Cambiare la manovra? Yes we can…

Nel medio periodo i mercati finanziari valutano i conti pubblici di un paese in base ai suoi fondamentali, nel breve periodo, invece, nella valutazione dei mercati, quella che determina il famigerato spread, entrano anche molteplici fattori di natura politica, psicologica, congiunturale.

In questo momento, nella zona Euro, tutti i paesi sono giudicati dai mercati grosso modo in linea con i loro fondamentali, con una sola eccezione: l’Italia. In Italia lo spread è pari a 300 punti base, ma di questi 300 punti solo la metà circa è attribuibile allo stato dei nostri fondamentali. In concreto vuol dire: se i mercati non fossero influenzati da fattori anomali, lo spread sarebbe prossimo a 150 punti, e tutti vivremmo sonni più tranquilli.

Come se non bastasse, a questa cattiva disposizione (posso chiamarla così?) dei mercati si addiziona la pessima disposizione delle autorità europee, che minacciano l’avvio di una proceduta di infrazione verso l’Italia, colpevole di aver presentato una manovra di bilancio che viola le regole di Bruxelles.

E’ in questo clima che, molto timidamente e in modo volutamente ambiguo, il governo si appresta a modificare (o “rimodulare”, come si dice quando si vuole dire e non dire) la manovra economica con cui intende far uscire l’Italia dalle secche della bassa crescita.

E’ opportuno mettere mano a una sostanziosa correzione della manovra?

Io penso di sì, ma ritengo anche che una tale correzione non dovrebbe preoccuparsi tanto di salvare la faccia alle autorità europee, quanto di riportare i mercati alla ragione, ossia a valutare l’Italia per quel che sono i suoi fondamentali. Provo a dire perché.

Primo. Il vero danno all’Italia non verrà dalle sanzioni europee, ma è già venuto dall’aumento dello spread. Se non ce ne siamo ancora accorti granché è solo perché gli effetti negativi generali si vedranno fra un anno circa, ossia quando gli interessi sui prestiti e sui mutui cominceranno a strangolare famiglie e imprese, mentre gli effetti negativi immediati hanno finora colpito “solo” (si fa per dire) 1 risparmiatore su 4, ossia i possessori di ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di stato). E’ facile prevedere che se, fra qualche mese, le perdite virtuali dei risparmiatori italiani (circa 200 miliardi di euro dalla data delle elezioni) non dovessero essere recuperate grazie a un calo dello spread e un recupero della borsa, assisteremo al progressivo consolidarsi del partito del “I want my money back”, ovvero “rivoglio i miei soldi indietro”, secondo la famosa rivendicazione di Margareth Thatcher (verso l’Europa).

Secondo. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre dai dibattiti in corso, la vera fonte di tensione sui mercati non è il deficit (che da diversi anni oscilla intorno al livello programmato dal governo gialloverde), ma l’evoluzione del rapporto debito-Pil. Quel che preoccupa è la scarsa determinazione del governo nel perseguirne la sua riduzione, e ancor più la convinzione della stragrande maggioranza degli analisti che, sia nel 2019 sia negli anni successivi, il Pil dell’Italia crescerà meno del previsto, rendendo così ancora più improbabile l’avvio di un percorso di riduzione del rapporto debito-Pil.

Terzo. I timori degli analisti sono più che giustificati, e lo sono per un motivo molto semplice: la manovra non inverte affatto la rotta degli anni scorsi, ma semmai ne amplifica i difetti e, bisogna aggiungere per amore di verità, ne paga gli errori. In che senso?

Nel senso che è stato un errore puntare troppo su misure assistenziali (come gli 80 euro e i vari bonus), giustificate dal mito del “rilancio della domanda interna”. E’ stato un errore fare così poco per ridurre la pressione fiscale sui produttori. E’ stato un errore disseminare il futuro (cioè il presente dell’attuale governo) di clausole di salvaguardia da disinnescare, come quelle sull’Iva e le accise. E’ stato un errore chiedere continuamente all’Europa di fare più deficit di quello consentito dalle regole, anziché approfittare della congiuntura favorevole per risanare il bilancio. E’ stato un errore ridurre, anno dopo anno, le risorse destinate agli investimenti pubblici. E’ stato un errore non fare una manovra correttiva allorché l’Europa ci avvertì che i nostri conti pubblici stavano deragliando dal percorso concordato.

Di fronte a questi errori, rinunciare a una sensibile riduzione delle tasse e puntare quasi tutto su due grandi misure di spesa (reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati) non significa cambiar rotta, ma accentuare il principale difetto delle politiche dei governi precedenti, ovvero l’eccesso di misure orientate al consenso anziché alla crescita. Né vale l’obiezione che, così, si rilanciano consumi e domanda interna, o che la manovra è “finalmente” espansiva: fare il 2.4% di deficit non significa immettere nell’economia più soldi di prima, ma solo immetterne di più di quanti se ne incassa, esattamente come prima e nella stessa misura in cui lo si faceva prima (il deficit è sempre stato prossimo al 2.4% negli ultimi anni).

Che fare, dunque, per correggere la manovra?

Arrivati a questo punto una correzione radicale, una vera inversione di tendenza, è politicamente impossibile, perché ormai su pensioni e reddito di cittadinanza Salvini e Di Maio si sono impegnati con i rispettivi elettorati, e non è certo pensabile che sacrifichino una di queste due promesse per mantenere la terza, ovvero la flat tax. Però, forse, qualche correzione si potrebbe fare lo stesso. Di queste correzioni, non ottimali ma comunque capaci di calmare i mercati, io ne vedo almeno quattro. La prima è un aumento degli investimenti pubblici, soprattutto legati all’edilizia e alla gestione del territorio (dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole). La seconda è una lieve riduzione del deficit programmatico, magari anche solo dal 2.4 al 2.2%, che è poco in termini di bilancio ma è tanto come segnale ai mercati. La terza, a copertura delle prime due, è un avvio graduale delle misure di spesa (pensioni e reddito di cittadinanza), non nel senso di un inizio tardivo (impensabile con le elezioni europee alle porte) ma nel senso di un inizio tempestivo (aprile?) che allarga poco per volta la platea dei beneficiari. La quarta, a mio parere la più importante, è il capovolgimento del reddito di cittadinanza. Anziché mettere i soldi in tasca ai disoccupati, attendendo che gli inefficientissimi centri per l’impiego offrano loro un corso di formazione e un lavoro veri, che li distolga dalla tentazione del lavoro nero, si potrebbe varare un sistema di incentivi che renda convenienti per le imprese l’assunzione e/o la formazione di lavoratori disoccupati e disponibili a lavorare: imparare un lavoro dentro l’impresa che di quel tipo di lavoro ha bisogno è la migliore garanzia che il lavoratore formato venga assunto, e che la formazione serva proprio a lui, e non – come oggi troppe volte accade – ai formatori che si contendono i disoccupati.

Un aggiustamento di questo tipo non sarebbe il più efficace possibile ai fini della crescita, se non altro perché privo di altri cruciali pilastri (riduzione delle tasse, investimenti in capitale umano, efficientamento della giustizia civile), e tuttavia avrebbe, a mio parere, buone probabilità di centrare almeno quattro obiettivi: salvare la sostanza delle promesse elettorali già fatte; rendere meno improbabile il raggiungimento dei tassi di crescita programmati, grazie al reddito di cittadinanza reindirizzato verso le imprese; bloccare la proceduta di infrazione dell’Europa contro l’Italia; raffreddare le tensioni sui mercati finanziari. Un ritorno dello spread sotto quota 200 riporterebbe un po’ di fiducia, ridarebbe ossigeno ai bilanci delle banche, eviterebbe la contrazione del credito e l’aumento dei tassi sui mutui, permetterebbe ai risparmiatori di recuperare le perdite (virtuali) di questi mesi.

Non è moltissimo, ma è comunque meglio che prolungare all’infinito l’incertezza presente.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 novembre 2018



Abusi edilizi del nonno, difendo Luigi Di Maio

Del populismo mi piacciono due cose soltanto: lo sforzo di usare un linguaggio comprensibile, e il rispetto per i sentimenti della gente comune. Tutto il resto, a partire dalla politica economica e sociale, mi lascia perplesso, non saprei dire se di più o di meno di quanto mi lasciassero perplesso le gesta dei governi precedenti, che molto hanno contribuito, insieme ai nostri comportamenti quotidiani, a portare l’Italia nella palude in cui tuttora si trova.

La mia lontananza dalle idee sovraniste e populiste, tuttavia, non mi impedisce oggi di dire una cosa: il trattamento che una parte del mondo dell’informazione, e in particolare i media schierati con l’opposizione, hanno riservato a Luigi Di Maio (per la vicenda di un abuso edilizio sanato con un condono) non è degno di un paese civile. Anzi, vorrei dire di più: non è degno di un paese occidentale moderno, e meno che mai di una democrazia liberale.

Non che Di Maio sia l’unica vittima, naturalmente. E’ successo a decine di politici di essere messi alla gogna per presunti illeciti compiuti dai loro familiari. Recentemente è capitato a Maria Elena Boschi per le condotte del padre in banca Etruria, e a Matteo Renzi, anche lui per affari sospetti del padre. Ma, a mia memoria, mai era successo che un politico venisse crocefisso per un illecito (in materia edilizia) compiuto da suo nonno mezzo secolo prima, sanato da suo padre prima che il malcapitato uomo politico di oggi fosse venuto al mondo. Un quotidiano arriva ad accusare Di Maio di non aver tenuto gli occhi ben aperti quando, 12 anni fa, il padre ricevette comunicazione che la domanda di condono – da lui inoltrata venti anni prima – era stata finalmente accolta.

Eppure, più che aberrante, questa vicenda è molto istruttiva. Essa ci permette, infatti, di accorgerci di quanto radicalmente la nostra società e, dentro di essa, il mondo della comunicazione, si siano allontanati dai principi liberali che per tanti decenni sono stati alla base delle nostre istituzioni.

Ce ne siamo allontanati, tanto per cominciare, perché i difensori di quei principi sono i primi a calpestarli. Fa una certa impressione constatare che siano proprio i paladini delle istituzioni liberali, giustamente preoccupati di ogni indebolimento dello stato di diritto, a dimenticare che – nelle società moderne – la responsabilità è personale, e che le (eventuali) colpe dei padri non possono essere imputate ai figli: il superamento della legge del genos, per cui la colpa si trasmette lungo le generazioni, e la vendetta può abbattersi sui discendenti, è un caposaldo della nostra civiltà, uno dei punti cruciali che la separa dalle tante barbarie del passato.

Ma fa ancora più impressione il meccanismo di propagazione mediatica del fango. Quando una notizia, più o meno vera, più o meno completa, più o meno infamante, viene messa in circolo, essa entra istantaneamente nel tritacarne dei social, senza mediazioni, senza contrappesi, senza alcuna reale possibilità di autodifesa dei diretti interessati. Anzi, la tentata autodifesa non fa che peggiorare la situazione, favorendo la propagazione del fango, moltiplicando le voci che pretendono, senza alcuna cognizione di causa, di esibire i propri istinti e i propri impulsi.

Ed è qui che le cose diventano interessanti, e istruttive per chi volesse non chiudere gli occhi. La ragione per cui le figure pubbliche possono sì raccogliere rapidamente un enorme consenso, ma anche risultare improvvisamente vulnerabilissime, è precisamente che sono saltati tutti gli argini che, ancora pochi decenni fa, mettevano un limite all’arbitrio comunicativo: la realtà è che oggi chiunque può dire quel che desidera senza renderne conto a nessuno, i media non hanno alcuno scrupolo nel nascondere le notizie, nell’inventarle, nel deformarle, tecnici ed esperti sono guardati con sospetto, nessuno è considerato al di sopra delle parti, i fatti sono trattati come opinioni, eventi e comportamenti sono sistematicamente giudicati con due pesi e due misure, nessuno è chiamato a rendere conto delle affermazioni che fa, o a scusarsi per le bugie che dice. Insomma: se “uno vale uno”, e tutti siamo felicemente collegati via internet, allora tutte le opinioni sono sullo stesso piano, e quel che è fake ha esattamente gli stessi diritti di quel che non lo è.

In questo senso la vicenda Di Maio è illuminante, ma lo è per tutti. Si può accusare una parte della stampa di faziosità, o addirittura di aver montato un caso per colpire un avversario politico (non è certo il caso della Raggi, che non è partito dagli organi di informazione). Ma ci si dovrebbe rendere conto che il meccanismo è il medesimo che, una decina di giorni fa, aveva condotto la stessa parte politica, da sempre fustigatrice del cattivo giornalismo, ad ospitare sul proprio sito un video completamente manipolato, in cui a un’autorità europea (nella persona di Jeroen Dijsselbloem) venivano messe in bocca dichiarazioni gravissime (un invito ai mercati finanziari ad attaccare l’Italia) ma completamente inventate. E ancora prima aveva condotto a cavalcare le vicende di Renzi e Boschi con la stessa spregiudicatezza con cui oggi gli avversari dei Cinque Stelle cavalcano le malefatte edilizie del nonno di Di Maio.

Ecco, credo che questa vicenda innanzitutto questo ci insegni: allontanarsi troppo dalle istituzioni liberali, con i loro filtri, le loro mediazioni, i loro meccanismi di tutela della verità e della reputazione, può apparire liberatorio, ma è molto pericoloso. Perché un mondo in cui ciò che è fake e irragionevole conta tanto quanto ciò che è vero e ben fondato, può andare in qualsiasi direzione. Anche le più impreviste e inquietanti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero di martedì 13 novembre 2018



La crisi è un missile a 3 stadi

Ha suscitato una certa attenzione, anche a livello nazionale, la marcia sì-Tav di sabato scorso a Torino, la mia città. Molti hanno visto in essa i primi sintomi di un possibile indebolimento del consenso al Governo, peraltro segnalato anche da alcuni recenti sondaggi. L’opposizione, finora inerte, comincia a nutrire qualche timida speranza di rimonta.

Dobbiamo dare credito a questi segnali?

Per certi versi sì. E’ da qualche settimana, infatti, e precisamente dal giorno della denuncia in tv, da parte di Di Maio, della “manina” che avrebbe manipolato la manovra inserendo proditoriamente un condono fiscale troppo indulgente, che Salvini e Di Maio non sembrano più quelli di prima. Non passa giorno senza un battibecco, per lo più indiretto, via internet e via social media. Reddito di cittadinanza, condono fiscale, condono edilizio, decreto sicurezza, riforma della prescrizione, grandi opere, e ora persino gli inceneritori e la gestione dei rifiuti in Campania, offrono continue occasioni di punzecchiamento reciproco. Sembra quasi che, se non vi fosse l’odiata Bruxelles contro cui dirigere quotidianamente i propri strali, a Lega e Cinque Stelle resterebbero ben pochi motivi per restare insieme (il che, detto per inciso, forse spiega le rigidità dell’esecutivo sulla manovra: lo scontro con la cattiva Europa è l’unico vero cemento ideologico dei due partiti che ci governano).

Per altri versi però no, l’idea che il governo sia alla vigilia di una crisi non mi convince, o meglio non mi convince ancora. Quel che è interessante, infatti, e meriterebbe una spiegazione, è la circostanza per cui, in questo momento, nell’opinione pubblica paiono convivere due maggioranze di segno contrario, di cui i sondaggi tracciano puntualmente il profilo.

Da una parte c’è la maggioranza (circa il 60%) costituita da quanti approvano l’azione di governo e, in caso di elezioni, voterebbero Lega o Cinque Stelle. Ma dall’altra c’è anche una seconda maggioranza, costituita da una pluralità di maggioranze concentriche: la maggioranza dei contrari al reddito di cittadinanza, la maggioranza dei favorevoli alla Tav e alle grandi opere, la maggioranza di coloro che temono (e prevedono) tasse in aumento. Per non parlare della maggioranza più importante, quella di coloro che vogliono restare nell’euro (circa il 70%).

Strano: sulle cose importanti la maggioranza degli italiani non mostra molta fiducia nelle politiche del governo, ma poi – venuti al dunque – paiono ancora intenzionati a votare Lega e Cinque Stelle. Come mai?

Io penso che le ragioni fondamentali siano due. La prima è che, per votare altro, bisognerebbe che questo “altro” battesse un colpo. Pd e Forza Italia non lo stanno facendo: vorrebbero, ma non ne sono capaci. Se nascerà un’alternativa a questo governo, è più facile cha arrivi da fuori che da dentro il sistema politico attuale.

C’è anche una seconda ragione, però, per la quale il consenso al governo tutto sommato regge, a dispetto delle varie maggioranze contrarie sulle cose che contano. La ragione è che la recessione non è ancora arrivata (verosimilmente sarà riconoscibile la primavera prossima) e la manovra è un congegno a tempo, una sorta di missile a tre stadi.

Il primo stadio è già partito, e ha colpito la ricchezza finanziaria degli italiani, che hanno subito perdite virtuali per oltre 175 miliardi dalla data del voto, e per 85 dalla data di insediamento del governo (per i dettagli vedi: www.fondazionehume.it). Queste perdite hanno colpito, per ora, quasi esclusivamente le banche e i ceti medio-alti, che detengono ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, fondi comuni). Non si tratta certo di quattro gatti, ma nemmeno di una vasta maggioranza (la maggior parte delle famiglie detiene ricchezza sotto forma di immobili e depositi, due asset assai poco colpiti dall’aumento dello spread e dalla crisi della borsa). Questo primo stadio del missile, a occhio e croce, dovrebbe aver raggiunto 1 famiglia su 5.

Il secondo stadio si farà sentire più avanti, quando comincerà a mancare il credito alle imprese e alle famiglie, con conseguenti riduzioni del fatturato e della spesa, dai mutui immobiliari ai consumi. Più o meno succederà a metà 2019, intorno alle elezioni europee. Subito dopo, ovvero verso la fine dell’anno prossimo, arriverà il terzo stadio, quello delle riduzioni dell’occupazione, un esito difficilmente evitabile se lo spread resterà ai livelli attuali, e praticamente certo se lo spread dovesse salire ancora, trascinando nel baratro le banche.

Ecco perché, nonostante tutto, il governo è ancora popolare. Chi desidera vederlo vacillare, farà bene ad attendere che la manovra dispieghi i suoi effetti, e che nasca una vera opposizione. Due eventi di cui solo il secondo è auspicabile, almeno per chi non è iscritto al “partito del popcorn”, che cinicamente attende che sia il naufragio dell’Italia a trascinare con sé il timoniere.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 17 novembre 2018



Piazza e governo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, la manifestazione a Torino per la tav, e quindi contro il M5s, è stata un successo superiore alle aspettative. Come la interpreta?

Superiore alle aspettative? Forse sì, ma si potrebbe capovolgere il giudizio: con una maggiore organizzazione e più tempo davanti si potevano portare ancora più persone in piazza. Io penso che se la Tav non parte, e il Governo continua a non fare nulla per il Nord (o addirittura a disfare quel che aveva fatto l’esecutivo precedente), fra un paio di mesi di gente in piazza ne vedremo molta di più. 

I ceti produttivi, soprattutto al nord, iniziano a ribellarsi al governo? 

Certo, quel che è stupefacente è che abbiano messo così tanto tempo ad accorgersi che per il governo gialloverde i ceti produttivi vengono dopo quelli improduttivi (pensionati e inoccupati).

Beppe Grillo dice che sono tornati “i borghesucci più aggressivi e sempre più benpensanti”, accreditando così l’idea che il popolo è con loro, mentre l’élite borghese è nemica del governo. La convince questa tesi del comico?

Come sociologo la trovo imbarazzante (o forse semplicemente degna di un comico) nella sua completa incapacità di leggere la realtà. La protesta di Torino non è né solo borghese né solo popolare, perché è una protesta interclassista, a differenza della “marcia dei 40 mila” del 1980, che era fondamentalmente di ceto medio e anti-operaia. Quel che unisce oggi non è una condizione sociale specifica, ma è il rifiuto dell’immobilismo di fronte al declino che minaccia i ceti produttivi, specie nel Nord-Ovest.

Lei con la Fondazione Hume ha calcolato il costo del governo M5s-Lega per l’Italia. Finora è enorme, eppure il governo sembra godere ancora di buoni sondaggi di popolarità.

Abbiamo finito giusto pochi minuti fa di completare il calcolo delle perdite virtuali del sistema Italia nell’ultima settimana, che sono risultate pari a circa 12 miliardi, che aggiunte alle perdite dei mesi scorsi fanno un totale di 175 miliardi dalla data del voto, e di 114 miliardi dalla nascita del governo.

Pensa che la manovra con i suoi effetti pratici possa essere l’inizio di un’inversione di tendenza? La fine della luna di miele con gli italiani?

Sì, lo penso, anche se non posso non aggiungere che la percezione dei danni avverrà con tempi diversi a seconda dei ceti sociali. I primi colpiti, in ordine di tempo, sono i ceti medi detentori di ricchezza finanziaria sensibile, che hanno già subito perdite virtuali per 70 miliardi (136 dalla data delle elezioni). Poi, dopo le elezioni Europee, toccherà a imprenditori, artigiani, commercianti, su cui più peserà la restrizione del credito bancario. Poi, fra circa un anno, sarà il turno dei lavoratori dipendenti, a causa della contrazione dell’occupazione. Infine, nel lungo periodo, le vittime saranno i giovani, cui toccherà pagare i debiti addizionali che lo Stato contrae oggi. Per capire come evolverà il consenso, dobbiamo ricordarcelo: la manovra è un missile a 4 stadi.

Il reddito di cittadinanza sarà un ulteriore enorme trasferimento di risorse dal nord al sud, dove si concentra la maggior parte di potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza. Che effetto avrà secondo lei?

Molto dipende da fattori tecnico-organizzativi. Se riusciranno a farlo partire ordinatamente ci sarà un aumento di consenso per i Cinque Stelle, se invece sarà un caos, e gli abusi saranno numerosi e pubblicamente denunciati, sarà un boomerang per la Lega di Salvini.

Non la sorprende che sia proprio la Lega ad avallare un sussidio pubblico del genere, dopo aver denunciato per anni il “sacco del Nord”, per riprendere il titolo di un suo libro?

Sì mi sorprende, ma le dico di più: proprio non riesco a capire Salvini. Non perché ha lasciato passare il reddito di cittadinanza, ma perché non ha preteso in cambio la flat tax.

L’attacco violento alla stampa dato da Di Maio e Di Battista come lo giudica?

Lo trovo aberrante nella forma, del tutto fuori luogo sul caso Raggi, ma non del tutto infondato parlando in generale.

Quanto durerà questo governo?

Dipende soprattutto da due fattori: la crescita dell’economia e la nascita di nuove forze politiche. Se l’economia non dovesse ripartire, e scendesse in campo un nuovo imprenditore politico, l’attuale governo difficilmente potrebbe sopravvivere.

Lei è convinto che cadrà per colpe proprie, non per meriti delle opposizioni, che in effetti sembrano molto deboli?

I governi non cadono da sé: se questo governo cadrà, sarà per perché nasce un’opposizione, o di piazza (come a Torino) o politica (nuovo partito).

Alle Europee ci sarà uno scontro tra fronte populista-euroscettico, e moderati europeisti. C’è un vento populista che soffia in tutta Europa, o quella italiana è una anomalia?

No, il vento c’è dappertutto, ma non soffia con la stessa forza a tutte le latitudine.

Intervista a cura di Paolo Bracalini per Il Giornale, pubblicata il 13 novembre 2018



Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo? Aggiornamento all’ultima settimana

NOTA DI AGGIORNAMENTO: settimana 2 – 9 novembre 2018

  1. Le perdite dell’Italia

Nella settimana che va dal 2 al 9 novembre 2018 il bilancio degli operatori finanziari italiani torna ad essere negativo. Dopo tre settimane di relativa calma, i rendimenti dei titoli di Stato sono tornati a salire facendo perdere valore ai titoli pubblici (-6.3 miliardi). La capitalizzazione borsistica perde 2.5 miliardi, mentre (in base alle nostre stime) il valore delle obbligazioni scende di 3 miliardi.

Nel complesso le perdite virtuali dei tre principali mercati italiani ammontano a 11.9 miliardi di euro.

Tabella 1. Perdite e guadagni virtuali complessivi sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Ricordiamo che dal calcolo sono escluse sia le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, sia i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va poi ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Dalle elezioni ad oggi (9 novembre) le perdite virtuali di Borsa, obbligazioni e titoli di Stato (esclusi quelli detenuti da Banca d’Italia e investitori esteri) ammontano a 175.5 miliardi di euro.

Banca d’Italia e investitori esteri detentori di titoli di Stato italiani hanno perso invece (sempre dalle elezioni ad oggi) 93.7 miliardi euro.

Grafico 1. Guadagni virtuali sui tre mercati principali nella settimana dal 26 ottobre al 2 novembre

Grafico 2. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio al 9 novembre

Grafico 3. Perdite virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio al 9 novembre
  1. Le perdite di famiglie e imprese

Secondo le nostre stime, famiglie e imprese hanno perso nell’ultima settimana 8.8 miliardi di euro. Dalle elezioni ad oggi (9 novembre) le perdite virtuali ammontano quindi a 136 miliardi euro.

Tabella 2. Perdite e guadagni virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro)

Ricordiamo che il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato[1].

 

[1] Diversamente da quanto fatto nelle precedenti pubblicazioni, i tassi di deprezzamento della ricchezza finanziaria in mano a famiglie e imprese sono stati stimati ponendoli uguali al tasso di deprezzamento medio sui tre principali mercati italiani (escluse le banche).
Nei report precedenti le variazioni della ricchezza finanziaria erano state stimate mediante una “forchetta” (±1% rispetto al deprezzamento medio).

 


Di quanto è diminuita la nostra ricchezza?

Premessa

È strano, ma a nostra conoscenza nessuno ha ancora provato a calcolare quanto, complessivamente, ci è finora costata l’incertezza politico-finanziaria che si è instaurata in Italia dopo le elezioni del 4 marzo 2018.

Noi ci abbiamo provato, con i dati disponibili, sommando 3 addendi fondamentali:

a) la variazione della capitalizzazione del mercato azionario italiano (limitatamente alle società quotate);

b) la variazione del valore dei titoli di Stato detenuti da individui e operatori residenti in Italia, al netto di quelli detenuti dalla Banca d’Italia;

c) il deprezzamento dei titoli di debito del mercato obbligazionario italiano.

A parte sono state calcolate le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri.

Nel caso delle perdite del solo comparto Italia (senza Banca d’Italia e investitori esteri) abbiamo anche provato ad isolare le perdite sofferte dai settori delle famiglie e delle imprese, questa volta includendo anche le azioni e partecipazioni di società non quotate.

Tutte le stime sono prudenziali: è ragionevole pensare che le perdite effettive siano state maggiori di quelle da noi stimate.

Le perdite calcolate sono ovviamente virtuali, e potrebbero essere riassorbite, o tramutarsi in guadagni, ove la situazione economica e le valutazioni dei mercati nei prossimi mesi o anni dovessero evolvere positivamente.

I vari tipi di perdite sono state calcolate fra 3 momenti temporali:

–  28 febbraio 2018 (pre-elezioni)

–  31 maggio 2018 (insediamento governo)

– 19 ottobre 2018 (terza settimana di ottobre).

Le nostre stime non sono né definitive, né perfette, specie per il mercato obbligazionario, dove le informazioni disponibili sono più disperse che sugli altri due mercati (azioni e titoli di Stato). Le offriamo come una prima valutazione, sperando che altri si cimentino nel medesimo esercizio, producendo stime più accurate e analitiche delle nostre.

I dettagli e le fonti statistiche delle stime sono reperibili sul sito della Fondazione David Hume: www.fondazionehume.it.

1. Le perdite dell’Italia

Le perdite virtuali sui tre mercati esaminati ammontano a 198 miliardi (oltre il 10% del Pil) dal momento del voto, di cui 107 dall’insediamento del Governo.

   Tabella 1. Perdite virtuali sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Dal calcolo sono escluse le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, nonché i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va inoltre ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Grafico 1. Perdite virtuali sui tre mercati principali dalle elezioni ad oggi (miliardi di euro)
Grafico 2. Perdite virtuali sui tre mercati principali dalla nascita del governo ad oggi (miliardi di euro)

2. Le perdite di famiglie e imprese

Le perdite precedenti colpiscono tutti i settori istituzionali. Qui ci concentriamo sulle perdite virtuali subite da famiglie e imprese.

Un calcolo accurato delle perdite è impossibile per mancanza di dati sufficientemente analitici. Usando i dati disponibili sulle consistenze della ricchezza finanziaria (fonte Banca d’Italia) e le nostre stime dei tassi di deprezzamento di azioni, obbligazioni e titoli di Stato, possiamo però farci un’idea dell’ordine di grandezza minimo delle perdite: almeno 122 miliardi dalla data del voto, di cui 68 dal momento dell’insediamento del Governo.

Il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato.

Nell’ipotesi 1 (la più cauta, ovvero ottimistica), il deprezzamento % è pari a quello medio sui tre mercati principali, attenuato di 1 punto percentuale.

Tabella 2a. Perdite virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro) – Ipotesi 1

Nell’ipotesi 2 (la meno ottimistica), il deprezzamento % è pari a quello medio sui tre mercati principali, aumentato di 1 punto percentuale.

Tabella 2b. Perdite virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro) – Ipotesi 2

È il caso di sottolineare che il valore indicato sopra come stima delle perdite virtuali minime di famiglie e imprese (122.4 miliardi dalle elezioni) si basa sull’ipotesi 1 (la più ottimistica), anche se riteniamo più verosimile l’ipotesi 2.

3. Dettagli

Riportiamo qui il quadro analitico completo delle perdite virtuali sui tre principali mercati, compresi i soggetti che abbiamo escluso nella tabella 1.

Tabella 3. Perdite virtuali complessive sui tre mercati principali (miliardi di euro)

La tabella distingue tre tipi di detentori dei titoli di Stato (Banche, Istituzioni finanziarie, Altri residenti) e riporta anche le perdite virtuali della Banca d’Italia e degli investitori esteri, omesse nella tabella 1.

La riga finale, relativa al Totale complessivo, permette di calcolare le perdite virtuali accusate sui tre principali mercati da tutti i detentori di titoli di Stato, obbligazioni, azioni di società quotate, compresi gli investitori esteri e la Banca d’Italia: si tratta di oltre 300 miliardi di euro, di cui circa la metà nel dopo-voto e l’altra metà nel dopo-governo.

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Nota tecnica

Fonti principali

Le stime sono state costruite a partire da dati MEF, Banca d’Italia, Milano Finanza, Investing e Borsa Italiana.

Metodi

La diminuzione del valore di mercato delle azioni è stata calcolata usando come base la capitalizzazione (al 28 febbraio 2018) di tutti i titoli quotati alla Borsa di Milano.

La variazione del valore di mercato dei titoli di Stato è stata calcolata usando come base il valore nominale (al 28 febbraio 2018) dello stock calcolato dalla Banca d’Italia e come saggi di variazione quelli desumibili dall’evoluzione dei rendimenti (suddivisi per duration). In mancanza di dati analitici, abbiamo assunto la medesima composizione del portafoglio per Banche, Istituzioni finanziarie e Altri residenti.

La variazione del valore di mercato delle obbligazioni emesse da Banche, Società non finanziarie, Imprese di assicurazione, Altri intermediari finanziari è stata stimata usando come base il valore delle obbligazioni rilevato dalla Banca d’Italia alla fine di febbraio 2018, e applicando a tale base un tasso di deprezzamento pari alla metà di quello dei titoli di Stato.

Per tutte le voci, la perdita patrimoniale è stata stimata per 3 periodi:

(a) periodo post-elettorale ma pre-formazione governo (dal 28 febbraio al 31 maggio);

(b) periodo post-governo (dal 31 maggio al 19 ottobre)

(c) periodo dalle elezioni a oggi (dal 28 febbraio al 19 ottobre)

Tassi di deprezzamento

I tassi di deprezzamento dei titoli scambiati sui tre principali mercati sono basati sulla capitalizzazione di Borsa e sull’evoluzione di rendimenti e duration dei titoli di Stato. I tassi di deprezzamento relativi alle obbligazioni sono stati posti eguali alla metà di quelli dei titoli di Stato.

Tabella 4. Tassi di deprezzamento stimati

È verosimile che la nostra ipotesi sul mercato obbligazionario sia troppo ottimistica, e che il deprezzamento effettivo sia stato maggiore.

Avvertenza

Tutte le nostre valutazioni della perdita di ricchezza degli italiani sono estremamente prudenti, e quasi certamente rappresentano una sottostima della perdita totale effettiva. Infatti:

a)  nel calcolo delle perdite sui tre principali mercati sono escluse le azioni delle società non quotate e i titoli del debito pubblico diversi dai titoli di Stato;

b)  presumibilmente una parte dei titoli di Stato che la Banca d’Italia classifica come “estero” sono indirettamente detenuti da italiani;

c)  nel calcolare il deprezzamento delle obbligazioni si è scelto di utilizzare le stime più ottimistiche, basate sull’ipotesi che i rendimenti del mercato obbligazionario siano cresciuti molto di meno (circa la metà) di quelli del mercato dei titoli di Stato;

d)    nel calcolo della ricchezza finanziaria delle famiglie e delle imprese abbiamo considerato solo gli attivi più sensibili alle fluttuazioni di mercato, pari a meno di 1/3 degli attivi totali.

Caveat

Il dato delle perdite complessive dell’Italia sui tre principali mercati e quello delle perdite complessive di famiglie e imprese non sono direttamente comparabili. Nel primo dato (Italia), infatti, mancano sia i titoli del debito pubblico diversi dai titoli di Stato, sia le “Azioni e altre partecipazioni” relative alle società non quotate. Nel secondo dato (famiglie e imprese) viene presa in considerazione solo la porzione più vulnerabile della ricchezza finanziaria delle famiglie, ma vengono incluse le “Azioni e altre partecipazioni”.

Entrambi i dati vanno interpretati come stime per difetto.

Ringraziamenti

La Fondazione David Hume ringrazia quanti, in quanto operatori sui mercati finanziari o in veste di studiosi, sono stati prodighi di consigli e di valutazioni. La responsabilità di eventuali errori è ovviamente nostra.

[testo a cura di Luca Ricolfi, Rossana Cima, Caterina Guidoni]