Elezioni, mai così difficile scegliere

Il sentimento che domina queste elezioni a me pare lo smarrimento. Non ho mai sentito così tante persone dubbiose, incerte, poco convinte. Inondati dalle promesse elettorali, la maggior parte degli italiani si apprestano ad andare al voto sapendo perfettamente che nessun partito potrà mantenerle, quelle promesse.

Ma il nostro scetticismo è, questa volta, alimentato anche da un elemento nuovo: non solo, come sempre, ben poco di ciò che si è promesso sarà mantenuto, ma è molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana (sempre che il presidente della Repubblica non rimandi tutti a casa).

La ragione di questa incertezza è strutturale. Ed è che il nostro sistema politico, anche grazie alla nuova legge elettorale, è improvvisamente diventato quadripolare. Era bipolare durante la seconda Repubblica, ai bei tempi in cui dovevi solo scegliere fra destra e sinistra, era parso trasformarsi in un sistema tripolare con l’avanzata dei Cinque Stelle, ma oggi non è né l’una cosa né l’altra. Oggi non solo ci sono quattro partiti importanti, ovvero Cinque Stelle, Pd, Forza Italia, Lega, ma sono divenuti ben quattro i governi possibili: Forza Italia e Lega, Pd e Forza Italia, Cinque Stelle e Pd, Cinque stelle e Lega.

Ovviamente tutti i protagonisti lo negheranno risolutamente, ma questa è la realtà. Ed è una realtà che ha radici psicosociali profonde: è dal 1993 che, nelle teste degli elettori, lo spazio elettorale non è più unidimensionale, con tutti i partiti allineati sul continuum destra-sinistra, ma è bidimensionale. Accanto all’alternativa destra-sinistra la gente percepisce altre dicotomie: durante la seconda Repubblica soprattutto la dicotomia fra radicali e moderati, negli ultimi anni essenzialmente la contrapposizione fra populisti (anti-europei) e riformisti (pro-Europa) o, su un piano più astratto, la competizione fra forze della chiusura e forze dell’apertura, fra chi teme la globalizzazione e i suoi effetti e chi la percepisce prevalentemente come un’opportunità.

Per capire la situazione in cui ci troviamo conviene immaginare i quattro maggiori partiti come collocati intorno a una tavola rotonda, dove non esiste capotavola ma ogni commensale può stringere alleanze con uno dei suoi due vicini.

La geometria dello spazio elettorale

Partiamo dalla Lega: se si muove in senso orario incontra Forza Italia con cui condivide la collocazione a destra. Ma se si muove in senso antiorario incontra il Movimento Cinque Stelle, con cui condivide il populismo e l’ostilità alle autorità europee. A sua volta il movimento Cinque Stelle è “seduto” fra Lega e Pd, e quindi può muoversi sia verso la prima sia verso il secondo. Il Pd può guardare al Movimento Cinque Stelle (magari con l’intercessione di Liberi e Uguali) oppure verso Forza Italia, a seconda che voglia far prevalere la sua anima di sinistra o il proprio europeismo. E infine Forza Italia può stare con il suo alleato dichiarato, la Lega di Salvini, oppure con il suo cripto-alleato, il Pd di Renzi. In un sistema quadripolare, come il nostro è diventato, le uniche alleanze tassativamente escluse sono fra partiti che risultano opposti sia sull’asse destra-sinistra, sia su quello di populismo-europeismo. Di conseguenza le coppie incompatibili sono solo due: Cinque Stelle e Forza Italia, Pd e Lega.

Ne segue che ognuno dei 4 partiti principali ha 2 modi di andare al governo. È questo che rende difficile scegliere un partito. Se voti Cinque Stelle non sai se stai aiutando la formazione di un governissimo di sinistra o di un fronte populista con la Lega. Se dai il tuo voto alla Lega, non sai se lo userà per fare un governo con Forza Italia o con i Cinque Stelle. Se dai un voto al Pd non sai se ne verrà fuori un governissimo con i Cinque Stelle (magari con un nuovo segretario al posto di Renzi) oppure un governo di “strette intese”, o Kleine Koalition, Pd-Forza Italia. Se, infine, dai il tuo voto a Forza Italia non sai se verrà usato per fare un governo con la Lega o con il Pd.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in una repubblica parlamentare (con alte dosi di proporzionalismo), è sempre così: l’elettore esprime un voto, ma i giochi si fanno in Parlamento. C’è anche un precedente storico, quello della “politica dei due forni” praticata dal partito socialista, spesso alleato della Dc a livello nazionale, e al governo con il Partito comunista a livello locale. Ma il punto è che ora di forni ce ne sono ben quattro, e questo fa sì che quattro siano anche i partiti che possono aspirare a fungere da ago della bilancia.

Ecco perché ci sentiamo esautorati. Noi possiamo anche scegliere il partito che ci piace di più, ma non possiamo sapere con chi quel partito si alleerà. Questo è grave perché, per molti di noi, una delle sue due alleanze possibili è accettabile, l’altra no. Così ci ritroviamo coinvolti in una doppia scommessa: dobbiamo sperare che il nostro partito raccolga molti voti, ma anche che non li usi male, scegliendo quello che a noi pare l’alleato sbagliato. E, cosa importante, questo riguarda tutti e quatto i partiti principali, proprio perché, nella nostra tavola rotonda ideale, ogni commensale ha due vicini.

Che cosa possiamo fare, in questa situazione?

Solo una cosa, credo. Se abbiamo deciso di andare a votare, dobbiamo farci la domanda delle domande: non già qual è il partito che più ci piace, ma qual è quello che più ci inquieta, quello che riteniamo più dannoso per il paese. Perché, una volta che abbiamo risposto a questa domanda, anche la nostra scelta diventa relativamente agevole, per non dire obbligata: basta dare il voto all’unico partito che, per la sua “posizione a tavola”, non può allearsi con il nostro partito più temuto.

Tabella di decisione

Spiace ammetterlo, ma la realtà è proprio questa: è vero che votando uno dei quattro maggiori partiti rendiamo possibili ben due governi, ma è altrettanto vero che ne escludiamo altri due.

Il grave è che i governi che il voto di ognuno di noi contribuisce a rendere possibili non sono varianti del medesimo progetto politico, ma possono essere radicalmente diversi. E’ questa la più importante differenza fra oggi e il passato. Sono abbastanza vecchio da ricordare la campagna elettorale del 1963, quando si trattava di decidere se i socialisti sarebbero andati al governo con la Dc. E ricordo persino lo slogan del partito che meno desiderava quella soluzione, il partito liberale di Giovanni Malagodi: “la Dc dirà di no ai socialisti se voi direte di sì ai liberali”. Ma, come si vede, erano piccole differenze, che sarebbero completamente scomparse in futuro, quando, con il “pentapartito”, i socialisti e i liberali avrebbero finito per governare insieme.

Oggi no. Oggi il governo che può uscire dal nostro voto può essere molto, ma molto diverso da ciò che ci auguriamo. E’ questo che alimenta il nostro smarrimento. Ed è questo che deve farci riflettere: prima di dare il voto a un partito chiediamoci con chi potrebbe allearsi, e con chi non potrebbe farlo. Solo così possiamo proteggerci dalle delusioni più cocenti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 03 marzo 2018.




Vademecum elettorale

In allegato il Vedemecum elettorale con l’analisi delle promesse dei partiti in vista delle prossime elezioni. L’allegato contiene anche i sei articoli pubblicati da Luca Ricolfi su “Il Messaggero” nelle ultime settimane.

Vademecum Elettorale per il 4 marzo

 




Un confronto tra legislature

Cosa è successo tra il 2008 e il 2017? Siamo usciti dalla crisi?

È proprio vero che la destra è sinonimo di ordine? Ma Renzi ha davvero fatto ripartire l’Italia? L’Europa è la causa di ogni male?

Con le elezioni alle porte sono queste le domande che si pongono tutti e alle quali si può rispondere con una semplice esplorazione dei dati.

Destra o sinistra? Un’analisi empirica di legislatura.




Reddito di cittadinanza? Il grande inganno

Tasse, sicurezza e occupazione sono gli unici temi che sono stati centrali in tutte le campagne elettorali della seconda Repubblica, compresa questa. Oggi però si è aggiunto un quarto tema, assolutamente centrale e senza precedenti: il reddito minimo.

Con nomi e forme diverse lo hanno proposto un po’ tutti. Il Pd parla di reddito di inclusione, il Centro-destra di reddito di dignità, i Cinque stelle di reddito di cittadinanza (una sorta di fake word, o parola usata a sproposito, visto che il reddito di cittadinanza è tutt’altra cosa). I costi sono ragionevoli (pochi miliardi) nel caso della proposta del Pd, alti ma indeterminati (per mancanza di dettagli) nel caso del Centro-destra, certamente molto elevati (fra i 15 e i 30 miliardi) nel caso dei Cinque Stelle.

Fra tutte le forze politiche, quella che più risolutamente e da più tempo punta sul reddito minimo, e da ben cinque anni ha depositato un disegno di legge, è il Movimento Cinque Stelle. L’idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre 1000 euro per una famiglia di 2 persone e di 1500 euro per una di 3 persone. La misura, fondamentalmente, riguarda tre categorie di soggetti; chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà; chi è disoccupato e cerca un lavoro; chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. In sostanza ne sono esclusi soltanto i minorenni, e chi ha un reddito dichiarato superiore alla soglia di povertà.

Detta così, l’idea è affascinante. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli (e nelle conseguenze).

Vediamo. Primo dettaglio, il costo: comunque lo si computi (le stime oscillano fra 15 e 30 miliardi, ma se si sta alla lettera del disegno di legge la seconda cifra è la più verosimile), un costo annuo di una ventina di miliardi corrisponde a una manovra finanziaria permanente. E’ come dire che, una volta impegnati questi soldi, null’altro si potrà fare: né abbassare le tasse, né incentivare l’occupazione e gli investimenti, per non parlare delle altre innumerevoli promesse dei Cinque Stelle stessi.

Secondo dettaglio: il disincentivo a lavorare. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza ignora il fatto che, così configurato, il reddito minimo renderebbe non conveniente lavorare per ben 9 milioni di italiani. Perché mai un occupato a tempo parziale a 500 euro al mese dovrebbe continuare a lavorare se può guadagnarne quasi 700 non facendo nulla?

Certo, si può obiettare che, in realtà, il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi (come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili) e, soprattutto, se si rifiutano le offerte di lavoro. C’è un piccolo dettaglio, però: il percettore di un reddito di cittadinanza può rifiutare ben 3 offerte di lavoro, e arrivato alla quarta può eccepire che l’offerta non è “congrua”, o che una delle precedenti offerte non lo era, e quindi non va inclusa nel conteggio. Ma che significa congrua?

Lo specifica nei minimi dettagli il comma 2 dell’articolo 12 del Disegno di legge dei Cinque Stelle. Un’offerta di lavoro è considerata congrua se (cito solo alcune delle condizioni); “è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario”; “la retribuzione oraria è maggiore o eguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza”; il posto di lavoro è raggiungibile in meno di un’ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente, altrimenti l’offerta non è congrua.

Non ci vuole moltissima fantasia ad immaginare le conseguenze. L’enorme burocrazia di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari non riuscirà ad “accompagnare” al lavoro, al servizio civile, o nei corsi di formazione che una minima parte di essi. A chiunque non voglia accettare un’offerta di lavoro perché preferisce percepire il sussidio senza lavorare (o lavorando in nero) basterà rifiutarla (ha diritto a rifiutarne ben tre senza alcuna giustificazione). Se poi fosse così sfortunato da riceverne ben quattro, e anche la quarta non gli andasse bene, gli basterà considerarla “non attinente alle sue propensioni ed interessi”, che evidentemente nessuno, tantomeno un giudice del Tar, potrà pretendere di conoscere meglio del diretto interessato (l’unico freno all’abuso di questa possibilità di rifiuto è posto dal comma 2, che comunque scatta solo dopo un anno e nel caso di rifiuto di tutte le offerte precedentemente ricevute). In breve: l’effetto economico più macroscopico del reddito minimo in formato Cinque Stelle sarebbe di ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro, che in Italia è già patologicamente bassa rispetto a quella delle altre economie avanzate.

Ma il dettaglio più inquietante del reddito minimo sta nella sua iniquità. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere di acquisto, esso non potrà che creare nuove diseguaglianze, come se non ne avessimo già abbastanza. Una misura equa, come il “minimo vitale” proposto dall’Istituto Bruno Leoni, dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario. Stanti le enormi differenze nel livello dei prezzi, analiticamente documentate dall’Istat, mille euro di un operaio che vive a Milano valgono poco più della metà di quel che valgono per un manovale che vive in un piccolo comune del Mezzogiorno. Ecco perché tutte le misure basate sul reddito nominale (anche quelle del Pd e del Centro-destra) sono intrinsecamente inique: rischiano di escludere dal beneficio molti veri poveri nelle regioni del centro-nord, e di sussidiare molti finti poveri in quelle del Mezzogiorno. Per non parlare di altri squilibri: l’iniezione nell’economia di 20 miliardi di sussidi all’anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro-evasori, perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla, e taglierebbe fuori chi guadagna poco ma dichiara tutto.

Si potrebbe obiettare, naturalmente, che il fascino del reddito minimo deriva anche dal fatto che la formazione di posti di lavoro è molto lenta, molti mestieri e molte occupazioni stanno sparendo, i robot e l’intelligenza artificiale stanno sostituendo gli uomini. In un mondo in cui, come aveva previsto Keynes fin dagli anni ’20 del Novecento, il monte ore totale di una società tende a contrarsi, è logico che la maggioranza non lavori, e che sia la mamma-Stato a provvedere agli sfortunati (o ai fortunati?) che dal lavoro saranno esentati, che lo vogliano o non lo vogliano. Dopotutto, almeno in Italia, in parte è già così: la patologia di uno Stato che da sociale si fa assistenziale risale a circa mezzo secolo fa, quando per la prima volta venne denunciata vigorosamente da un manipolo di studiosi e di politici coraggiosi: Franco Reviglio, Giorgio Galli, Alessandra Nannei, Ugo La Malfa, autori di libri e analisi tanto memorabili quanto inascoltate.

A questa obiezione si possono, a mio parere, fornire due sole risposte. La prima è una domanda: è questo il tipo di mondo in cui vorremmo vivere? Davvero ci piacerebbe che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super-efficienti, competitivi, stakanovisti cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri?

La seconda risposta, invece, è una constatazione, che emerge dal confronto con gli altri paesi. Se guardiamo all’evoluzione del numero di posti di lavoro nelle società avanzate, scopriamo una cosa molto interessante, anche se leggermente frustrante per noi: dopo la crisi, e a dispetto della crisi, sono molti i paesi che hanno oggi un tasso di occupazione più alto di quello di dieci anni fa. Questo basta a mostrare che automazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, delocalizzazioni non bastano a spegnere le energie di un paese vitale, che vuole continuare a crescere e prosperare.

Certo, è possibile che fra dieci o venti anni l’Italia si ritrovi irrimediabilmente al di fuori dei sentieri della crescita e della modernizzazione, e che a un manipolo di produttori sia affidato il compito di mantenere una maggioranza di cittadini impoveriti e impotenti, in un paese che decresce e diventa sempre più marginale. Ma non raccontiamoci che è colpa del progresso, o che era destino, o che la responsabilità è dell’Europa, della signora Merkel o dell’austerità. Perché se a noi andrà così, e altri invece ne verranno fuori come già stanno facendo, è solo a noi stessi che dovremo chiedere: come mai, anziché reagire alla crisi, creando posti di lavoro veri, abbiamo preferito continuare, come facciamo da mezzo secolo, a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2018




Il puzzle del 2011 e il ruolo della Francia

Riportiamo in allegato il testo del Professor Ricolfi uscito su Panorama il 15 febbraio 2018.

Panorama 15 febbraio Ricolfi