Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”



Immigrazione, importiamo povertà

Se ne parla di meno di qualche mese fa, perché né il mare invernale né il ministro Minniti sonnecchiano. Ma l’immigrazione è sempre lì. L’immigrazione resta uno dei temi cruciali di questa campagna elettorale, tanto più dopo il corto-circuito dei giorni scorsi: una povera ragazza italiana morta in circostanze ancora poco chiare e fatta a pezzi da un nigeriano, e otto innocenti immigrati gravemente feriti da un italiano (un esaltato nostalgico di Mussolini), per vendicare il primo delitto.

In questo clima i temi dell’immigrazione e della sicurezza, recentemente sommersi dalla valanga delle promesse economiche, dalla flat tax al reddito di cittadinanza, sono tornati pienamente alla ribalta. Ma che cosa promettono i partiti in materia di sicurezza?

Ben poco, verrebbe da dire a scorrere i programmi del centro-destra e del Pd (volutamente trascuro i 5 Stelle, ondivaghi anche su questo). Anche se si tratta di due “ben poco” di natura diversa. Le promesse del centro-destra sono risolutive ma praticamente inapplicabili. Quelle del Pd sono applicabilissime, ma sfortunatamente non risolvono nessuno dei problemi fondamentali avvertiti dalla gente.

Per capire questa doppia inadeguatezza, è forse il caso di ricapitolare la situazione con qualche numero. Il dato più importante è che, nonostante le politiche di contenimento del ministro Minniti, gli sbarchi restano circa 6-7 volte più numerosi di quel che erano in passato, prima delle “primavere arabe”. A fronte di circa 150 mila sbarcati l’anno, il decreto flussi per il 2018 stabilisce che il numero di extra-comunitari che possono fare ingresso in Italia per ragioni di lavoro è di 30.850 persone, ovvero molto inferiore al numero di arrivi. I richiedenti asilo, che sono solo una parte di quanti entrano più o meno irregolarmente in Italia, sono circa 120 mila l’anno, di cui solo una piccola frazione (tra il 5 e il 10%) ottiene lo status di rifugiato e il relativo permesso di soggiorno. L’iter burocratico per ottenere dalle commissioni preposte e dai tribunali qualche tipo di risposta (positiva, negativa, o interlocutoria) è molto lungo, e altrettanto lo è la permanenza nelle strutture di accoglienza, non di rado fatiscenti, o inadeguate, o gestite in modo inappropriato.

Questo squilibrio fra l’entità dei flussi in arrivo e le nostre scarsissime capacità di filtrare e accogliere in modo ordinato, oltre a infliggere ingiuste sofferenze ai migranti, produce effetti sociali negativi, che in questi anni di crisi si sono aggravati, e spesso colpiscono più i ceti popolari che i ceti alti. Anche prescindendo dal tasso di criminalità relativo (gli stranieri delinquono 6 volte più degli italiani), che è una fonte permanente di tensione sociale, specie nelle periferie, non si possono ignorare due tendenze: il crollo del tasso di occupazione degli stranieri, e l’aumento del numero di famiglie straniere in condizione di povertà, che è in continuo aumento e ormai sfiora il 40% delle famiglie povere residenti in Italia, pur essendo gli immigrati solo l’8-9% della popolazione. Questo, in buona sostanza, significa che noi parliamo sì di accoglienza, ma ormai, non avendo né le risorse, né l’organizzazione, né i posti di lavoro necessari per una accoglienza vera, non facciamo altro che importare povertà. Un fenomeno che ormai si constata “a occhio nudo”, con la moltiplicazione dei modi e delle forme dell’accattonaggio, spesso praticato anche da giovani nel fiore dell’età.

Di questo ordine di problemi non vi è, nei programmi dei partiti, che una minima traccia. Il Pd, come più in generale la sinistra, semplicemente non li vede. Nel suo programma, oltre al solito auspicio a superare il Trattato di Dublino (che lascia la patata bollente degli sbarchi agli Stati di approdo) ho trovato solo due passaggi significativi. Il primo riguarda lo ius soli, e prevede di dare la cittadinanza ai “minori nati e cresciuti in Italia”. Una proposta non certo irragionevole, ma spesso presentata in questi mesi come una battaglia di civiltà, come fossimo agli ultimi posti in Europa in questa materia: in realtà, secondo i più recenti dati disponibili, l’Italia è più generosa di Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, nonché di una ventina di altri paesi (solo la Svezia ci supera nettamente).

L’altro passaggio significativo del programam del Pd è un invito ad “arrestare la deriva securitaria” (per chi non fosse avvezzo al gergo della politica vuol dire: fermare la richiesta di maggiore protezione e sicurezza da parte della gente). Per la cultura di sinistra le paure della gente verso la criminalità comune e verso gli immigrati sono solo frutto di ignoranza, di cattiva informazione, di manipolazione da parte degli “impresari della paura”: quindi non si tratta di offrire risposte, ma di smontare false credenze.

Il problema del centro-destra è in un certo senso quello contrario. La destra molte delle ansie della gente le vede più che bene, ed enuncia obiettivi decisamente comprensibili: “ripresa del controllo dei confini”, “blocco degli sbarchi con respingimenti assistiti”, “rimpatrio di tutti i clandestini”, “abolizione della sedicente protezione umanitaria” (lasciando solo il diritto di asilo e la protezione sussidiaria). Il guaio è che non indica i mezzi per raggiungere gli obiettivi che si prefigge, o dà a credere che si possa, restando nell’Unione Europea, prelevare 500 mila extra-comunitari e riportarli in Africa.

Così, anche su immigrazione e sicurezza, sembra proprio che ci dobbiamo rassegnare. Se vincerà la sinistra, ci sentiremo ripetere che gli immigrati sono la soluzione, non il problema, e magari vedremo approvata qualche legge, più o meno ben fatta, sul diritto di cittadinanza. Se invece vincerà la destra, almeno la smetteranno di ruggire, perché la realtà, prima o poi, presenta il conto a tutti, anche ai più feroci.

Pubblicato su Il Messaggero del 10 febbraio 2018



Abolire “la Fornero” ?

Wanted, o “ricercata”. Un marziano che sbarcasse in Italia e posasse gli occhi su slogan e manifesti di questa avvilente campagna elettorale sarebbe indotto a pensare che la professoressa Elsa Fornero sia uno dei principali pericoli pubblici di questo paese. Quel che colpisce, della caccia alla Fornero, non è tanto l’animosità degli attacchi cui la docente torinese è sottoposta da ben sei anni, bensì la loro universalità: ad essere risolutamente (eufemismo) contro la Fornero e la sua riforma delle pensioni troviamo infatti nientemeno che la Cgil, ossia il più grande sindacato italiano (peraltro zeppo di pensionati), il Movimento Cinque Stelle (ossia il più grande partito italiano), la Lega (il più radicale partito di destra), Liberi e uguali (il più radicale partito di sinistra). Tenuto conto che queste forze rappresentano gruppi di elettori scarsamente sovrapposti, è facile concludere che “abolire la Fornero” è probabilmente l’unico obiettivo su cui esiste una larga, larghissima, convergenza politica. Una sensazione, questa, rafforzata dalle dichiarazioni di Salvini, che giusto pochi giorni fa, in una intervista al Corriere della Sera, ha riconosciuto la vicinanza fra Lega e Cinque Stelle su questo punto; e pochi giorni prima, aveva pubblicamente annunciato che “la legge sulla pensioni sarà la prima cosa che cancelleremo se andremo al governo”.

Fuori dal fronte anti-Fornero l’unica forza politica importante è il Pd, visto che Forza Italia, stante la sua alleanza con la Lega, non può che barcamenarsi fra gli slogan radicali (“abrogare la legge Fornero”, Brunetta) e le formule più prudenti (“eliminare gli effetti negativi”, Berlusconi).

Da che cosa deriva tanto interesse per il tema delle pensioni e tanto accanimento verso la riforma Fornero? Essenzialmente dal fatto che i pensionati sono un gruppo sociale amplissimo, in continua crescita, e con una propensione al voto relativamente alta. L’esatto contrario dei giovani, che sono un gruppo sociale ristretto, in continua diminuzione, e fortemente tentato dall’astensione.  Il fatto che le statistiche dimostrino che anziani e pensionati siano il gruppo sociale che meno ha risentito della crisi, o la circostanza che l’Italia sia il paese europeo in cui più si spende per le pensioni, nonché uno dei paesi in cui l’età effettiva di andata in pensione è più bassa, non impressiona minimamente i nostri politici: a loro interessano i voti dei pensionati, e per acchiapparli sono disposti a tutto. Lo strumento principe di questa “acchiappanza” è la demonizzazione della legge Fornero, e in particolare del principio dell’adeguamento automatico dell’età della pensione all’allungamento della vita.

Tutto questo non significa, naturalmente, che la riforma Fornero non abbia limiti e difetti, oltre a quello ben noto di non aver previsto e gestito il problema degli “esodati” (persone che si sono improvvisamente venute a trovare senza lavoro e senza pensione): fra questi il modo, attuarialmente ingenuo, di calcolare la speranza di vita, o la filosofia dirigista che la ispira, due punti su cui ha di recente attirato l’attenzione Francesco Forte, stimato docente di Scienza delle finanze, e più volte ministro in governi del passato.

Il punto, però, è che tutto il dibattito sulla riforma Fornero è drammaticamente sprovvisto di lealtà e di concretezza. E, cosa interessante, a truccare le carte sono sia i difensori che i critici della riforma Fornero.

L’argomento principe dei difensori, per lo più fondato su conteggi della Ragioneria generale dello Stato, è che abolire la riforma Fornero costerebbe una cifra enorme, dell’ordine di 25 miliardi l’anno. Questa argomentazione finge di credere che i nemici della legge Fornero, una volta al governo, si limiterebbero ad abrogarla, tornando al sistema precedente: solo questo presupposto, infatti, consente di affermare che il costo dell’abolizione sarebbe di una determinata entità.

A questo argomento i critici obiettano, non senza ragione, che essi non intendono tornare al sistema precedente, ma cambiare le regole introdotte dalla Fornero, un compito che alcuni (Berlusconi) paiono intendere nel senso di “correggere alcuni difetti”, altri (Salvini, Di Maio) nel senso di “cambiare radicalmente”, ad esempio eliminando l’aumento automatico dell’età della pensione, o colpendo le pensioni più elevate.

Il difetto di questa posizione, tuttavia, è che non solo si guarda bene dallo scendere nei dettagli, ma si rifiuta ostinatamente di rispondere alla domanda cruciale, che dovrebbe precedere qualsiasi esposizione approfondita di come le cose dovrebbero funzionare “se vinciamo noi”. La domanda è questa: stante che la legge Fornero, rispetto alla disciplina precedente, comporta un risparmio ingente (dell’ordine di un paio di decine di miliardi l’anno), la vostra riforma farebbe aumentare, farebbe diminuire o lascerebbe invariata la spesa pensionistica? E se non la lascerebbe invariata, di quanti miliardi la farebbe aumentare o diminuire rispetto alla situazione di oggi?

A questa basilare domanda gli acerrimi nemici della legge Fornero non hanno, per ora, saputo fornire alcuna risposta. Io stesso, qualche tempo fa, ho avuto occasione di constatarlo in un dibattito televisivo con l’on. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Quando ho posto quella domanda, ne ho ricevuto la seguente, a suo modo geniale, risposta: “non condivido la domanda”.

Ecco perché, di fronte al pomo della discordia costituito dalla legge Fornero, penso non si possa che assumere un atteggiamento scettico. Nessuna legge è perfetta, e quella legge ha sicuramente dei difetti. Ma almeno non è a scatola chiusa, come lo sono quelle dei suoi critici: nulla, al momento, ci garantisce che essi la sostituirebbero con una legge migliore, e che, nella ricerca del meglio, non metterebbero a repentaglio i conti dello Stato.

Speriamo che, di qui al 4 marzo, almeno una delle forze politiche che vogliono disfarsi della legge Fornero abbia il coraggio di scoprire le carte, e di rispondere perlomeno alla domanda preliminare: quanti miliardi in più o in meno all’anno ci costerà la nuova legge?




A 40 giorni dal voto, un governo torna possibile

Le liste dei candidati sono ormai pronte. Le consuete polemiche (come peraltro sempre accadeva già ai tempi del Mattarellum) hanno accompagnato le scelte dei nomi e dei territori a questi associati. Polemiche che rientreranno in poco tempo, per concentrarsi sulle previsioni di voto in ciascun dei collegi, per comprendere le chance di vittoria una volta formalizzata l’offerta politica. Casini riuscirà a vincere nel senato bolognese? e Boschi convincerà gli elettori sudtirolesi? e Di Maio sarà profeta in patria? Domande che ci tormenteranno per qualche settimana.

Molti degli analisti elettorali –sia in privato che in pubblico- sembrano essere convinti che nella competizione per le prossime politiche i giochi siano ormai fatti, e che la campagna elettorale non riuscirà a modificare, se non in minima parte, le attuali tendenze di voto. Una campagna che resterà quindi tutto sommato ininfluente, nonostante le centinaia di promesse che quotidianamente tutte le forze politiche si affrettano ad elargire agli italiani.

I sondaggi ci raccontano dunque di un centro-destra in gran spolvero, destinato a vincere il duello maggioritario, quello che vede protagoniste le coalizioni, e di un Movimento 5 stelle ormai sicuro vincitore della tenzone proporzionale, dove protagoniste sono le liste, prese separatamente. Dunque: centro-destra oltre il 35% e M5s vicino al 30%, con il Pd ed il centro-sinistra in affanno, perdenti in entrambi i rami del Rosatellum.

Ma, in termini di seggi, tutti sono concordi che nessuna forza politica, né singola né coalizionale, potrà arrivare ad una soglia tale da permettere la formazione di un governo di maggioranza nel parlamento. Nessuno riuscirà quindi ad avvicinarsi a quel fatidico 40% dove ci sarebbe spazio per correre da soli. Ci aspetterebbero allora esecutivi di minoranza, ovvero un governo del Presidente, prevalentemente tecnico o di larghe intese, per andare presto a rivotare, forse con una nuova legge elettorale di stampo più maggioritario.

Molti sono di questo avviso, dicevo, ma non tutti. Il politologo Paolo Feltrin, ad esempio, non è completamente convinto che i giochi siano chiusi, anzi: ritiene infatti che le dichiarazioni di voto odierne nascondano orientamenti più profondi e sedimentati che usciranno più facilmente nel momento del voto. Citando la cosiddetta “fedeltà leggera”, egli ipotizza che una quota significativa tra gli elettori di centro-sinistra faticherà ad abbandonare la propria antica parte politica, Renzi o non-Renzi, a favore dei 5 stelle o dell’astensionismo.

Potrebbero nascondere la propria vera indole a chi li interroga, in un momento in cui il Pd non gode di buona stampa né di un clima di opinione favorevole, per uscire allo scoperto all’avvicinarsi del voto, preoccupati della deriva cui (secondo loro) rischierebbe di andare incontro il nostro paese. Al contrario, i potenziali elettori dei 5 stelle potrebbero non dar seguito alle dichiarazioni in loro favore, consci delle difficoltà che il movimento dovrebbe fronteggiare nell’ipotesi di un travagliato governo.

Le sue previsioni dunque sono di una risalita del Pd e del centro-sinistra, sia nel proporzionale che soprattutto nel maggioritario, di un ridimensionamento del numero di seggi vinti dal M5s e di un ulteriore incremento di Forza Italia. Tutto questo permetterebbe al duo Pd-Fi di avvicinarsi al numero fatidico di 315 seggi alla camera e, con qualche piccolo aiuto esterno, di riuscire a formare un governo (magari a scadenza programmata) che avvicinerebbe l’Italia alla situazione tedesca, dove l’alleanza tra Cdu-Csu e Spd pare funzionare.

Ed effettivamente le tendenze delle ultime ore paiono andare nella direzione indicata da Feltrin, e ci dicono due cose rilevanti: la prima, che la coalizione di centro-destra appare in lieve crisi; la seconda, che viceversa quella di centro-sinistra sembra leggermente in ripresa. Due elementi interessanti, soprattutto in vista di una possibile (eventuale) maggioranza di governo. Perché? Vediamo di capirlo.

Il centro-destra perde complessivamente un po’ di consensi soprattutto per due fattori: il primo è che la Lega di Salvini non sembra funzionare particolarmente bene tra gli elettori delle aree meridionali del paese, che magari la citano nei sondaggi ma al momento del voto preferiscono altro. Come ad esempio in Sicilia, dove in tandem con Fratelli d’Italia non riuscì ad andare oltre il 5% dei suffragi, molto meno di quanto i sondaggi ipotizzavano.

Il secondo fattore è legato al numero di liste che la coalizione presenterà: dalle 3-4 preventivate, oggi si parla di un’unica lista di appoggio, quella di Fitto-Lupi-Tosi. Avere più liste che non superano il 3% serve infatti per incrementare i voti per la coalizione e per i suoi partiti maggiori, dando loro più seggi e più rappresentanza parlamentare. Così, secondo le ultime stime, il centro-destra potrà avere intorno a 275 seggi, oltre 40 seggi in meno della maggioranza alla camera.

Al contrario, il centro-sinistra pare godere di migliore salute, non tanto per la performance del Pd, sempre deficitaria, quanto per l’acquisto di 3 liste (con l’arrivo della Bonino) che probabilmente non supereranno il 3% (forse con l’eccezione della stessa Bonino), ma che complessivamente aggiungeranno al Partito Democratico un ulteriore 4% di voti, portandolo ad un numero di seggi totale vicino ai 160.

Dunque, la ventilata coalizione Pd-Forza Italia, pur se negata da tutti i protagonisti, potrebbe essere vicina a realizzarsi, almeno potenzialmente. I 160 seggi del Pd, uniti ai possibili 140 del partito di Berlusconi, darebbe una somma intorno a 300, a soli 15 seggi dalla maggioranza alla camera. Ingaggiare qualche fuoriuscito da altre forze politiche potrebbe non essere, a quel punto, particolarmente difficoltoso, dando luogo ad un governo capace di durare (almeno un po’) nel tempo.




Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018