Vecchio fascismo duro a morire…

“Giorgio Napolitano, ho letto su un quotidiano di area liberalconservatrice,  è stato una figura divisiva, ma non si meritava la mancanza di rispetto che gli hanno tributato alcuni tifosi in diversi stadi italiani. Il presidente emerito della Repubblica è venuto a mancare a 98 anni lo scorso venerdì: per onorare la sua memoria era stato disposto dalla Figc il classico minuto di silenzio, da rispettare prima dell’inizio delle partite”. Non è difficile immaginare i volti delle componenti canagliesche  delle tifoserie e soprattutto di quella laziale che un Federico Fellini redivivo avrebbe ripreso, con sadico piacere, in un documentario aggiornato sulla capitale. Facce feroci e grottesche, insulti triviali, canzonacce oscene nel fetore sudaticcio di corpi scalmanati. E tuttavia, dispiace dirlo al direttore del quotidiano, il problema è un altro. Ed è quello del fascismo—davvero Ur Faschismus per citare il peggiore Umberto Eco—che in Italia sembra non tramontare mai. In un vecchio film di Mario Mattoli, Totò Fabrizi e i giovani d’oggi (1960) Totò viene schiaffeggiato dalla camicia nera Aldo Fabrizi perché non si è tolto il cappello al passaggio delle bandiere e dei gagliardetti fascisti. A pensarci bene, è l’essenza della dittatura: obbligare tutti a venerare i simboli del potere, anche se l’ossequio è soltanto formale. Quanti si ritrovano insieme, senza conoscersi e solo casualmente, ad es., per acquisti al supermercato, per sentire un’opera, per assistere a una partita di calcio, per un minuto, debbono diventare una comunità di destino, sentirsi figli e fratelli d’Italia, obbligati a onorare i grandi che hanno lasciato questo mondo.E’ ancora viva in molti liberali l’indignazione suscitata da Maurizio Pollini alla Scala di Milano quando prima di eseguire le sonate di Chopin in programma, lesse un manifesto di condanna dell’aggressione degli Stati Uniti al Vietnam. Gli spettatori, si disse, avevano acquistato il biglietto per ascoltare musica non per essere indottrinati dal pianista contestatore. Il caso della scomparsa di un personaggio pubblico certo, è diverso ma, lo confesso, mi è difficile capire perché lo sia tanto. Uno stato democratico e liberale può—anzi    è tenuto a—indire grandi manifestazioni pubbliche per ricordare gli statisti che hanno segnato un’epoca ma non può pretendere che, per citare una famosa storiella, si commuovano tutti, anche quanti appartengono a una parrocchia diversa da quella del de cuius.

Se Napolitano è stato una figura divisiva—e su questo non ci piove, basterebbe ricordare la nomina di Monti a senatore a vita, ancor prima del  ‘servizio reso all’Italia’—perché obbligare tutti a sentirne le lodi? Lo si celebri pure nelle scuole pubbliche ma senza costringere tutti gli alunni a sentire le parole alate degli apologeti ufficiali. Il minuto di silenzio negli stadi deciso dalla FIGC, francamente, mi è parso incomprensibile, non ricordando altri casi, di grandi protagonisti della vita pubblica ai quali siano stati tributati analoghi omaggi. Se nel 1964 questi ultimi fossero stati riservati dai Signori del pallone a Palmiro Togliatti–che non ricopri certo la più alta carica istituzionale dello Stato anche se fu titolare del Ministero di Grazia e Giustizia  e comunque,  protagonista indiscusso della vita politica, diede un notevole contributo alla stesura della nostra Carta Costituzionale, le varie tifoserie sarebbero state costretto a osservare il minuto di silenzio? Anche i neofascisti, i parafascisti, i picchiatori della suburra che avevano esultato per la  sua morte?

 La FIGC non è stata solo imprudente ma ha rivelato un poco rassicurante costume di casa: la pretesa che tutti debbano sentire profondamente i ‘valori’ di un regime politico e le ‘narrazioni’ (che brutto termine!) fornite dalle autorità. Dal Presidente della Repubblica al Pontefice Romano, dai pennaruli dei grandi quotidiani nazionali ai filosofi, giuristi, economisti dell’establishment, il ritratto ufficiale  di Napolitano è l’unico vero e guai a metterlo in discussione. E’ la stessa logica che fa dire al Primo Cittadino dello Stato che il fascismo è stato una dittatura spietata, feroce e sanguinaria e che ogni tentativo di metterne in evidenza i tratti positivi denuncia una preoccupante immaturità democratica e liberale.

 Per non essere frainteso, credo anch’io che insolentire  quanti commemorano un politico ieri avversato sia da condannare nella maniera più assoluta. Se qualche gruppo di sciamannati disturbasse, ad es., una grande manifestazione a Piazza del Popolo per ricordare l’illustre scomparso, le forze dell’ordine dovrebbero intervenire senza alcun riguardo contro i provocatori, il cui ‘stile fascista’ sarebbe dimostrato dall’odio per quanti hanno idee diverse dalle loro sull’Italia, il suo passato, il suo futuro.

 Una ‘società aperta’, però, deve guardarsi dall’esigere l’uniformità ideologica, il pensiero unico. Non c’è bisogno di cittadini che la pensino alla stessa maniera sui grandi problemi della storia e della politica nazionale. L’essenziale è che tutti rispettino la Costituzione, riconoscano le libertà civili e politiche da essa garantite e che l”agire esterno” sia l’unico a essere tenuto in conto. Ma, soprattutto, bisogna porre al vertice della piramide liberale la libertà di parola, ben più importante della ’verità’: nelle faccende umane infatti, non si sa cosa sia la seconda (“quid est veritas?”) mentre si sa bene cosa sia la prima. Oggi chi è di diverso parere rispetto alle veline ufficiali non viene certo riguardato come un trasgressore delle leggi ma delegittimato moralmente e squalificato intellettualmente come persona non degna di rispetto. Ha scritto Massimo Giannini su ‘La Stampa’ del 24 settembre u.s., Re Giorgio e l’Italia orfana di una destra repubblicana,  “Nella cerimonia degli addii a Napolitano, più profondo del dolore c’è solo lo sgomento per la reazione glaciale col quale la destra politica e giornalistica regola i suoi conti con questo Servitore dello Stato. In Parlamento i patrioti tacciono, riparandosi dietro al comunicato di Giorgia Meloni che, stitico e burocratico, trasuda gelo puro da ogni riga. In redazione gli squadristi bastonano, inchinandosi “di fronte alla sua morte ma non alla sua vita”. Intorno al feretro di Re Giorgio si celebra, postuma, un’odiosa luna di fiele”.  Non condividere l’elogio del ‘caro estinto’—il riferimento è a un editoriale di Alessandro Sallusti—significa essere uno squadrista armato di manganello. Ci sono italiani che hanno nostalgia del fascismo (una minoranza in via di estinzione) ed altri che ne hanno della guerra civile e fanno di tutto per tenerla accesa.




Ritorno a Carosello? – A proposito dello spot Esselunga

Per chi si occupa di comunicazione i prossimi mesi si annunciano interessanti. Lo spot Esselunga, quello della pesca e di Emma bambina triste figlia di genitori separati, quello che è piaciuto a Giorgia Meloni (“bello e toccante”), e di conseguenza non può piacere a un buon progressista, ha infatti aperto una serie di interrogativi sull’evoluzione futura dei messaggi pubblicitari.

Lo “spot della pesca”, infatti, è al tempo stesso nuovissimo e vecchissimo, quasi antico. Nuovissimo perché rarissimamente, negli ultimi decenni, abbiamo avuto occasione di vedere spot così lunghi. Soprattutto, molto raramente abbiamo visto degli spot che raccontassero una storia, una vicenda, anziché limitarsi a mostrare una situazione, una performance, un’immagine in movimento. La brevità degli spot è strutturalmente incompatibile con il respiro di un racconto, che richiede un tempo almeno triplo o quadruplo rispetto alla durata media degli spot attuali.

Ma lo spot Esselunga è anche antico, perché ci riporta al ventennio di “Carosello” (1957-1977), quando la pubblicità era rarissima in tv, e si concentrava nei 10 minuti che precedono le 21, subito prima di mandare i bambini “a nanna”. In quel tempo solo 36 grandi marche avevano le risorse per permettersi Carosello, uno spazio che occupavano ogni 9 giorni, ma il punto interessante è che lo facevano con dei filmati (sketch, cartoni animati, intermezzi musicali) ogni volta nuovi, e tuttavia sempre fedeli a sé stessi. Lo spettatore riconosceva personaggi e situazioni (alcune indimenticabili: Calimero pulcino nero, Olivella e Maria Rosa, Caio Gregorio “er guardiano der Pretorio”, eccetera), ma aveva una garanzia: il prossimo spot, la settimana successiva, sarebbe stato diverso. E c’erano regole precise, ad esempio lo spettacolo o la storia dovevano occupare molto più tempo di quello dedicato all’esaltazione del prodotto.

E ora?

Ora si aprono molti bivii e molte domande. Non è chiaro, ad esempio, se la scelta di Esselunga verrà imitata da altri marchi. E, nel caso lo dovesse essere, se assisteremo a oppure no a una riduzione della frequenza (attualmente ossessiva) con cui i medesimi spot ci bombardano, spesso contemporaneamente da più di un canale. Vi siete mai accorti che, quando facciamo zapping perché il programma che stiamo seguendo va in pubblicità, non solo caschiamo dentro un altro incubo pubblicitario, ma incocciamo nelle medesime pubblicità del canale che abbiamo appena abbandonato? Ci sono pubblicità che letteralmente ci perseguitano, con la loro frequenza e la loro ubiquità. Ebbene, è possibile che l’adozione del modello Esselunga porti anche, per ovvie ragioni di costi, a una riduzione del tasso di bombardamento attuale: spot più lunghi, ma sensibilmente meno frequenti.

Ma qui incontriamo un altro bivio. Se una o più marche dovessero adottare il modello Esselunga, si aprirebbero due possibilità: riproporre la stessa identica storia per mesi e mesi, oppure rinnovarla, variarla (o farla evolvere in una stoia più lunga? E se i genitori di Emma tornassero insieme?) con una frequenza comparabile a quella delle pubblicità di Carosello, diciamo almeno una volta ogni due settimane. I costi di produzione degli spot salirebbero vertiginosamente, ma anche questo – insieme alla maggiore durata dello spot – potrebbe indurre una (forse auspicabile) riduzione del tasso di ripetizione del medesimo spot.

Vedremo. Ma se il caso Esselunga, scemate le demenziali polemiche politiche di questi giorni, innescasse una riflessione sul senso e l’efficacia delle strategie di bombardamento pubblicitario, sarebbe un fatto positivo. Almeno per chi, dell’attuale selva di spot tanto brevi quanto (sovente) brutti, ha fatto indigestione.




La pesca della discordia – A proposito dello spot di Esselunga

Antefatto. Lunedì 25 settembre va in onda uno spot della Esselunga in cui Emma, una bambina figlia di genitori che non vivono più insieme, ruba una pesca al supermercato per poi donarla al padre, facendogli credere che il dono provenga dalla madre. Il messaggio è limpido e semplice: la bambina è triste perché i genitori sono divisi, e ricorre a un piccolo sotterfugio nella speranza di farli tornare uniti.

Passano poche ore, e fioccano le critiche, ma anche gli elogi. C’è chi dice che lo spot strumentalizza il dolore dei bambini per fini commerciali (Bersani). C’è chi invita a riflettere sul carrello degli italiani, per molti dei quali “anche una pesca rischia di diventare un lusso” (Fratoianni). C’è chi legge lo spot come un attacco alla legge sul divorzio e chi, viceversa, vi vede un omaggio alla famiglia tradizionale. C’è chi, insorge a difesa dei genitori che divorziano, e ci spiega che non tutti i figli di genitori divorziati sono infelici, così come non tutti i figli di genitori sposati sono felici.

In generale, gli esponenti della destra apprezzano lo spot, a partire da Giorgia Meloni che lo trova “bello e toccante”. Mentre quelli della sinistra lo criticano, anche se non tutti (con la consueta franchezza, Antonio Padellaro confessa di pensarla come Giorgia Meloni).

Quanto ai social non è affatto vero che la gente sia divisa. La stragrande maggioranza dei commenti è favorevole, spesso addirittura entusiasta.

Ma perché lo spot della Esselunga ha suscitato tanto interesse e tanto consenso?

Una ragione, probabilmente, è che è uno dei pochissimi spot che non trasmette un’idea stereotipata, banale e sostanzialmente falsa della realtà. Con lo spot di Esselunga, la realtà irrompe mostrando la normalità del dolore. Perché, forse non tutti lo sanno, ma la normalità, oggi in Italia, non è la famiglia Mulino Bianco, bucolica e felice, ma la famiglia che si è spezzata o si sta spezzando. La durata media delle unioni è crollata rispetto a quella del passato. Ci si sposa più tardi, e ci si divide più presto (già a 40-45 anni). Il numero di separazioni e divorzi ha ormai raggiunto il numero di matrimoni e, nelle cause di separazione o divorzio, la norma è che bambine e bambini siano affidati a entrambi i coniugi, come pare essere nel caso dello spot. Ed è curioso che, nel vortice dei temi quotidianamente affrontati sui giornali, sui siti, nei talkshow, trovino quotidianamente spazio una miriade di argomenti marginali, di fatti contingenti, di problematiche di nicchia, ma che del dolore delle famiglie in disgregazione si preferisca parlare pochissimo. Da un certo punto di vista, il massiccio consenso allo spot è parallelo e affine a quello che ha accompagnato il libro-bestseller del generale Vannacci: la normalità e la sua rappresentazione suscitano scandalo nelle élite intellettuali e politiche, ma riscuotono l’approvazione, non di rado entusiastica, di tanti cittadini comuni, che riconoscono più verità e umanità nello spot della pesca che in tante contese mediatiche, spesso lontane mille miglia dalle sofferenze quotidiane di tanti.

C’è però, forse, anche una seconda ragione alla base del successo dello spot. Una ragione che, stranamente, non mi pare di aver sentito evocare da nessuno. Questa ragione è il completo cambiamento del formato dello spot, che è diventato molto più lungo e, soprattutto, racconta una storia. Non più messaggi brevi e pretenziosi, non più situazioni improbabili o demenziali, non più lusinghe del consumatore e poco credibili gratificazioni dell’ego, bensì una storia semplice, comprensibilissima, e capace di andare dritta al cuore. Senza sottintesi ideologici, senza ipocriti messaggi umanitari, senza pretese di educare nessuno o di salvare il mondo. In breve: un racconto, non una predica.

Insomma: forse Esselunga, a 46 anni di distanza, ha riscoperto e rilanciato la formula di “Carosello”, quel quarto d’ora di messaggi pubblicitari che, intorno alle 21, segnalavano in modo irrevocabile che, per i bambini, era l’ora di “andare a nanna”. In quegli spot l’elemento essenziale, quello che affezionava l’ascoltatore, era il brio e l’originalità delle storie, delle scenette, spesso cartoni animati, sempre quelle ma ogni volta diverse. Il messaggio pubblicitario era secondario, quasi marginale. Allora, come nello spot Esselunga, l’elemento cruciale era la capacità dei pubblicitari di inventare  storie efficaci, una capacità che – a dispetto della proliferazione dei “creativi” – non appare oggi copiosa come allora.

La reazione del pubblico alla storia di Emma e della pesca fa pensare che, forse, fra la pubblicità-messaggi e la pubblicità-storie, la gente preferisca la pubblicità-storie. E questo non solo perché le storie hanno una loro grazia e una loro semplicità, ma perché la pubblicità-messaggi è martellante, fintamente benevola, e in definitiva rozza e semplicistica. Che la mossa di Esselunga preluda a un ritorno all’antico?

[uscito sul Messaggero, 29 settembre 2023]




Vannacci, la sua grossolana verità

Per dirla con San Paolo: confesso che ho peccato. Almeno credo, visto che taluni giudicano come tale la lettura de “Il mondo al contrario” del generale Roberto Vannacci. Il mio è un peccato “premeditato”, dunque non so se perdonabile, però sono convinto che per giudicare qualcuno o qualcosa, prima bisogna conoscere quel qualcuno o quella cosa. Fatta questa lunga (e forse inutile) premessa dico la mia sul fenomeno editoriale dell’estate 2023, evitando rigorosamente il riferimento a questo o quel capoverso: il “per esempio scrive…” induce sempre il lettore a soffermarsi a quell’esempio e perdere la veduta d’insieme del libro; e Roberto Vannacci in quanto a visione ed esposizione delle proprie convinzioni, è piuttosto solido e il suo prodotto se disaggregato perde di efficacia.

La prima (beh, non la primissima, quella è l’audacia dei giudizi) impressione che si ha leggendo il libro è che il generale Vannacci si trovi più a suo agio tra ordini scanditi e azioni coraggiose, piuttosto che con la punteggiatura e la sintassi (tipico inciampo di chi scrive di getto): nulla di irrimediabile con un buon editing.

Ciò detto, il libro scorre veloce e incuriosisce, non tanto per il dubbio di dove l’autore voglia andare a parare, quanto per la sicurezza delle sue affermazioni e dei giudizi derivanti. Insomma, uno che non le manda a dire, e soprattutto non tenta alcuna mediazione con le sue profonde convinzioni (che con tutto il fluido che gira di questi tempi…).

Però il vero valore aggiunto de “Il mondo al contrario” è quello di dare ordine alle idee e di mettere nero su bianco quel “pensato ma non detto” assolutamente trasversale – per sensibilità politiche e no – in larga parte di nostri concittadini.

Dunque credo che dobbiamo un grazie al Vannucci che riesce in una operazione verità – sintetica quanto efficace – del comune sentire patrio. Forse lo fa in modo grossolano, ma se abbiamo perdonato George Bernard Shaw che per sintetizzare l’essenza del melodramma italiano sosteneva che il tutto si riduceva semplicemente al tenore che voleva portarsi a letto il soprano mentre il baritono non era mai d’accordo, ecco il generale può, a buon diritto, rivendicare la sua grossolana verità .

Poi il diritto di essere e di dire è di tutti, compresi quelli che il libro non l’hanno letto e forse non lo leggeranno mai.




Della stoltezza – La maledizione del Pd

Ci sono parole che si inabissano, anche nel breve corso di una vita. Quand’ero ragazzo, tutte le settimane compravo “Il monello”, uno dei giornalini per ragazzi degli anni ’60, come “L’intrepido”, o “Nembo Kid”. Oggi nessuno usa più la parola monello. Perché le monellate sono derubricate a ordinaria amministrazione, e per essere trattati da trasgressori bisogna essere almeno teppisti, bulli, o membri di mini-gang. Così nessuno usa più parole come piroscafo, réclame, pudico, o bestemmie come “crìbbio!”, alterazione eufemistica di Cristo!

Poco male, si dirà, la lingua trattiene quel che serve. C’è un caso, però, nel quale il setaccio della lingua non ha funzionato a dovere, perché la parola scomparsa servirebbe eccome. È il caso dell’aggettivo ‘stolto’ e del sostantivo ‘stoltezza’. Quante volte lo abbiamo incontrato nelle versioni di latino… E quante volte siamo stati avvertiti del pericolo. La cultura dell’antica Roma, ma anche la Bibbia, sono piene di riferimenti (e di ammonimenti) in materia di stoltezza. La figura dello stolto assume un ruolo centrale nella definizione dei principi morali, della condotta di vita, della via della saggezza e della virtù.

La stoltezza è diversa dalla stupidità, profondamente diversa. Nessuna delle due ha un contrario perfetto, ma se dobbiamo assegnarne uno potremmo dire che il contrario di stupido è intelligente, il contrario di stolto è saggio. O, se vogliamo, la stupidità è un particolare deficit di intelligenza, la stoltezza è un particolare deficit di saggezza. Più esattamente: lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire che potranno essere negative per lui stesso. La stoltezza, in altre parole, è una mancanza  di lungimiranza che ha effetti autolesionistici.

Perché è un peccato che la parola stoltezza sia scomparsa dal nostro vocabolario? È semplice: perché la stoltezza non è scomparsa dal nostro mondo. Ci sono situazioni e comportamenti che sarebbero meglio compresi, e forse corretti, se sapessimo ancora maneggiare la categoria della stoltezza.

Esempi?

Sono innumerevoli. Il genitore che, per essere esonerato dalla fatica di interagire con i pargoli, li dota di smartphone fin dai 2 anni, causando dipendenza, danni cerebrali, e innumerevoli problemi di relazione quando sarà più grande. Lo studente che, durante la carriera scolastica o universitaria, fa il minimo necessario per essere promosso, salvo poi scoprire che le sue (in-)competenze non sono apprezzate sul mercato del lavoro. Il datore di lavoro che spreme all’inverosimile un dipendente esemplare, salvo perderlo quando quest’ultimo trova un posto migliore.

E poi c’è il Pd, o meglio la sua dirigenza. Nessuna categoria della scienza politica coglie l’essenza di questo partito meglio di quella della stoltezza. Perché, negli ultimi tempi, il nucleo dell’azione politica del Pd è stato: attaccare gli avversari in un modo che li rafforza, e al tempo stesso indebolisce il partito.

È stato così con Enrico Letta e la campagna antifascista che ha preceduto le elezioni del 25 settembre 2022, una campagna così surreale che ha finito per accelerare la corsa dei “fascisti” di Fratelli d’Italia. Ma è stato così anche con le mosse più recenti di Elly Schlein. Attaccare il governo perché non ferma gli sbarchi, come se questo potesse portare consensi a un partito che, in nome dell’accoglienza, ne vorrebbe ancora di più. Descrivere l’Italia come un paese allo sfascio, dove scuola e sanità sono a pezzi, i salari sono da fame, i lavoratori muoiono sul posto del lavoro, le donne vengono perseguitate, stuprate e uccise, come se questo dipendesse dal governo in carica, e non da quelli precedenti, tutti (tranne uno) con il Pd in posizioni chiave. Sostenere un referendum contro una legge del passato promossa dallo stesso Pd (il Jobs Act), come se questo potesse non scatenare una guerra civile dentro un partito che quella legge l’ha voluta e votata.

Si potrebbe continuare. Ma credo che la morale sia chiara: senza la categoria della stoltezza, diventa difficile descrivere il mondo in cui viviamo.