Tre esempi di successo e tre lezioni per il Partito Democratico

Alcuni dicono che il Partito Democratico sia sull’orlo di una crisi di nervi. Altri sostengono che non perda occasione per confondere il proprio popolo. È proprio vero? Di sicuro, il percorso verso un largo coinvolgimento dei cittadini alla vita civica e alla partecipazione al voto è ancora lungo.

La buona notizia è che esempi di partiti trasformatisi con successo in grandi movimenti riformisti abbondano. Consideriamone tre, nell’arco di dieci anni, ai due lati dell’Atlantico: il Democratic Party nel 2008, il Liberal Party of Canada nel 2012, e la Republique en Marche nel 2017.

La prima campagna elettorale di Barack Obama rinnova il Democratic Party, mobilitando per la prima volta milioni di americani all’impegno civile e politico, e adattandosi alle loro richieste di cambiamento radicale. Sfiniti da otto anni di George W. Bush, gli americani si entusiasmano alla visione che Obama propone di un’America post-razziale, unita, pragmatica, che reinterpreta la propria unicità in chiave riconciliatoria tra red states e blue states e, implicitamente, tra neri e bianchi. La campagna si struttura in movimento politico, organizzato come un social network, inspirato alle tecniche di community organizing elaborate da Marshall Ganz a Harvard Kennedy School. Il movimento stabilisce una rete capillare per la mobilitazione e formazione di volontari con il compito di coinvolgere potenziali elettori, professionalizza l’uso di big data nel volantinaggio porta-a-porta, e fa uso massiccio di newsletter, inviate regolarmente a iscritti e simpatizzanti, per informare, dare l’opportunità di partecipare, e chiedere donazioni. Obama cambia per sempre il partito democratico e soprattutto il modo di partecipazione politica negli States.

E veniamo al secondo esempio. Justin Trudeau nel 2012 è un politico canadese in ascesa. Sente che il Canada è sfiancato da dieci anni di politiche conservatrici di John Harper, e vuole riportarlo al proprio destino naturale di paese tollerante, aperto, progressista. A dispetto di quanti gli consigliano di uscire dal Liberal Party of Canada e creare un proprio movimento, Trudeau rivolta il partito come un calzino e lo trasforma in un movimento aperto a tutti. Non più tessera annuale con costo fisso, ma iscrizione gratuita e partecipazione flessibile a specifiche campagne tematiche, con impegno relazionato alla disponibilità di ognuno. Come Obama, anche Trudeau costruisce un movimento dal basso, da volontario a volontario, da una community di elettori all’altra. Risultato: Trudeau vince prima la nomination per la leadership del partito, scavalcando tutto il vecchio establishment, poi a sorpresa le elezioni federali del 2015, battendo Stephen Harper in elezioni anticipate. Il Liberal Party diventa il primo partito in Canada, anzi un movimento sexy con un leader sexy.

Attraversiamo ora l’Atlantico per gettare luce sul terzo successo. Nell’agosto 2016 Emmanuel Macron si dimette da Ministro dell’Economia, quattro mesi dopo avere lanciato En Marche, nuovo movimento politico che propone soluzioni concrete e non ideologiche a una Francia annichilita da terrorismo e crescita economica asfittica. Macron ripropone un’idea rivoluzionaria in quei mesi: l’Europa è l’unica cornice possibile per la risoluzione dei problemi francesi e il rilancio della grandeur française. Attraverso l’offerta di piattaforme digitali a cittadini che vogliono riunirsi in gruppi tematici, En Marche propone un nuovo modo di partecipazione alla vita pubblica, uguale per iscritti – che pagano una quota – e simpatizzanti, che partecipano gratis alle attività. Il movimento utilizza le stesse tecniche di community organizing sperimentate da Obama 2008 e nel 2012 (i consulenti di En Marche sono Liegey, Muller, e Pons, che hanno studiato a Harvard), aggiungendo più scienza, più numeri, e più metodo. Il risultato è la Presidenza della Repubblica Francese a un 39enne, e la maggioranza parlamentare a un movimento politico nato 12 mesi prima.

Per vincere le prossime elezioni, cosa può imparare il Partito Democratico da questi esempi di successo? Almeno tre cose, tanto semplici quanto rivoluzionarie nell’Italia di oggi. Primo, bisogna entusiasmare la gente con una narrativa potente, innovativa, visionaria, che prospetti un futuro migliore. Secondo, serve un movimento politico flessibile, aperto a tutti, adattabile alle circostanze e alle persone che ne fanno parte, e non viceversa. Terzo, la gente va coinvolta dal basso, in maniera capillare e attraverso big data, volantinaggio porta-a-porta, e targeting elettorale mirato.

Dieci anni fa, il PD ha offerto una straordinaria novità agli italiani, un sistema di valori che unisse per la prima volta le tre culture europeiste italiane: popolare, socialista, e liberaldemocratica. È giunto il momento per il PD di completare questo percorso attraverso la proposta all’Italia di una nuova visione di società, l’apertura del partito a tutti, e il coinvolgimento di quanti più italiani possibili. Forse sull’orlo di una crisi di nervi, il PD ha tuttavia i geni per trasformarsi in un grande movimento politico inclusivo, aperto, snello, innovativo, e diventare sexy per tutta la società italiana. Obama, Trudeau, e Macron offrono best practices che il Partito Democratico non può più ignorare.




Perché i 5 stelle non perdono consensi

Quando c’era la Democrazia Cristiana, o il Partito Comunista, eravamo abituati ad osservare una certa impermeabilità del consenso per questi partiti agli accadimenti quotidiani. Uno scandalo politico, nazionale o internazionale, influiva in misura piuttosto limitata sull’orientamento di voto dei loro elettori. La fedeltà ad una certa visione del mondo, ad un certo desiderio di società, da una parte e dall’altra, era più importante dei casi personali o delle malefatte di questo o quel personaggio politico.

La Dc o il Pci guadagnavano o perdevano relativamente poco, da una elezione all’altra, immuni anche a importanti fenomeni sociali, come negli anni Sessanta o Settanta. Oggi i partiti subiscono molto più facilmente i contraccolpi di scelte o comportamenti errati. Il Pd di Veltroni valeva il 33%, quello di Bersani il 25%, quello di Renzi inizialmente il 40%, poi ridottosi al 30% soltanto qualche mese dopo, per precipitare all’odierno 23-24%. Forza Italia passa in poco tempo dal 30% al 20%, per arrivare oggi poco sopra il 15%.

Sembra che l’unica attuale forza politica che, in qualche modo, resti sostanzialmente immune dalle polemiche o dalle eventuali scelte poco lucide dei suoi rappresentanti (locali o centrali) sia oggi il MoVimento 5 stelle. Negli ultimi due anni, nel bene o nel male, i pentastellati si sono aggiudicati la palma del movimento più ondivago della storia: le opinioni nei confronti di molti dei più rilevanti accadimenti socio-politici sono cambiate a volte nel giro di qualche mese, se non di qualche giorno. Il che è magari plausibile, data la natura del movimento stesso, senza un “vero” programma, basandosi in linea di principio sulla costante interrogazione dei propri iscritti. Ma semina a volte ovvie perplessità nei commentatori e dovrebbe (o potrebbe) crearne anche nei suoi elettori.

Invece, al contrario delle aspettative, i consensi sono rimasti sostanzialmente immutati, in questo periodo di tempo. Come mai? Proprio a causa della specificità del suo elettorato. Molti si sono interrogati su come sia fatto. Alcuni pensano al popolo “pentastellato” come ad una riedizione dei primi adepti del movimento fascista, altri come fuoriusciti dai centri sociali, altri ancora come semplici qualunquisti, altri infine come acuti interpreti di una società in rapido cambiamento. Chi ha ragione? Tutti e nessuno, o meglio, un po’ tutti sono in realtà nel giusto, dal momento che le anime del movimento paiono essere molto variegate. Nel libro “Politica a 5 stelle”, insieme a Roberto Biorcio, ne avevo individuate quattro prevalenti.

I seguaci (il nucleo più antico), i gauchisti (provenienti da esperienze di sinistra), i razionali (che pensano al M5s come la sola forza per scardinare il sistema) e i “menopeggio” (i più qualunquisti, che odiano la casta). Quattro anime il cui peso interno varia da momento a momento: oggi i “menopeggio” sono più forti, mentre un po’ in crisi sono i guachisti. I razionali andavano bene nel 2013 e nelle amministrative di Roma e Torino. E così via. A seconda di ciò che accade, del momento politico e sociale, e delle parole d’ordine lanciate da Grillo o da Di Maio o da qualche altro esponente pentastellato, qualche anima si riattiva e qualcuna si allontana.

Il bacino potenziale di riferimento dei 5 stelle è oggi in Italia intorno al 35% dell’elettorato complessivo, e da quel potenziale viene “pescato” il livello di consenso contingente che, appunto, muta nella composizione interna ma non nella sua quantità. Quando la giunta romana non funziona, i razionali rimangono in stand-by, ma si riattivano i seguaci. Quando si denigrano gli immigrati, tornano in massa i “menopeggio” ma si allontano i gauchisti. Un sistema di pesi e contrappesi, si direbbe oggi, che alla fine lascia inalterato il dato complessivo dell’orientamento di voto.

Il vero problema da risolvere, per i 5 stelle, arriverà se e quando andranno al governo. I loro proclami possono andare bene, a turno, per le diverse componenti, ma le loro politiche non potranno accontentare contemporaneamente tutte le anime. E quello sarà il loro vero banco di prova.




Elezioni, partiti e analisi: intervista a Luca Ricolfi

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della Storia repubblicana?

No, i risultati elettorali sono sempre incerti. Quel che è nuovo è che questa volta, anche se sapessimo con precisione assoluta (all’ultimo seggio), quali saranno i numeri in Parlamento, nessuno potrebbe dedurne che governo avremo. Al momento ci sono ben cinque governi verosimili: Fi-Lega-FdI, Fi-Pd, Pd-Leu-Grillo, Leu-Grillo, Grillo-Lega.

L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo vada proprio come tutti prevedono?

Questa volta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume. Si potrebbe parafrasare (ed estremizzare un po’) l’analisi di Paolo Natale così: più diventiamo un paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti.

E secondo lei come andrà invece?

Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegneranno i sondaggi, e il Pd di Renzi qualche voto in più.

Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani…

Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema.

Secondo lei l’Italia è una vera democrazia compiuta?

No, ma non è l’unica. Quasi nessun paese occidentale è ormai più una vera democrazia, la differenza è solo che alcuni paesi in passato si sono avvicinati ad esserlo, noi ne siamo sempre rimasti lontani.

Ma perché nessun paese è più una democrazia compiuta?

Perché la spettacolarizzazione della politica, senza un sistema di partiti funzionante, crea un cortocircuito.

Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri. Lei cosa pensa delle proposte elettorali in formazione?

Penso quel che, immagino, ne pensa Mattarella, con la differenza che io posso dire quel che penso: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico), o non stanno in piedi.

In un recente editoriale lei ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione.È il pericolo maggiore?

Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Leu non scherzano…

Da dove viene secondo lei questa nouvelle vague anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare che pervade anche i grillini?

Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde.

In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora?

Lo vedo mal messo, e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd, di fatto, è diventato un “partito radicale di massa” (copyright: Marcello Veneziani), che si occupa quasi esclusivamente di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani, eccetera. Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto, però, è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione culturale e sociale, si ostina a proclamarsi di sinistra, difensore dei ceti popolari, eccetera. Qualcuno si può stupire che i ceti popolari dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?

Renzi merita la sua decadenza?

Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire chi ha più cultura (e esperienza) di te. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini, al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini, i nostri privilegi.

Come giudica l’avventura di Liberi e uguali?

Interessante espressione di conservatorismo politico, in un paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori.

Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa?

Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra.

Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo?

Potrei dire: fisco, giustizia civile, Pubblica Amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra.

Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere?

La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normalissima questione di tempi, condizioni, verifiche. Non sono sfavorevole a rendere più rapida l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Ma il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, il vero problema sono gli irregolari che alimentano la criminalità (anche su questo, rimando ai dossier della Fondazione David Hume)

Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia?

È inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una la spending review permanente, “di legislatura” (ordine di grandezza: fra 5 e 10 miliardi l’anno, per 5 anni). Però la mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi 2014), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione, che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia.

Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino?

Senza infamia e senza lode. Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare.

Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra?

No, io non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? la sinistra non è ancora di sinistra, aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà.

Chi sono gli analisti, commentatori e giornalisti che ama leggere o consultare?

Purtroppo Natalia Ginzburg, Pasolini e Montanelli non ci sono più.

Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro e che effetto le fa condividere vita personale e impegno pubblico con lei?

Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Ma in realtà collaboriamo da sempre (da 30 anni!) in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza per il conformismo. Attualmente stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi.

Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, lei ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi?

Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea del giornale. Semplicemente ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori.

In definitiva, quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? Può fare qualche esempio pratico di quando ha avuto l’impressione di influire o cambiare in meglio qualche situazione?

Tutte le volte in cui ho prodotto informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese.

Intervista di Francesco Rigatelli per Libero pubblicata l’8 gennaio 2018



Prigionieri del presente

Confesso che non li ho ascoltati tutti e per intero, i messaggi dei presidenti della Repubblica degli ultimi 50 anni. Però almeno la metà sì, e spesso dall’inizio alla fine, quasi sempre combattendo un’aspra battaglia contro la noia.

Questa volta no, non mi sono annoiato. Mattarella ha fatto un mezzo miracolo: è riuscito a parlare poco, senza frasi in codice, dicendo cose non scontate. Soprattutto, ha evitato i moniti e le liste della spesa, quei lunghi elenchi di cose non fatte che tanti suoi predecessori non erano stati capaci di risparmiarci.

L’invito alla concretezza, e ad evitare promesse che non si possono mantenere, è stato colto da tutti, cittadini e mass media. Gli unici che paiono non averlo inteso sono i suoi veri destinatari, ossia i politici, dei quali colpisce la vocazione schizofrenica: continuano a lodare e omaggiare il Capo dello Stato, e al tempo stesso a fare promesse che non possono mantenere. Come se Mattarella non si fosse espresso, o se loro vivessero su un altro pianeta.

Ma c’è un aspetto, in particolare, del discorso di fine anno su cui forse varrebbe la pena di meditare. È quello in cui il Presidente ha invitato a “non vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l’avvenire”.

È vero, le analisi e le promesse dei politici, ma talora anche i vissuti dei comuni cittadini, sono spesso proprio questo, un ignorare il passato e oscurare l’avvenire. Ignoriamo il passato allorché, prigionieri del nostro vittimismo, sembriamo non renderci conto degli enormi progressi che sono stati compiuti in questi 70 anni in termini di “pace, libertà, democrazia, diritti” e, aggiungo io, di benessere materiale e sociale. Ha fatto benissimo Mattarella, nell’esortare i giovani del 1999 ad esercitare per la prima volta il diritto di voto, a ricordare la sorte di quelli di un secolo prima, i giovani del 1899, “mandati in guerra, nelle trincee”.

Ma la schiavitù del presente ha anche un’altra faccia, l’incapacità di fare le scelte da cui dipende il nostro futuro. Non è solo un difetto della classe politica, è anche una debolezza, per non dire una viltà, di una parte della società civile. Rimproveriamo spesso i politici perché agiscono in un orizzonte ristretto, ossessivamente preoccupati del consenso immediato, e del tutto dimentichi del destino delle generazioni future; se davvero se ne preoccupassero, non farebbero le promesse che ripetono ogni giorno, e soprattutto avrebbero già da un pezzo smesso di far lievitare il debito pubblico, un macigno che peserà sulle vite dei giovani attuali, non certo su quelle degli anziani e dei pensionati.

Ma dare tutta la colpa ai politici e alla loro (interessata) cecità è troppo facile. La “trappola dell’eterno presente” evocata nel discorso di fine anno riguarda anche il modo di consumare, di vivere, di pensare dei cittadini. Siamo noi stessi che, da troppo tempo, abbiamo disimparato a pensarci nel futuro, a immaginarci nel domani, a differire le gratificazioni, a investire in progetti che richiedono tempo, impegno, talora rinunce. Un’incapacità che inizia molto presto, fin dai banchi di scuola, quando troppo sovente veniamo diseducati a ciò che le generazioni precedenti consideravano normale: la fatica dello studio, la durezza delle sconfitte, la necessità di affrontare sacrifici, la lunghezza dei percorsi che conducono ai traguardi più alti.

Forse è anche per questo che, dopo tutto, la vanità delle promesse dei politici non ci sorprende più di tanto, né ci scandalizza. In quelle promesse, immediate e poco credibili, vediamo rispecchiato il nostro medesimo essere e sentirci intrappolati nel presente.

Ne usciremo?

Non lo so. Ma tendo a pensare che qualcosa cambierà solo quando la smetteremo di autoassolverci, e scaricare tutte le responsabilità sulla mala politica. L’incapacità di uscire dalla prigione del presente è ciò che accomuna i cittadini e i loro rappresentanti. E, proprio perché li accomuna, è un incantesimo che non si lascia spezzare facilmente. Del resto, se fossimo davvero diversi, se noi cittadini fossimo capaci di memoria e di prospettiva, e solo i politici fossero prigionieri del presente, le loro false promesse, le loro fake promises, non avrebbero corso elettorale. E non ci sarebbe bisogno che, a fine anno, il presidente della Repubblica ci ricordi quello che una politica sana e matura dovrebbe sapere da sé.

Pubblicato da Il Messaggero il 6 gennaio 2018




La desiderabilità sociale non esiste più

Sebbene il termine di “desiderabilità sociale” sia estraneo a molti, il concetto ad essa collegata è ben presente in ciascuno di noi. Si tratta del pervasivo bisogno di sentirsi accettato dagli altri, dal proprio gruppo di riferimento, dalla gente con cui si convive; qualcosa che ci forza ad adeguarci al pensiero comune e ad esprimere solo con grandi difficoltà opinioni che non siano largamente condivise dal resto della popolazione, della società cui apparteniamo.

Il primo che sperimentò empiricamente questo fenomeno fu un sociologo, negli anni Trenta del secolo scorso.  In un periodo dove molto alto era il pregiudizio americano contro gli asiatici, Richard LaPiere girò per gli Stati Uniti per tre mesi con due suoi amici cinesi, pernottando in decine e decine di alberghi e mangiando in centinaia di ristoranti, venendo inaspettatamente accolto con grande cordialità quasi ovunque. Tornato a casa, a LaPiere venne in mente di effettuare una sorta di piccolo sondaggio: inviò in tutti i luoghi dove aveva soggiornato un breve questionario in cui si chiedeva se avessero problemi ad ospitare cittadini asiatici. La quasi totalità delle risposte che ottenne, conformemente alla desiderabilità sociale di quel tempo, fu ovviamente negativa: salvo in un paio di casi, tutti coloro che avevano ospitato i suoi amici cinesi dichiararono infatti che non l’avrebbero mai fatto.

Cosa era accaduto? Qualcosa di molto simile a quanto ho descritto nel mio libricino “Attenti al sondaggio!” (Laterza) e che ho chiamato “spirale del silenzio demoscopico”: quando un uomo politico, o un partito, soffre di un clima elettorale negativo nei suoi confronti, gli intervistati tendono a non dichiarare il proprio voto per quel partito, che conseguentemente avrà stime sempre più basse, aumentando la negatività del clima elettorale. Ma, nel segreto dell’urna, quegli stessi elettori torneranno a votare per quella forza politica cui si sentono comunque vicini.

Per decenni, il tarlo della desiderabilità sociale ha dunque minacciato seriamente l’affidabilità dei risultati dei sondaggi, provocando errate sovrastime e, più spesso, sottostime. Quando Berlusconi era in auge, molti intervistati si dichiaravano berlusconiani, sebbene non lo fossero; quando cadeva in disgrazia, non si riuscivano più a trovare elettori che nelle indagini demoscopiche si pronunciavano a favore del suo partito. E così accadeva per tutte le altre forze politiche, a seconda del momento specifico. O per l’alterità nei confronti dei meridionali, o degli extra-comunitari, o della difesa contro i rapinatori: semplicemente, si faceva fatica ad ammettere di essere razzisti, o xenofobi, o favorevoli a sparare ai ladri.

Ma da qualche tempo, qualcosa è cambiato. Pare sempre più facile dichiarare il proprio pensiero, per negativo o impopolare possa sembrare, senza più remore. E’ vero: Trump era stato leggermente sottostimato, dai sondaggi dell’epoca, ma era una sottostima molto ridotta, di un paio di punti percentuali, nulla di più. La stessa cosa è accaduta per la Brexit, o per i partiti di estrema destra populista, in diversi paesi d’Europa. Gli intervistati non avevano remore a presentarsi come vicini a forze politiche di stampo anti-democratico. 

Così, oggi non fa più paura dichiarare all’intervistatore di odiare gli extra-comunitari, o di essere un po’ fascisti, o di essere disposti ad ammazzare chi ci ruba a casa nostra nottetempo. E’ un bene o un male? Per la società non saprei ma, dal punto di vista dei sondaggisti, è sicuramente un bene, non essere costretti ad inserire domande trabocchetto per riuscire ad ottenere una risposta sincera, questo è ovvio. Se ne è parlato in occasione delle recenti elezioni siciliane. Ci si chiedeva: quale partito, quale coalizione soffre di scarsa desiderabilità sociale, tanto da venir sottostimata nei sondaggi? Non trovavamo risposta. Oggi, tutti possono dire tutto, senza il problema di sentirsi “indesiderati”. Si può fare tutto, si può pensarla come ci pare, diceva Giorgio Gaber anni fa. Una società liberata, o no?

Forse, oggi, l’unica dichiarazione che si fa fatica ad estorcere agli intervistati, per le imminenti elezioni politiche, è la propria vicinanza al Partito Democratico, la propria fiducia in Matteo Renzi. Il paradosso di questa nuova campagna elettorale…

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 27 novembre 2017 su “Gli Stati Generali