibile, e come tale inaccettabile; la teoria che difende il diritto di autodeterminazione dei popoli – peraltro sancito in questi termini in documenti di diritto positivo – è una teoria mal costruita, ambigua e almeno per certi aspetti contraddittoria, e pertanto ricusabile».

Per capire quel che sta succedendo, a mio avviso, può essere utile adottare un approccio transpolitico, riprendendo e laicizzando la filosofia della storia di Augusto Del Noce. Per il pensatore piemontese (uno dei più geniali del nostro tempo) «anziché vedere il vero motore della storia nella causalità materiale, nei conflitti di classe o nel progresso tecnologico, dovremmo riconoscere che tutti questi processi, certo importantissimi, forniscono però solo la materia della trasformazione storica. La forma, che è poi l’elemento decisivo, dipende dalla visione filosofica complessiva che fornisce le categorie attraverso le quali il mutamento viene pensato». Non si tratta di un approccio idealistico (in base al quale sarebbero le idee a fare la Storia) ma di disposizioni mentali che segnano in maniera indelebile un’epoca storica.

Per comprendere davvero il nostro tempo, a mio avviso, occorre prendere coscienza della ‘rivoluzione culturale’ che lo distingue dalle epoche passate, finite nel ’68 come aveva ben compreso il compianto Roger Scruton. Si tratta della fine di quell’equilibrio tra etica e politica, tra morale e diritto, tra religione e scienza, fra passato e avvenire che aveva fatto grande l’Occidente e che costituiva la stessa ragion d’essere del vecchio Stato nazionale – anello di congiunzione, per adoperare una splendida metafora di Pierre Manent tra l’universo e la tribù. Uno studioso della Scuola di Raymond Aron, Marcel Gauchet così ne parlava: «E’ precisamente nel quadro degli Stati-nazione, e in esso soltanto, che l’individuo universale ha potuto prender corpo. E questo il motivo che ha portato all’adozione di tale forma politica. La finitudine umana ci condanna a non poter accedere all’universale se non all’interno del particolare. Le Nazioni sono l’espressione politica della particolarità sociale che ha consentito di pensare l’universalità dei diritti dei loro membri, ovverosia il loro superamento in una federazione pacifica di particolarismi. Non prendiamone le distanze senza prima aver valutato quel che dobbiamo a esse».

Oggi, sui piani alti della cultura politica si assiste, per restare nella metafora di Manent, alla cancellazione della ‘tribù’ e al trionfo su tutta la linea dell’’universo’. E’ come se la mens illuministica avesse imposto le sue misure: a ciò che è ‘particolare’ – la comunità umana che persegue un suo interesse specifico che può entrare in conflitto con gli interessi di altre comunità – non viene quasi più riconosciuto uno status morale, una sua ‘ragione sociale’ o ‘ragion di Stato’.

La stessa endiadi gloriosa delle rivoluzioni atlantiche: i diritti dell’uomo e del cittadino va in frantumi. I ‘diritti del cittadino’ sono legittimi finché non cozzano contro i diritti dell’uomo. La Politica, che trova nello Stato il suo luogo naturale, diventa un cane mastino a guardia del Diritto e della Morale: le sue frontiere sono le mura di cinta delle ville del privilegio, il cui accesso viene impedito ai dannati della terra. (v. il ‘diritto cosmopolitico’ del filosofo del diritto, un altro allievo del neo-illuminista Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli). Le ‘appartenenze’ al plurale diventano, tutt’al più, ’qualità secondarie’ e nell’età dei diritti, conta solo l’appartenenza al genere umano. E’ esemplare quanto scriveva Voltaire nella VI ‘lettera inglese’: «Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le Nazioni. Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste libere e pacifiche riunioni, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quello fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa mormorare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa col cappello in testa ad attendere l’ispirazione divina, e tutti sono contenti». Sembra il manifesto della globalizzazione economica: è, in ogni caso, la sintesi dei tre universalismi che oggi tengono il campo. L’universalismo economico: si produce, si vende e si compra là dove c’è più convenienza. L’universalismo etico: gli uomini sono tutti uguali, sotto ogni latitudine e longitudine. L’universalismo giuridico: la cittadinanza deve essere sempre più inclusiva. Come ha ben sintetizzato Fernando Savater, nel libro Contro le Patrie (Ed. Elèuthera 1999): «Nell’evoluzione delle idee politiche, tutto ciò che ha qualcosa di progressista e di emancipatorio va in una direzione di riaffermare il carattere convenzionale e ‘artefatto’ dell’organizzazione sociale. Al contrario, tutto quanto insiste nel ‘naturalizzare’ la gerarchia sociale o nel ‘sovrannaturizzarla’ (sovente ambedue gli impegni apparentemente antitetici funzionano in modo complementare) è inequivocabilmente reazionario. Da qui il ripudio illuministico della teocrazia e del razzismo, del diritto divino dei re e dei ceti socialmente superiori per sangue, della schiavitù e delle leggi inappellabili del divenire storico. ‘Nazionalismo’, ‘patriottismo’, sono ideologie che, già nella loro etimologia, si richiamano più alla biologia che al patto sociale».

Diceva il vecchio Hegel che la tragedia umana sta nel fatto che a scontrarsi non sono quasi mai una ragione e un torto ma sovente due ragioni. Se questo è vero, il nostro tempo ha eliminato la tragedia sostituendola col dramma (rassicurante) della lotta dei buoni contro i cattivi. Solo all’etica universalistica (kantiana) è stata riconosciuta l’eccellenza mentre alla Nazione tribalizzata – sono state impresse le stimmate del fascismo.

E’ una frattura epocale che si fonda sulla rimozione della storia: definito il fascismo come negatività assoluta non si è più in grado di comprenderlo come la trasformazione del buon dottor Jekyll (lo Stato liberale risorgimentale) nel bieco Mister Hyde: trasformazione dovuta a contesti istituzionali e a sfide storiche, non inventati dalle camicie nere ma abilmente sfruttati. In quello che considero uno dei testi fondamentali per la comprensione della genesi e della natura del fascismo, la Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, (Ed. Il Mulino 2012) Roberto Vivarelli scrive: «Il fascismo, tanto più alle sue origini, non si definisce propriamente in termini di classe, ma di adesione o meno allo Stato nazionale e ai suoi valori e di rapporto con la tradizione risorgimentale». Cent’anni fa, e non solo in Italia, si ebbe la lacerazione tra la classe e la nazione. Oggi abbiamo quella tra il mondo e la nazione: tra quanti economicamente, culturalmente, antropologicamente vivono un’esistenza che sta oltre le frontiere nazionali e quanti si vedono nel loro abbattimento la fine della ‘protezione sociale’. E’ un vero e proprio ‘scontro di civiltà’ che rischia di fare a pezzi la democrazia liberale giacché questa richiede la condivisione di valori iscritti, soprattutto, nell’etica pubblica, e quando si affrontano non più avversari divisi dal modo di realizzare le idealità comuni ma nemici ontologici – catapultati dall’Inferno – e al confronto pacifico e rispettoso delle parti subentra un’interminabile guerra civile. E’ da un secolo, per tornare nel nostro Paese, che gli antifascisti sono considerati anti-italiani, ovvero nemici della comunità nazionale, e i fascisti (nazionalisti, sovranisti, razzisti etc.) non-umani, giacché ignari dell’eguaglianza di tutti i figli della terra. Con la sua trentennale riflessioni storiografica sul fascismo, Renzo De Felice aveva fatto opera elevata di educazione civica consentendo agli Italiani il disarmo degli spiriti e una riappropriazione del passato nel segno della comprensione e non della demonizzazione. Ma la sua fu la classica vox clamantis in deserto.

Pubblicato su Il Dubbio