Autenticità o cultura?

Ho riletto L’immoralista di Gide.

Tempo di riletture, da qualche anno. Si rivede la vita, alla mia età, quindi, perché no?, si rivedono anche i libri letti. Spesso non si ricorda d’averli letti e si scopre a un certo punto, magari dopo pagina 100, una sottolineatura, un appunto in margine a matita. E allora s’infila in noi l’orrendo sospetto d’aver già compiuto la lettura di quel libro; sospetto che non sarebbe di per sé orrendo, se non equivalesse al pensare che la lettura ora ci appare del tutto nuova, come se mai si fosse prodotto il fatto d’aver già letto, e annotato, e sottolineato quel libro. Mai. O almeno non nella nostra vita, forse in quella di un altro. Ecco allora che ci esercitiamo caparbiamente nell’arte di non riconoscere la nostra calligrafia a margine, così che ci venga consentita l’opzione che forse qualcun altro, un amico, un familiare, abbia letto prima di noi e annotato. Ma qualcosa ci riporta sempre inesorabilmente a noi, la svirgolettatura di una a, il modo tutto nostro di mettere l’accento sulla e…

Dell’Immoralista non ricordavo nulla; non la trama, non il protagonista, l’ambiente, i luoghi, gli altri personaggi. Nulla. Ma ricordavo benissimo d’averlo letto e molto amato.

Ho amato tutto Gide, in quell’età avida dei quattordici-quindici anni quando il mondo dei libri ci si apre davanti immenso, misterioso e foriero di un’avventura mentale che, lo intuiamo, ci renderà adulti e ci forgerà la vita intera futura. Il mondo dei libri francesi, in particolare, per quel che mi riguarda. Leggevo solo i francesi, a quell’età. Casualmente. E il caso – un destino! – era che la mia insegnante di francese fosse una donna eccezionale. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche buttarmi nel fuoco. In mancanza del fuoco, leggevo i libri della sua letteratura e me ne innamoravo. Come ci sono amori per interposta persona, così ci sono amori per interposizione di libri: voglio dire, ovvio che mi ero innamorata della mia insegnante di francese…

L’immoralista è un libro bellissimo. Molto francese. Molto decadente. Molto intriso di Nietzsche, anche. E molto moderno. È assolutamente necessario leggerlo – o rileggerlo – oggi. Fin dal titolo: nessuno oggi intitolerebbe un romanzo così. Immoralista è una parola che oggi non si usa, una parola che, direi, si è spenta. Che le parole si spengano e si riaccendano è un dato di fatto incontestabile, mi pare, visto che le parole hanno una loro storia millenaria che, come la nostra, è fatta di cicli e ricicli. Dimenticanze e improvvise e lancinanti memorie. La parola immoralista ha dentro un che di battagliero: è un’opposizione. È andare contro una morale. Amorale invece è prescindere da ogni morale, è indifferenza.

Michel, il protagonista del romanzo di Gide, è a suo modo uno che si oppone al mondo, va contro. È un giovane che ha ricevuto una rigida educazione puritana e si è dato agli studi della filologia classica. Sposa Marceline, pur non amandola, per compiacere il padre, per conformarsi ai modelli comuni, studiare, lavorare, sposarsi. Nel viaggio di nozze si ammala di tubercolosi. E attraverso il male che mina la sua vita, impara ad amare la vita. O meglio, scopre un altro possibile modo di vivere, più naturale, tutto sensoriale. Arrivato a Tunisi, s’inebria della terra d’Africa, assapora i profumi dei giardini, i paesaggi notturni rubati al sonno, le infinite mutazioni dell’attimo, il contatto dell’essere con la natura, la bellezza in tutte le sue forme, anche la bellezza irresistibile dei fanciulli africani. Rinnega i libri, la cultura, l’educazione severa, la dedizione al passato, la memoria. Lo studio, l’insegnamento, la frivolezza dei salotti parigini ormai lo annoiano. I colleghi archeologi e filologi, gli amici poeti, romanzieri e filosofi, che considerano la vita “un fastidioso impedimento allo scrivere”, gli appaiono estranei e stucchevoli: “Nessuno di loro ha saputo essere malato. Vivono, danno l’impressione di vivere e di non sapere che vivono”.

Michel rifiuta ogni forma di conformismo, di adeguamento a modelli. Rincorre la parte unica di sé, originale, solitaria, libera, e quindi indifferente al bene degli altri. Non è più disposto a sopprimere quel che sente essere la sua vera natura. E rinasce. Resuscita a una “vita più aperta e libera, meno costretta e legata agli altri”. Scopre “l’essere autentico, quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere”. Inizia a disprezzare l’altro se stesso, “l’essere secondario, costruito, che l’istruzione aveva formato al di sopra”. E sente di voler “scuotersi di dosso quelle sovrapposizioni”.

E in questa forma di assoluta dedizione al nuovo se stesso, in un parossismo di egocentrico piacere, dimentica ogni dovere e cura verso l’altro: quando Marceline si ammalerà anche lei di tubercolosi, invece di dedicarsi a curarla come lei aveva fatto con lui, le impone un viaggio estenuante dalla Svizzera, dove stava lentamente ritrovando la salute, verso il sud, i climi caldi, il sole, i profumi, verso l’Italia e poi di nuovo l’Africa, la sua Africa, la luce di Tunisi dove “l’aria stessa è come un fluido luminoso in cui tutto affonda, dove ci si immerge, si nuota”, dove “la terra voluttuosa seconda il desiderio ma non lo placa, ed ogni piacere lo esalta”. Fino a Biskra, dove Michel aveva iniziato a guarire e aveva scoperto il suo essere autentico. Lì cerca quei fanciulli bellissimi che allora lo avevano incantato, e li ritrova inevitabilmente cresciuti. Mentre matura la sua delusione e impara dal vivo una delle lezioni che già gli aveva impartito il collega Ménalque: “non c’è niente che ostacola la felicità quanto il ricordo della felicità”, Marceline peggiora, fino a soccombere. Michel l’ha uccisa, col suo forsennato egoismo, inseguendo il suo bene, il richiamo di una libertà che lo porta sempre più lontano.

Non credo che oggi definiremmo Michel un immoralista. Non ci verrebbe neanche in mente. Lo iscriveremmo normalmente all’ambito di quella cultura dei diritti che oggi ci pervade.

È per questo che dovremmo rileggere il romanzo di Gide, per essere messi di fronte a quell’eterno conflitto, che mi pare ora molto obnubilato, tra natura e cultura, tra libertà e doveri. Tra il rigore delle leggi che c’incarcera nella fedeltà ai modelli ma anche ci regala la pace di una vita morale, e la sfrenatezza imperiosa dell’io che si dedica solo a se stesso e ci getta nell’abisso di un bieco self interest.

L’aspetto rilevante è che qui l’essere autentico viene contrapposto all’essere “costruito” dalla civiltà e dalla cultura. Mi chiedo se oggi in tale conflitto non si stia dibattendo l’intera nostra civiltà occidentale, e non soltanto il singolo individuo. Mi sembra di scorgere, in molte manifestazioni del nostro vivere attuale, proprio questa ricerca di un’autenticità che, per essere tale, vuole spogliarsi di ogni memoria, di ogni patina anche solo vagamente culturale. Penso a una certa aspirazione a tutto ciò che sembri spontaneo, naturale, primitivo. Penso al fastidio che oggi molti provano verso tutto quel che riveli una cultura, una patina di tradizione, una sostanza profonda, qualcosa che si sia sedimentato e abbia fatto di noi quel che siamo, attraverso i millenni; alla voglia di liberarsi dello studio, della fatica, del sapere; al disprezzo verso chi di quello studio si sia nutrito e abbia perseguito, per esempio attraverso i libri, una forma di conoscenza.

Vagheggiamo forse un novello stato di natura. Propendiamo pericolosamente per una certa rozzezza dei modi, dei gesti, del linguaggio credendo che sia sinonimo di autenticità, libertà, apertura. Ma potrebbe essere soltanto l’espressione selvaggia di una civiltà che sta cercando di rinnegare se stessa.

È possibile che, in nome di una fittizia autenticità, ci stiamo privando di quella cultura che ci ha reso grandi. E mi viene da farmi qualche domanda. Autentico deve per forza contrapporsi a cultura? Si può essere colti e allo stesso tempo autentici? Studiare e vivere contemporaneamente? Oppure scrivere (e leggere) non è mai vivere? Il mito di quale umanità stiamo rincorrendo? Cos’è questo nostro tendere al ruspante, al viscerale, a un vivere “di pancia” (orrenda espressione che sento ormai ovunque) che si contrappone al pensiero, all’analisi, e anche alle buone maniere, allo stile, a un’eleganza del vivere? La cultura è davvero una “costruzione” di cui è bene liberarsi?

La cultura sarebbe dunque un limite, qualcosa che ci “riduce”? O non è piuttosto la chance di averli, dei benedetti limiti, l’ultimo baluardo che ci protegge dall’arroganza della hybris?

E infine, fino a che punto ci è lecito perseguire il nostro personale piacere, ottemperare alla parte più vera e libera di noi, perseguire la nostra autorealizzazione? Anche a discapito dell’altro? Quanto limitiamo la libertà dell’altro, cercando la nostra? Ci spingeremmo fino al punto, anche, di produrre la sua rovina?

Potrebbe essere un nuovo immoralismo, il nostro. Lavarsi la coscienza proclamando astrattamente il dovere planetario di una bontà sempre più s-confinata e un “diritto ad avere diritti” (per dirla con Rodotà) sempre più universale, e intanto coltivare indisturbati ognuno il proprio sfrenato e immarcescente individualismo.

Era il 1902 quando Gide scriveva L’immoralista. Sono passati centodiciassette anni, ma le domande che riguardano l’uomo sono sempre le stesse.

Il romanzo di Gide, come tutti i grandi romanzi, per fortuna non dà risposte. Non indica una via, non giudica, non prende posizione. Ci mette semplicemente davanti a un’idea, e la spinge, narrandola attraverso la storia dei personaggi, fino al limite estremo.

Stare a guardare quell’abisso è oggi, almeno come lettori, l’ultimo dovere che ci resta.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 aprile 2019



Perché Bach ci può salvare. Storia della pianista internata da Mao

Qualche settimana fa, facendo ordine nella libreria, mi è capitato in mano il famoso Libretto rosso di Mao Zedong. Era la versione in cinese di mio padre, sinologo dilettante. Non ero in grado di leggere neppure un ideogramma, ma improvvisamente mi sono tornati in mente i tanti slogan che rimbombavano nelle orecchie degli adolescenti e dei ragazzi della mia generazione. La rivoluzione non è un pranzo di gala. Colpirne uno, per educarne cento. L’imperialismo è una tigre di carta. Pochi giorni dopo ho iniziato a leggere un libro che mi ha profondamente colpito, Il pianoforte segreto, l’autobiografia di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringhieri, 2018), pianista cinese, famosa le sue interpretazioni delle Variazioni Goldberg di Bach.

Nata nel 1949 da una famiglia «di cattive origini» borghesi, Zhu Xiao-Mei ha iniziato a suonare il piano a sei anni ed è entrata in conservatorio a dieci, carica di luminose attese, non sapendo che solo dopo un anno si sarebbe abbattuta sulla Cina una devastante carestia, conseguenza delle folli scelte economiche e agricole del «grande balzo in avanti» voluto da Mao per incrementare la produzione di acciaio. Scelte che alterarono l’equilibrio naturale dell’ambiente, provocando la morte di decine di milioni di persone, oltre allo sterminio di quasi tutti gli uccelli, rei di essere dei parassiti borghesi. Un disastro epocale che spinse Mao, messo da parte dalle leve del potere dallo stesso suo partito, a rivolgersi direttamente alle masse invitandole a portare avanti una Rivoluzione culturale dal basso: una chiamata alle armi diretta soprattutto ai giovani e giovanissimi destinata a far cambiare per sempre la mentalità al popolo cinese, estirpando alla radice, distruggendo e nullificando tutte le tradizioni che lo avevano guidato fino ad allora con lo scopo finale di instaurare finalmente la giustizia e la felicità in Cina e nel mondo. La stessa Zhu Xiao-Mei viene travolta da questa ondata rivoluzionaria che, passando da Mozart a Mao, trasforma il Conservatorio di Pechino in un luogo di delazioni e di vendette, di terrore e di umiliazioni. Dopo essere caduta in disgrazia per una battuta scherzosa, la giovane promessa del piano sarà costretta a fare autocritica, diventando poi una convinta sostenitrice di Mao, pronta a calpestare, in nome della rivoluzione, gli affetti più importanti e a denunciare i suoi stessi maestri.

Zhu Xiao-Mei ha voluto scrivere questa spietata e dolorosa confessione soprattutto per fare ammenda del dolore causato, per non essere riuscita a salvarsi dal plagio collettivo. «La Rivoluzione culturale mi ha sporcata — scrive —, mi ha reso complice. A un certo punto ha persino ucciso in me ogni senso morale». Assistiamo, pagina dopo pagina, al divampare della follia collettiva: dal rogo compiuto di tutti gli lp e gli spartiti borghesi, alle violenze e alle uccisioni dei docenti, fino alla chiusura dello stesso conservatorio. La seguiamo passo dopo passo nella disumanità e nell’abbrutimento dei cinque lunghi anni in diversi campi di lavoro, in cui Xiao-Mei sfiora la disperazione totale, fino al giorno in cui, rischiando il tutto per tutto, riesce a farsi spedire dalla madre il vecchio pianoforte camuffato da credenza, privo di molte corde ma comunque capace di far rinascere nel suo cuore l’amore per la bellezza e l’armonia. Ai guardiani dice che le serve per suonare gli Yan Bang Xi, i motivi scritti appositamente per la rivoluzione cinese invece, fidando nelle loro ignoranza, si immerge nelle eterne note di Bach e di Chopin. Solo nel 1980 riuscirà a lasciare la Cina per Hong Kong e poi per gli Stati Uniti, dove, prima di riprendere gli studi di pianoforte, sopravviverà per parecchio tempo facendo la colf. Ora vive a Parigi ed è considerata una delle più grandi interpreti di Bach. Suona con gli occhi chiusi, le piccole mani che sfiorano i tasti con il distacco e l’intensità delle più alte forme di meditazione.

Quando ho terminato il libro, la prima cosa che ho pensato è che andrebbe letto nelle scuole; la seconda è che, pur parlando della Cina della rivoluzione maoista, in realtà è un libro che parla anche del grande rischio dei nostri tempi. Quando all’orizzonte ricompare l’idea della giovinezza come valore in sé, quando troppo spesso nel discorso pubblico ritornano le parole «giustizia», «popolo» «felicità» come valori assoluti, quando questa battaglia porta con sé il mito della «sincerità» come virtù edificante, dell’aggressività diffusa come arma di dissuasione, quando viene preso come paradigma assoluto la vita concreta, pratica, ignorando tutto ciò che costituisce la complessità e la ricchezza dell’essere umano, si entra in un tunnel in cui dall’altra parte non c’è il paradiso in terra ma un mondo di desolazione e di appiattimento. Relegando l’uomo alla sola dimensione materiale, ridicolizzando tutto ciò che non appartiene al mondo degli istinti primari, deridendo ogni forma di pensiero complesso e di espressione artistica, considerati appannaggio di un’élite di privilegiati, emerge l’animalità, e l’animalità prospera sotto una legge molto semplice, quella della sopravvivenza del più forte.

L’irruzione della tecnologia nella nostra vita ha portato innumerevoli benefici e altri probabilmente continuerà a portarci, ha però reso i pensieri di tutti più epidermici, privi di profondità, ha ridotto i sentimenti per lo più a un’esagitazione viscerale, senza più il controllo della mente. L’assenza di silenzio e solitudine fa il resto. Così si finisce sempre per accontentarci della prima risposta e si è grati a chi ce ne fornisce una dietro alla quale correre senza esitazione.

Per chi crede ancora che nell’umano ci sia qualcosa che non sarà mai assimilabile alla pura tecnologia, questi tempi di slogan assertivi fanno davvero paura. Pensando proprio al libro di Zhu Xiao-Mei possiamo trovare il coraggio di dire che l’assenza di cultura è una delle più grandi forme di povertà. Essere poveri di parole, di pensieri e di sentimenti vuol dire essere poveri nelle proprie relazioni e nella comprensione della realtà. La storia della pianista cinese dimostra con esemplare chiarezza che la storia ci può privare di tutto, della nostra cultura, della libertà, della dignità, spingendoci a vivere al limite dell’umano, ma non può spegnere l’anelito alla bellezza che è nascosto in ogni persona che abbia la forza d’animo di seguire la voce della propria coscienza. Primo Levi è sopravvissuto ad Auschwitz grazie anche alle poesie imparate a memoria, Zhu Xiao-Mei non si è fatta sopraffare dalla bestialità dei campi di lavoro grazie alla musica di Chopin e a Bach che continuava a risuonare dentro di lei. Nell’opacità di questi tempi forse è bene ricordare che solo l’arte e il riverbero della bellezza riescono a illuminare i momenti più bui della storia.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 05 novembre 2018



Jean Marie Twenge, Iperconnessi, Einaudi, 2018

È raro, molto raro, che le scienze sociali partoriscano un libro che dice delle cose realmente nuove, rigorosamente documentate, e veramente importanti. Per questo inauguriamo la rubrica di libri della Fondazione Hume con iGen (in italiano: Iperconnessi), un corposo volume di Jean Twenge, docente all’università di San Diego.

Anche se di professione insegna Psicologia, Jean Twenge ha scritto un libro a cavallo fra la psicologia, la sociologia e la storia della cultura, tanto è vasto l’orizzonte temporale studiato (l’ultimo mezzo secolo) e la quantità di ambiti toccati.

Basato su una ricchissima base di dati longitudinali, lo studio della Twenge descrive in che cosa l’ultima generazione, ossia quella dei nati fra il 1995 e il 2012, differisce dalle tre generazioni precedenti (Millenials, Generazione X, Baby boomers).

Non voglio togliere al lettore il piacere di scoprirlo, anche se già il sottotitolo fornisce un’idea generale della risposta: i giovani iGen soffrono di un grave ritardo di sviluppo rispetto a tutte le generazioni precedenti.

I teenager, dunque, hanno dato l’ok alla crescita lenta e vogliono restare bambini più a lungo (p.68).
Invece di offendersi perché li si tratta come mocciosi, gli iGen vorrebbero poterlo restare più a lungo (p. 69).
Grazie ai genitori l’infanzia di questi ragazzi è diventata un luogo meraviglioso in cui ricevono lodi sperticate, si pensa a divertirsi e le responsabilità sono minime. Non c’è da stupirsi che non vogliano crescere (P.71).

Quel che vorrei fare, invece, è di mostrare la notevole utilità pratica di questo libro per quanti si trovassero in una o più di queste quattro condizioni:

  1.  genitore
  2. docente
  3. educatore
  4. cittadino che crede ancora nell’importanza delle pari opportunità.

Ebbene, se qualcuno si trovasse in una di queste condizioni, dovrebbe precipitarsi a comprare il libro. Perché Jean Twenge non si è limitata a una sorta di affresco della generazione iGen (specialità in cui primeggiano i filosofi e i sociologi critici) ma ha messo a fuoco una ben precisa serie di fenomeni negativi che nessuno può eliminare, ma che si possono combattere, solo che lo si voglia.

Quali sono questi fenomeni negativi?

Ecco una lista, sicuramente incompleta, ma che può dare un’idea:

  • depressione
  • ansia
  • stress
  • senso di solitudine
  • infelicità
  • tendenza al suicidio
  •  diminuzione delle capacità cognitive (specie linguistiche)
  • diminuzione della capacità di concentrazione
  • difficoltà nell’interazione faccia a faccia
  • insicurezza
  • timore delle opinioni diverse dalla propria.

Ebbene, sono ovviamente molti i fattori che incidono, positivamente o negativamente, su questo complesso di tendenze, ma ve n’è uno soltanto che incide su tutti i sintomi negativi e al tempo stesso è rimovibile, in quanto sotto il nostro controllo: la esposizione permanente ai dispositivi elettronici (smartphone, tablet, videogiochi), e in modo particolare la presenza continua sui social media.

Dopo il libro della Twenge, diventa molto difficile continuare a baloccarsi con il paradigma dei “pro e contro”, per cui ciascuno può, a suo piacimento, sottolineare i benefici o i danni da internet. I nessi causali stabiliti da Twenge sono nitidi, e non puntano contro la tecnologia ma contro il suo abuso. I danni alla condizione giovanile non derivano da Internet, ma da due fattori ben precisi: la nostra sovraesposizione alla rete, e la preferenza per le amicizie virtuali rispetto ai contatti faccia a faccia.

Di qui un rimedio assai semplice: se abbiamo a cura la salute mentale e il futuro lavorativo dei nostri figli, dobbiamo abbattere drasticamente la loro esposizione ai dispositivi elettronici, facendola scendere dalla media attuale di 6 ore al giorno a non più di 2.

Naturalmente possiamo anche non farlo, per mille motivi che non intendo discutere. E’ bene riflettere su un punto, però. Mentre i gruppi sociali avvantaggiati possono benissimo permettersi di allevare una generazione “of wimps” (una generazione “di schiappe”, secondo la caustica espressione di un’altra psicologa, Hara Estroff Marano), perché tanto il patrimonio, la cultura e le conoscenze personali dei genitori costituiscono un’efficacissima rete di sicurezza, per altri non è così. Per i ceti popolari non mandare all’ammasso il cervello dei figli è vitale, e la scelta di tenerli (relativamente) alla larga da internet e dai social media può aiutare a compensare il loro svantaggio di partenza, almeno finché i ceti alti non faranno altrettanto.

Un discorso analogo vale per un altro gruppo sociale, tuttora in parte svantaggiato, ossia le donne. Negli ultimi tre decenni, in America come in Italia, le ragazze hanno ridotto fortemente il loro gap con i ragazzi innanzitutto investendo in istruzione (fra i laureati le studentesse sono molto più numerose degli studenti maschi). I dati americani della Twenge ci informano, però, che l’esposizione ai social media delle ragazze risulta ancor maggiore di quella dei ragazzi. Se l’analisi della Twenge è corretta, questo implica che, con il loro comportamento, le ragazze stanno acquisendo un inedito fattore di svantaggio sociale, che potrebbe frenare o cancellare il vantaggio che si sono conquistate studiando di più e meglio dei loro compagni maschi.

Ecco perché, fra le categorie potenzialmente interessate al libro della Twenge, oltre a genitori ed educatori, includevo chiunque abbia a cuore l’eguaglianza delle opportunità: un’esposizione limitata e intelligente a internet è, al giorno d’oggi, forse l’unica opportunità di avanzamento sociale a costo zero.

Luca Ricolfi, 2 luglio 2018



SANDRA PETRIGNANI, La corsara, Neri Pozza, 2018

Amo le biografie dei grandi, perché ci mostrano la grandezza. E noi oggi più che mai abbiamo bisogno di grandezza, di esempi. Se non ne troviamo attorno a noi, pazienza: l’epoca in cui viviamo è solo uno scorcio, breve, poca cosa, tanto vale andare un po’ indietro a scovare quegli esempi in un tempo che non è stato il nostro e che chiamiamo, solo per convenzione, il passato. In una concezione temporale meno lineare, siamo tutti quanti insieme in un medesimo non-tempo. Per questo i classici sono i “contemporanei del futuro”, come diceva Pontiggia.

Amo, in particolare, le biografie degli scrittori. Per mestiere e, fatte le dovute differenze, per affinità.

Amo infine di un amore assoluto e smodato, fin da quando ero ragazzina, Natalia Ginzburg.

La corsara di Sandra Petrignani è la biografia, anzi, come dice il sottotitolo, il “ritratto” di Natalia Ginzburg.

Non è certamente solo una biografia, tantomeno una biografia romanzata. L’aggettivo “romanzato” non dice niente, non mi è mai piaciuto. Il libro di Sandra Petrignani è a tutti gli effetti un romanzo. Prima di tutto perché è lei stessa una scrittrice, e una scrittrice, raccontando la vita di una scrittrice, non può che farne un romanzo. Ma è un romanzo diverso dagli altri, perché fa i conti con una vita reale, non può quindi inventare di sana pianta, non può concedersi tutto, ha una libertà condizionata, che lo frena ma anche lo àncora a una solidità. Dunque ha un di più: racconta una storia che si è davvero svolta, nel tempo limitato di una vita umana che è stata eccezionale. E questo è un valore aggiunto: ci conforta, ci dà speranza, in quanto è una storia che sappiamo non solo possibile, ma realmente accaduta.

L’autrice ha studiato per anni, ha analizzato ogni scritto della Ginzburg, ha fatto ricerche, ha esplorato documenti, lettere, foto, testimonianze; e poi ha unito il tutto, evidenziando legami, facendo risaltare il senso, riflettendo, spesso commentando in prima persona. Una scrittrice che racconta un’altra scrittrice. Dunque racconta il suo amore. E studio più amore sono davvero un esplosivo vincente.

Natalia Ginzburg, dunque. Austera e malinconica, pigra, ritrosa, dagli occhi neri e pungenti. Capelli corti, vestiti scuri, sigaretta. Che si sente sempre inadeguata, mai all’altezza. La scrittrice che si definisce “scrittore”, che ama lo sguardo limpido e severo dell’infanzia, che farà della verità il fine della sua vita e della sua arte. La scrittrice che non mente, non media, non segue le convenzioni. Sempre innovativa, temeraria, coraggiosa, sincera: “corsara” sempre, ancor prima di Pasolini. Sobria, nemica di ogni fronzolo, estetico e ideologico, nemica delle frasi fatte, delle parole di fumo. Amica dei grandi: Pavese, Vittorini, Calvino, Morante, Moravia…

Lei, la sua vita. I fatti, le opere, i pensieri, i luoghi, le persone.

La Torino antifascista degli anni Trenta, la nascita della casa editrice Einaudi, il matrimonio con Leone Ginzburg, i figli, il confino a Pizzoli, il lavoro editoriale. Un’intera generazione di intellettuali, il loro lavoro, la loro scrittura, gli ideali, il coraggio anche di morire.

Un intero mondo, scomparso per sempre, temo mai più possibile. Non oggi, almeno. Ma che proprio oggi ci fa un gran bene ripercorrere, ritrovare, con la dolente malinconia per le cose che non sono più e che noi non abbiamo nemmeno avuto il bene di conoscere, ma verso cui proviamo una struggente nostalgia. Un mondo di cui sentiamo una dolorosa necessità. E che ci piacerebbe far rinascere, prima o poi, in quel tempo non lineare in cui tutto è presente, passato e futuro insieme. O far nascere, tout court, come se fosse la prima volta. Perché ogni volta che alcuni esseri umani si trovano uniti per un’idea, un pensiero, una visione del mondo, è sempre la prima volta.

Non mi pare che la Ginzburg sia stata, finora, apprezzata così tanto come avrebbe meritato. Abbiamo fatto di altri scrittori gli idoli del Novecento. Spero che ora la direzione s’inverta, anche grazie al bellissimo libro di Sandra Petrignani.

E comunque mi piace aver iniziato la rubrica Libri del sito Hume nel nome della scrittrice che secondo me, e per me sicuramente, ha contato di più.