Un confronto tra legislature

Cosa è successo tra il 2008 e il 2017? Siamo usciti dalla crisi?

È proprio vero che la destra è sinonimo di ordine? Ma Renzi ha davvero fatto ripartire l’Italia? L’Europa è la causa di ogni male?

Con le elezioni alle porte sono queste le domande che si pongono tutti e alle quali si può rispondere con una semplice esplorazione dei dati.

Destra o sinistra? Un’analisi empirica di legislatura.




Reddito di cittadinanza? Il grande inganno

Tasse, sicurezza e occupazione sono gli unici temi che sono stati centrali in tutte le campagne elettorali della seconda Repubblica, compresa questa. Oggi però si è aggiunto un quarto tema, assolutamente centrale e senza precedenti: il reddito minimo.

Con nomi e forme diverse lo hanno proposto un po’ tutti. Il Pd parla di reddito di inclusione, il Centro-destra di reddito di dignità, i Cinque stelle di reddito di cittadinanza (una sorta di fake word, o parola usata a sproposito, visto che il reddito di cittadinanza è tutt’altra cosa). I costi sono ragionevoli (pochi miliardi) nel caso della proposta del Pd, alti ma indeterminati (per mancanza di dettagli) nel caso del Centro-destra, certamente molto elevati (fra i 15 e i 30 miliardi) nel caso dei Cinque Stelle.

Fra tutte le forze politiche, quella che più risolutamente e da più tempo punta sul reddito minimo, e da ben cinque anni ha depositato un disegno di legge, è il Movimento Cinque Stelle. L’idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre 1000 euro per una famiglia di 2 persone e di 1500 euro per una di 3 persone. La misura, fondamentalmente, riguarda tre categorie di soggetti; chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà; chi è disoccupato e cerca un lavoro; chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. In sostanza ne sono esclusi soltanto i minorenni, e chi ha un reddito dichiarato superiore alla soglia di povertà.

Detta così, l’idea è affascinante. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli (e nelle conseguenze).

Vediamo. Primo dettaglio, il costo: comunque lo si computi (le stime oscillano fra 15 e 30 miliardi, ma se si sta alla lettera del disegno di legge la seconda cifra è la più verosimile), un costo annuo di una ventina di miliardi corrisponde a una manovra finanziaria permanente. E’ come dire che, una volta impegnati questi soldi, null’altro si potrà fare: né abbassare le tasse, né incentivare l’occupazione e gli investimenti, per non parlare delle altre innumerevoli promesse dei Cinque Stelle stessi.

Secondo dettaglio: il disincentivo a lavorare. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza ignora il fatto che, così configurato, il reddito minimo renderebbe non conveniente lavorare per ben 9 milioni di italiani. Perché mai un occupato a tempo parziale a 500 euro al mese dovrebbe continuare a lavorare se può guadagnarne quasi 700 non facendo nulla?

Certo, si può obiettare che, in realtà, il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi (come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili) e, soprattutto, se si rifiutano le offerte di lavoro. C’è un piccolo dettaglio, però: il percettore di un reddito di cittadinanza può rifiutare ben 3 offerte di lavoro, e arrivato alla quarta può eccepire che l’offerta non è “congrua”, o che una delle precedenti offerte non lo era, e quindi non va inclusa nel conteggio. Ma che significa congrua?

Lo specifica nei minimi dettagli il comma 2 dell’articolo 12 del Disegno di legge dei Cinque Stelle. Un’offerta di lavoro è considerata congrua se (cito solo alcune delle condizioni); “è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario”; “la retribuzione oraria è maggiore o eguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza”; il posto di lavoro è raggiungibile in meno di un’ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente, altrimenti l’offerta non è congrua.

Non ci vuole moltissima fantasia ad immaginare le conseguenze. L’enorme burocrazia di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari non riuscirà ad “accompagnare” al lavoro, al servizio civile, o nei corsi di formazione che una minima parte di essi. A chiunque non voglia accettare un’offerta di lavoro perché preferisce percepire il sussidio senza lavorare (o lavorando in nero) basterà rifiutarla (ha diritto a rifiutarne ben tre senza alcuna giustificazione). Se poi fosse così sfortunato da riceverne ben quattro, e anche la quarta non gli andasse bene, gli basterà considerarla “non attinente alle sue propensioni ed interessi”, che evidentemente nessuno, tantomeno un giudice del Tar, potrà pretendere di conoscere meglio del diretto interessato (l’unico freno all’abuso di questa possibilità di rifiuto è posto dal comma 2, che comunque scatta solo dopo un anno e nel caso di rifiuto di tutte le offerte precedentemente ricevute). In breve: l’effetto economico più macroscopico del reddito minimo in formato Cinque Stelle sarebbe di ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro, che in Italia è già patologicamente bassa rispetto a quella delle altre economie avanzate.

Ma il dettaglio più inquietante del reddito minimo sta nella sua iniquità. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere di acquisto, esso non potrà che creare nuove diseguaglianze, come se non ne avessimo già abbastanza. Una misura equa, come il “minimo vitale” proposto dall’Istituto Bruno Leoni, dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario. Stanti le enormi differenze nel livello dei prezzi, analiticamente documentate dall’Istat, mille euro di un operaio che vive a Milano valgono poco più della metà di quel che valgono per un manovale che vive in un piccolo comune del Mezzogiorno. Ecco perché tutte le misure basate sul reddito nominale (anche quelle del Pd e del Centro-destra) sono intrinsecamente inique: rischiano di escludere dal beneficio molti veri poveri nelle regioni del centro-nord, e di sussidiare molti finti poveri in quelle del Mezzogiorno. Per non parlare di altri squilibri: l’iniezione nell’economia di 20 miliardi di sussidi all’anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro-evasori, perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla, e taglierebbe fuori chi guadagna poco ma dichiara tutto.

Si potrebbe obiettare, naturalmente, che il fascino del reddito minimo deriva anche dal fatto che la formazione di posti di lavoro è molto lenta, molti mestieri e molte occupazioni stanno sparendo, i robot e l’intelligenza artificiale stanno sostituendo gli uomini. In un mondo in cui, come aveva previsto Keynes fin dagli anni ’20 del Novecento, il monte ore totale di una società tende a contrarsi, è logico che la maggioranza non lavori, e che sia la mamma-Stato a provvedere agli sfortunati (o ai fortunati?) che dal lavoro saranno esentati, che lo vogliano o non lo vogliano. Dopotutto, almeno in Italia, in parte è già così: la patologia di uno Stato che da sociale si fa assistenziale risale a circa mezzo secolo fa, quando per la prima volta venne denunciata vigorosamente da un manipolo di studiosi e di politici coraggiosi: Franco Reviglio, Giorgio Galli, Alessandra Nannei, Ugo La Malfa, autori di libri e analisi tanto memorabili quanto inascoltate.

A questa obiezione si possono, a mio parere, fornire due sole risposte. La prima è una domanda: è questo il tipo di mondo in cui vorremmo vivere? Davvero ci piacerebbe che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super-efficienti, competitivi, stakanovisti cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri?

La seconda risposta, invece, è una constatazione, che emerge dal confronto con gli altri paesi. Se guardiamo all’evoluzione del numero di posti di lavoro nelle società avanzate, scopriamo una cosa molto interessante, anche se leggermente frustrante per noi: dopo la crisi, e a dispetto della crisi, sono molti i paesi che hanno oggi un tasso di occupazione più alto di quello di dieci anni fa. Questo basta a mostrare che automazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, delocalizzazioni non bastano a spegnere le energie di un paese vitale, che vuole continuare a crescere e prosperare.

Certo, è possibile che fra dieci o venti anni l’Italia si ritrovi irrimediabilmente al di fuori dei sentieri della crescita e della modernizzazione, e che a un manipolo di produttori sia affidato il compito di mantenere una maggioranza di cittadini impoveriti e impotenti, in un paese che decresce e diventa sempre più marginale. Ma non raccontiamoci che è colpa del progresso, o che era destino, o che la responsabilità è dell’Europa, della signora Merkel o dell’austerità. Perché se a noi andrà così, e altri invece ne verranno fuori come già stanno facendo, è solo a noi stessi che dovremo chiedere: come mai, anziché reagire alla crisi, creando posti di lavoro veri, abbiamo preferito continuare, come facciamo da mezzo secolo, a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2018




Il puzzle del 2011 e il ruolo della Francia

Riportiamo in allegato il testo del Professor Ricolfi uscito su Panorama il 15 febbraio 2018.

Panorama 15 febbraio Ricolfi




Abbattere il debito pubblico?

All’inizio della campagna elettorale, di debito pubblico si parlava poco.  I partiti, piuttosto che spiegare se e come si sarebbero occupati del debito, preferivano snocciolare il rosario delle promesse: molto sbilanciato verso le maggiori spese nel caso del Movimento Cinque Stelle e del Pd, più sbilanciato verso le minori tasse nel caso del Centro-destra. Poi, lentamente, le cose sono cambiate.  I leader dei tre maggiori partiti devono aver capito che, anche di fronte agli investitori internazionali e alle autorità europee, non potevano esimersi dal mettere le carte in tavola. E così hanno fatto.

I tre maggiori partiti un programma di riduzione del debito ce l’hanno. Il più radicale (o irrealistico, se preferite) è quello di Forza Italia: portare il rapporto debito/Pil dal 132% attuale al 100% in 5 anni, il che significa ridurlo al ritmo medio di 6.4 punti di Pil all’anno (ai prezzi attuali 6.4 punti di Pil corrispondono a circa 110 miliardi di euro). Un po’ meno ambizioso è l’impegno dei Cinque Stelle: portare il rapporto debito/Pil al 90% ma in 10 anni costa 4.2 punti di Pil all’anno, ossia poco più di 70 miliardi. Quanto al Pd, l’obiettivo è lo stesso di Forza Italia (rapporto debito/Pil del 100%), ma diluito in 10 anni anziché in 5: il conto è di “soli” 3.2 punti di Pil, pari a circa 55 miliardi l’anno. Tutte cifre che potrebbero essere indolori solo con tassi di crescita cinesi, non certo con i nostri asfittici 1 virgola qualcosa.

Se accanto a queste cifre poniamo quelle delle mirabolanti promesse (più spese e meno tasse) dei tre maggiori partiti, non importa se valutate ai costi dichiarati dai proponenti o a quelli ben più credibilmente calcolati nei giorni scorsi dal prof. Roberto Perotti, non è difficile rendersi conto che ci stanno proponendo due obiettivi incompatibili: se manterranno l’impegno a ridurre il debito, non potranno fare le decine di cose meravigliose che ci promettono, se invece cercheranno di attuare una parte ragguardevole delle cose che ci promettono, non potranno che aumentare il debito, ovvero il fardello che peserà sui nostri figli e nipoti.

Se dai tre partiti maggiori ci spostiamo verso gli altri, il quadro cambia un po’. Lega, Liberi e Uguali, Fratelli d’Italia, forse anche perché si sentono meno investiti da responsabilità di governo, non paiono molto interessati ad assumere impegni precisi di riduzione del debito pubblico. Con qualche sfumatura e differenza, mi pare li accomuni l’idea che in questi anni abbiamo già avuto troppa austerità, che solo la crescita ci salverà, e che per sostenere la crescita stessa un po’ di deficit e di debito in più non guastino.

Dobbiamo concludere che la riduzione del debito non interessi proprio nessuna delle forze in campo?

Non esattamente. Una forza politica che, anche nei giorni scorsi, ha molto insistito sulla assoluta necessità di abbattere il debito pubblico c’è, ed è la lista “Più Europa” di Emma Bonino. L’idea della Bonino è di portare il debito pubblico sotto il 110% del Pil in 5 anni, un percorso che costerebbe 4.4 punti di Pil (75 miliardi) all’anno, più o meno lo stesso ritmo ipotizzato dai Cinque Stelle.

Ma come fare?

Leggendo i documenti della lista Più Europa, e scorrendo le dichiarazioni di Emma Bonino, si scopre una circostanza di cui pochi sembrano essersi accorti: habemus Thatcher. L’analisi e le ricette che ci vengono proposte sono sostanzialmente le stesse delle due grandi rivoluzioni liberiste degli anni ’80, quelle attuate dalla signora Thatcher nel Regno Unito e da Reagan negli Stati Uniti. Cose che, se a proporle fossero Berlusconi o Tremonti, scatenerebbero la piazza, le tv, i giornali, i sindacati, gli intellettuali, gli artisti, i preti, tutti indignati contro i tagli alla sanità, alla scuola, al welfare in genere (la cosiddetta “macelleria sociale”).

L’analisi parte da un giudizio durissimo (peraltro condivisibile) sulla politica degli ultimi anni: “quasi tutte le risorse come gli 80 euro, i vari bonus, la quattordicesima alle pensioni basse sono state fatte in deficit e ben poche risorse sono state trovate grazie alla spending review, che per motivi elettorali è stata messa in soffitta”. Di qui l’idea che si debba capovolgere le politiche attuate finora: “la nostra proposta in materia fiscale e di bilancio è esattamente l’opposta rispetto a quanto fatto in questi anni”.

Il nucleo della proposta di Più Europa è di congelare per alcuni anni la spesa pubblica bloccandola al livello attuale in termini nominali (il che significa farla scendere in termini reali), tagliando “uscite correnti e agevolazioni fiscali”, e solo in un secondo tempo, dopo una spending review draconiana, cominciare a ridurre le tasse (Irpef e Irap). Il tutto naturalmente corredato da privatizzazioni, liberalizzazioni, misure a favore della concorrenza.

Per certi versi la posizione di Emma Bonino non deve stupire, e forse neppure scandalizzare se non per il suo estremismo economico. Dopotutto i radicali hanno sempre predicato la concorrenza e le virtù del mercato, spesso scavalcando i riformisti di destra e di sinistra su terreni minati come l’articolo 18 o la flat tax. Ma la realtà storica è che quasi tutte le grandi battaglie dei radicali non sono state sull’economia, bensì sul terreno dei diritti.  Perché, nel profondo, ai radicali le questioni che interessano davvero, quelle per cui sono pronti a scatenare campagne politiche all’ultima firma, sono quelle che riguardano il funzionamento delle istituzioni (giustizia, carceri, ecc.) e le grandi “battaglie di civiltà”: divorzio, aborto, testamento biologico, eutanasia, fecondazione assistita, coppie di fatto, diritti dei migranti, diritti dei gay, e così via. Non certo l’articolo 18, o le tasse, o la spending review, che fanno parte della loro ideologia, non della loro pratica. Ecco perché possono preoccuparsi del debito: perché, occupandosi di regole e di diritti civili, non hanno una lista della spesa imbarazzante come quella degli altri partiti.

Per altri versi, invece, la durissima requisitoria di Emma Bonino sulle politiche di questi anni lascia un po’ perplessi. L’elettore ingenuo come me, che ha fatto l’errore di leggere sia il programma di Più Europa sia quello del Pd si chiede come possano essere alleati, visto che Emma Bonino definisce la sua proposta di politica economica “esattamente opposta” a quel che il Partito democratico ha praticato in questi anni (per non parlare dei contrasti con Minniti sulla gestione dei migranti).

Se proviamo a tirare le fila il quadro è sconcertante. Nessuno dei sei maggiori partiti italiani ha veramente intenzione di ridurre il debito, altrimenti non farebbero le promesse che fanno. L’unico che prende sul serio il problema, ovvero Più Europa, lo fa con un programma ultra-liberista che non spaventa nessuno solo perché pochi lo conoscono, tutti sappiamo che le questioni che davvero scaldano il cuore del mondo radicale sono altre, e comunque non è a loro che sarà affidato il governo dell’economia.

La cosa che più mi sorprende, tuttavia, è un’altra. Ed è che tutti gli attori politici che provano a dire qualcosa sul debito pubblico diano per scontato che il problema sia abbattere il rapporto debito/Pil. Eppure non è detto che questa sia l’unica strada per alleggerire il fardello delle nuove generazioni, e ridurre i rischi di una nuova crisi come quella del 2011. La comparazione con gli altri paesi, e l’analisi statistica del funzionamento dei mercati finanziari in questi lunghi anni di crisi, suggeriscono anche un altro approccio possibile. Più che pretendere di abbattere in pochi anni la massa complessiva di un debito che si è accumulato in decenni e decenni, dovremmo forse porci due obiettivi più limitati e realistici. Il primo è di mantenere gli impegni che prendiamo in Europa, anziché disattenderli come facciamo ogni anno. Meglio promettere poco, ad esempio una riduzione del rapporto debito/Pil di soli 2 punti l’anno, ma poi attuarla davvero, implacabilmente e anno dopo anno. Il secondo obiettivo è di aumentare progressivamente la quota di debito detenuta da investitori interni, secondo il modello giapponese (il Giappone sopporta tranquillamente un rapporto debito/Pil superiore al 200% perché esso è in gran parte in mani giapponesi). E’ facile mostrare, infatti, che la vulnerabilità dei conti pubblici di un paese non dipende tanto dal rapporto debito/Pil, ma dal rapporto fra debito pubblico detenuto da investitori esteri e Pil, una grandezza che può avere un andamento sostanzialmente diverso da quello del debito complessivo (negli ultimi due anni, ad esempio, il suo andamento è stato relativamente favorevole).

Ma forse non dovrei sorprendermi troppo. Il fatto che i partiti enuncino obiettivi di abbattimento del debito del tutto irrealistici, e disdegnino sentieri di risanamento più graduali e praticabili, è semplicemente il segno che, con quel problema, non hanno la minima intenzione di fare i conti.




Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”