La tenda a ossigeno

Da qualche settimana siamo sommersi dai “segno +”. Di qualsiasi cosa si parli, consumi, esportazioni, inflazione, occupazione, disoccupazione, fiducia dei consumatori, pressione fiscale, Pil, è tutto un compiacerci che finalmente la barca va, il Paese si è rimesso in moto. Tv e giornali non si stancano di riprendere, con grande risalto, ogni bit di nuova informazione statistica sui progressi dell’Italia.

Questo profluvio di buone notizie, tuttavia, non ha impedito ai commentatori più attenti (e inascoltati), di puntare l’attenzione anche sull’unico vero grave fattore di rischio dell’Italia: l’andamento della finanza pubblica. Detto in poche parole, il timore è che, dopo la grande sbornia delle promesse elettorali, a primavera l’Italia si possa trovare di nuovo in una situazione molto critica, come nel 2011.

Sono giustificati questi timori?

Difficile dare una risposta secca, perché ci sono fattori che stanno riducendo i nostri rischi, e altri che li stanno aumentando. Fra i fattori favorevoli, che ci proteggono dal rischio di una crisi, si devono menzionare soprattutto tre elementi che nel corso del 2017 hanno ridotto la vulnerabilità dei nostri conti pubblici: la crescita del Pil, la ripresa dell’inflazione, la riduzione della quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Ma i fattori favorevoli si fermano qua, per il resto, sfortunatamente, possiamo solo guardare con apprensione al 2018, o meglio a quel che potrà succedere dopo il voto di marzo.

Alcuni fattori di rischio sono ben noti. Il più noto è l’uscita dell’Italia dalla tenda ad ossigeno che l’ha protetta negli ultimi anni: nel 2018 la Banca centrale europea allenterà il Quantitative Easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi della zona Euro; nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi, il “cavaliere bianco” che ci ha protetti e salvati in questi anni (così lo chiama Roberto Napoletano, in un libro di grande interesse sulla crisi del 2011: Il cigno nero e il cavaliere bianco, La nave di Teseo 2017). Un secondo fattore di rischio ben noto è l’incertezza politica, nelle sue due varianti fondamentali: una situazione di stallo, con possibile ricorso a nuove elezioni; la formazione di un governo delle forze più anti-europee (Cinque Stelle e Lega). Un terzo fattore di rischio è il probabile arrivo, fra marzo e aprile, di una richiesta della Commissione europea all’Italia di effettuare una manovra correttiva dei conti pubblici. Un altro fattore di rischio è il possibile aumento del tasso di riferimento della Bce, con conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. E infine, un ultimo fattore di rischio è un cambiamento delle regole bancarie, che potrebbe condurre a una valutazione dei titoli di Stato detenuti dalle banche agganciata al rating delle Agenzie (100 euro di Bot italiani valgono meno di 100 euro di Bund tedeschi), con conseguente repentina svalutazione dei patrimoni delle banche italiane, i cui bilanci sono tuttora appesantiti da più di 300 miliardi di titoli di Stato).

Quel che è meno noto, a giudicare da quanto poco se ne parla, è che a qualche giorno prima del voto potrebbe arrivare la notizia che nel 2017, ancora una volta, il governo italiano ha mancato la promessa di iniziare a ridurre il rapporto debito/Pil.

Secondo le stime ufficiali, nel 2017, per la prima volta da dieci anni, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere, sia pure in misura irrisoria, dal 132.6% al 132.5%. Ma se guardiamo gli ultimi dati del Pil, pubblicati dall’Istat, e gli ultimi dati del debito, pubblicati dalla Banca d’Italia, il quadro che ci si presenta è assai poco rassicurante.

Nel corso del 2017 il Pil nominale, che è quello che conta ai fini del calcolo del rapporto debito/Pil, dovrebbe registrare una crescita compresa fra il 2.1 e il 2.2%. Questo è il parametro chiave per capire se, nel 2017, il rapporto debito/Pil scenderà come promesso, o continuerà a salire come temuto: se, quando la Banca d’Italia comunicherà i dati del debito al 31 dicembre 2017, il debito stesso sarà salito meno del 2.1% rispetto all’anno precedente, il rapporto debito/Pil risulterà in discesa, e il ministro Padoan potrà giustamente esultare per aver mantenuto la promessa di ridurlo; se, viceversa, il debito sarà cresciuto più del 2.2% ancora una volta dovremo constatare che i governi si impegnano a ridurre il debito ma poi, invariabilmente, si accorgono di non esserci riusciti.

Ebbene, qual è la dinamica del debito pubblico dell’Italia nel 2017? L’ultimo dato disponibile è relativo a ottobre 2017 e, per quel che se ne sa, non include ancora tutti gli esborsi per i salvataggi bancari. Ebbene la tendenza a ottobre, rispetto a 12 mesi prima (ottobre 2016), segna +2.9%, dunque ben oltre la soglia del 2.2%; la tendenza a settembre è ancora più preoccupante: +3.2%; quella di agosto è +2.5%, e solo nei mesi precedenti si colloca al di sotto del 2%. Se consideriamo la media degli ultimi tre mesi, la tendenza del debito è a crescere del 2.9%. Una deriva preoccupante, iniziata nei primi mesi dell’anno: fra febbraio e settembre del 2017 la velocità di crescita del debito è sempre aumentata, passando dall’1.1% di febbraio al 3.2% di settembre.

Che dire?

Forse, semplicemente, che l’Italia avrebbe fatto meglio, in questi anni, a non sprecare il dividendo dell’euro e, soprattutto, i benefici del Quantitative Easing, che ci hanno permesso, di pagare interessi sempre minori sul debito pubblico. Se, anziché disperdere risorse preziose in benefici elettorali, avessimo cominciato a ridurre la montagna del debito, magari avviando finalmente qualcuna delle tante privatizzazioni messe in agenda e mai attuate, oggi il voto del 4 marzo ci si presenterebbe con un volto meno minaccioso.

Articolo uscito sul numero di Panorama dell’11 gennaio 2018



Due tipi di italiani

Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo?

Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, azzecca i congiuntivi, e soprattutto non offende nessuno.

C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue?

Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo (la demagogia contagia anche i partiti non poco o per niente populisti). In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per sconfiggerlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano, e il voto assume spesso una forte valenza espressiva, o identitaria. Se si sceglie una determinata forza politica non è perché si pensa che potrà mettere in atto il suo programma, ma semplicemente perché questo gesto permette di dire qualcosa di sé stessi: chi si è, da che parte si sta, per quali principi si combatte. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge perfettamente dei fiumi di demagogia che affliggono la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è battere l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservano uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale.

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd, che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. Dove il “troppo” di cui parlo non sta tanto nella irrealizzabilità o pericolosità delle proposte (prima fra tutte l’idea di mantenere il deficit al 3% per cinque anni), quanto nella mancanza di sobrietà e realismo nel modo di raccontare questi anni, un tratto di “bullismo nella narrazione” che, a mio modesto parere, accomuna Renzi a Berlusconi, anch’egli incapace, a suo tempo, di stilare un bilancio appena plausibile dei propri anni di governo.

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina fino in fondo. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa componente della società italiana, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo del Paese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 gennaio 2017



Tre esempi di successo e tre lezioni per il Partito Democratico

Alcuni dicono che il Partito Democratico sia sull’orlo di una crisi di nervi. Altri sostengono che non perda occasione per confondere il proprio popolo. È proprio vero? Di sicuro, il percorso verso un largo coinvolgimento dei cittadini alla vita civica e alla partecipazione al voto è ancora lungo.

La buona notizia è che esempi di partiti trasformatisi con successo in grandi movimenti riformisti abbondano. Consideriamone tre, nell’arco di dieci anni, ai due lati dell’Atlantico: il Democratic Party nel 2008, il Liberal Party of Canada nel 2012, e la Republique en Marche nel 2017.

La prima campagna elettorale di Barack Obama rinnova il Democratic Party, mobilitando per la prima volta milioni di americani all’impegno civile e politico, e adattandosi alle loro richieste di cambiamento radicale. Sfiniti da otto anni di George W. Bush, gli americani si entusiasmano alla visione che Obama propone di un’America post-razziale, unita, pragmatica, che reinterpreta la propria unicità in chiave riconciliatoria tra red states e blue states e, implicitamente, tra neri e bianchi. La campagna si struttura in movimento politico, organizzato come un social network, inspirato alle tecniche di community organizing elaborate da Marshall Ganz a Harvard Kennedy School. Il movimento stabilisce una rete capillare per la mobilitazione e formazione di volontari con il compito di coinvolgere potenziali elettori, professionalizza l’uso di big data nel volantinaggio porta-a-porta, e fa uso massiccio di newsletter, inviate regolarmente a iscritti e simpatizzanti, per informare, dare l’opportunità di partecipare, e chiedere donazioni. Obama cambia per sempre il partito democratico e soprattutto il modo di partecipazione politica negli States.

E veniamo al secondo esempio. Justin Trudeau nel 2012 è un politico canadese in ascesa. Sente che il Canada è sfiancato da dieci anni di politiche conservatrici di John Harper, e vuole riportarlo al proprio destino naturale di paese tollerante, aperto, progressista. A dispetto di quanti gli consigliano di uscire dal Liberal Party of Canada e creare un proprio movimento, Trudeau rivolta il partito come un calzino e lo trasforma in un movimento aperto a tutti. Non più tessera annuale con costo fisso, ma iscrizione gratuita e partecipazione flessibile a specifiche campagne tematiche, con impegno relazionato alla disponibilità di ognuno. Come Obama, anche Trudeau costruisce un movimento dal basso, da volontario a volontario, da una community di elettori all’altra. Risultato: Trudeau vince prima la nomination per la leadership del partito, scavalcando tutto il vecchio establishment, poi a sorpresa le elezioni federali del 2015, battendo Stephen Harper in elezioni anticipate. Il Liberal Party diventa il primo partito in Canada, anzi un movimento sexy con un leader sexy.

Attraversiamo ora l’Atlantico per gettare luce sul terzo successo. Nell’agosto 2016 Emmanuel Macron si dimette da Ministro dell’Economia, quattro mesi dopo avere lanciato En Marche, nuovo movimento politico che propone soluzioni concrete e non ideologiche a una Francia annichilita da terrorismo e crescita economica asfittica. Macron ripropone un’idea rivoluzionaria in quei mesi: l’Europa è l’unica cornice possibile per la risoluzione dei problemi francesi e il rilancio della grandeur française. Attraverso l’offerta di piattaforme digitali a cittadini che vogliono riunirsi in gruppi tematici, En Marche propone un nuovo modo di partecipazione alla vita pubblica, uguale per iscritti – che pagano una quota – e simpatizzanti, che partecipano gratis alle attività. Il movimento utilizza le stesse tecniche di community organizing sperimentate da Obama 2008 e nel 2012 (i consulenti di En Marche sono Liegey, Muller, e Pons, che hanno studiato a Harvard), aggiungendo più scienza, più numeri, e più metodo. Il risultato è la Presidenza della Repubblica Francese a un 39enne, e la maggioranza parlamentare a un movimento politico nato 12 mesi prima.

Per vincere le prossime elezioni, cosa può imparare il Partito Democratico da questi esempi di successo? Almeno tre cose, tanto semplici quanto rivoluzionarie nell’Italia di oggi. Primo, bisogna entusiasmare la gente con una narrativa potente, innovativa, visionaria, che prospetti un futuro migliore. Secondo, serve un movimento politico flessibile, aperto a tutti, adattabile alle circostanze e alle persone che ne fanno parte, e non viceversa. Terzo, la gente va coinvolta dal basso, in maniera capillare e attraverso big data, volantinaggio porta-a-porta, e targeting elettorale mirato.

Dieci anni fa, il PD ha offerto una straordinaria novità agli italiani, un sistema di valori che unisse per la prima volta le tre culture europeiste italiane: popolare, socialista, e liberaldemocratica. È giunto il momento per il PD di completare questo percorso attraverso la proposta all’Italia di una nuova visione di società, l’apertura del partito a tutti, e il coinvolgimento di quanti più italiani possibili. Forse sull’orlo di una crisi di nervi, il PD ha tuttavia i geni per trasformarsi in un grande movimento politico inclusivo, aperto, snello, innovativo, e diventare sexy per tutta la società italiana. Obama, Trudeau, e Macron offrono best practices che il Partito Democratico non può più ignorare.




Perché i 5 stelle non perdono consensi

Quando c’era la Democrazia Cristiana, o il Partito Comunista, eravamo abituati ad osservare una certa impermeabilità del consenso per questi partiti agli accadimenti quotidiani. Uno scandalo politico, nazionale o internazionale, influiva in misura piuttosto limitata sull’orientamento di voto dei loro elettori. La fedeltà ad una certa visione del mondo, ad un certo desiderio di società, da una parte e dall’altra, era più importante dei casi personali o delle malefatte di questo o quel personaggio politico.

La Dc o il Pci guadagnavano o perdevano relativamente poco, da una elezione all’altra, immuni anche a importanti fenomeni sociali, come negli anni Sessanta o Settanta. Oggi i partiti subiscono molto più facilmente i contraccolpi di scelte o comportamenti errati. Il Pd di Veltroni valeva il 33%, quello di Bersani il 25%, quello di Renzi inizialmente il 40%, poi ridottosi al 30% soltanto qualche mese dopo, per precipitare all’odierno 23-24%. Forza Italia passa in poco tempo dal 30% al 20%, per arrivare oggi poco sopra il 15%.

Sembra che l’unica attuale forza politica che, in qualche modo, resti sostanzialmente immune dalle polemiche o dalle eventuali scelte poco lucide dei suoi rappresentanti (locali o centrali) sia oggi il MoVimento 5 stelle. Negli ultimi due anni, nel bene o nel male, i pentastellati si sono aggiudicati la palma del movimento più ondivago della storia: le opinioni nei confronti di molti dei più rilevanti accadimenti socio-politici sono cambiate a volte nel giro di qualche mese, se non di qualche giorno. Il che è magari plausibile, data la natura del movimento stesso, senza un “vero” programma, basandosi in linea di principio sulla costante interrogazione dei propri iscritti. Ma semina a volte ovvie perplessità nei commentatori e dovrebbe (o potrebbe) crearne anche nei suoi elettori.

Invece, al contrario delle aspettative, i consensi sono rimasti sostanzialmente immutati, in questo periodo di tempo. Come mai? Proprio a causa della specificità del suo elettorato. Molti si sono interrogati su come sia fatto. Alcuni pensano al popolo “pentastellato” come ad una riedizione dei primi adepti del movimento fascista, altri come fuoriusciti dai centri sociali, altri ancora come semplici qualunquisti, altri infine come acuti interpreti di una società in rapido cambiamento. Chi ha ragione? Tutti e nessuno, o meglio, un po’ tutti sono in realtà nel giusto, dal momento che le anime del movimento paiono essere molto variegate. Nel libro “Politica a 5 stelle”, insieme a Roberto Biorcio, ne avevo individuate quattro prevalenti.

I seguaci (il nucleo più antico), i gauchisti (provenienti da esperienze di sinistra), i razionali (che pensano al M5s come la sola forza per scardinare il sistema) e i “menopeggio” (i più qualunquisti, che odiano la casta). Quattro anime il cui peso interno varia da momento a momento: oggi i “menopeggio” sono più forti, mentre un po’ in crisi sono i guachisti. I razionali andavano bene nel 2013 e nelle amministrative di Roma e Torino. E così via. A seconda di ciò che accade, del momento politico e sociale, e delle parole d’ordine lanciate da Grillo o da Di Maio o da qualche altro esponente pentastellato, qualche anima si riattiva e qualcuna si allontana.

Il bacino potenziale di riferimento dei 5 stelle è oggi in Italia intorno al 35% dell’elettorato complessivo, e da quel potenziale viene “pescato” il livello di consenso contingente che, appunto, muta nella composizione interna ma non nella sua quantità. Quando la giunta romana non funziona, i razionali rimangono in stand-by, ma si riattivano i seguaci. Quando si denigrano gli immigrati, tornano in massa i “menopeggio” ma si allontano i gauchisti. Un sistema di pesi e contrappesi, si direbbe oggi, che alla fine lascia inalterato il dato complessivo dell’orientamento di voto.

Il vero problema da risolvere, per i 5 stelle, arriverà se e quando andranno al governo. I loro proclami possono andare bene, a turno, per le diverse componenti, ma le loro politiche non potranno accontentare contemporaneamente tutte le anime. E quello sarà il loro vero banco di prova.




Elezioni, partiti e analisi: intervista a Luca Ricolfi

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della Storia repubblicana?

No, i risultati elettorali sono sempre incerti. Quel che è nuovo è che questa volta, anche se sapessimo con precisione assoluta (all’ultimo seggio), quali saranno i numeri in Parlamento, nessuno potrebbe dedurne che governo avremo. Al momento ci sono ben cinque governi verosimili: Fi-Lega-FdI, Fi-Pd, Pd-Leu-Grillo, Leu-Grillo, Grillo-Lega.

L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo vada proprio come tutti prevedono?

Questa volta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume. Si potrebbe parafrasare (ed estremizzare un po’) l’analisi di Paolo Natale così: più diventiamo un paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti.

E secondo lei come andrà invece?

Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegneranno i sondaggi, e il Pd di Renzi qualche voto in più.

Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani…

Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema.

Secondo lei l’Italia è una vera democrazia compiuta?

No, ma non è l’unica. Quasi nessun paese occidentale è ormai più una vera democrazia, la differenza è solo che alcuni paesi in passato si sono avvicinati ad esserlo, noi ne siamo sempre rimasti lontani.

Ma perché nessun paese è più una democrazia compiuta?

Perché la spettacolarizzazione della politica, senza un sistema di partiti funzionante, crea un cortocircuito.

Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri. Lei cosa pensa delle proposte elettorali in formazione?

Penso quel che, immagino, ne pensa Mattarella, con la differenza che io posso dire quel che penso: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico), o non stanno in piedi.

In un recente editoriale lei ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione.È il pericolo maggiore?

Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Leu non scherzano…

Da dove viene secondo lei questa nouvelle vague anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare che pervade anche i grillini?

Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde.

In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora?

Lo vedo mal messo, e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd, di fatto, è diventato un “partito radicale di massa” (copyright: Marcello Veneziani), che si occupa quasi esclusivamente di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani, eccetera. Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto, però, è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione culturale e sociale, si ostina a proclamarsi di sinistra, difensore dei ceti popolari, eccetera. Qualcuno si può stupire che i ceti popolari dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?

Renzi merita la sua decadenza?

Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire chi ha più cultura (e esperienza) di te. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini, al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini, i nostri privilegi.

Come giudica l’avventura di Liberi e uguali?

Interessante espressione di conservatorismo politico, in un paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori.

Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa?

Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra.

Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo?

Potrei dire: fisco, giustizia civile, Pubblica Amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra.

Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere?

La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normalissima questione di tempi, condizioni, verifiche. Non sono sfavorevole a rendere più rapida l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Ma il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, il vero problema sono gli irregolari che alimentano la criminalità (anche su questo, rimando ai dossier della Fondazione David Hume)

Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia?

È inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una la spending review permanente, “di legislatura” (ordine di grandezza: fra 5 e 10 miliardi l’anno, per 5 anni). Però la mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi 2014), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione, che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia.

Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino?

Senza infamia e senza lode. Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare.

Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra?

No, io non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? la sinistra non è ancora di sinistra, aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà.

Chi sono gli analisti, commentatori e giornalisti che ama leggere o consultare?

Purtroppo Natalia Ginzburg, Pasolini e Montanelli non ci sono più.

Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro e che effetto le fa condividere vita personale e impegno pubblico con lei?

Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Ma in realtà collaboriamo da sempre (da 30 anni!) in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza per il conformismo. Attualmente stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi.

Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, lei ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi?

Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea del giornale. Semplicemente ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori.

In definitiva, quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? Può fare qualche esempio pratico di quando ha avuto l’impressione di influire o cambiare in meglio qualche situazione?

Tutte le volte in cui ho prodotto informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese.

Intervista di Francesco Rigatelli per Libero pubblicata l’8 gennaio 2018