Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017



La sinistra e l’identità/Antifascismo e ius soli due capriole all’indietro

Ci sono, nella vita, segni abbastanza inequivocabili: se hai 40 di febbre c’è, nel tuo corpo, qualcosa che non va. Anche in politica ci sono segni piuttosto chiari: se, nell’anno di grazia 2017, in occidente, un partito di destra rispolvera l’anticomunismo, vuol dire che non sta troppo bene. Non perché il comunismo non sia un’ideologia nefasta, che ha prodotto decine di milioni di morti, e tolto la libertà a un paio di miliardi di abitanti di questo pianeta. Ma per una ragione molto semplice: il comunismo non è, attualmente, nei paesi occidentali, una minaccia concreta all’ordine democratico.

Lo stesso discorso vale per i partiti di sinistra: se un partito di sinistra, oggi, in un paese occidentale, rispolvera l’antifascismo, vuol dire che non sta troppo bene. Di nuovo, non perché il fascismo non sia a sua volta un’ideologia nefasta. Ma per la stessa ragione di prima, perché il fascismo non è una minaccia attuale: non ha senso prendere un vaccino contro una malattia che non c’è più.

Eppure, a pochi mesi dalle elezioni, il principale partito della sinistra proprio questo sta facendo: con la legge Fiano, già passata alla Camera e in procinto di passare al Senato, intende rendere ancora più severe le norme che già impediscono, non solo la ricostituzione del partito fascista, ma la propaganda delle idee del fascismo (legge Scelba, del 1952; legge Mancino, del 1993). D’ora in poi, se la legge dovesse essere approvata, saranno punibili (da 6 mesi a 2 anni di carcere) persino il saluto romano, la vendita e la diffusione di immagini e gadget reminiscenti del passato regime; il tutto con pene aumentate se il canale di diffusione è internet.

Eppure il Pd dovrebbe sapere che le norme proposte sono a palese rischio di incostituzionalità, in quanto in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Soprattutto dovrebbe sapere che, sul punto, la Corte Costituzionale si è già espressa ripetutamente in passato, chiarendo che la possibilità di perseguire la manifestazione del pensiero e la propaganda di matrice fascista vige solo se sussiste un pericolo concreto per le istituzioni democratiche. Un orientamento che, peraltro, non è solo della suprema corte italiana ma anche della giurisprudenza tedesca riguardo al passato nazista. Non tutti sanno che, da più di mezzo secolo (dal 1964), esiste in Germania un minuscolo partito, la NPD, che, a differenza della temutissima Alternative für Deutschland di Alice Weidel, si richiama esplicitamente ai valori del passato nazista. Ebbene, nonostante ciò, la Corte Costituzionale tedesca ha sempre respinto le richieste di metterlo fuori legge, in quanto per sciogliere un partito non basta che esso persegua obiettivi incostituzionali ma occorre che costituisca una minaccia concreta per le istituzioni democratiche.

Un requisito, questo della concretezza della minaccia, che oggi pare più facile rinvenire in determinate espressioni del fondamentalismo islamico, che non nelle spiagge che esibiscono il ritratto di Mussolini (che paiono esistere, ma di cui non ho avuto esperienza diretta), o nelle case del popolo in cui troneggia il ritratto di Stalin. Anni fa mi è capitato di ammirare un ritratto di “Baffone” nella casa del popolo di un delizioso paesino del Levante ligure, ma non mi sono mai sognato di invocarne la rimozione: perché vietare a dei vecchi comunisti di venerare il loro eroe? In fondo, la loro ammirazione per un dittatore è già di per sé uno spot contro il comunismo, e un potente segno della superiorità della civiltà liberale.

Ecco perché mi chiedo: come mai il Pd si è imbarcato in un’avventura tanto fuori tempo? Quali sono le ragioni che spingono un partito, che sul tema se ne è stato quieto quieto per un’intera legislatura, a rispolverare improvvisamente la clava dell’antifascismo?

La prima risposta che viene in mente è che, sfortunatamente, sui temi che interessano davvero i ceti popolari, ovvero lavoro e sicurezza, la sinistra ha ormai poco da dire. Il reddito di inclusione è poca cosa rispetto alla dimensione che, in questi 10 anni, hanno raggiunto la povertà e la disoccupazione. Vorrei ricordare che, se l’occupazione è quasi tornata ai livelli pre-crisi, è solo perché 1 milione di nuovi posti di lavoro conquistati dagli immigrati hanno compensato altrettanti posti di lavoro persi dagli italiani, che ancor oggi sono ben al di sotto dei livelli occupazionali pre-crisi. Quanto alla sicurezza, l’altro grande tema che sta a cuore ai ceti popolari, il bilancio di questa legislatura è drammatico: mai gli sbarchi hanno toccato i livelli del quadriennio 2013-2016, mai la macchina dell’accoglienza ha operato in tanto disordine. Ecco perché, se deve dire che cosa ha fatto o ha tentato di fare, la sinistra è costretta a snocciolare il rosario dei temi leggeri, ossia di quegli interventi – talora sacrosanti, talora discutibili o illiberali – che Marx avrebbe definito “sovrastrutturali”: testamento biologico, femminicidio, reato di tortura, codice anti-mafia, doppio cognome, eccetera. A quanto pare l’identità della sinistra è così fragile sulle cose che contano, da costringerla a continue trasfusioni di sangue identitario dal vasto universo dei temi che infiammano solo le élite e i ceti medi.

C’è però anche un’altra risposta, non incompatibile con la prima. Il Pd, nonostante tenti faticosamente di cambiare, resta un partito i cui militanti (ma vale anche per non pochi elettori), hanno un pessimo rapporto con il senso comune. Mi è già capitato di ricordare l’incredibile lapidazione morale subita da dirigenti che, recentemente, hanno adottato posizioni di puro buon senso: Deborah Serracchiani, che dice che lo stupro compiuto da un ospite è particolarmente riprovevole; il sindaco di Firenze Dario Nardella, che mette in guardia gli studenti americani dai pericoli della movida; o il ministro Marco Minniti, che pone fine alla politica dell’accoglienza senza regole e senza limiti.

Ora a questa catena di reprobi, la cui unica colpa è di non aver completamente rinunciato a ragionare come le persone normali, si aggiunge Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, reo di aver respinto la richiesta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, conferitagli nel lontano 1924. Una posizione che non deriva certo da simpatie fasciste (Gori è iscritto a Pd) ma dalla capacità di distinguere fra la storia, di cui il fascismo e i suoi simboli fanno parte (esattamente come il comunismo e i suoi miti), e i conflitti politici dell’oggi. Conflitti che una sinistra un po’ più attenta alle richieste dei ceti subordinati, duramente provati dalla crisi e dalla globalizzazione, renderebbe assai più concreti e utili al Paese.

Ma forse la risposta vera, quella che rende conto della strana tempistica del neo-antifascismo del Pd, va ricercata nelle difficoltà che la sinistra incontra a far passare la legge sullo ius soli anche al Senato. Che cosa c’entra lo ius soli con l’antifascismo? Niente, per le persone normali. Ma può c’entrare se alla sinistra riesce di far passare la difesa degli immigrati come una battaglia antifascista. Un’eventualità che in realtà si sta già delineando. Visto che Casa Pound e diverse formazioni di destra sono impegnate in una battaglia contro lo ius soli, ecco pronta e servita su un piatto d’argento l’opportunità di cui la sinistra ha più che mai bisogno: impedire che la gente pensi che la destra ormai se ne fa un baffo del fascismo e si occupa di temi ben più attuali, come immigrazione e sicurezza, e far credere al proprio elettorato che anche lo ius soli rientri nella eterna e imprescindibile lotta contro il fascismo e i suoi rigurgiti.

Pubblicato su Il Messaggero  il 7 Ottobre 2017



Noi e l’Europa/L’illusione che Macron ci salvi dalla Merkel

Il parziale insuccesso di Angela Merkel e la netta avanzata di Alternative für Deutschland (AfD), partito nazionalista anti-immigrati, sembra aver suscitato, in Italia, due reazioni opposte. Al di là della preoccupazione per l’avanzata di una forza radicalmente anti-europea, valutazione che accomuna la maggior parte delle forze politiche (con le importanti eccezioni di Lega e Fratelli d’Italia), il vero punto di frattura fra gli osservatori sono le conseguenze economiche del voto tedesco.

Per alcuni l’indebolimento della Merkel comporterà la fine dell’egemonia franco-tedesca sull’Europa, e lascerà più gradi di libertà a paesi come la Francia e l’Italia, specie in materia di deficit pubblico. Per altri è invece possibile che l’ingresso al governo dei liberali renda ancora più severe le politiche seguite fin qui, non solo in termini di flessibilità, ma anche in materie come la politica monetaria (fine del Quantitative Easing) o le regole bancarie (minori possibilità, per le banche, di detenere titoli di Stato di paesi altamente indebitati). I primi sperano che Macron faccia da argine alla Merkel facendoci passarea ad “un’Europa plurale”, i secondi temono che ad avere la meglio sia ancora una volta la cancelliera tedesca, con conseguente rafforzamento delle politiche di rigore care al ministro Schäuble.

Ma è fondata l’idea che Macron possa fare da argine alla Merkel?

Per certi versi sì, perché in effetti, come ha giustamente rilevato Lucrezia Reichlin qualche giorno fa, i punti di vista dei due paesi sulla politica economica europea non collimano. La Francia vede di buon grado un accrescimento delle risorse a disposizione delle autorità sovranazionali per attuare politiche di stabilizzazione, la Germania pensa a un accrescimento del potere di sorveglianza, se non di ingerenza, sulle politiche nazionali, troppo sbilanciate dal lato della spesa.

Per altri versi, invece, penso che gli entusiasti dell’europeismo anti-tedesco di Macron si illudano. E lo penso per una ragione molto semplice: a suo tempo mi è capitato di leggere Rivoluzione, il libro in cui Emmanuel Macron enunciava il suo programma, uscito nel 2016 in Francia, e tradotto quest’anno in Italia (La Nave di Teseo, 2017). Di quel libro, la cosa che più mi aveva colpito, sul piano politico, è il modo in cui il futuro presidente della Repubblica francese parlava della Germania. Un modo estremamente rispettoso dell’alleato tedesco, e assolutamente autocritico riguardo alle scelte passate della Francia. Lungi dall’immaginare un futuro braccio di ferro con la Merkel, Macron delinea una vera e propria politica dei due tempi, in cui l’autoriforma della Francia precede ogni richiesta alla Germania, e anzi ne è la condizione di legittimità:

“Se vogliamo convincere i nostri partner tedeschi ad andare avanti, il nostro compito primario sarà quello di riformarci. Oggi la Germania è attendista, e boccia molti progetti europei perché non ha fiducia in noi”. E tale sfiducia, spiega Macron, è perfettamente giustificata, perché noi francesi (ma il medesimo discorso potrebbe essere fatto per l’Italia), la fiducia della Germania “l’abbiamo tradita almeno tre volte: nel 2003-2004 impegnandoci a introdurre riforme di fondo che solo i tedeschi hanno poi condotto; nel 2007 bloccando unilateralmente l’agenda di riduzione della spesa pubblica che avevamo stabilito insieme; e ancora nel 2013 guadagnando tempo senza poi concludere nulla di concreto”.

Di qui un impegno: “nell’estate 2017 presenteremo la strategia delle riforme di modernizzazione del paese e il piano quinquennale di riduzione delle spese correnti, provvedendo senza indugio alla loro attuazione”.

E’ solo a questo punto del ragionamento che Macron introduce la visione francese del futuro dell’Europa: “in cambio chiederemo ai tedeschi di procedere a una vera riprogrammazione di bilancio. Essi dovranno concordare con noi sull’idea di un bilancio dell’eurozona, nonché sull’autorizzazione di futuri investimenti nel complesso dei paesi dell’eurozona”.

Come si vede siamo lontanissimi dal registro vittimistico che accomuna tutto l’arco delle forze politiche nostrane. Nessuna richiesta di aumentare il deficit, nessuna accusa all’Europa di essere l’origine dei guai francesi, nessuna giaculatoria sulla flessibilità di bilancio.

Chi plaude a Macron e lo vede come il contrappeso al potere della Merkel forse dovrebbe riflettere. Si può pensare che la rigidità tedesca sia l’origine principale dei guai italiani (io non lo penso). Ma immaginare che sia Macron a tirarci fuori dai nostri guai ammorbidendo la politica della Germania mi pare decisamente azzardato. Perché, giusta o sbagliata che sia l’impostazione dei problemi europei che egli ha enunciato nel suo libro-manifesto, quella è una visione da uomo di Stato. Precisamente la materia prima che scarseggia in Italia.

Pubblicato su Il Messaggero il 30 settembre 2017



Selezionare i migranti per contrastare la povertà

A seconda di come la si guarda, la storia economica di questi ultimi 10 anni si presenta con due facce opposte.

Il dato più confortante, a mio parere, è che nel corso del 2107, finalmente, la percentuale di famiglie in difficoltà è finalmente scesa più o meno al livello del 2007, ossia al livello pre-crisi. Per “famiglie in difficoltà” non intendo le famiglie povere (qualsiasi cosa si intenda per povero) bensì le famiglie che, alla fine del mese, sono costrette ad attingere ai risparmi o fare debiti. Questo insieme di famiglie, che storicamente si colloca fra il 10 e il 15% del totale, aveva raggiunto la cifra record del 30-35% nella fase acuta della crisi (2012-2013), ma dal 2014 è costantemente e regolarmente diminuito, fino a dimezzarsi rispetto al picco del biennio 2012-2013: oggi sono circa il 15% del totale, 1 famiglia su 7.

A questa recente diminuzione hanno contributo, a mio parere, soprattutto tre fattori. Il primo è la ripresa del Pil. Il secondo è la politica dei bonus (80 euro e incentivi alle assunzioni). Il terzo è l’accresciuta capacità delle famiglie di fronteggiare la diminuzione del potere di acquisto sfruttando la moltiplicazione delle promozioni e delle offerte di prodotti gratuiti (o apparentemente gratuiti). Quest’ultimo fattore può apparire marginale, o strano, ma lo è meno di quel che sembra se riflettiamo sul fatto che il peso delle famiglie che quadrano il bilancio, o addirittura risparmiano, è tornato ad essere quello di 10 anni fa, mentre il potere di acquisto pro capite è ancora abbondantemente al di sotto dei livelli pre-crisi (-10%). Forse a fronte di un minore potere di acquisto teorico (quello calcolato dall’Istat), le famiglie hanno messo in campo strategie di spesa più attente e sofisticate.

Tutto bene dunque, almeno dal punto di vista delle famiglie?

Non esattamente. Accanto a questo dato positivo, infatti, ve n’è un altro che appare di segno opposto: il numero dei poveri è aumentato. Per l’esattezza è quasi triplicato in 9 anni, dal 2007 al 2016. E anche negli ultimi 3-4 anni, con la ripresa del Pil e dell’occupazione, ha continuato ad aumentare, sia pure di poco. Nel 2007 gli individui che vivevano in povertà erano meno di 2 milioni, oggi sfiorano i 5: come è possibile, visto che la percentuale di famiglie in difficoltà è tornata ai livelli pre-crisi?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto sgomberare il campo da un dubbio: per poveri intendiamo i poveri veri e propri, ossia coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di sussistenza (definita dall’Istat), e non una delle numerose definizioni allargate di povertà, quelle che – secondo Kenneth Minogue – i governanti continuamente producono per giustificare il proprio ruolo, ovvero il crescente intervento dello Stato per combattere la povertà stessa (Breve introduzione alla politica, IBL Libri 2014).

Dunque i poveri, i veri poveri, sono molti di più di 10 anni fa, e sono (leggermente) aumentati anche mentre il numero di famiglie in difficoltà diminuiva. Come è possibile?

Una prima risposta è che, se quasi tutte le famiglie povere risultano in difficoltà, non tutte le famiglie in difficoltà sono povere: una parte non è affatto povera, semplicemente spende più di quel che guadagna. E’ questo, verosimilmente, il segmento sociale che più ha beneficiato della ripresa e della politica dei bonus, una politica che ha lasciato a bocca asciutta i veri poveri, ovvero quanti, o perché inoccupati, o perché disoccupati, o perché occupati precari, irregolari o a basso reddito, non guadagnavano abbastanza per pagare le tasse e quindi usufruire del bonus (che, lo ricordiamo, non è un assegno, ma uno sgravio fiscale).

C’è però anche una seconda risposta possibile, forse più inquietante. Se andiamo a vedere chi sono i poveri oggi in Italia, scopriamo che quasi il 40% di essi sono stranieri, e che negli ultimi 4 anni questa quota è molto aumentata (prima del 2013, sfortunatamente, mancano i dati). Se poi andiamo a vedere come è cambiato il tasso di occupazione negli anni della crisi, scopriamo che quello degli italiani è diminuito, ma quello degli stranieri ha subito un vero e proprio crollo, molto più accentuato di quello degli italiani. In poche parole: l’aumento della povertà negli ultimi anni è interamente dovuto alla componente straniera, mentre la componente italiana è in sia pur lenta diminuzione. Ed è forse significativo che questo aumento del numero di stranieri poveri si sia prodotto negli ultimi 4 anni, ossia proprio nel periodo che ha visto un flusso senza precedenti di richiedenti asilo e migranti economici, con strutture di accoglienza chiaramente non all’altezza della situazione.

Difficile sottovalutare l’importanza di questi dati in vista delle prossime elezioni, in cui certamente temi come le politiche di contrasto alla povertà e il reddito di cittadinanza la faranno da padroni. Da questa analisi è infatti possibile trarre due ordini di conclusioni opposte.

Per alcuni l’aumento degli stranieri poveri dimostra soltanto che l’accoglienza non funziona se non è accompagnata da politiche di integrazione e di inserimento dei migranti.

Per altri dimostra invece che l’accoglienza genera povertà, e che le future politiche di sostegno del reddito rischiano di dirottare la maggior parte delle risorse sugli immigrati, a tutto discapito dei cittadini italiani.

Comunque la si pensi, una cosa è certa: dopo 10 anni di crisi, il problema della povertà e quello dell’immigrazione non possono più essere tenuti distinti. Di qui un dilemma, su cui gli elettori saranno chiamati a scegliere: o mobilitare sempre maggiori risorse pubbliche per sostenere il reddito degli immigrati poveri, o rendere molto più selettive le politiche di accoglienza, chiudendo le porte a chi non è in grado di sostentarsi.

Pubblicato da Il Messaggero




Quel diritto alla paura ignorato dalla sinistra

Sul problema degli stranieri i dati sembrano raccontare due storie alquanto diverse. Due storie, è bene dirlo subito, entrambe sostanzialmente veritiere.

La prima storia dice che gli stranieri, anche quando sono regolari, delinquono molto più dei nativi, in Italia come nel resto d’Europa (eccetto Irlanda e Lettonia). Su questo l’evidenza empirica prodotta indipendentemente (e con metodi in parte diversi) dagli studi di Luigi Solivetti e dai dossier della Fondazione David Hume è schiacciante: in Europa gli stranieri delinquono 4 volte più dei nativi, in Italia 6 volte. Nessuno sa, per mancanza di dati, il valore esatto del tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari, ma una stima di larga massima suggerisce che sia 30 volte quello degli italiani, e 10 volte quello degli stranieri regolari.

La seconda storia dice che, da un paio di anni, la maggior parte dei delitti, compresi quelli di grave allarme sociale, sono in diminuzione, in controtendenza rispetto alle percezioni del pubblico, che manifesta invece una crescente preoccupazione per la criminalità, specie se i reati sono efferati e gli autori dei crimini sono stranieri. Il tasso di criminalità relativo è più basso di quello di 10 anni fa. I media, specie la tv, dedicano uno spazio sproporzionato (rispetto a quello di altri paesi) ai fatti di cronaca nera. Quanto alla presenza degli immigrati nella società italiana, da anni tutte le rilevazioni demoscopiche mostrano che sia la presenza degli stranieri, sia la percentuale di immigrati musulmani, sono sovrastimate dal pubblico.

Che il primo racconto piaccia alla destra, e il secondo alla sinistra, fa parte della fisiologia della comunicazione politica, la cui essenza non è dire il falso, ma dire solo una parte della verità. Non per nulla la formula del giuramento in tribunale non prescrive di dire la verità, ma di dire “tutta” la verità.

La vera differenza fra i due racconti sta nelle conseguenze politiche che se ne traggono. La destra usa i dati per alimentare la paura, ingigantendo i pericoli, talora anche al di là di ogni ragionevolezza. La sinistra, viceversa, usa i dati per contestare la paura, specie quella verso gli immigrati, in base alla tesi secondo cui il pubblico sopravvaluta i pericoli.

Questo modo di impostare il problema era molto diffuso già alla fine degli anni ’90 e nei primi anni ‘2000, da cui traggo questa citazione: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, ma è quel che pensavano quasi tutti a sinistra, con l’importante eccezione di Marzio Barbagli). Di qui un perdurante atteggiamento paternalistico, che contagia anche le menti più lucide e anticonformiste. In un’intervista a Repubblica di pochi giorni fa Massimo Cacciari (uno studioso con cui sono quasi sempre d’accordo) sembra pensare seriamente che, di fronte alle “menzogne della destra” la risposta delle sinistra debba essere “controbattere e razionalizzare”, “cambiare la comunicazione”, “rappresentare la questione degli immigrati in modo razionale”, “fornire dati economici”, “spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente”. Come se il problema fossero le “menzogne della destra” e non le paure della gente comune. Come se avere paura fosse irrazionale. Come se l’insicurezza fosse una mera percezione, che un racconto obiettivo potrebbe incaricarsi di sopprimere. Come se i dati fossero tutti e inequivocabilmente rassicuranti. Un illuminismo ingenuo sembra essersi impadronito, da almeno due decenni, della cultura di sinistra, cui non riesce proprio di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne deriva. Eppure, pensare che i cittadini starebbero più tranquilli se solo conoscessero i dati è un non sequitur. Sarebbe come credere che, se sapessero che i morti sul lavoro sono in diminuzione, i sindacati non si preoccuperebbero più della nocività in fabbrica.

Chi ha paura di subire un furto o una violenza non è minimamente rassicurato dal fatto che questi due reati stiano diminuendo: semplicemente pensa che siano troppi (detto per inciso, non ha tutti i torti: i dati disponibili dicono che molti reati, pur in diminuzione, sono nettamente al di sopra dei livelli del 2007-2008). Chi pensa che ci siano troppi immigrati, perché li vede in coda davanti a sé in una ASL, o bighellonare presso un centro d’accoglienza, o spacciare droga sulle scale casa sua (come è capitato 20 anni fa a Italo Fontana, autore di un libro profetico sulla sordità della sinistra: Non sulle mie scale, Donzelli 2001), non si tranquillizza certo perché qualcuno gli dice che in Italia sono solo l’8%. E anche se i reati improvvisamente dimezzassero, resterebbe il fatto che il sentimento popolare non è fatto solo di paura, ma anche di indignazione. In molti casi quel che agita gli animi non è il timore di essere personalmente vittime di un crimine, ma sono le scarcerazioni facili, le pene ridotte, la sensazione di essere abbandonati e senza difesa (si pensi alle donne perseguitate da mariti o fidanzati violenti). E, nel caso degli immigrati, anche una credenza morale: l’idea che un ospite abbia uno speciale dovere di rispettare le regole.

La realtà è che la sinistra parla di xenofobia (paura dello straniero), ma la interpreta immancabilmente come xenomisia (odio per lo straniero). Ecco perché, per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, la paura è una colpa. Ma non è così, almeno dai tempi di Hobbes. La paura è il fondamento stesso del contratto sociale e dello Stato moderno, che nasce come antidoto alla sopraffazione, come superamento dello stato di natura in cui ogni uomo è “lupo” verso ogni altro uomo (homo homini lupus). Quando la paura riemerge, è perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di far rispettare il contratto, ovvero di garantire ai cittadini il più “basico” dei beni, la sicurezza. Di fronte a questo sentimento, l’unica cosa che può attenuare la paura, e disinnescare la protesta, non è andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma riconoscere il loro diritto di avere paura, e dimostrare, con i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla.

Pubblicato su Il Messaggero il 9 Settembre 2017