L’Italia del dopo voto, intervista a Luca Ricolfi

Doveva nascere la terza repubblica e sembriamo tornati alla prima?

Non direi, nella prima non c’erano tre poli, ma un polo e mezzo (Pentapartito e PCI, con divieto di andare al governo).

Si intravede la possibilità di un governo di transizione con tutti dentro tranne il M5s, che ne pensa?

Che sarebbe un regalo ai Cinque Stelle.

Quali le urgenze da risolvere per questo nuovo esecutivo?

Produttività e occupazione, ovvero tornare a una crescita annua del 2-3%.

Che legge elettorale ci vorrebbe?

Tutto sommato, la meno peggio forse sarebbe una legge a turno unico, in cui la coalizione che prende più voti ottiene almeno il 51% dei seggi. Però qualsiasi legge elettorale, per funzionare bene, dovrebbe abolire il Senato, o quanto meno consentire un riparto dei seggi senatoriali su base nazionale, anziché regionale.

In alte parole: una legge elettorale decente non si può fare se prima non si ritocca la Costituzione. Su questo Renzi ha ragioni da vendere.

Ma quando si vota secondo lei?

Non lo so, ma penso che molto dipenda dal duo Salvini-Di Maio.

Perché l’accordo M5s-centrodestra non ha funzionato?

Perché Di Maio, come buona parte del popolo di sinistra, ritiene che Berlusconi sia radioattivo.

Si è palesato anche un esecutivo M5s-Pd e lei ha detto che si rischiava la secessione?

Non la secessione, che è ovviamente impossibile, ma un ritorno di spinte secessioniste, specie sul piano fiscale. E dato che i ceti produttivi stanno non solo al Nord ma anche nelle cosiddette regioni rosse, dove danno ancora il loro voto al Pd, mi aspetto che la risposta a un governo di “sinistra qualunquista” (quale io considererei un esecutivo Pd-Cinque Stelle) potrebbe vedere in piazza non solo il centro-destra ma anche quella parte del Pd che non vuole veder nascere un governo neo-assistenziale.

Cosa pensa del ritorno di Renzi?

Su Renzi sono ambivalente. Per certi versi continuo a non apprezzare la presunzione, il semplicismo, la mancanza di autocritica, nonché numerose scelte passate, come l’accoglienza indiscriminata, il bonus da 80 euro e le altre mance. Per altri versi, mi pare che, con pochissime eccezioni, il gruppo dirigente del Pd sia di levatura così modesta che persino un leader che, come Renzi, ha evidenti limiti di carattere e di comprensione della realtà, finisce per apparire come un gigante. Al momento, l’unico che mi pare aver qualche chance di risollevare le sorti del partito mi pare Matteo Richetti, su cui però so troppo poco per poter esprimere un’opinione meditata.

Quanto all’eventuale ritorno di Renzi credo sia prematuro. Se tornasse ora, ci sarebbe una mezza rivolta nel partito. Secondo me Renzi può tornare sulla scena solo in due modi: facendo un suo partito, o aspettando che il Pd, divorato dalle lotte intestine, lo richiami come salvatore della patria (un po’ come accadde a Veltroni anni fa, ma il precedente dovrebbe consigliare prudenza).

Il Pd è morto o solo tramortito? Che strada dovrebbe prendere e con chi?

Sicuramente è tramortito, ma molto difficilmente morirà in fretta. Sulla strada da prendere, molto dipende dagli obiettivi. Per conservare il potere, la strada maestra è una alleanza stabile con i Cinque Stelle: potrebbero aspirare al ruolo di “secondo partito della sinistra”.

Per conservare l’identità, invece, dovrebbero rinnovarsi molto, trovando il coraggio di cambiarla questa benedetta identità di sinistra. Per fare questo, però, ci vorrebbe un certo coraggio, perché al giorno d’oggi non è possibile né riproporre i modelli del passato remoto (come fanno i dinosauri di Leu), né i modelli del passato prossimo (la “Terza via” di Tony Blair). Fra il tempo della Terza via e oggi, infatti, ci sono state la Cina, internet, la crisi economica, l’esplosione dei flussi migratori, i progressi dell’automazione. Se non sa fare i conti con queste cose, la sinistra è morta.

E il centrodestra a trazione Salvini come lo vede?

Lo vedo in salute, ma penso che il declino di Forza Italia sia dannoso per il centro-destra. Se Forza Italia si lascia risucchiare dalla Lega, il consenso complessivo al centro-destra incontrerà inevitabilmente un limite connesso al fatto che ci sono ceti e individui che non voterebbero mai Lega, ma sarebbero pronti a sostenere un partito di destra classico, liberale e/o conservatore.

Il problema è che anche Forza Italia è sempre meno adatta a intercettare questo tipo di elettorato. In un certo senso Forza Italia ha il medesimo problema del Pd: se non vuole ridursi all’irrilevanza deve affrontare una lunga stagione di rinnovamento e autocritica.

Le Lega sembra l’unico partito ad affrontare il tema dell’immigrazione, come mai continua questo tabù sia per i problemi di integrazione sia per quelli di criminalità?

Perché tutti i partiti temono di urtare la Chiesa, il Papa, e più in generale il mondo delle persone “di buona volontà”, che sempre insorgono ogniqualvolta dalla rivendicazione dei diritti si passa all’indicazione dei doveri, specie se si osa pretendere che anche gli ultimi, o i presunti ultimi, rispettino le regole.

Analizzando il programma del M5s li trovava statalisti e ora ha detto che Di Maio ha perso voti dando l’impressione di equiparare Lega e Pd e di voler andare al governo a tutti i costi. Non sono loro il futuro della sinistra?

No, i Cinque Stelle sono una formazione qualunquista, che però effettivamente può evolvere in una specie di Podemos o di Syriza, cioè in una sinistra post-moderna, assistenziale e anti-mercato. Vedremo.

Mattarella ha detto che la disoccupazione giovanile è troppo elevata e che al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili. Come inquadra questi problemi ed è sanabile la differenza nord-sud?

Non ci voleva Mattarella a dire quel che risulta da tutte le statistiche.  Quanto al divario Nord-Sud, se non l’abbiamo superato in più di 150 anni, una ragione ci sarà pure. E temo che quella ragione faccia parte delle cose che si possono pensare, ma è meglio non dire in pubblico: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come noi del centro-nord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che la soluzione, l’unica vera e duratura soluzione, sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area con istituzioni proprie, un fisco proprio, una politica economica propria. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il centro-Italia è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centro-Nord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale.

Intervista a cura di Francesco Rigatelli pubblicata su Libero il 07 maggio 2018



Gli elettori 5 stelle e le bufale sulle regionali

Si sono da poco consumate le prime consultazioni elettorali dopo il terremoto delle politiche. In Molise e in Friuli-Venezia Giulia, i verdetti delle elezioni regionali hanno ampiamente rispettato ciò che gli analisti politici più attenti avevano previsto alla vigilia, con in entrambi i casi una vittoria larga (in Friuli) e di misura (in Molise) della coalizione di centro-destra, ormai decisamente a trazione leghista.

Ma i media non hanno perso l’occasione per sprecare titoloni su risultati che, tutto sommato, erano sicuramente preventivabili. L’iniziale strillo da prima pagina, in attesa degli scrutini, riguardava l’ipotetico crollo dell’affluenza: “C’è un vincitore assoluto, l’astensione. Oltre venti punti in meno rispetto alle politiche!”. Una notizia ovviamente falsa, come tutte quelle che riguardano la partecipazione alle amministrative, perché in quel tipo di elezione sono conteggiati come elettori potenziali tutti, anche chi risiede all’estero, mentre alle politiche questi ultimi entrano a far parte dei votanti non considerati nel territorio italiano.

Per cui in Molise, ad esempio, dove hanno votato soltanto 10mila persone in meno rispetto al 4 marzo, il calo reale è limitato a 4 punti percentuali, concentrati nei paesetti e nelle valli. Un po’ poco per gridare alla disaffezione. Un calo più considerevole si è effettivamente registrato in Friuli, ma non certo della portata evidenziata (-26%), bensì di poco più del 16%, la stessa quota di votanti delle scorse regionali del 2013, quando si votava peraltro in due giornate.

Seconda piccola bufala: crollano i 5 stelle, che perdono nettamente la sfida con il centro-destra! Ora, il fatto che abbiano perso è senz’altro vero, ma è altamente opinabile che questo sia da collegare, come molti hanno fatto, con il comportamento ondivago di Di Maio, incerto sull’alleanza di governo tra il centro-destra ed il Partito Democratico, o con un improvviso calo di consensi del movimento. La realtà è che l’elettorato dei 5 stelle è molto particolare, e non può essere equiparato tout-court a quello delle altre forze politiche.

L’elettorato pentastellato modula infatti la propria partecipazione elettorale, nelle diverse occasioni di voto, in riferimento alla loro salienza: più le consultazioni vengono percepite come importanti, decisive dal punto di vista dell’assetto complessivo del paese, più la loro partecipazione tende a crescere; più invece ci troviamo in presenza di consultazioni di secondo livello (come le europee) o di terzo livello (come le amministrative, regionali o comunali), più cresce al contrario la defezione alle urne. Questa sorta di partecipazione intermittente, quanto meno di una parte significativa dei votanti 5 stelle, diviene quindi il tratto distintivo di un elettorato la cui mobilitazione selettiva influisce in maniera determinante sul risultato complessivo.

È parzialmente fuorviante quindi affrontare l’analisi del voto, confrontando tra loro elezioni di diverso ordine, attraverso il classico approccio dell’incremento o del decremento nei valori percentuali di ciascun partito come indicatori del mutamento dei consensi, dell’appeal delle diverse forze politiche in campo. Ciò che funziona (ancora) per i partiti più tradizionali non pare poter essere applicato al Movimento 5 stelle, per il quale è invece determinante –come si è detto- il giudizio di una parte del suo elettorato sull’importanza percepita della consultazione elettorale.

Nel caso della Sicilia, ad esempio, nelle regionali di novembre 2017 il M5s ha ottenuto una quota di voti nettamente inferiore a quella delle successive politiche: a distanza di solo tre mesi, l’incremento dei consensi per i 5 stelle è stato di oltre 400mila voti, con un parallelo incremento del numero dei votanti (+350mila). Una situazione simile, seppur posposta, si registra per le due consultazioni regionali tenutesi meno di due mesi dopo il voto del 4 marzo. In Molise, il M5s perde dalle politiche quasi 13mila voti, con un decremento dei votanti di circa 8mila; in Friuli Venezia Giulia, il M5s perde 110mila voti, ed il decremento complessivo dei votanti si attesta a circa 150mila unità.

Difficile non leggere quei risultati partendo dal ricordato astensionismo selettivo che vede come principale protagonista l’elettore 5 stelle, motivato da stimoli di partecipazione fortemente influenzati non tanto dal clima di opinione prevalente, quanto dall’importanza da loro attribuita alla specifica elezione. Perché, tradizionalmente, le formazioni uscite vincenti da una consultazione elettorale, vivono nei mesi successivi una sorta di “euforia” della vittoria, che porta spesso nuovi adepti sulla scia del cosiddetto “effetto bandwagon”.

Nel caso dei 5 stelle, che pur registra un incremento di appeal nelle dichiarazioni di voto delle indagini demoscopiche, questo non si verifica al contrario nei veri appuntamenti di voto. Il motivo prevalente deve farsi necessariamente risalire a quanto argomentato più sopra: una sorta di disaffezione selettiva alle urne, che non intacca invece gli altri elettorati che, a sostanziale parità del numero dei propri elettori, o soltanto con un lieve incremento, ottengono percentuali nettamente superiori nelle amministrative rispetto alle politiche.

È dunque questo un elemento chiave che caratterizza l’elettorato più vicino ai 5 stelle: si tratta di cittadini che manifestano una elevata fedeltà di voto al proprio referente politico, con ridotti livello di “tradimento” a favore di altre formazioni politiche, ma con una tendenza molto accentuata alla defezione, a disertare cioè le urne nel caso di elezioni reputate non decisive. Come dire: quando decido di andare a votare, scelgo sicuramente i 5 stelle, ma il costo della mia mobilitazione deve valere la posta in gioco, altrimenti preferisco rimanere a casa.




Della stoltezza

Il risultato delle elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia, che segue quello delle Regionali in Molise, è chiarissimo almeno su un punto: il tracollo del Movimento 5 Stelle e l’exploit della Lega.

Con un misero 7% alla lista, e un modesto 12% al candidato, i pentastellati risultano in arretramento sia sulle Regionali del 2013, dove avevano ottenuto il 13.8% alla lista e il 19.2% al candidato, sia sulle elezioni politiche, dove avevano avuto il 24.6% due mesi fa e il 27.2% nel 2013. Quanto alla Lega, con il 35% di voti alla lista e il 57% di voti a Massimiliano Fedriga (candidato di tutto il centro-destra), la sua avanzata è andata ben oltre le più rosee speranze di Salvini: circa 10 punti in più rispetto alle Politiche del 4 marzo, 27 punti in più (dall’8.3% al 35%) rispetto alle Regionali del 2013.

È vero, naturalmente, che i confronti Regionali-Politiche vanno presi con prudenza, come è vero che le regionali del 2013 sono un termine di paragone relativamente lontano, vista la quantità di eventi che sono intervenuti nel frattempo. Però, la prudenza non può arrivare al punto di nascondere l’ampiezza dello scossone che ha sconvolto i rapporti di forza fra partiti. Uno scossone che, in entrambe le regioni, ha lasciato sostanzialmente inalterati i consensi al Pd e ai suoi alleati, ma in compenso ha visto un ingente spostamento di voti dai Cinque Stelle alla Lega.

A che cosa è dovuto questo repentino cambiamento di umore degli elettori?

Qualcuno, nelle ultime ore, ha sostenuto che il Movimento Cinque Stelle abbia pagato lo scotto di non essere riuscito a formare un governo dopo 56 giorni di estenuanti trattative dal giorno del voto. Questa sarebbe una spiegazione ragionevole se i voti fossero tornati al Pd: ma i voti sono andati alla Lega di Salvini. Se davvero il punto fosse la lentezza nella formazione di un governo, perché mai gli elettori avrebbero dovuto punire Di Maio e non Salvini, visto che fino a pochi giorni fa sono stati entrambi a condurre il ballo?

Io penso invece che vi sia una spiegazione molto più semplice: in questa lunga vicenda post-elettorale Luigi Di Maio, forse inebriato dal successo o accecato dai riflettori sotto i quali è vissuto per quasi due mesi, ha dilapidato il capitale di consenso che Grillo gli aveva generosamente conferito. Se fossimo nell’antica Roma, si direbbe che si è comportato con stoltezza, una parola che stranamente è sparita dal lessico, giusto quando il comportamento dei politici la renderebbe estremamente attuale.

In che cosa è consistita la stoltezza del capo del Movimento Cinque Stelle?

Fondamentalmente nel non rendersi conto che, nel momento in cui inaugurava la “politica dei due forni”, facendo intendere che per i Cinque Stelle Lega e Pd pari sono, esponeva il Movimento ad una drammatica emorragia di voti. Tutti sappiamo, da anni, che la provenienza dell’elettorato Cinque Stelle è mista: una parte viene da sinistra e mai vorrebbe un accordo con la Lega, un’altra parte viene da destra, e mai vorrebbe un accordo con il Pd. È quindi perfettamente logico che, nel momento in cui Luigi Di Maio dichiara esplicitamente (prima del 4 marzo non lo aveva mai fatto) di potersi alleare indifferentemente con l’una o con l’altro, l’elettore si metta sulla difensiva quale che sia il proprio orientamento, perché nessuno è contento di rilasciare un assegno in bianco. Chi ha una matrice di sinistra teme un accordo con la Lega, chi ne ha una di destra teme un accordo con il Pd. La fortuna di Matteo Salvini è che si sia votato precisamente nel momento in cui Di Maio minacciava un accordo con il Pd, mostrando di infischiarsene del fatto che la maggior parte degli elettori Cinque Stelle non lo volessero. È verosimile che, se le elezioni regionali si fossero tenute quando Di Maio minacciava un accordo con la Lega, una parte dei voti Cinque Stelle (quelli “di sinistra”) sarebbero tornati al Pd.

A questo errore strategico di fondo, Luigi Di Maio ne ha aggiunti altri, non meno dannosi per i destini elettorali dei Cinque Stelle. Affidando a un pool di esperti la missione di comparare i programmi di Pd e Lega con quello del Movimento Cinque Stelle cercandone le possibili intersezioni (i punti comuni), di fatto ha trasmesso un messaggio assai insidioso: a noi interessa andare al governo, non importa se su un programma “di destra” o su uno “di sinistra”, purché il premier lo faccia io. Il contro-messaggio che il Movimento avrebbe desiderato mandare, ossia “a noi interessano i programmi, non le poltrone”, poteva risultare credibile solo se il suo leader avesse specificato in modo chiaro che cosa, del programma Cinque Stelle, era irrinunciabile con entrambi gli alleati, e soprattutto non avesse fatto intendere che l’unico punto veramente irrinunciabile era la sua ascesa alla presidenza del Consiglio (in barba alla sempre ostentata indifferenza al basso commercio delle “poltrone”). L’esatto contrario di Salvini, che fin dall’inizio ha avuto il buon senso, o se preferite l’astuzia, di non presentarsi come l’unico candidato premier possibile.

Si può pensare che, quella delle ultime elezioni regionali, sia una vicenda marginale e temporanea. Dopotutto l’elettorato ha mostrato di poter capovolgere i propri orientamenti nel giro di pochissimo tempo. La mia sensazione, invece, è che l’errore commesso dai Cinque Stelle sia così grave da essere difficilmente recuperabile. Con un sistema elettorale come quello attuale, l’ambiguità è un’arma a doppio taglio: puoi illudere i tuoi elettori una prima volta, ma è molto difficile illuderli la seconda.

Paradossalmente, la spregiudicatezza delle alleanze di Di Maio potrebbe avere l’effetto di ridare qualche speranza elettorale agli sconfitti, e in particolare al Pd. Una parte degli elettori di sinistra hanno votato Cinque Stelle soprattutto perché temevano il cosiddetto “Renzusconi” (un governo Pd-Forza Italia), e non volevano dare un voto a scatola chiusa, che avrebbe potuto essere usato per fare un’alleanza sgradita. Ora sanno che anche il voto ai Cinque Stelle è a scatola chiusa, e potrebbe benissimo essere usato per far nascere un governo con la Lega. Ecco perché non si può escludere che una parte di essi possa essere tentata di ritirare la fiducia ai Cinque Stelle, e di tornare a votare Pd. Anche perché, a sinistra, a differenza che a destra, di veri partiti ce n’è uno solo.

Pubblicato su Il Messaggero il 01 maggio 2018



Intervista a Luca Ricolfi su Aldo Moro

· Nella fine degli anni ’70 Eric J. Hobsbawn ha individuato il punto di rottura del compromesso tra politica ed economia che aveva retto la cosiddetta età dell’oro dello Stato sociale. Secondo lei, Aldo Moro, e con lui su un versante opposto Enrico Berlinguer, comprese la natura di questo momento di crisi e la sua proposta politica di allargamento dell’area di governo al Pci può dirsi un’ipotesi che nasce per fronteggiarlo?

Se proprio vogliamo periodizzare, preferisco la periodizzazione di Jean Fourastié, l’autore del celebre libro sui “Trenta gloriosi anni” dal 1946 al 1975. Sul piano della storia economica le cesure fondamentali a me paiono da un lato la crisi fiscale dello Stato, denunciata da James O’Connor fin dal 1973, e la grande recessione del 1973-1975 innescata dalla crisi del petrolio e seguita dagli anni della stagflazione.

· Il progetto di Moro – solidarietà nazionale per andare a una democrazia dell’alternanza – sarebbe stato utile al sistema italiano oppure ritiene che lo schema generale delle forze politiche allora già mostrava insufficienze nell’affrontare i temi della modernizzazione?

In realtà non sono poi così sicuro che, a metà degli anni ’70, il progetto di Moro fosse quello di rendere possibile l’alternanza fra Dc e Pci, almeno nel periodo medio-breve. Non sono uno storico, né nutro una particolare passione per la storia di allora, ma per quel che mi risulta non esiste alcun documento scritto o alcun evento pubblico in cui Moro abbia caldeggiato esplicitamente l’alternanza al governo fra Dc e sinistra. L’unica testimonianza è quella di Scalfari, ma mi sono sempre chiesto se non ci fosse stata, nel resoconto di quell’intervista, anche una proiezione dei desideri di Scalfari.

Ad ogni buon conto, ho sempre visto la solidarietà nazionale semplicemente come l’espediente che una politica debole usa quando non ha la forza o il coraggio di fare scelte difficili.  E’ successo allora, ma si è ripetuto nel 2011-2012 con Monti, nel 2013 con Letta, e probabilmente si ripeterà con il “governo di tutti” che si formerà nelle prossime settimane.

·La crisi degli ultimi anni ’70 ebbe anche importanti conseguenze sul piano sociale. Il terrorismo di sinistra ne fu un’espressione o si tratta di un fenomeno di altra natura?

Il terrorismo di sinistra è un fenomeno di altra natura e origine, e infatti precede di molti anni la crisi di fine anni ’70.

·Gli anni ’80 sono da molti considerati come carichi di speranze e aspettative, per qualcuno addirittura il periodo di maggiore interesse della storia recente d’Italia. Non le sembra contraddittoria questa valutazione, in considerazione dei nodi non sciolti degli anni ’70 avuti in eredità?

Proprio così, nella memoria nazionale gli anni ’80 sono un po’ mitizzati, perché si scambia lo spensierato edonismo di allora con una stagione di prosperità. Invece negli anni ’80 avremmo dovuto fare i conti con i problemi che, nel cuore degli anni ’70, erano già chiarissimi alle menti più lucide. Anche se i primi scricchiolii risalgono addirittura al 1963-1964, ai tempi della “congiuntura” e dei primi deficit di bilancio preoccupanti, il sistema Italia entra pienamente in crisi proprio verso la metà degli anni ’70. Sono gli anni in cui Ugo La Malfa pubblica La Caporetto economica (1974), Giorgio Galli e Alessandra Nannei Il capitalismo assistenziale (1976), Franco Reviglio (1977) Spesa pubblica e stagnazione dell’economia italiana (1977). La stagione dell’unità nazionale non servì ad affrontare i problemi, ma servì a Dc e PCI per neutralizzarsi a vicenda, evitando che una delle due forze prendesse nettamente il sopravvento sull’altra. Era questa la vera preoccupazione di Berlinguer, e la radice della politica del “compromesso storico”. Che a sua volta non fa che riprendere la preoccupazione dai padri costituenti, più attenti alle esigenze di limitazione del potere che a quelle della governabilità.

·L’Italia di oggi, dei primi anni Duemila, quanto può dirsi un prodotto delle scelte non compiute – o parzialmente compiute o malamente compiute – tra gli anni ’70 e ’80?

Sì, però non trascurerei le non-scelte, o le scelte sbagliate, dei 30 anni successivi. Gli anni ’80 furono un’occasione mancata, ma non furono l’ultimo treno che il Paese poteva prendere. L’ultimo treno è passato dopo, negli anni della seconda Repubblica. Ora non vedo altri treni all’orizzonte.

 

Intervista (versione integrale) a cura di Generoso Picone su il Mattino



Rivolta anti-establishment e sindacati

Il decennio della crisi si è aperto con il “vaffa day”, l’8 settembre del 2007, giusto un mese dopo lo scoppio della crisi dei mutui subprime. Erano i tempi in cui Stella e Rizzo pubblicavano La casta, forse l’unico libro veramente incisivo dopo la fioritura di pamphlet anti-politici della stagione di Tangentopoli. Il quinquennio della scorsa Legislatura (2013-2018) si è aperto con il fulmineo successo del Movimento Cinque Stelle, l’umiliazione di Bersani nel famoso incontro in streaming, la faticosa nascita del governo Letta, con il sostegno di tutti e l’opposizione del Movimento Cinque Stelle. Un anno dopo Letta veniva spodestato da Renzi, dopo il famoso “stai sereno”, che ha reso per sempre inquietante quell’espressione della lingua italiana.
In quei sette anni, che vanno dal 2007 al 2014, il rapporto fra cittadini e Palazzo è profondamente mutato. Quando Renzi si insedia al potere, al centro del discorso della politica non ci sono né veri programmi, né veri ideali, né veri progetti ma una cosa soltanto, montata e cresciuta nel lungo periodo di incubazione che va dal vaffa day alla defenestrazione del troppo educato Enrico Letta: la furia anti-establishment.
Questo sentimento, sicuramente comprensibile e per molti versi giustificato, da quel momento è stato la stella polare di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Anziché contrastare i grillini mostrando di non meritare il loro disprezzo, le forze politiche tradizionali, Pd in testa, hanno ingaggiato una campagna di delegittimazione contro tutti i poteri e tutte le caste. Al populismo classico, che prendeva di mira l’Europa, le banche, la Confindustria, la magistratura, l’informazione, la cultura, i tecnici, gli esperti, si è unito il populismo di governo a sua volta ostile ai “professoroni”, ai giudici, ai vecchi (“rottamiamo D’Alema”), ai giornalisti, ai sindacati, alle istituzioni politiche (ricordate la campagna contro le auto blu?), agli organi costituzionali (“aboliamo il Senato”).
Il risultato doveva essere la riconquista di milioni di elettori, sedotti da Grillo. E’ stato invece che milioni elettori di destra, di centro e di sinistra hanno ritenuto più credibile la battaglia anti-establishment del Movimento Cinque Stelle. Come si dice in questi casi, i cittadini, posti di fronte alla scelta fra l’originale e la copia, hanno preferito l’originale. Il populismo dall’alto non è riuscito a battere il populismo dal basso.
L’esito finale è stato una generale delegittimazione di tutto ciò che, anche alla lontana, aveva il sapore di establishment, di potere costituito, forte o debole che fosse. Un esito che le recenti elezioni hanno certificato: oggi in Parlamento, se si esclude il manipolo europeista dei radicali di Emma Bonino, la grandi forze politiche non si distinguono fra populiste e anti-populiste, ma fra genuinamente populiste (Lega e Cinque Stelle) e ambiguamente populiste (Pd e Forza Italia).
In tutto questo sconquasso, tuttavia, ci sono piccole e grandi eccezioni. Due piccole eccezioni sono i magistrati e i giornalisti, spesso attaccati dalla politica ma mai veramente rimessi in riga. Una grande, grandissima eccezione sono invece i sindacati. Tradizionalmente attaccati dalle forze di destra, fin dai tempi di Marco Biagi e dei primi tentativi di modificare l’articolo 18, negli ultimi anni sono entrati anche nel mirino dei Cinque Stelle e soprattutto del Pd renziano. Per due volte sfidati, sulla riforma delle pensioni e sull’articolo 18, per due volte sono stati sconfitti, con il varo della riforma Fornero prima, con il Jobs Act poi. E tuttavia, nonostante le battaglie perse, da questo lungo periodo di delegittimazione delle istituzioni e dei corpi intermedi, sembrano uscire tutt’altro che malconci. La grande rivolta contro l’establishment andata in scena negli ultimi 10 anni ha provato a travolgere anche loro, ma non è riuscita a eroderne più di tanto il consenso e il radicamento. Soprattutto, non è riuscita a innescare, nei sindacati, un qualsiasi visibile processo di autotrasformazione. Mentre un po’ tutte le forme di rappresentanza cambiavano (e continuano a cambiare), mentre i partiti tradizionali o evaporavano, o si dematerializzavano, o si riorganizzavano su basi diverse dal passato, i sindacati restavano sostanzialmente quelli di sempre, con le loro forme organizzative, i loro rituali, i loro slogan, le loro uscite pubbliche. Una trattativa con il Governo o la Confindustria, una manifestazione di piazza, uno sciopero, un congresso non sono oggi molto diversi da come si presentavano mezzo secolo fa.
Qualche anno fa si sarebbe potuto supporre che questa incapacità di cambiare, questo restare ancorati a una visione novecentesca della dinamica sociale, questo per molti versi sorprendente “conservatorismo progressista”, avrebbero finito per renderli sempre più marginali. Oggi non più. I limiti dell’azione sindacale sono evidenti, specie nel mondo delle nuove professioni, ma il peso politico dei sindacati è tornato ad essere notevole, probabilmente più alto di qualche anno fa, quando la durezza della crisi sembrava averne fiaccato le energie. Si potrebbe sostenere, anzi, che i due partiti vincitori delle elezioni, Cinque Stelle e Lega, abbiano attirato consensi anche perché hanno fatto proprie le due rivendicazioni fondamentali del mondo sindacale in questi anni: l’abolizione della riforma Fornero e, nel caso dei Cinque Stelle, anche il ripristino dell’articolo 18, ovvero la cancellazione del Jobs Act. Può accadere così che i dipendenti di un comune come Roma, che a suo tempo non avevano esitato a scioperare contro il sindaco Pd Ignazio Marino, si trovino oggi in relativa sintonia con la sindaca Raggi. Ma, soprattutto, può accadere che il tentativo in corso di varare un governo Cinque Stelle-Pd, osteggiato dalla base del Partito Democratico, possa trovare una sponda nel mondo sindacale. Perché è da lì che derivano non pochi dei consensi che i Cinque Stelle hanno conquistato nelle ultime elezioni. Ed è lì che un governo Cinque Stelle può sperare di trovare legittimazione e sostegno.
Dopotutto entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro. Per i Cinque Stelle la sponda sindacale è essenziale per contenere la prevedibile rivolta dei ceti produttivi del Centro-Nord verso un governo destinato a sacrificare la flat tax in nome del reddito di cittadinanza. Per i sindacati la sponda governativa è essenziale per continuare ad avere un ruolo centrale nelle scelte politiche del paese. Sarà forse un matrimonio di interesse, ma in politica i matrimoni di interesse funzionano quasi sempre.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 28 aprile 2018