Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.

 




Il diario della talpa. Quarto episodio

4.  OPPORTUNITÀ

Mi disturba un po’, quando sento in questi giorni la parola opportunità. Non se ne può più. Tutti a dire quanto è bello questo nuovo modo di vivere, quante cose stiamo imparando, quanti nuovi valori stiamo scoprendo. Tutti a dire che questo virus, in fondo, è “una gran bella opportunità”.

Pare che abbiamo scoperto la famiglia, la casa, le cose semplici, il pane, il valore del tempo. Di colpo abbiamo mariti, figli, nipoti, zie. Di colpo ci accorgiamo di quanto è bello fare i compiti insieme ai nostri bambini, pulire casa, mettere in ordine i cassetti, lavare i piatti, fare torte di mele, la pasta in casa, arrostini al miele, budini al cioccolato, giocare a carte, attaccare bottoni, aggiustare bici in garage, ascoltare musica, pitturare mobiletti scrostati, contemplare paesaggi. Anche stare col naso per aria a far niente, sentendo semplicemente il tempo che scorre, la giornata che si declina nelle sue varie fasi, di luce, di ombra. Sì, di colpo scopriamo che non esiste solo il lavoro, i viaggi, il denaro. Esistono gli affetti, i lavori domestici, il cibo, i passatempi. Esiste l’otium, il tempo libero che ci hanno insegnato gli antichi, da dedicare solo a noi stessi, alla nostra anima. L’arte del non far niente, del sentirci semplicemente vivere. Esistono gli alberi, i fiori, i libri, il ferro da stiro, il forno, i movimenti del cuore. Le finestre da cui guardare fuori per ore e le primule. Per la prima volta ci chiniamo estasiati ad innaffiare le primule sul balcone, e scopriamo attoniti la commovente esistenza di un filo d’erba.

Tutto ciò è bellissimo. Ma prima? Non le abbiamo mai innaffiati, queste benedette primule? Come vivevamo, nel nostro tempo normale? Possibile che avessimo bisogno di un virus per accorgerci di una pianta, dello scorrere del tempo, del calore di una carezza?

E poi, questa nostra strana e dilagante euforia non è un po’ fuori luogo? Viviamo bombardati da una nauseabonda litania retorica: iniziamo a considerare le cose essenziali! liberiamoci di tutto ciò che è inutile e che per anni ha riempito insulsamente le nostre vite! apprezziamo la bellezza delle cose semplici! e ringraziamo, sì, ringraziamo molto della meravigliosa opportunità che ci viene offerta.

Molti pensano addirittura che il coronavirus ci aiuterà a crescere, a capire, a diventare persone migliori, e a cambiare il mondo.

Per carità, ognuno reagisce a una catastrofe come crede, come può, come decide, e in base alle idee che ha sulla vita. Va bene. Si potrebbe dire, con Festinger: riduzione della dissonanza. Sono molto ammirata di quanti sanno ridurre le dissonanze, vedere l’altra faccia della medaglia, considerare sempre quel benedetto bicchiere mezzo pieno. È un po’ l’idea che quando un male ci tocca, stia a noi trasformarlo in un bene. Beato chi ci riesce, gli altri s’arrangino.

E se invece il male fosse davvero un male?

Se fosse preferibile che non ci fosse mai piovuto addosso, questo virus?

A volte i bicchieri sono davvero mezzo vuoti. E a volte non è poi così male vedere i bicchieri mezzi vuoti, e lasciare che le dissonanze dissuonino. Si tratta di considerare le tragedie per quel che sono. Guardare in faccia la realtà, si dice così, no?  E poi reagire, certo. Rinascere. Ricostruire. Ma come possiamo reagire al male, se abbiamo negato che fosse un male?

Credo che sia utile essere consapevoli delle ferite. Non andarcene saltellando per il mondo tali quali a prima, nascondendo il sangue sotto i vestiti.

È una questione di rispetto. Prendere atto del male è avere rispetto del bene.

E rispetto per gli altri, per chi non ce l’ha fatta, chi è stato seriamente colpito dal male, chi non ha più un lavoro, chi si chiede come sfamerà la famiglia, chi è solo, chi ha perduto in modo tanto disumano persone care, senza poterle nemmeno salutare per l’ultima volta.

Il concetto di opportunità riguarda i sani, i fortunati.

Per questo dovremmo usarla con più cautela, questa parola. Così inopportuna.

Leggi gli episodi precedenti

Copyright 2020 Paola Mastrocola
Tutti i diritti riservati




L’azzardo della ripartenza

Sono stato facile profeta quando, una settimana fa, scrissi che ai primi di maggio la fase 2 sarebbe partita comunque, a prescindere dall’andamento dell’epidemia. E infatti così è: il mese di maggio sarà il mese della ripartenza. Più o meno modulata, più o meno differenziata, ma comunque ripartenza, allentamento delle misure restrittive, riapertura di molte fabbriche ed esercizi commerciali.
Può essere più o meno sbagliato, ma è inevitabile. La democrazia è sospesa, l’opinione pubblica preme, gli operatori economici scalpitano: impensabile che la politica non ne tenga conto.
Che poi tanti medici e tanti scienziati dicano che è pericoloso, poco importa. E nemmeno contano le parole del prof. Andrea Crisanti, probabilmente il nostro epidemiologo più esperto, quello che ha realizzato l’indagine su Vo’, ha scoperto l’enorme peso degli asintomatici, e fin da febbraio ha avvertito che occorreva chiudere, e chiudere subito: “tutti quelli che si affannano e spingono per riaprire non si rendono conto delle conseguenze a lungo termine; i rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi”.
Che dire, dunque?
Forse semplicemente a che punto siamo, quel che sappiamo e quel che non sappiamo.
Soprattutto quel che non sappiamo, perché nessuno può pensare di governare un’epidemia senza i dati di base della situazione, e senza strumenti di monitoraggio ragionevolmente precisi.

Ignoranza 1. Non sappiamo quanti sono i contagiati, né quanti fra i contagiati sono tuttora contagiosi. E non lo sappiamo innanzitutto perché, nonostante fin da metà marzo vi fossero proposte di condurre un’indagine su un campione nazionale rappresentativo, e per quanto alla fine anche le autorità si fossero convinte della sua utilità, il pachiderma dell’apparato addetto all’indagine nazionale non ha ancora fornito un solo bit di informazione. Dunque, se vogliamo avere un’idea della diffusione del contagio siamo costretti a ricorrere a stime ultra-incerte, che viaggiano arditamente fra i 2 e i 12 milioni di persone.

Ignoranza 2. Non conosciamo neppure la diffusione territoriale relativa del contagio. Il dato meno inquinato di cui disponiamo è quello dei morti per Covid-19 in ogni regione. Ma da quando si è appreso che non solo il numero dei morti effettivo è molto superiore a quello ufficiale (da 2 a 4 volte), ma il numero oscuro dei morti nascosti è estremamente variabile da regione a regione, da provincia a provincia, da comune a comune, siamo costretti a concludere che la distribuzione territoriale del contagio potrebbe essere molto diversa da quella suggerita dai morti per abitante, e che i rischi per il Sud potrebbero essere sensibilmente maggiori di quel che si pensa basandosi sul numero di morti ufficiali (del numero di contagiati fornito dalla Protezione Civile non vale neppure la pena di parlare, tanta è la loro dipendenza dai tamponi effettuati in ogni territorio). E dire che, per saperne di più, basterebbe che le autorità, anziché trincerarsi dietro il paravento della privacy, si degnassero di comunicare il numero di morti comune per comune.

Ignoranza 3. Non sappiamo a che velocità viaggia effettivamente l’epidemia, nonostante vi siano esperti che presumono di conoscere il cosiddetto “numero riproduttivo” (ossia il numero di contagiati per persona) addirittura regione per regione.
Credo non a tutti sia chiaro che i numeri che quotidianamente ci vengono comunicati dalla Protezione civile non si riferiscono al “mare” dei contagiati, ma a un “laghetto” di pazienti intercettati dalle autorità sanitarie. Nessuno conosce esattamente le dimensioni relative del laghetto rispetto al mare, ma le stime più ottimistiche dicono che il mare potrebbe essere “solo” 10 o 20 volte più grande del laghetto, mentre le più pessimistiche (vedi la virologa Ilaria Capua) si spingono ad ipotizzare che possa essere 100 volte tanto (la stima della Fondazione Hume, che verrà pubblicata nei prossimi giorni, è che il mare sia circa 50 volte più grande del laghetto). Questo significa che, quando la sera ascoltiamo con trepidazione le cifre dei nuovi casi, quello di cui gli esperti ci stanno parlando è quel che succede nel laghetto che loro riescono ad osservare, mentre di quel che capita nel restante 90, 95 o 98% della realtà nulla di preciso è dato sapere.

Dobbiamo concludere che stiamo per ripartire, ma nulla sappiamo dell’epidemia?
Non esattamente. Sfortunatamente alcune cose, invece, le sappiamo eccome, e non sono cose che ci possano rassicurare.
Che cosa sappiamo?
Quasi tutto quel che sappiamo è legato ai decessi accertati. Rispetto ai casi, infatti, i decessi hanno molto minori possibilità di essere occultati. E’ vero, ci sono i decessi nascosti nelle residenze per anziani. E ci sono le persone lasciate a casa a morire perché nessuno è venuto a visitarle, o il numero verde non risponde, o il 118 non arriva, o una mail si è perduta nel labirinto della sanità moderna e digitalizzata. Ma, nonostante tutto ciò, resta il fatto che il numero di morti nascosti può essere 2 o 3 volte il numero di morti ufficiali, ma non 20, 30, o 100 volte, come avviene nel caso dei contagiati non diagnosticati. Il “mare” dei morti totali è più grande del “lago” dei morti accertati, ma non è immensamente più grande. Di qui un’importante conseguenza: se vogliamo avere un’idea dell’andamento dell’epidemia, l’evoluzione dei decessi è la migliore (o la meno inaccurata) fonte di informazione di cui disponiamo (anche le ospedalizzazioni sarebbero una buona fonte, se solo a Protezione Civile fornisse dati un po’ più analitici).
Ebbene, lavorando sui decessi, alcune cose possiamo dirle con ragionevole sicurezza. La prima è che, in base ai dati dell’ultima settimana, in almeno la metà delle regioni l’epidemia non dà chiari segni di arretramento, e in diversi casi è tuttora in espansione
La seconda è che, nel percorso di avvicinamento alla meta di “contagi zero”, siamo ancora molto indietro. E’ passato un mese esatto dal giorno in cui le morti raggiunsero il loro picco (919 in un giorno), ma da allora – dopo una sensibile riduzione nella prima settimana (da 919 a circa 600) – la diminuzione dei decessi è stata decisamente lenta. Negli ultimi giorni siamo a quota 400-500 morti al giorno, ossia esattamente a metà del cammino che ci separa dall’obiettivo di azzerarli. Il progresso tendenziale, in altre parole, nelle ultime 3 settimane è di circa 10 morti in meno al giorno: a questo ritmo, il numero di morti quotidiani si azzererebbe solo a metà giugno, e i contagi – presumibilmente – nell’ultima parte di maggio (i morti di oggi, infatti, sono la traccia di contagi avvenuti circa 3 settimane prima).
Ma la cosa più preoccupante che la contabilità dei decessi rivela è un’altra ancora: nel confronto internazionale l’Italia non solo risulta ai primissimi posti fra i paesi occidentali per gravità e precocità dell’epidemia, ma è anche fra i paesi in cui più lenta è la discesa dopo il picco del contagio e la messa in atto delle misure di contenimento. In Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, la curva di discesa dei decessi è molto più ripida che da noi (solo il Regno Unito, fra i grandi paesi, presenta un profilo simile al nostro).
Insomma, siamo ancora lontani dalla condizione che – fino a poco tempo fa – da tutti veniva considerata una pre-condizione ovvia e inderogabile dell’avvio della fase 2: che il numero di nuovi contagi sia prossimo a zero. Possiamo ugualmente sperare che, nonostante tutto, l’epidemia resterà sotto controllo?
Penso proprio di no. E questo non perché la cosa sia in linea di principio impossibile, ma perché – per riaprire evitando la ripartenza del contagio – occorrerebbe essere consapevoli che il mero fatto di moltiplicare il numero di persone che lavorano e si muovono sui trasporti pubblici non può non facilitare la trasmissione del contagio. Tale consapevolezza porterebbe, o meglio avrebbe già portato, a prendere tutte le contromisure che sono indispensabili per evitare che i nuovi i focolai tornino ad espandersi come hanno fatto tra febbraio e marzo. Fra tali misure vi sono indubbiamente le procedure di tracciamento (che da noi sono “allo studio”), l’indagine nazionale sulla diffusione (che partirà il 4 maggio, se va bene), ma soprattutto i tamponi di massa.
E’ questa la via che sta permettendo alla Germania (ma anche ad altri paesi: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Canada) di limitare drasticamente il numero di morti. Ed è questa la via che, inspiegabilmente, noi non abbiamo voluto seguire, e continuiamo ostinatamente a non percorrere.
Non capisco perché. E non lo capisce uno sconsolato Andrea Crisanti, che grazie ai tamponi sta salvando il Veneto, ma non può salvare il resto del paese: “penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione”. Trasmissione il cui inevitabile aumento – strano doverlo sottolineare – è il nodo cruciale della fase 2.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 aprile 2020




Il diario della talpa. Terzo episodio

3. GLI INDISPENSABILI E GLI INUTILI

Che poi, io dico dico ma non è vero, non sono tutti diventati talpe: alcuni sono rimasti quel che erano. Si muovono. Escono. Vanno e vengono. Stanno all’aperto, prendono aria. 

Non è vero che ci siamo fermati tutti.

Si sono fermati gli Inutili.

Gli altri, gli Indispensabili, hanno continuato a vivere. Anzi, vivono più che mai. Lavorano il doppio, si muovono il triplo. Fin tropo, poveretti. Escono di casa al mattino presto, prendono l’auto, vanno al lavoro e per otto dieci ore stanno lì a lavorare come matti.

Ci è molto chiaro chi sono oggi gli Indispensabili: le commesse del supermercato, gli autisti dei camion, dei treni, degli autobus, i benzinai, i panettieri, i macellai, i verdurai. Ovviamente prima di tutti i medici, infermieri e farmacisti. Ma poi anche gli insegnanti: per quanto in modi davvero bizzarri, stando a casa, hanno continuato a far lezione, interrogare, dare i voti. Anche i politici e i giornalisti non si sono fermati (ma su di loro mi asterrei, non saprei dire se sono tra gli Indispensabili: mi limito a dire che non si sono fermati…).

Tutti gli altri hanno potuto tranquillamente fermarsi perché non sono così utili, o lo sono molto meno. Tra questi anche alcune categorie che mai avremmo detto inutili, come ad esempio i baristi, gli avvocati, gli ingegneri, i cuochi, gli architetti, gli arredatori d‘interni, le estetiste, gli agenti immobiliari, i personal trainer. Persone utilissime per carità, ma in tempi normali, non ora. Utili, ma non indispensabili. Li catalogherei come “tra l’utile e l’inutile”. Anche i parrucchieri. Persino di loro abbiamo scoperto di poter fare a meno, e non l’avremmo mai detto. Ora ci lasciamo venire la pelliccia folta, oppure ce la tagliamo noi da soli, davanti allo specchio, come si può.

Si è fermato anche il mondo dello sport, e il mondo della cultura. Ma questo era ovvio, nulla è più inutile della cultura e dello sport. Anche se c’è stata, intorno al tema, qualche vivace e tesa discussione, dal momento che sia lo sport sia la cultura muovono fette piuttosto ingenti dell’economia! Comunque tutti a casa. Tennisti, calciatori, nuotatori, giocatori di golf. Librai, editori, bibliotecari, attori, cantanti, musicisti, registi, scenografi, tecnici delle luci e dell’audio.

È strano. Si sono create delle nuove gerarchie, tra le professioni. E questo è un bene. Oggi vale molto di più un verduraio di un nuotatore, un autista di un editore, un medico di un attore anche premiato con l’Oscar. Finalmente! Abbiamo ribaltato un po’ le cose. Adesso che ci penso, succedeva solo a Carnevale (a parte le grandi rivoluzioni della Storia).

Che il contagio abbia in sé qualcosa di carnevalesco?

E si sono fermati, naturalmente, gli Inutili per eccellenza: i pensionati, i senzatetto, gli anziani. I marginali, gli emarginati. Tutti coloro che erano già considerati fermi, fuori dai ruoli sociali, dai processi produttivi, incapaci di generare anche un solo milionesimo di PIL.

Si sono fermati nel senso che li hanno fermati: non possono più andare da nessuna parte, neanche a passeggio. Sono additati a vista e multati, appena osano mettere il naso fuori. Untori, gente scriteriata che mette a rischio i giovani, i lavoratori, i produttori, gli imprenditori.

Se non si fosse capito, questo paese ha un unico valore: il mercato, la produzione, l’economia. Viviamo solo per lavorare. Lavoriamo solo per crescere. E dobbiamo crescere a dismisura. Se non cresciamo almeno di un centesimo di un punto Pil, non siamo niente. Nessuno ha mai pensato che la crescita non può essere infinita? Anche un baobab a un certo punto si ferma e non tocca il cielo. Anche un bambino, quando diventa adulto, cosa può raggiungere, i due metri? D’accordo, un metro e ottanta, due metri e poi si ferma. Solo il PIL ha una crescita illimitata?

Se non era chiaro, ora lo è. Questo è un paese che non ama i vecchi. Non può amarli, non può volerli, perché essendo improduttivi, fragili e non più potenti, sono soltanto un peso. Gravano sulle famiglie e sullo Stato. Anche se hanno pagato tutta la vita i loro contributi per il servizio nazionale sanitario, ora (proprio ora che rischiano di ammalarsi), non si ha nessuna voglia di occuparsi della loro salute. Perché si dovrebbe? Sono a scadenza, non portano nessun futuro, nessun beneficio tangibile. Nessun guadagno. Quindi è probabile che li lasceremo a casa a lungo.

In realtà, sarebbero i testimoni del passato, coloro che tramandano conoscenze e valori, che sanciscono il senso di continuità della Storia, la preziosità delle tradizioni. Porterebbero esperienza e saggezza, insegnerebbero il tempo che passa e tutto travolge, e la salvezza della memoria. Ma per una sorte sventurata e perversa, queste son tutte cose che le nuove generazioni di governanti (e non solo di governanti) non apprezzano nemmeno un po’ e non vedono l’ora di far fuori.

C’è però una falla, in questo demoniaco piano di distruzione, non so fino a che punto consapevole o involontario. Qualcuno che si salva, che ha trovato il varco nella rete…

C’è una particolare categoria di Inutili che non si è fermata, pur essendo inutile, direi inutilissima. Non importa se sono giovani o vecchi. Una categoria di persone così inutili che è perfettamente uguale, per la società, se si fermano o no. E questo è davvero divertente…

Sto parlando degli artisti.

L’artista ha continuato imperterrito a lavorare tale quale a prima. E certo, non ha bisogno di niente. Non è come il nuotatore che ha bisogno di una piscina, l’attore di un teatro, l’egittologo di un museo aperto, il cantante (e parimenti il calciatore) di uno stadio. All’artista servono quattro cosucce in croce: a seconda di quale arte esercita, gli bastano tele e pennelli, carta e penna, un computer, un pezzo di creta, un blocco di marmo e uno scalpello, un violino, una chitarra, un’arpa… Se poi esercita l’arte dello studio, gli serve ancora meno: qualche libro, un taccuino, al massimo una lavagna su cui scrivere le sue formule.

L’artista suona, scrive, dipinge, studia, scolpisce, inventa, anche se non ha un luogo dove esibirsi (forse non ci tiene particolarmente, a esibirsi?), anche se nessuno lo vede. Lui continua. Al buio. Nascosto. È abituato così, in fondo.

In realtà gli artisti non vengono percepiti molto nemmeno quando il mondo è aperto e funziona a pieno ritmo: nessuno si accorge di loro, che lavorano chiusi nei loro atelier, studi, biblioteche o stanzucce romite. Quindi ora loro hanno continuato così, non percepiti. Invisibili. Sono talpe meravigliose, gli artisti.

Il governo meno che mai si occupa di loro. Non se ne occupava prima, figuriamoci adesso. Forse li ritiene non contagiosi… Impermeabili al virus, o già malati in partenza… O estinti.

Meglio così. Lavorano indisturbati alle loro opere, che un giorno il mondo vedrà. O non vedrà.

Leggi gli episodi precedenti

Copyright 2020 Paola Mastrocola
Tutti i diritti riservati




Il diario della talpa. Secondo episodio

2. AL BUIO E ZITTI

Il mio mondo si è improvvisamente popolato. Ora moltissimi vivono come me, sottoterra. Una moltitudine infinita. Tutti a scavare con le unghie la propria tana. Tutti talpe! C’è stata come un’invasione. Per carità, non vedo nessuno perché ognuno è preso dentro la sua galleria, ci mancherebbe. Però lo sento che c’è un gran trambusto intorno.

Così, il mondo mi si è ristretto perché devo star rinchiusa, ma mi si è anche enormemente allargato: siamo, ora, un intero pianeta di talpe!

E succede una cosa strana: che siamo soli, ma non siamo soli. Siamo, come posso dire…? tutti solitariamente insieme, in una talpitudine gigante.

Abbiamo persino raggiunto una specie di uguaglianza. Certo permangono alcune piccole differenze: chi ha il terrazzo e chi non ce l’ha, per esempio; ma più o meno adesso possiamo dire che viviamo tutti nello stesso modo. Lo stare rinchiusi ci unisce, ci uniforma.

Chi l’avrebbe detto che bastava una prigione?

Viviamo quindi tutti (quasi tutti…) sottoterra, al buio completo di quel che succede fuori. Non usciamo. Non camminiamo. Facciamo piccoli movimenti intorno (intorno a cosa non importa). Saliamo ogni tanto le scale e le scendiamo, su e giù (chi le ha, delle scale…), per tenerci in forma. Siamo anchilosati, doloranti, rigidi come pali, asfittici. Non vediamo altri animali, strade, case, auto, i dehors dei bar. Non vediamo proprio. Non usiamo più gli occhi, se non per percorrere mille volte i cunicoli di casa, guardare i mobili e gli oggetti di sempre, che ci affanniamo a spostare e rispostare, spolverare, mettere in ordine, aggiustare se hanno crepe, imperfezioni, malfunzionamenti. A volte ci prende una smania e buttiamo via qualcosa, carte, piatti vecchi, ricordini che non ci ricordano più niente. Già, ricordare… Ci appelliamo alla memoria, rivediamo nella mente le persone con cui siamo stati, i viaggi che abbiamo fatto, le estati che abbiamo passato al mare, in montagna, i musei, i monumenti, i figli piccoli che abbiamo avuto e che adesso sono grandi e non vivono più con noi (fanno le talpe in altre città, in altri continenti). Torniamo bambini e ripassiamo anche la nostra, di infanzia. A volte ci ritroviamo soli su una poltroncina, a parlare con i nostri genitori, che oggi avrebbero cent’anni.

Ci fa bene tutto questo ricordare, ma anche un po’ male. Ci fa volgere al passato come se non avessimo un futuro. Facciamo confusione. Sogniamo che il passato ritorni e lo chiamiamo futuro. Ma non ci caschiamo fino in fondo, nemmeno nei nostri sogni.

La cosa più dolorosa è il buio. Questo essere tenuti al buio. Ciechi come talpe. Inondati da previsioni, resoconti, dati, computi, grafici, statistiche, relazioni degli esperti, ma ciò nonostante al buio: è così che ci sentiamo. Non riusciamo a districarci. Nessuna chiarezza. Nessuna visione. Nessuna fiducia.

I numeri che ci vengono mostrati ci sembrano parziali, e approssimati. Esistono altri numeri, che nessuno ci dice: i numeri occulti. Fantasmatici, inquietanti. Cifre impressionanti, che non riusciamo nemmeno a immaginare.

In tutto ciò scaviamo, pazienti, le nostre gallerie. Almeno qua sotto si sta al sicuro, sembra. Così ci dicono…

Ma che ne sappiamo?

Siamo anche, oltre che senza occhi per vedere e senza zampe per camminare, senza voce. Siamo diventati muti come talpe. Non possiamo più protestare, criticare, anche solo debolmente esprimere qualche dubbio, o riserva. Se lo facciamo, qualcuno subito ci impone di star zitti e ci rimprovera: Ma come puoi criticare in questa situazione così drammatica? Zitto e obbedisci! Semmai poi, quando tutto sarà passato, potrai dire cosa non va. Sì, ma sarà tardi, avremo fatto troppi errori. È adesso che bisogna criticare, per cambiare direzione, nel caso ne avessimo preso una sbagliata. Se diciamo che qualcosa ci pare malfatto, è perché speriamo che cambi e diventi benfatto.

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno ancora curarci? Perché abbiamo posti limitati in ospedale, pochi medici e infermieri, poche mascherine, una quantità di tamponi e test ridicola rispetto al fabbisogno, medicine che non sappiamo ancora se funzionano, nessun modo di essere seguiti a casa se ci ammaliamo?

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno cosa stia veramente succedendo? Se non avessero un’idea chiara della situazione? Se fossero all’oscuro come talpe anche i nostri governanti?

Siamo, ora, molto sospettosi. E scettici. Non ci facciamo abbindolare da una retorica dolciastra e fumosa. La sensazione che abbiamo è di vedere solo una minima parte del macigno, il resto rimane nascosto da un pesante tendone. Ogni tanto si solleva un lembo, un piccolo triangolino di stoffa, e di lì sbirciamo una quantità infinitesimale di realtà. Ma nessuno solleverà mai del tutto quel tendone. Ci vorrebbe un colpo di vento…

Senza conoscere la realtà e senza avere ancora gli strumenti, ovvio che l’unica strategia possibile è stata di non farci uscire più di casa. Abbiamo limitato i rischi, certo. E siamo anche diventati responsabili di quel che ci succede: se usciamo e ci ammaliamo o facciamo ammalare altri, è colpa nostra. Quindi, tutti reclusi e fermi, immobili, ciechi. E zitti.

Talpe.

Scaviamo, cos’altro possiamo fare?

Ma quando scaviamo con le nostre enormi zampe da talpa scarnificandoci gli unghioni, abbiamo una speranza, ardita e segreta: che un giorno, magari per un errore di scavo, le gallerie s’incontrino, che ci ritroviamo tra noi talpe sperdute e impaurite. E che una di queste gallerie sbuchi all’aperto, prima o poi.

Leggi il primo episodio LA VITA INTERIORE

Copyright 2020 Paola Mastrocola

Tutti i diritti riservati