Il partito che non c’è

Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a “Porta a Porta”?

Se badiamo solo all’efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po’ grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari.

Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra “i due Mattei” non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull’immigrazione, l’altro sulla politica economica (e in particolare su “quota cento”).

Il match sull’immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l’ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c’è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui.

Sull’immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all’anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell’interno c’era Salvini (meno di 9 mila l’anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell’ultima tragedia in mare Salvini non c’entra nulla.  Così come non gli è stato possibile negare che, con i “cattivi” al governo, il numero assoluto di morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i “buoni” al governo, l’accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull’immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche.

Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su “quota 100” (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di “quota 100” sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l’anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito – grazie alla decontribuzione – a dare un po’ di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all’occupazione.

La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di migliaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l’unica vera, clamorosa e macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall’aumento del debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare “quota 100”, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su “quota 100” Renzi batte Salvini 3 a 0.

Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell’immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito la centralità, e soprattutto l’assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani.

Un partito non negazionista sul problema dell’immigrazione irregolare, e capace di rompere con l’assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all’Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l’insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d’altro canto, la sconfitta dell’assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese.

E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell’immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d’altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: “quota cento” per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio.

E’ come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l’unica che servirebbe. C’è chi vede il problema dell’immigrazione, ma non riesce a rinunciare all’assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C’è chi vede il pericolo dell’assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell’immigrazione (Italia viva e +Europa). E c’è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l’estrema sinistra non vedono né il problema dell’immigrazione, né i pericoli dell’assistenzialismo e della spesa in deficit.

A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l’unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato.

Articolo pubblicato sul Il Messaggero del 17 ottobre 2019



Quante sinistre?

Ma quante sinistre ci sono in Italia?

Almeno quattro, visto che quattro sono le forze politiche che sostengono il governo: Cinque Stelle, Pd, Leu, Italia viva. Ma in realtà parecchie di più se consideriamo che nelle due ultime tornate elettorali (politiche ed europee) hanno ottenuto risultati non irrisori almeno altre sei formazioni politiche: +Europa (Emma Bonino), Italia Europa Insieme (Giulio Santagata), La Sinistra (Nicola Fratoianni), Europa Verde (Pippo Civati, Angelo Bonelli), Partito comunista (Marco Rizzo), Potere al popolo! (Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi).

In tutto fa dieci sinistre. È vero che non si sono mai presentate tutte insieme, ma si può ritenere che attualmente il peso totale delle sinistre che non stanno al governo si aggiri intorno al 5%, più o meno il medesimo consenso che va al nuovo partito di Renzi. Sommandole tutte, sinistre di governo e di opposizione, si arriva intorno al 50% dell’elettorato.

Ma che cosa unisce, e soprattutto che cosa divide, questi dieci partiti e partitini?

È più facile rispondere al primo interrogativo che al secondo. E la risposta è: a parte il disprezzo per Salvini, l’unica cosa che unisce tutti i partiti di sinistra è la credenza che sia necessario ridurre le diseguaglianze, condita con dosi più o meno omeopatiche di ambientalismo.

Assai più difficile è definire con precisione che cosa realmente divide le dieci forze politiche di sinistra, perché le fonti di divisione rilevanti sono almeno cinque: l’immigrazione, le tasse (compresa la patrimoniale), il mercato del lavoro, il debito pubblico, la giustizia.

Su ciascuno di questi temi ci sono, nel campo della sinistra, almeno due forze politiche che la pensano in modo opposto.

Sull’immigrazione e l’accoglienza +Europa e Italia Viva (fautori dell’accoglienza e dei salvataggi in mare) si contrappongono nettamente ai Cinque Stelle, per i quali le Ong sono “taxi del mare” (Di Maio dixit) e gli immigrati irregolari vanno rimpatriati il più celermente possibile.

Sulle tasse Italia Viva e Cinque Stelle sono risolutamente ostili ad ogni aumento, le forze di estrema sinistra accarezzano addirittura l’idea di far piangere i ricchi con una patrimoniale.

Sul Jobs Act i Cinque Stelle e l’estrema sinistra sono ferocemente critici, mentre e Italia viva e +Europa lo considerano una sana modernizzazione del mercato del lavoro.

Sul debito Cinque Stelle ed estrema sinistra ne auspicano un aumento (per “rilanciare la crescita”), solo +Europa vuole ridurlo tagliando la spesa pubblica.

Sulla giustizia Italia viva e +Europa sono garantisti, i Cinque Stelle sono da sempre giustizialisti.

In breve: accomunate dal nobile scopo di ridurre le diseguaglianze, le forze progressiste si dividono – spesso in modo profondo – sui modi per raggiugere l’obiettivo.

Non so se l’avete notato, ma in questa mini-rassegna delle idee che circolano a sinistra non ho mai menzionato il Pd. La ragione è che il Pd non è mai trainante in nessuna delle grandi contrapposizioni che dividono il campo progressista. Quale che sia la questione di cui si parla, il Pd si barcamena, esita, oscilla, distingue, prende tempo.

Incerto sulla cittadinanza agli immigrati e sul problema degli sbarchi. Tentato dall’aumento delle tasse ma timoroso di introdurre la patrimoniale. Incerto fra la difesa del Jobs Act e la correzione di una riforma in cui non crede più. Contrario a parole al debito pubblico, ma di fatto strenuamente impegnato (quando governa) a ottenere più flessibilità dall’Europa. Legato alla casta dei magistrati, ma ostile alle scorribande della magistratura nella sfera della politica.

Possiamo leggere tutto ciò in una chiave benevola, e sostenere che, se non c’è una sola causa importante di cui il Pd sia il paladino più convinto, è perché il partito di Zingaretti è una forza saggia e matura, il vero baricentro del centro-sinistra, e proprio per questo non può assumere posizioni estreme, che lascia volentieri alle forze meno responsabili, o meno consapevoli della complessità dei problemi: i radicali cosmopoliti di Emma Bonino, i nostalgici del comunismo, i populisti di Grillo, i liberal-riformisti alla Renzi.

Ma forse è più aderente alla realtà riconoscere che il Pd, un partito nato dal sogno di modernizzare lo schieramento progressista, è oggi una forza politica senza identità e senz’anima. Tenuto insieme dalla necessità di perpetuare il controllo sui gangli vitali della società italiana (come a suo tempo accadeva alla Democrazia Cristiana), terrorizzato dall’eventualità di tornare al voto, esso pare aver perduto ogni contatto con le idee originarie dei padri fondatori, giuste o sbagliate che fossero.

Il che non sarebbe un male se al posto di quelle idee ve ne fossero altre, più giuste, o più realistiche, o più moderne, o più nobili. Ma diventa problematico se al posto delle idee vi è il vuoto, riempito da formule e circonvoluzioni che ormai nessuno più intende. È questo, temo, il motivo per cui quel pochissimo che la politica ancora riesce ad esprimere a sinistra non proviene più dal Pd, ma dalle forze politiche che cercano di strappargli lo scettro.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2019



Il taglio dei parlamentari è solo populismo?

I sondaggi più recenti ci informano che quasi il 90% degli italiani giudica favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, praticamente tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma recentemente votata alla Camera ed al Senato; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci per un motivo o per un altro. E’ curioso ricordare che la limatura approvata lunedì scorso è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.

Ma come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita) ed esiste un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. Nel 1948, ad esempio, furono eletti 574 deputati e 237 senatori, mentre dieci anni dopo furono rispettivamente una ventina e una decina di più, 596 e 246. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.

Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva, fatta eccezione della Cina che ne ha circa 3000, ma quello è certo un mondo a parte. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diverse altre Nazioni e in linea con le principali democrazie nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.

Le motivazioni che hanno spinto alla riforma le forze politiche, ed in particolare il Movimento 5 stelle che – si sa – ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, sono di due ordini di motivi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico.

Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. E’ un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.

Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come promesso – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.




NADEF

Se mi chiedessero di indovinare quale ordine sia stato impartito ai tecnici che hanno il compito di stilare la NADEF (Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) risponderei che, probabilmente, gli hanno ingiunto: “facite ammuina!”. Tale infatti è la confusione di cifre, stime, ipotesi, percentuali che risulta difficile ipotizzare che non sia intenzionale.

E’ vero che, nel tempo, i documenti che illustrano la manovra finanziaria (non meno che altri testi: vedi i regolamenti universitari) sono diventati sempre meno lineari e comprensibili, ma devo confessare che mai ho avuto tante difficoltà a capire che cosa veramente il governo abbia intenzione di fare. E non mi consola certo il fatto di essere in buona compagnia: nei due giorni successivi all’uscita della NADEF su nessun quotidiano sono apparse le consuete dettagliate tabelle riassuntive da cui, tradizionalmente, tutti gli osservatori e gli studiosi cercano di farsi un’idea di quel che ci aspetta.

Devo quindi avvertire che quel che dirò si basa sul pochissimo che si riesce a capire, talora avventurandosi in calcoli resi necessari dalla reticenza del documento, dove insieme a tante cose mal spiegate si incontrano vere e proprie contraddizioni (esempio: i dati sul rapporto debito/Pil di pag. 10 sono incompatibili con quelli di pagina 9).

Ma andiamo con ordine.

La prima cosa che si deduce dalla Nota di aggiornamento è che, per l’anno prossimo, la manovra intende aumentare la spesa corrente un po’ di più dell’aumento già previsto “a legislazione vigente” (18 miliardi): le nuove spese previste sono infatti leggermente superiori alle spese soppresse (spending review). Dunque non c’è alcuno sforzo significativo per combattere sprechi e spesa improduttiva.

Il grosso della manovra consiste nella cosiddetta sterilizzazione (temporanea, ossia per il 2020) degli aumenti dell’IVA (23 miliardi), più una modesta riduzione del cuneo contributivo (2.7 miliardi, da giugno 2020), esclusivamente a vantaggio dei lavoratori.

Ma da dove arrivano questi 25.7 miliardi?

Per quel che si capisce, circa 15 miliardi provengono dalla rinuncia a ridurre il deficit pubblico, che senza manovra sarebbe stato di 24.6 miliardi, mentre con la manovra verrà portato a circa 40 miliardi di euro; quanto agli 11 miliardi mancanti si procederà con aumenti di tasse nella triplice forma di nuove tasse, taglio di sgravi fiscali, “lotta all’evasione”. In breve: per non far aumentare l’Iva ed alleggerire il cuneo fiscale (il che costa 25.7 miliardi), si procederà con 11 miliardi di nuove altre tasse da pagare subito, più 15 miliardi di debito pubblico a carico delle generazioni future.

Ed eccoci alla domanda chiave: ma in definitiva, la pressione fiscale aumenterà o diminuirà fra il 2019 e il 2020? L’aritmetica desumibile dalla NADEF (pag. 42) suggerisce: pagheremo circa 15 miliardi di tasse in più, ma se il Pil nominale crescerà nella misura prevista dal governo la pressione fiscale resterà sostanzialmente invariata. Se invece il Pil nominale dovesse crescere di meno (il che è probabile, perché sia le previsioni sul Pil reale, sia quelle sull’inflazione sono un po’ troppo ottimistiche), allora la pressione fiscale potrebbe crescere leggermente, ma meno di quanto sarebbe successo senza la manovra. Conclusione: tenuto conto che le misure pro-impresa sono sostanzialmente assenti, e che la pressione fiscale nella migliore delle ipotesi resterà costante, il meno che si possa dire della manovra è che non fornisce alcuna apprezzabile spinta all’economia (un punto prontamente rilevato dal presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, nell’assemblea generale dell’associazione).

Non è tutto, però. L’altro elemento che emerge dalla NADEF è che il governo giallo-rosso non ha la minima intenzione di correggere i conti pubblici (per il 2020 prevede un deficit fermo al 2.2%, come quello ereditato dal governo giallo-verde), e questo nonostante la prevista diminuzione degli interessi sul debito. E, cosa ancora più inquietante, il nuovo governo pianifica un peggioramento (di 2 decimali) dell’indebitamento netto strutturale, che il governo precedente aveva invece migliorato (di 3 decimali).

Che dire?

Mi limiterei a due osservazioni. La prima è che, come ebbi già modo di notare l’anno scorso in relazione alla manovra di allora, questi governi si presentano come governi di svolta, ma svoltano ben poco. Il Conte 1 non introduceva alcuna radicale innovazione rispetto al piccolo cabotaggio di Gentiloni, il Conte 2 non introduce alcuna radicale innovazione rispetto alla navigazione a vista del Conte 1. Digrignare i denti (come faceva Salvini) non implica, di per sé, mordere nella polpa della spesa pubblica improduttiva; proclamare solennemente la lotta all’evasione, come fa oggi Conte, non comporta automaticamente riduzioni delle tasse ai contribuenti onesti. Finché le aliquote non scendono e i conti pubblici non migliorano, siamo sempre lì, come nel Gattopardo: tutto cambia nel bilancio dello Stato, purché nulla cambi davvero.

La seconda osservazione è che la facilità e la repentinità con cui questo governo ha annunciato di aver “trovato” i 23 miliardi necessari per disinnescare le clausole IVA, la dice molto lunga sulla strumentalità delle critiche che hanno accompagnato il governo precedente, quando Renzi invitava ad aspettare che i giallo-verdi si schiantassero sotto il peso delle loro politiche, e Zingaretti denunciava lo sfascio dei conti pubblici e l’inevitabilità di una manovra “mostruosa”, tutta lacrime e sangue. La realtà, temo, è semplicemente questa: nessuno degli ultimi tre governi ha cambiato veramente l’indirizzo della politica economico-sociale; nessuno ha avuto il coraggio di aggredire gli sprechi; nessuno è stato capace di ridurre la pressione fiscale; tutti hanno preferito rimandare al futuro la correzione dei conti pubblici. L’unica cosa che ha fatto la differenza è stato l’atteggiamento dell’Europa e dei mercati, benevolo quando al governo c’era (anche) il Pd, e comprensibilmente ostile quando al governo c’erano (solo) i populisti, stoltamente impegnati a inimicarsi tutti senza alcuna contropartita.

La conclusione non può che essere amara. Questo governo non è nato per disinnescare l’aumento dell’Iva bensì – più prosaicamente – per disinnescare il rischio che gli italiani potessero tornare al voto, e finissero per scegliere Salvini. Ma Salvini non dà alcun segno di aver capito la lezione: l’Europa non è neutrale rispetto al colore dei governi, e chi abbaia all’Europa senza essere in condizione di mordere, finisce irrimediabilmente per avere la peggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 ottobre 2019




Il lato oscuro della lotta all’evasione

Sui quotidiani di oggi (28 settembre ndr) avreste dovuto leggere le cifre della cosiddetta NADEF, la “Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza”. In poche parole: le intenzioni del governo per la manovra finanziaria che ci attende nel 2019. Invece non troverete nulla perché il governo le sue intenzioni ha deciso di rivelarcele un po’ più in là, ignorando la scadenza del 27 settembre entro la quale la NADEF avrebbe dovuto essere presentata.

Anche se i numeri non ci sono ancora, possiamo però cercare di capire che cosa bolle in pentola partendo da alcuni dati Istat e dalle molte dichiarazioni che sono circolate in questi giorni. Nel 2018, ultimo anno per cui si hanno dati sostanzialmente definitivi, la pressione fiscale è stata del 41.8%, esattamente come nel 2017. Nel 2019, secondo le stime a suo tempo prodotte dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la pressione fiscale dovrebbe risultare leggermente maggiore dell’anno scorso, verosimilmente poco sopra il 42%. Questi dati sono interessanti se comparati con quelli degli anni precedenti: nel quinquennio che va dal 2012, l’annus horribilis della crisi finanziaria, al 2017, la pressione fiscale era sempre diminuita, sia pure a piccoli passi. Se vogliamo raccontarla in termini di governi, possiamo dire che sotto Letta e Renzi le tasse diminuivano leggermente, sotto Gentiloni erano ferme, sotto Salvini e Di Maio – se l’Ufficio Parlamentare di Bilancio non ha sbagliato troppo i conti – hanno ripreso ad aumentare un po’.

E l’anno prossimo, con il governo giallo-rosso, che succederà?

La prima cosa di cui tener conto è che l’ultimo Documento di Economia e Finanza, partorito dal governo Conte-1, prevede un aumento della pressione fiscale fra il 2019 e il 2020 di 0.7 punti di Pil, pari a circa 13 miliardi di euro. Tale aumento serve a mantenere sotto controllo i conti pubblici, ed è in parte finanziato con l’aumento dell’Iva. Questo, in concreto, significa che se si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale salirà per il secondo anno consecutivo. E se non si lascia aumentare l’Iva?

Se non si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale potrà aumentare, diminuire o restare invariata a seconda degli strumenti che verranno usati per sterilizzare l’aumento dell’Iva. Tutto dipende dal fatto che il mancato aumento dell’Iva sia finanziato ricorrendo al deficit pubblico, diminuendo la spesa, o aumentando le entrate.

Nell’ipotesi che l’aumento dell’Iva sia interamente o prevalentemente finanziato con il deficit, il risultato non potrà che essere un ulteriore aumento del debito pubblico, con conseguente aggravamento del fardello di debiti che i giovani di oggi si troveranno sulle spalle domani. E’ perlomeno strano che i giovani stessi, sempre più persuasi che gli adulti abbiano loro “rubato il futuro”, non scendano in piazza ogni qualvolta il Governo aumenta il debito pubblico.

Nell’ipotesi che l’intero aumento dell’Iva venga finanziato con minori spese, e che alle spese già previste dalla scorsa legge Finanziaria non se ne aggiungano altre, la pressione fiscale diminuirà e l’economia potrà tirare un (piccolo) respiro di sollievo.

Ma questa ipotesi è del tutto teorica, per almeno due motivi. Il primo è che gli esponenti del nuovo governo si sono già sbilanciati su promesse elettorali di ogni genere che comportano maggiori spese (bonus vari per le famiglie) o minori entrate (riduzione del cuneo contributivo). Il secondo motivo – il più importante – è che, a giudicare dalle dichiarazioni degli ultimi giorni, il governo sembra puntare la maggior parte delle sue carte su nuove tasse e sulla cosiddetta lotta all’evasione fiscale.

In entrambi i casi la giustificazione addotta è di tipo etico. Nel caso delle nuove tasse si prova a giustificarle dicendo che le merendine fanno male alla salute dei bambini, o che il carburante dei trattori dei contadini fa male al pianeta. Nel caso della lotta all’evasione fiscale si mette in atto una campagna di delegittimazione delle transazioni in contanti, fino al punto di ipotizzare una tassazione dei prelievi di denaro cartaceo.

Qui non voglio discutere la sensatezza degli scopi di questa offensiva ideologico-morale: promuovere consumi sani, proteggere l’ambiente, far pagare le tasse a tutti sono obiettivi più che degni. Il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione è che se lo strumento con cui questi obiettivi vengono perseguiti comporta un aumento della pressione fiscale, o anche semplicemente un aumento degli adempimenti (come pare accadrà alle partite Iva che usufruiscono del regime forfettario) l’effetto non può che essere un ulteriore soffocamento dell’economia, con tanti saluti ai discorsi sul rilancio della crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Quello che spesso si dimentica, specie quando si dice che con i soldi dell’evasione fiscale potremmo risolvere una miriade di problemi grandi e piccoli, è che i 110 miliardi dell’evasione non sono soldi depositati su Marte che finalmente entrerebbero in circolo, ma sono soldi che sono già in circolo e che verrebbero sottratti al settore privato se lo Stato – non pago degli 800 miliardi di entrate di cui già si pasce – decidesse di rimpinguare le proprie casse con ulteriori soldi, che presumibilmente spenderebbe altrettanto male di quelli che già riesce a sottrarre all’economia.

Significa questo che l’evasione è un bene e la lotta all’evasione un male?

No, significa esattamente il contrario: l’evasione è un male e la lotta all’evasione è un bene (anzi è un sacrosanto dovere di uno Stato che si rispetti), ma l’unica lotta all’evasione che fa bene all’economia è quella in cui il gettito recuperato viene usato interamente ed esclusivamente per abbassare le aliquote, e quindi non fa entrare un solo euro in più nelle casse dello Stato. Abbassare le aliquote, infatti, significa incentivare l’economia regolare, che è più efficiente di quella irregolare, e disincentivare quella irregolare, che è una delle cause del divario di produttività dell’Italia rispetto agli altri paesi.

Se vogliamo che l’Italia torni a crescere è essenziale evitare che, con il pretesto della lotta all’evasione, la pressione fiscale del 2020 sia maggiore di quella del 2019. E’ su questo, innanzitutto, che sarà bene giudicare la manovra che il governo si accinge a presentare la settimana prossima.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 28 settembre 2019