La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018



I partiti e l’Unione Europea, il difficile impatto con le cifre

Al governo si fanno i conti con i numeri, con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti: è avvenuto negli anni scorsi in Portogallo, dove ha avuto un ruolo decisivo il presidente della Repubblica.

Il Portogallo è uno splendido Paese. Vi risiedono migliaia di pensionati italiani ai quali della flat tax non importa un fico secco avendo l’esenzione fiscale per dieci anni. Nel 2011 era sull’orlo del crollo, un po’ come l’Italia del governo Berlusconi. Invocò l’aiuto dell’Europa che concesse un credito di 78 miliardi. Lisbona accettò tutte le condizioni dei creditori e, dopo tre anni, uscì dal programma di assistenza finanziaria. Alle elezioni del 2015, la coalizione di governo (centrodestra) arrivò prima ma senza ottenere la maggioranza. Poco davanti all’alleanza di centrosinistra, che aveva fatto dell’opposizione al rigore la propria bandiera elettorale. Ma erano stati i socialisti, con il premier Socrates, a chiedere nel 2011 l’intervento europeo. E ne pagarono subito un prezzo politico: dovettero cedere la guida del governo ai liberali e moderati di Passos Coehlo. Cambiarono poi posizione, dissero no all’austerità ma persero voti. Comunisti e verdi, da sempre contrari all’euro e persino alla Nato, ricevettero invece numerosi consensi. E divennero decisivi per la formazione del nuovo governo. Andato a vuoto il tentativo di una grande coalizione, l’allora presidente della Repubblica Cavaco Silva (si trovava in quello che noi chiameremmo il semestre bianco) diede l’incarico al socialista Costa di formare l’esecutivo con l’appoggio esterno delle due formazioni di estrema sinistra. Ma solo dopo essersi sincerato che venissero accettate alcune condizioni. La principale: non disperdere i sacrifici delle riforme e i vantaggi del consolidamento fiscale. Quindi, approvare la legge di bilancio con gli obiettivi già fissati in precedenza; rispettare i vincoli dell’eurozona, inclusa la rinuncia alla ristrutturazione del debito, sventolata in campagna elettorale come inevitabile dal Blocco di Sinistra; permanenza del Portogallo nella Nato.

Il governo Costa non ha però rinunciato, in questi anni, a rimodulare la spesa pubblica, ad aumentare le pensioni più basse e a elevare il salario minimo, un seppur pallido reddito di cittadinanza. La ripresa dell’economia del Portogallo è stata semplicemente spettacolare. Il deficit si è ridotto, la disoccupazione è scesa. Il turismo esploso, le esportazioni a gonfie vele. Dopo Irlanda e Spagna, quella del Portogallo è stata la ricetta di ristrutturazione economica europea di maggior successo. Il ministro delle Finanze, il tecnico indipendente Centeno, è ora il presidente dell’Eurogruppo. Il suo collega tedesco, il falco per antonomasia Schäuble, disse di lui che era come Cristiano Ronaldo. Per la straordinaria rovesciata (ci perdonino i tifosi juventini) impressa all’economia portoghese. La buona austerità fa bene. Si tagliano le spese improduttive e si promuovono gli investimenti nel quadro delle compatibilità di bilancio e dei vincoli europei senza i quali il Portogallo sarebbe stato abbandonato, anche dai mercati, al suo destino. Si pensava poi che il nuovo capo dello Stato portoghese, il conservatore Rebelo de Sousa, sostenuto pubblicamente anche dall’ex allenatore dell’Inter Mourinho, potesse sciogliere il Parlamento e mandare a casa gli estremisti. Si è ben guardato dal farlo.

Come si può constatare, le analogie con la situazione italiana non mancano. Certo a Lisbona non ci sono partiti formalmente populisti, ma certamente in origine euroscettici. C’è una dinamica ancora sostanzialmente bipolare fra conservatori e socialisti. Il capo dello Stato viene eletto direttamente. Il successo lusitano è stato reso possibile anche grazie al pragmatismo di alcune forze politiche radicali che hanno cambiato le loro idee. In campagna elettorale non è proibito sognare. Al governo si fanno i conti con i numeri. Con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti. Anzi, li guadagna come dimostra l’esperienza del socialista Costa. Questa presa d’atto, nel dibattito politico italiano, non è ancora avvenuta. Si continua a discutere in assenza di gravità, sospesi nella rappresentazione fiabesca delle promesse. Nel primo giro di consultazioni il presidente Mattarella ha esercitato una preziosa funzione maieutica. E, come ha scritto sul Corriere Marzio Breda, non ha mancato di ricordare ai suoi interlocutori i vincoli europei e gli impegni internazionali dell’Italia. Immaginiamo che nel secondo, da giovedì prossimo, possa continuare nella sua opera di educazione politica, nel suo esercizio di sano realismo. L’esperienza positiva del suo omologo portoghese è certamente utile. E persino incoraggiante. Essendo il massimo garante della Costituzione, pensiamo che Mattarella non trascurerà di parlare con i propri ospiti del dettato dell’articolo 81, modificato nel 2012 per introdurre il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo e delle misure una tantum). Votarono a favore quasi tutti — salvo poi in parte pentirsi — dal Pd all’allora Pdl, meno Lega e Italia dei Valori. La Lega in prima lettura si dichiarò favorevole. «L’approvazione, all’unanimità — disse il leghista Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera — della proposta di legge volta a dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, rappresenta un punto di equilibrio che testimonia, in un momento particolarmente delicato… il senso di responsabilità di tutte le forze politiche». Il senso di responsabilità, appunto. Coraggio, l’impatto con la nuda e dura terra dei numeri si avvicina.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 9 aprile 2018



Le priorità per il Paese: intervista a Luca Ricolfi

Lega e M5S parlano entrambi nei loro programmi di Salario minimo garantito come primo punto della parte dedicata al lavoro. Lega aggiunge la proposta di una standardizzazione alla media europea (flat rate). Una priorità per il Paese, quella del salario, a suo parere?

No, la priorità è creare posti di lavoro aggiuntivi e, in attesa che i posti si formino in misura sufficiente, dare un reddito minimo alle famiglie in povertà assoluta, che sono circa 1 milione e mezzo (di cui quasi il 40% immigrati). Il problema è che, per essere equa, una misura del genere dovrebbe tenere conto del livello di prezzi, molto più bassi al Sud e nei piccoli centri: in caso contrario avremo due soli veri beneficiari: i cittadini del Sud e gli immigrati (questi ultimi prevalentemente residenti nel Centro-Nord). Pochissimo resterà per i cittadini italiani poveri residenti nelle regioni del Centro-Nord.

M5S si riferisce sia a un investimento (due miliardi di euro per il rafforzamento e potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego) in politiche attive che al reddito di cittadinanza. Di fatto è anch’essa una misura di politica attiva? Quale criticità intravede? È solo questione di sostenibilità per i conti? I servizi pubblici per il lavoro (centri per l’impiego) potranno supportare questo tipo di intervento? L’aspetto della condizionalità per come è stato esposto il progetto di reddito di cittadinanza è molto forte…

Non è solo questione di sostenibilità per i conti pubblici. Le criticità sono due. Se le politiche attive si fanno all’italiana, ossia senza veri controlli e senza veri posti di lavoro da allocare, si generalizza la situazione attuale, in cui i sussidi sono spesso erogati a persone che li usano per non lavorare o per lavorare in nero. Se le politiche attive si fanno alla tedesca o all’inglese, è probabile che si formi anche in Italia una mostruosa burocrazia che umilia i disoccupati (chi non avesse idea di cosa questo significhi può vedere il bellissimo, drammatico film di Ken Loach, Io, Daniel Blake). Purtroppo soluzioni perfette non esistono. La meno imperfetta, a mio parere, sarebbe quella di dare dei voucher per la formazione, lasciando i lavoratori completamente liberi di spenderli con i corsi che preferiscono, e garantendo un premio in denaro per i casi di successo, in cui il corso di formazione ha permesso di trovare un lavoro.

La Lega, per bocca di Siri, sembra aver rilanciato rispetto al reddito di cittadinanza il prestito al lavoro. Di fatto si tratta dell’assegno di ricollocazione, ma con la clausola della restituzione? Si tratta di un costo di due miliardi all’anno, pari all’investimento previsto dai Cinque Stelle per rafforzare i cpi. I lavoratori italiani sembrano non aver accolto favorevolmente l’assegno di ricollocazione nella sua sperimentazione: aderirebbero a una forma di prestito così congegnata?

No, pochissimi accetterebbero. In Italia l’idea di restituire i soldi non funziona, né all’Università né sul mercato del lavoro. Possiamo deplorare il fatto, ma la realtà è quella.

Pensa che i due programmi possano avere importanti punti di convergenza? Quale potrebbe essere la base comune?

Se c’è la volontà politica, i punti di convergenza si trovano. E comunque su molte cose la convergenza già c’è: abolizione della legge Fornero, riduzione delle tasse alle piccole imprese, ulteriore aumento del debito pubblico.

Quali sono invece i punti di divergenza più critici a suo parere? (Io noto la sostanziale assenza di un riferimento al fisco nel programma a Cinque Stelle, ad esempio…)

Mi sembrano solo due. La Lega non è disposta a varare il reddito di cittadinanza nella forma estrema proposta dai Cinque Stelle. Il Movimento Cinque Stelle non sembra pronto a una politica veramente severa su sbarchi e immigrazione irregolare. E il fatto che arrivi la primavera, con il mare calmo e il sole, non può che complicare le cose: gli sbarchi ricominceranno proprio al momento di varare il nuovo governo.

Lei ha scritto su Panorama che il voto ha riproposto una frattura del Paese e che occorrerebbe pensare a misure differenti: quali, per il lavoro? Il reddito di cittadinanza quanto ha influito sul risultato elettorale?

Sì, ha portato voti al partito di Grillo. Quanto alle misure per il lavoro ne vedo soprattutto due: sopprimere l’Irap e azzerare i contributi, ma solo alle imprese che aumentano l’occupazione.

Intervista a cura di Giulia Cazzaniga per Libero del 6 aprile 2018



Abolire i vitalizi dei parlamentari?

Per fortuna faccio parte della piccola minoranza che, sulla scorta degli esempi belga e spagnolo, sospetta che l’assenza di un governo faccia bene all’economia. Sì, perché se non avessi questo sospetto, o questo motivo di consolazione, sarei molto arrabbiato con i partiti.

Ma come?

Avete avuto più di un mese per riflettere, incontrarvi, aprire tavoli, negoziare, annusarvi, e quando finalmente il Presidente della Repubblica inizia le consultazioni, e chi ha votato si aspetta che nasca finalmente un governo, voi non trovate di meglio che “ribadire” le vostre posizioni, i vostri programmi, i vostri veti, e alla fine chiedete una cosa sola: più tempo. Un’aggiunta di tempo che non serve, come nel caso tedesco, a mettersi a tavolino per definire nei minimi dettagli un programma di legislatura, concordato fra partner che hanno deciso di collaborare, ma serve a continuare un gioco, fatto di incontri, vertici, abboccamenti più o meno segreti, che dura da un mese, e che evidentemente piace molto ai nostri politici. I quali, per ora, su tutto si dichiarano in disaccordo, tranne su una piccola cosa, una piccola idea, che sta affiorando negli ultimi giorni: l’abolizione (o la limatura) dei vitalizi dei parlamentari, un provvedimento che prima di Natale era stato approvato alla Camera, ma si era alla fine arenato al Senato, proprio negli ultimi giorni della legislatura. Su questo soprattutto Cinque Stelle e lega paiono pronti ad agire.

Naturalmente non ho nulla contro un ridimensionamento degli emolumenti di una categoria di privilegiati, spesso non all’altezza del ruolo che sono chiamati a ricoprire,  quali sono i parlamentari italiani. E tuttavia non riesco a non provare perplessità, per non dire un senso di fastidio, per la retorica con cui se ne parla.

La perplessità nasce, ovviamente, innanzitutto dal carattere platealmente demagogico dell’attacco ai “costi della politica”, che molto ricorda l’altrettanto demagogica campagna del primo Renzi contro le “auto blu”. Ma non è solo questo.

Colpisce, ad esempio, l’accanimento con cui si perseguono i vitalizi dei parlamentari e il silenzio tombale su altri, ben più incomprensibili, privilegi della politica e degli apparati che le gravitano intorno. Ok, i vitalizi costano quasi 200 milioni l’anno, in media 5-6 mila euro lordi al mese per ogni beneficiario. Ma, se vogliamo parlare di costi della politica, le retribuzioni scandalose sono ben altre: un consigliere regionale, nonostante le riduzioni attuate in alcune regioni negli anni scorsi, costa alle casse pubbliche fra i 150 e i 200 mila euro l’anno; barbieri, segretari, elettricisti, nonostante qualche timido tentativo passato di ridimensionarne gli emolumenti, dall’inizio di quest’anno viaggiano di nuovo sui 100-150 mila euro l’anno; per non parlare delle mansioni parlamentari più qualificate, che non di rado sfiorano o superano i 200 mila euro, in barba a tutte le promesse passate di riportare un po’ di oculatezza nelle spese del Parlamento.

Complessivamente, i vitalizi su cui negli ultimi giorni si è concentrata l’attenzione del Palazzo, ammontano a circa il 5% degli emolumenti della casta. Pensare che la loro riduzione (si parla di una limatura di 70-80 milioni di euro) possa avere effetti significativi sui conti pubblici è quantomeno ingenuo.

In realtà, quel che sembra sfuggire alla discussione sui costi della politica è il punto centrale del problema: il vero costo della politica non sono gli stipendi, ma sono gli sprechi che la cattiva politica autorizza e spesso promuove. In passato mi è capitato di stimare l’entità totale degli sprechi della Pubblica Amministrazione, settore per settore (dalla sanità, alla scuola, alla giustizia). Ebbene, a spanne il conto è questo.

La spesa pubblica non pensionistica ammonta a circa 500 miliardi l’anno. Di questi 500 miliardi, almeno 80 sono imputabili a sprechi. Il costo diretto della politica è dell’ordine di 5 miliardi di euro. I vitalizi degli ex-parlamentari pesano per 0.2 miliardi. Questo vuol dire che, fatta 100 la spesa pubblica non pensionistica gli sprechi ne rappresentano il 16%, il costo totale delle retribuzioni dei politici l’1%, e i vitalizi dei parlamentari lo 0.04%. È come se andassi a comprare un’automobile che costa 20 mila euro, e il concessionario mi dicesse che abbatte la tua spesa con uno sconto di ben 8 (otto) euro. Questa è l’incidenza di una eventuale soppressione (totale) dei vitalizi. Una cifra così esigua che, con ogni probabilità, sarà interamente vanificata dal costo del contenzioso giuridico che potrà scatenare, come già avvenuto in passato.

Insomma: tagliate pure, riducete, moralizzate, fate quel che vi pare, ma non veniteci a raccontare che così si liberano risorse per la crescita, o per qualsiasi altra cosa importante. Perché le cose importanti costano di più, molto di più. E certe misure possono anche essere dei segnali positivi, ma devono valere erga omnes, e soprattutto non devono creare pericolose illusioni.




L’Italia termidoriana

Si è tentati di parafrasare una frase caustica di Winston Churchill: «Processi politici e sistemi elettorali lasciateli agli esperti che non ne azzeccano una», leggendo in questi giorni gli articoli dei ‘competenti’ che invitano il PD a non lasciare il tavolo di gioco, rinchiudendosi in una sterile opposizione. In realtà, l’opposizione ha una funzione cruciale nella democrazia rappresentativa—in Inghilterra, non a caso, si parla di “Opposizione di Sua Maestà”! —ed ivi è sempre, e per definizione, responsabile—ovvero non fa mai mancare il suo voto quando si tratta di misure e di leggi in cui ne va di mezzo l’interesse nazionale. Ma non è su questo che voglio richiamare l’attenzione bensì su un malcostume che potrebbe definirsi ‘termidoriano’ e che, in Italia, è stato profondamente interiorizzato. Esso consiste nell’elaborare strategie di controllo della volontà del popolo sovrano attraverso norme costituzionali e leggi elettorali che non gli consentano di mandare al governo formazioni politiche che potrebbero minacciare i valori e gli interessi supremi della Repubblica. I termidoriani facevano colpi di Stato e cambiavano le regole del gioco per neutralizzare ora maggioranze monarchiche (fruttidoro) ora maggioranze democratico-giacobine (pratile). Tutto questo poteva essere giustificato in anni in cui non si era ancora riusciti a terminer la Révolution ma in periodi normali costituisce un grave vulnus per la democrazia, che non ha bisogno di guide responsabili ma di uno Stato che, col suo pluralismo istituzionale (divisione dei poteri, indipendenza della Pubblica Amministrazione, libertà della stampa, magistratura etc.) impedisca a quanti ricoprono cariche di governo, in virtù dell’investitura popolare, di attentare ai diritti dei cittadini. Non sono gli avversari politici dei ‘partiti inaffidabili’ a dover stabilire chi e come deve andare a Palazzo Chigi ma unicamente gli elettori.

Maggioranze molto orientate a sinistra o a destra non possono essere stoppate da bizantini meccanismi elettorali—suggeriti dai mass media, dagli opinion makers, da figure politiche considerate, non si sa bene perché, ‘risorse della Repubblica’—ma da regole semplici e trasparenti, di sicura efficacia anche se non prive di inconvenienti–come tutte le cose umane, ahimé. Non essendo un political scientist, ne conosco solo due: il proporzionale con elevato sbarramento (al 5%) e il maggioritario puro senza doppio turno. Il primo avrebbe sconsigliato ieri l’innaturale connubio della Margherita con il partito post-comunista–dei nipotini di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi con quelli di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti–e oggi l’abbraccio (forse mortale) di Forza Italia con la Lega di Salvini. Il secondo avrebbe riportato al centro l’asse della vita politica italiana senza violare l’ethos della democrazia e il principio di maggioranza che ne è alla base.

Tra i due mi pare preferibile il maggioritario. Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dalla stanza dei bottoni, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare. Il rimedio a questo inconveniente, però, non consiste in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza e non dall’onestà politica. Vediamo perché. Se vigente il maggioritario a doppio turno, si temesse che un partito della destra radicale—ma democratico se nessun tribunale lo ha sciolto—potrebbe ottenere il 45% dei suffragi, i suoi antagonisti, lo metterebbero fuori gioco inducendo estremisti e moderati, mangiapreti e ammazzaborghesi, classi alte e uomini dell’establishment a votare per lo stesso candidato. Se tutto questo sembra naturale, segno è di un ottundimento irrimediabile del senso morale.
Diverso sarebbe il caso del maggioritario puro. Qui gli opposti non sarebbero più costretti a matrimoni di convenienza ma, al contrario, sarebbero gli affini interessati a unirsi, superando quei fattori di divisione, che, in un sistema proporzionale, li porterebbero ad appoggiare partiti diversi ma contigui. A un forte candidato radicale, infatti, dovrebbero contrapporre candidature credibili in grado di essere bene accette al maggior numero di elettori e la cui forza non sia dovuta al controllo delle tessere e all’appoggio degli apparati ma a una riconosciuta competenza politica e amministrativa nonché al ruolo svolto nella vita civile. In tal modo, oltretutto, si avrebbe l’effetto collaterale di ridimensionare il potere dei partiti senza annullarne la funzione mediatrice, anch’essa importante in una democrazia a norma— Raymond Aron docet.

Come accade spesso nel nostro paese, invece, le riforme riescono a mettere insieme il peggio del vecchio e del nuovo e quella elettorale non fa eccezione. Ci ritroviamo, così, gli apparentamenti favoriti dal maggioritario, le divisioni del proporzionale e un alto indice di litigiosità tra i componenti della stessa coalizione. E i risultati sono l’ingovernabilità, l’incertezza, l’impossibilità stessa di attenersi al principio aureo della democrazia, quello della maggioranza. È più democratico dare l’incarico di governo a Matteo Salvini, capo della coalizione che ha avuto il più alto numero di voti ma è segretario della Lega votata da un numero di elettori che è la metà di quelli del M5S o è più democratico che a Palazzo Chigi vada Luigi Di Maio, leader di un partito che non è maggioritario? È un maremagno tutto pien d’imbrogli, per dirla con l’immortale Giuseppe G. Belli.

Il fatto è che, con buona pace di certi political scientist, poco interessati alla storia reale e intenti solo ad arabesche ingegnerie costituzionali–che, nel migliore dei casi, lasciano un segno ‘qual fummo in aere e in acqua la schiuma’—si ha paura degli estremisti (populisti di destra, di centro di sinistra) perché non c’è fiducia nelle istituzioni. È la mancanza dello Stato o, meglio, di un autentico Stato di diritto a far temere per il futuro. Se ci fosse lo Stato, l’irrompere del nuovo, per quanto indigesto, non susciterebbe alcuna apprensione, giacché in regime liberaldemocratico, lo spazio delle decisioni politiche è limitato: dalle leggi costituzionali, dai diritti civili, dalle garanzie di libertà. È l’invasione dell’amministrazione pubblica e della società civile da parte della politica—che i decreti Bassanini non hanno certo ridimensionato—a non farci dormire sonni tranquilli. E per ‘politica’ non intendo solo quella dei partiti: è politica anche quella di una parte della magistratura, che si assume un ruolo di supplenza di autorità assenti e corrotte e che, volendo bonificare moralmente il paese, non si limita al compito istituzionale di accertare un reato ma pretende anche di ‘snidarlo’ o di far valere, con le sue sentenze, diritti che i legislatori indugiano a riconoscere.

C’è Stato quando ogni organo opera in base ai ruoli che gli sono stati assegnati e ogni settore dell’edificio sociale si attiene ai suoi codici, «sotto la protezione delle leggi». Non c’è Stato quando un vigile urbano — Alberto Sordi nel vecchio film di Luigi Zampa del 1960– multando il sindaco (Vittorio De Sica), sente il fatidico «Lei non sa chi sono io!». Nel Rechtsstaat, il figlio di Metternich può essere bocciato e il figlio del macellaio di Metternich promosso, giacché, a scuola, Metternich è il professore. Se penso al giustizialismo ovvero al feeling del M5S con certe correnti della magistratura, c’è poco da stare allegri ma una democrazia sotto tutela, con il sigillo dell’establishment, non mi preoccupa meno.