Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020




Contro la sagra dell’ovvio

Degli Stati generali dell’economia si è detto di tutto. Che sono solo una passerella, che sono un omaggio alla Troika, che rischiano di essere “generici” più che generali, che parole d’ordine come “modernizzazione, transizione ecologica, inclusione” sono di una banalità disarmante (e forse anche un po’ irritante). Beppe Severgnini si è giustamente chiesto quale capo di governo potrebbe mai puntare, invece, su “invecchiamento, inquinamento, esclusione”. Quanto agli inviti alla “concretezza”, che sono piovuti da tutte le parti in questi giorni, non si può non osservare che, finché non si indicano dettagliatamente le cose da fare e soprattutto quelle da non fare, o che sarà impossibile fare subito, non c’è nulla di più astratto dell’invito a essere concreti.
Per parte mia, sono stato colpito soprattutto da due circostanze. La prima è la scelta di tenere gli Stati generali a porte chiuse, senza ammettere ai lavori né i giornalisti né altri osservatori indipendenti. Una scelta aggravata dal fatto che non è la prima volta che il governo percorre la via della non trasparenza. Invano i giornalisti hanno richiesto, nei mesi scorsi, i verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico. Invano gli studiosi hanno atteso che l’Istituto Superiore di Sanità mettesse a disposizione i propri dati (o almeno parte di essi), un’esigenza resa sempre più impellente dalla pessima qualità dei dati diffusi dalla Protezione Civile.
Ma la circostanza che più mi ha colpito è un’altra, che peraltro non dipende solo dal governo ma anche dall’opposizione, e in definitiva da tutti noi: la mancanza di un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione dell’Italia. Tutta la discussione sul futuro economico-sociale del Paese si svolge sulle note dell’ovvio più ovvio e più trito. Gli esponenti dell’esecutivo sciorinano la mesta giaculatoria dei due-trecento problemi irrisolti del paese, come se – dopo almeno tre decenni di atti mancati – improvvisamente ci fossero le condizioni politiche per porvi mano. Di qui la solita invocazione sulla necessità di “fare le riforme” (quali, con quali priorità e quali tempi?), la immancabile proclamazione della necessità di attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, l’attesa messianica delle ingenti risorse promesse dall’Europa, il tutto condito dalla commedia dell’accesso ai fondi del Mes, con il Pd nella veste di poliziotto buono e i Cinque Stelle in quello di poliziotto cattivo.
Per chi è vissuto in epoche nelle quali la politica economica era oggetto di un serrato dibattito pubblico, nonché di contrapposizioni appassionate, lo spettacolo di questi giorni è più stupefacente che deprimente.
Eppure le scelte che abbiamo davanti non sono né ovvie né facili. Finora la politica economica, con i suoi ritardi e la sua impostazione assistenziale (a oggi sono circa 40 i “bonus” vigenti), ha gettato le basi per trasformare l’Italia in una “società parassita di massa”, in cui il numero dei produttori (già esiguo prima della crisi) si restringe ulteriormente, e una frazione sempre più grande della popolazione è ridotta a dipendere dalla benevolenza della mano pubblica. Siamo sicuri di volere questo? O preferiamo illuderci che non andrà così? E se pensiamo che non andrà così, su quali basi siamo in condizione di ipotizzare un percorso diverso? Come pensiamo di gestire i conti pubblici quando il rapporto debito/Pil sarà a livelli greci e i mercati finanziari rialzeranno la testa?
Si potrebbe pensare che a queste domande, cui la sinistra al governo non sa rispondere perché manco se le fa, sia in grado di rispondere l’opposizione di destra. Ma basta scorrere i programmi economico-sociali della destra, e segnatamente della Lega che ne è il partito più forte, per rendersi conto che anche la destra non ha un’idea convincente del futuro dell’Italia. Per certi versi, anzi, la politica economica della sinistra e quella della destra appaiono varianti del medesimo schema. La tentazione assistenziale, come dimostra la battaglia di tutto il centro-destra per quota 100, non è monopolio della sinistra. E la propensione a risolvere i problemi allargando la voragine del debito pubblico è quanto di più bipartisan sia dato osservare nella politica italiana. Come bipartisan è il mantra degli investimenti pubblici, immancabilmente da “rilanciare” e da “sbloccare”, ma inspiegabilmente sempre al palo.
Certo, si potrebbe pensare che, se non vogliamo affogare nell’assistenzialismo, se vogliamo che l’iniziativa privata non sia definitivamente soffocata e sepolta dall’invadenza degli apparati pubblici, faremmo meglio a cambiare esecutivo e affidarci alla destra. Dopotutto “meno tasse” è l’imperativo fondamentale dell’opposizione di destra, mentre dalla sinistra il meno peggio che possiamo aspettarci in materia fiscale sono ulteriori dosi di sacrosanta “lotta all’evasione fiscale” (il peggio è una patrimoniale e un aumento delle aliquote). Ma attenzione, il diavolo si annida nei dettagli. Meno tasse non vuol dire nulla se non si specifica quante meno tasse, e per chi. E l’esperienza degli anni passati, e dei programmi elettorali, suggerisce che il “meno tasse” della destra sia più al servizio della ricerca del consenso che a quello della crescita. Era così fin dai tempi del “contratto con gli italiani”, che prometteva l’abbattimento delle imposte sulle famiglie ma era silente sull’imposta societaria (Ires) e sull’Irap. Ed è così oggi, in piena crisi Covid, quando riemergono i fantasmi dei condoni fiscali, comunque li si voglia denominare: rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, pace fiscale. Come se, per evitare la chiusura di centinaia di migliaia di attività, fosse più importante un condono una-tantum che assicurare un lungo periodo di basse aliquote.
Il fatto è che destra e sinistra, fondamentalmente, non differiscono negli scopi, ma nel modo di perseguire il proprio scopo dominante, ovvero l’acquisizione del consenso: la sinistra predilige incrementare il debito pubblico per distribuire bonus e mance, la destra incrementare il debito pubblico per distribuire esenzioni e sgravi fiscali.
Ad entrambe, mi pare, manchi la consapevolezza che di debito ulteriore, passata la crisi, non ne potremo fare molto, e quindi è essenziale non riproporre per l’ennesima volta – come è di moda in questi giorni – l’elenco dei 2-300 “ritardi” dell’Italia, ma dire chiaramente quali siano le 2-3 cose di cui ci si occuperà effettivamente nei prossimi mesi, e come lo si intenda fare. Possibilmente nei dettagli.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 giugno 2020




Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




Dieci anni di austerity? Qui si fa come l’Irlanda o si muore. Intervista a Luca Ricolfi con le considerazioni di una lettrice

Professor Ricolfi, la critica più diffusa al decreto Rilancio appena varato dal governo riguarda la natura essenzialmente assistenzialistica delle misure. Dei 55 miliardi messi in campo, c’è poco o nulla per far ripartire l’economia. L’ex ministro del Tesoro Giovanni Tria addirittura ha parlato di “investimenti zero”. Ma se l’economia non riparte, nei prossimi mesi l’Italia rischia davvero di essere il “malato d’Europa”. I mercati continueranno a risparmiarci o dobbiamo iniziare a temere?
Andando avanti sulla strada intrapresa, più che di “malato” d’Europa temo che dovremo parlare di “moribondo” d’Europa. Finché la caduta del Pil è “solo” del 10% e dall’anno dopo c’è una ripresa, sei solo malato. Ma se il Pil cade del 15-20% nel 2020, se nell’anno successivo non rimbalza perché la base produttiva si è ristretta, se la quota dell’export cala perché in questi mesi hai perso milioni di clienti, se il rapporto debito-Pil viaggia verso il 200% perché il denominatore è imploso, se lo spread vola perché i mercati pensano che non saremo in grado di restituire il debito, beh se tutto questo dovesse accadere allora questo non è essere malati, mi sembra.
Questo vorrebbe dire tornare indietro di mezzo secolo, prendere commiato da tutto quello che eravamo bene o male riusciti a costruire dopo la seconda guerra mondiale. Individualmente sopravviveremo quasi tutti, si spera, ma assisteremo alla progressiva demolizione del nostro mondo sociale: la società signorile di massa si inabisserà, come l’isola di Atlantide.

C’è il rischio che Germania, Olanda e falchi del Nord tornino a chiedere austerity?
Chiamarlo “rischio” è da inguaribili ottimisti, io parlerei di certezza. Il patto di stabilità è solo sospeso, e possiamo star sicuri che nel 2021 l’Europa non ci consentirà di indebitarci con l’allegria che ora contagia il ceto di governo. E anche ce lo consentisse, nulla potrà evitare che a metterci in riga ci pensino i mercati. Già oggi lo spread è 100 punti sopra il livello pre-Covid.

Da queste pagine ha lanciato l’allarme: l’Italia post-Covid rischia di diventare una società parassita di massa, popolata da tanti non-produttori che vivranno in condizioni di dipendenza dall’assistenzialismo statale. Cerchiamo di fare un passo avanti. Come evitare di arrivare a uno scenario così terribile?
Prima di rispondere, vorrei fare una precisazione. Quando dico che i nostri governanti stanno più o meno intenzionalmente pianificando il passaggio a una società parassita di massa non ho in mente uno scenario in cui il 70% degli italiani se la spassa vivendo alle spalle del 30% che produce. Quel che ho in mente è semmai una situazione in cui la torta del Pil è così ristretta da trasformare i parassiti-signori di ieri nei parassiti-sudditi di domani. Detto brutalmente: gli assistiti non se la passeranno per niente bene. Non a caso ho evocato, giusto per dare un’idea, la Grecia e Cuba: sudditi come a Cuba, poveri come in Grecia.
Detto questo, torno alla domanda, come evitare di arrivare lì. Non so se siamo ancora in tempo, ma io vedo una sola possibilità: cambiare tutto, naturalmente cominciando dalla testa, governo e filosofia di governo.

Che significa cambiare tutto?
Dovessi riassumere con una formula, direi: provare a trasformare l’Italia da inferno burocratico a paradiso imprenditoriale. Una sorta di Irlanda mediterranea, dove chiunque voglia intraprendere un’attività economica può farlo senza ostacoli non necessari.
In concreto vuol dire essenzialmente tre cose.
La prima: renderci un paese normale quanto a burocrazia, eliminando la “presunzione di furbizia” che è ubiqua nella nostra legislazione, dal codice degli appalti alle infinite norme e procedure che asfissiano i produttori.
La seconda: un taglio drastico, immediato, e almeno triennale delle tasse.
La terza: saldare entro 30 giorni tutti i debiti delle pubbliche amministrazioni verso il settore privato, senza andirivieni bancari e fra enti pubblici. E’ incredibile che lo Stato faccia moral suasion sulle banche perché aiutino i produttori a indebitarsi, e non pensi che molte imprese devono indebitarsi precisamente perché lo Stato non paga i suoi debiti.

Entriamo più nello specifico sul taglio delle tasse. Meglio fare un’operazione di riduzione su imprese e autonomi o sul lavoro dipendente?
In tema di riduzioni fiscali la tendenza del ceto politico, di destra e di sinistra, è sempre stata (fin dal “Contratto con gli italiani” di Berlusconi) di puntare su riduzioni, anche molto modeste, che potessero toccare il maggior numero di beneficiari: Irpef, Iva, Imu, contributi sociali. Molta meno attenzione è stata riservata alle tasse che scoraggiano l’attività produttiva, ovvero Irap e Ires. E invece è da lì che si dovrebbe partire, anche puntando su benefici selettivi e concentrati, che privilegino le imprese che aumentano l’occupazione e, in questo momento, le imprese che rinunciano alla comoda strada di mettere in cassa integrazione i loro dipendenti.
Dico questo perché me lo suggeriscono i miei studi sulle determinanti della crescita in Occidente (è il tema del mio libro L’enigma della crescita), ma lo dico anche perché sono in contatto con tante persone che hanno un’attività, dal commerciante, al gestore di pizzeria, alla fisioterapista, fino al viticoltore. E da loro so che la decisione che devono prendere è drammatica: chiudere, o riaprire e scommettere sul futuro.

E che cosa le dicono?
Quasi tutti, specie se sono over 50 e sono in grado di sopravvivere decentemente senza lavorare, si chiedono: ma in queste condizioni, con nuovi costi, nuovi rischi (anche penali), e a voracità fiscale invariata, chi me lo fa fare?
La decisione di riaprire dipende poco dagli aiuti momentanei e limitati che possono ricevere in questo momento, e molto – moltissimo – dalle condizioni in cui dovranno operare nei prossimi mesi e anni. Queste condizioni includono aumenti certi dei costi, una fiscalità futura di entità sconosciuta, un rischio serio di guai giudiziari legati al rispetto del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Lei lo ha letto il protocollo?
Dalla prima riga all’ultima, e ne sono rimasto sconcertato, per la farraginosità (e spesso inapplicabilità) delle norme che detta. Soprattutto sono rimasto sorpreso nel constatare che il protocollo è chiaramente pensato per la grande impresa, ma non è sottoscritto solo dai sindacati confederali e da Confindustria, bensì anche da una dozzina di associazioni professionali e datoriali più piccole, che paiono del tutto ignare dei problemi concreti dei loro associati. Come sociologo, sono colpito dal fatto che, anche nel mondo della produzione, si sia ormai verificato ciò che da tempo accade in posti come l’Università, o la sanità pubblica. Le regole dell’Università non le pensano gli studiosi, ma i manager-burocrati che la governano. Le regole della sanità non le fanno medici e infermieri, ma le fa l’immenso apparato amministrativo che se ne è impossessato.
Credo che nessun artigiano, commerciante o piccolo imprenditore in carne e ossa avrebbe firmato un protocollo come quello concordato dai vertici delle loro associazioni.

Ma torniamo alla riduzione delle tasse. Un’operazione di grossa riduzione fiscale è certamente auspicabile ma rischia di scontrarsi con la realtà dei conti pubblici. Se mettiamo assieme i soldi stanziati dal decreto Cura Italia e da quello Rilancio, vediamo che sono stati già spesi 80 miliardi solo per misure di sostegno sociale. E questo porterà il debito/pil a un rapporto che sfiora il 160%. Non le sembra che le cartucce ce le siamo già sparate tutte?
Su questo ha ragioni da vendere l’ex ministro Tria, che per primo ha sollevato questa preoccupazione, ovvero che largheggiando ora il governo si trovi a stecchetto quest’autunno, quando dovrà varare la finanziaria. Ma il punto cruciale a me sembra più a monte, e riguarda come gestire l’aumento del debito pubblico, che ci sarà comunque, sia che si segua la via iper-assistenziale che piace a questo governo, sia che si imbocchi la via di un taglio immediato e consistente del carico fiscale sui produttori. Quell’aumento del debito risveglierà le autorità europee, e soprattutto risveglierà i mercati. Lo spread tenderà a salire, e noi dovremo trovare un modo di convincere i mercati e le istituzioni sovranazionali a comprare e ricomprare il nostro debito. Ebbene, a quel punto avremo solo due vie.
La prima: anni e anni di austerità vera (non la pseudo-austerità di questi anni, che è esistita solo nella propaganda anti-europea), in una spirale di contrazione della base produttiva → contrazione della base imponibile → tagli alla spesa pubblica → aumenti delle aliquote → imposte patrimoniali di scopo.
La seconda: crescere a un ritmo tale (almeno il 3% all’anno per diversi anni) da rassicurare i mercati sulla sostenibilità del nostro debito. Dico questo anche perché, come fondazione Hume, da anni ci occupiamo delle determinanti dello spread, e una cosa gliela posso dire senza esitazione: nell’equazione dello spread il deficit annuale non entra, mentre hanno un ruolo importante (di contenimento) le prospettive di crescita di un paese. Se cresci, questa mera circostanza calmiera lo spread. Ma bisogna convincersi che crescere molto di più di oggi è la nostra unica possibilità, se non vogliamo beccarci dieci anni di austerità. Chi obietta che non ci sono le “risorse” per alleggerire la pressione fiscale sui produttori dovrebbe rispondere a questa domanda: quanto ci costa, in termini di erosione della base imponibile (e quindi del gettito), il fallimento di migliaia e migliaia di imprese che, con questa pressione fiscale, non riescono a restare sul mercato?

Dunque lei è contrario all’austerità?
Io sono sempre stato a favore di quella che Veronica De Romanis chiama l’austerità buona: mettere a posto i conti pubblici riducendo la spesa corrente e abbassando le tasse sui produttori. Poteva funzionare, e lo avessimo fatto a tempo debito – anziché invocare flessibilità ad ogni pie’ sospinto – ora saremmo messi meno male di come siamo. Ma adesso la situazione è completamente cambiata, ed è paradossale.
Noi rischiamo di essere commissariati dall’Europa, o dal Fondo Monetario, o da qualche altro organismo sovra-nazionale, perché fra pochi mesi apparirà a tutti che lo Stato si sta indebitando troppo, il Pil non dà segni di ripresa, e la base imponibile si assottiglia, aggravando il bilancio pubblico. Ci chiederanno di agire sul numeratore, ovvero sul debito, perché “è nella loro natura”, come recita la fiaba dello scorpione e della rana: la tecnoburocrazia che governa il mondo ha una visione ragionieristica dei conti pubblici. A quel punto il paradosso prenderà forma: l’Italia perderà la sua sovranità perché nel momento più difficile il caso ha voluto che il governo fosse in mano ai sovranisti, o meglio alla variante più anti-crescita del sovranismo, quella dell’assistenzialismo pentastellato.

Ma possiamo evitare tutto ciò?
Probabilmente no, a questo punto, troppo grande è il danno che si è già fatto. Ma se uno spiraglio è dato intravedere, è quello di ribaltare tutto: indebitiamoci, ma facciamolo in modo da salvare le attività che possono farcela, e di rendere profittevole crearne di nuove. Affinché la schumpeteriana “distruzione creatrice”, che ci sarà comunque, sia più creatrice di nuove attività e meno distruttrice di vecchie.

Lei parla anche di semplificazioni e sburocratizzazione. Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti mi sembra siano andati nel verso opposto: più controlli e documenti per evitare corruzione e infiltrazioni criminali. Il Covid farà cambiare idea a una maggioranza il cui partito più grande – M5s – ha nel Dna una carica ultra-legalitaria?
Qui mi sento di attenuare le responsabilità dei Cinque Stelle. Avere i Cinque Stelle al governo si limita a peggiorare la situazione, perché stimola la iper-produzione di norme dannose per l’economia, ma non è il vero problema. Anche ci fosse Einaudi al governo, non ce la farebbe, in pochi mesi, a smontare il cancro burocratico che sta uccidendo l’Italia. Il vero problema è che chiunque provi a semplificare la burocrazia, tende a farlo creando nuove norme, anziché disboscando l’esistente.
Da questo punto di vista il fatto che Conte annunci un “decreto semplificazioni” semplicemente mi terrorizza. Lo smantellamento del mostro burocratico e la riforma della giustizia civile richiederebbero almeno 4 o 5 anni di lavoro anche al più serio e ben intenzionato dei governi. Nel breve periodo, l’unica strada percorribile a me pare quella di prevedere, ovunque sia possibile e ragionevole, norme transitorie che scavalchino e sospendano tutte le altre, come si è fatto con il ponte di Genova, e come si potrebbe fare in molti altri casi.
Non hanno esitato a toglierci le nostre libertà più preziose, possibile che l’unica cosa intoccabile sia la giungla degli adempimenti e delle procedure che stanno strangolando l’Italia?

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 17 maggio 2020

Considerazioni di una lettrice

Buonasera professore.
Ho letto una Sua interessante intervista in cui esprime preoccupazione per il momento attuale. Io come tanti italiani – Lombardi in particolare – ho con mio marito una azienda familiare che esiste (non senza fatica) da 80 anni … tre generazioni, ma di questo passo non credo proprio che arriverà alla quarta.
Ci sotterrano sotto montagne di provvedimenti inutili, tasse, gabelle e altri balzelli che servono solo a mantenere privilegi per una classe politica inefficace.
Ci rendiamo conto che dobbiamo versare in tasse praticamente  i 3/4 di ciò che produciamo?
Di questo passo NESSUNO FARÀ PIÙ IMPRESA.
Diventeremo un popolo di “ mantenuti?”… CERTAMENTE tutti! Loro elargiscono sussidi con i soldi che succhiano ai piccoli imprenditori e artigiani … ma quando noi chiuderemo tutti… come pensano di pagare i sussidi e gli stipendi dei milioni di dipendenti pubblici ed in primo luogo i loro?
Non abbiamo più nemmeno la forza di lamentarci. Questa è la cosa più grave… ci siamo arresi. L’Italia così finirà male.
Saremmo un popolo eccezionale (con qualche furbo, certamente e qualche delinquente che froda il fisco… dovrebbero accanirsi su quelli e non su chi lavora duramente).
Ci vorrebbero più menti come la Sua.

Lettera firmata