Sacko: lettera aperta al Dubbio (rivolta anche a Giuliano Ferrara)

Caro Direttore, ho letto con commossa, profonda, adesione il tuo editoriale “Hanno fucilato un negro in Calabria? Beh, che vuoi: sono cose che succedono”. Qualche perplessità solo sull’insistita ironia sulla frase di Matteo Salvini «è finita la pacchia». Il leader leghista non mi è congeniale, non ho mai votato per lui né prevedo di farlo in futuro, ma credo che la pacchia si riferisse agli scafisti e alle organizzazioni che hanno fatto dell’immigrazione un business. Comunque non è questo il punto e non voglio certo fare il difensore d’ufficio (non ne ha bisogno) del ministro dell’Interno, azzannato ormai da tutti i giornali – dell’establishment e non.

Vorrei invece richiamare la tua attenzione su un fatto tanto preoccupante quanto indecente ovvero sul buonismo gratuito e irresponsabile diffuso nel nostro paese – e sicuramente più a sinistra che a destra, più tra i cattolici che tra i vecchi e sopravvissuti laici non laicisti. Siamo il paese dell’accoglienza generosa e disinteressata, della mensa del convento aperta a tutti ma poiché il liberalismo è una pianta che da noi non ha mai allignato ci guardiamo bene dal porci la domanda, fondamentale per un amico della “società aperta”: «chi paga?» (Ricordi il saggio di Milton Friedman, Nessun pasto è gratis?). Da una parte, le dottrine sociali della Chiesa-per definizione diffidenti verso ogni comunità chiusa come, indubbiamente è, e non può non essere, lo Stato nazionale-dall’altra, il diritto cosmopolitico dei maîtres-à-penser alla Luigi Ferrajoli, hanno diffuso un’etica pubblica che demonizza ogni diritto a tutelare il proprio spazio geografico e culturale, a “chiudere le porte” agli altri. Naturalmente fanno eccezione le porte della nostra abitazione: siamo tutti fratelli ma nella casa comune dello Stato, dove a “pagare” non siamo noi ma la “collettività”; a casa nostra entriamo solo noi.

Ai poveri diseredati del continente nero, diciamo, “crescete e moltiplicatevi” e se volete venire da noi, le “ragioni umanitarie” non ci consentiranno di ricacciarvi indietro. Posto ce n’è sempre per tutti: le porcilaie sono ampie e spaziose e tra i rifiuti dell’ “uomo bianco” si trova sempre di che sfamarsi. (Quante volte, sotto casa, non ho visto extracomunitari rovistare nella spazzatura…). Leggerezza, superficialità irresponsabilità sembrano essere divenute le nuove qualità degli Italiani, sempre pronti a indignarsi contro i paesi che regolano i flussi migratori (che fascisti gli Stati Uniti quando limitavano quello proveniente dall’Europa orientale e dall’Italia!) dimenticando che, nel racconto biblico, il buon samaritano soccorreva il derelitto, curandogli le ferite, rifocillandolo, affidandolo a una casa amica.

A noi, per metterci il cuore in pace, basta soltanto non impedire lo sbarco. L’inferno che poi accoglierà le migliaia di profughi che fuggono guerre e fame di loro non ci riguarda.

In un bellissimo articolo sul Foglio, “Il martire Spoumayla Sacko e noi che, dal nostro tinello, ci prendiamo la colpa e lasciamo a quelli come lui la punizione” Giuliano Ferrara ha parlato giustamente di martirio – un termine spesso abusato ma questa volta più che pertinente. Condivido il lutto per l’episodio e vado oltre: perché in un paese in cui i monumenti ai politici rientrano nella logica del pirandelliano Vestire gli ignudi, non si eleva un monumento a Soumaya Sacko come a Jerry Massolo – il sindacalista nero ucciso nel 1989 a Villa Literno e che solo tu hai ricordato? Ferrara, però, chiude il suo articolo con la sua martellante polemica contro le «posizioni populiste di destra e di sinistra» che attribuiscono la tragedia calabrese «all’establishment, al sistema, alle elite». E qui non seguo più né il suo sarcasmo, né il tuo silenzio.

E chi dovremmo incolpare della morte di Sacko se non gli apparati pubblici e i governi di oggi, di ieri e dell’altro ieri? Quando mai hanno inviato ispettori del lavoro, forze dell’ordine, funzionari Asl nei recinti calabresi, siciliani, campani dei nuovi schiavi? Cosa hanno fatto per portare davanti ai tribunali i caporali e i loro datori di lavoro? Retate di polizia e processi e condanne esemplari hanno riempito le cronache nere dei quotidiani? Quando su certi giornali si descrivono le condizioni disumane (un eufemismo!) in cui vivono migliaia di africani, c’è sempre il sottinteso: «guardate a cosa portano la logica del profitto, il mercatismo, l’auri sacra fames?» Ci manca poco se i mali del presente non vengono riportati alla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith e a quel capitalismo selvaggio al quale l’Occidente avrebbe venduto la sua anima.

Ai buonisti antimercatisti bisognerebbe consigliare la lettura di una straordinaria pagina delle Lezioni di politica sociale [1949] di Luigi Einaudi: «coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è».

Nel meridione d’Italia non ci sono né carabinieri, né guardie municipali, né pretori ovvero ci sono ma le loro mani sono legate da camorra, mafia, ndrangheta. E questa «assenza della legge e dell’ordine» a chi si deve se non «all’establishment, al sistema, alle elite» che, assieme ai sindacati – operai e padronali – hanno sgovernato e massacrato il bel paese? Ormai termini come “populismo” e “sovranismo”, come già fascismo, stanno diventando gli spaventapasseri su cui riversare tutto il marcio che ci circonda. È lo stile ideologico italiano che non riusciremo mai a scrollarci di dosso: invece di chiederci se quanti avversiamo e certo non a torto— dai fascisti di ieri ai populisti di oggi– non abbiano, per caso, qualche buona ragione da far valere, preferiamo criminalizzarli, nel peggiore dei casi, ridicolizzarli, nel migliore, ma sempre relegandoli nella matta bestalitade da cui doverci guardare per non esserne contaminati.

ORMAI TERMINI COME “POPULISMO” E “SOVRANISMO”, COME GIÀ FASCISMO, STANNO DIVENTANDO GLI SPAVENTAPASSERI SU CUI RIVERSARE TUTTO IL MARCIO CHE CI CIRCONDA

Articolo pubblicato su Il Dubbio il 06 giugno 2018



Pietà per i nostri carnefici (populisti)

Francesco Damato, nel suo meditato articolo, Giustizialisti l’album di famiglia – Il Dubbio del l° giugno – tesse le lodi di Angelo Panebianco che, nell’editoriale I politici sovranisti non vengono da Marte – Corriere della Sera del 28 maggio – sostiene la tesi che le forze politiche emergenti oggi in Italia sono ostili alla democrazia rappresentativa (liberale) e che il  «diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico-giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato». Damato fa rilevare giustamente che a quel “circo” il Corriere della Sera non ha fatto mancare il suo contributo. Gli autori del libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (2007), Sergio Rizzo e Antonio Stella, facevano parte, infatti, dello staff di Via Solferino e tale circostanza «ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco “Album di famiglia”», con immancabile riferimento all’articolo di Rossana Rossanda, su Il Manifesto, in cui le BR venivano riconosciute come una costola della sinistra.

A me non sono mai piaciuti i giornalisti come Stella e Rizzo «di indiscussa bravura ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro la “casta”» (Damato), e ho sempre pensato che ci fosse “qualcosa di marcio in Danimarca” se il libro-denuncia di Raffaele Costa, L’Italia del privilegi (Mondadori 2002) non ha venduto il milione e duecentomila copie che in soli sette mesi fecero della Casta un best seller. Probabilmente al libro di Costa mancava, del “circo mediatico-giudiziario”, la seconda componente, quella giudiziaria, che fu la carta vincente dei due PM della carta stampata distaccati alla redazione del quotidiano milanese. Detto questo, però, bisogna mettere in guardia della tentazione di ritenere che i citati muckraker (‘rastrellatori di scandali’) abbiano instillato nell’immaginario collettivo l’idea falsa (o quanto meno esagerata) che siamo il paese più corrotto del mondo e che stiamo sprofondando nel baratro della decadenza morale, sociale e politica. Non è affatto vero che, quanto a corruzione politica, il nostro paese sia ai primi posti, ma il problema non è questo. Il problema è che abbiamo una classe politica che, con la complicità dei grandi corpi dello Stato, dei sindacati, della Confindustria (quella più legata alle commesse statali), ha fatto a pezzi il Paese, ha creato una  spaventosa voragine del debito pubblico, che ora ci impedisce di fare la voce grossa in Europa perché non si è mai visto che debitori quasi insolventi mettano in riga i loro creditori, ha minato lo stato di diritto con sentenze a orologeria, che «applicano le leggi agli amici e le interpretano per i nemici», ha distrutto la scuola con le lauree facili e le moltiplicazioni delle sedi universitarie sul territorio, (è stato calcolato che se chiudessero quelle di Imperia e di Savona e la Regione Liguria  ospitasse nei migliori alberghi di Genova gli studenti delle due province, ci sarebbe un risparmio per le casse pubbliche di almeno il 50%), non si vergogna di un sistema carcerario che ricorda il film di Alan Parker Fuga di mezzanotte (1978).

Qualche volta autorevoli opinion maker ci ricordano che abbiamo la classe politica che ci meritiamo e se i governanti lasciano a desiderare i governati non sono certo esempi preclari di virtù civiche. E’ ovvio ma non si dimentichi quanto sapevano bene gli antichi, che «l’esempio viene dall’alto» e, soprattutto, non si perda di vista la differenza fondamentale tra chi fa le leggi e chi le subisce. A distinguere la sfera politica dalle altre dimensioni della convivenza umana è il fatto che la prima emana decisioni vincolanti erga omnes e può farle valere con le sanzioni previste dai codici per i disobbedienti laddove la società civile esercita influenza, ma non potere, sui costumi, sugli atteggiamenti collettivi, sulle mentalità e la comunità religiosa prescrive a quei pochi che ne fanno ancora parte precetti la cui infrazione comporta sanzioni che non sono di questo mondo.

Sì, cari Panebianco e Damato, siamo tutti colpevoli: i nostri Hykson «li abbiamo allevati noi» ma ci sono colpe e colpe: noi uomini della strada abbiamo potuto chiedere favori e raccomandazioni illecite ai nostri politici ma il potere di soddisfare le nostre richieste -con espressione altisonante “l’autorità dello Stato” – ce l’avevano loro, non noi. Una civil society, priva di ogni senso dell’interesse collettivo, può aver ottenuto provvedimenti e leggine volte a favore di questa o quella categoria sociale ma quei provvedimenti e quelle leggine sono state concesse da parlamenti e governi che avevano in una mano la spada e l’altra mano libera, avendo gettato per terra la bilancia del diritto.

Al direttore di un grande quotidiano storico, un tassista napoletano rimbrottato per aver votato il 4 marzo per un partito populista, recplicò «Dottò, ce stanno tre tassì: une saie che t’arrobbane; n’ate vide che fiete e merda; nu tierze, nun saie che cazz’è: agge vutate pe ‘o’ tierze!». Temo che nei prossimi mesi impareremo a nostre spese che cosa ci riservi il terzo taxi, quello del Governo Conte. Per citare Panebianco, mi spaventa, tra l’altro, il proposito di abolire «la prescrizione dei reati» che «neanche ai fascisti era mai venuto in mente» ma dobbiamo essere consapevoli che, se siamo a questo punto, la colpa è soprattutto di chi ci ha governato finora. E di quell’establishment fatto di prestigiosi giuristi, di alti ‘servitori dello Stato’(sic!), di economisti di regime, di maitres-à-penser della carta stampata, di presunti “cavalli di razza” della politica che hanno ferocemente denunciato le crepe del Palazzo ma non hanno mai spiegato che cosa abbiano fatto, loro che ci abitano confortevolmente da anni, per porvi rimedio. La colpa è sempre dell’uomo qualunque, ignorante e irresponsabile, che si lascia abbindolare dai Simon mago di turno? Se questo è populismo, ebbene sì, sono un populista anch’io pur non avendo votato (né penso di votare in futuro) per i gialloverdi.




Per capire il governo evitare le etichette

Che quello che ha giurato ieri sia un governo di destra, anzi il governo “più di destra che l’Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale”, è un’opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra.

Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto “né di destra né di sinistra”, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, “sia di destra sia di sinistra”.

Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all’alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l’ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa. Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto “di destra” ambisce a sterilizzare l’aumento dell’IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza).

E’ il caso di sottolinearlo: un governo “additivo”, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un’uscita più o meno indolore dall’eurozona?

Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile, invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell’indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa.

Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l’iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che – almeno nel breve periodo – a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po’ più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c’è già da disinnescare la bomba a orologeria dell’aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa.

Seconda previsione. I guai cominceranno l’anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della BCE, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il “vero” valore dello spread, un punto su cui – molto opportunamente – ha attirato l’attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l’alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell’anno l’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il “giusto” rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il “vero” spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012.

Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po’ all’angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota.

Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. E’ infatti probabile che, non riuscendo a trovare le “coperture” che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell’Economia a varare una finanziaria “espansiva”, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. E’ a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell’altro. Chi vivrà vedrà.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 03 giugno 2018



Renzi si faccia il suo partito. Intervista a Luca Ricolfi

 Il guaio dello sfumato governo giallo-verde non era Paolo Savona, ministro dell’economia in pectore, ma il duo Salvini-Di Maio. Luca Ricolfi, sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, responsabile scientifico della Fondazione David Hume, non risparmia da critiche neanche il capo dello stato in merito alle trattative condotte per la formazione dell’esecutivo: «Non avrebbe dovuto consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale».

Domanda. Professore, la crisi politica sta approdando a un voto anticipato. Partiamo dall’inizio, dallo strappo che si è consumato tra Lega-M5s e Quirinale: avrebbe mai creduto che il governo giallo-verde saltasse sul nome di Paolo Savona per il ministero dell’Economia?

Risposta. No, io pensavo erroneamente che alla fine una quadra si sarebbe trovata, o con la resa di Mattarella o con la proposta di un altro nome.

D. Che cosa pensa di Savona? Ha avuto modo di conoscerlo?

R. Ne ho grande stima, l’ho incrociato un paio di volte, ma non ci conosciamo personalmente.

D. Il professor Savona aveva ribadito che non avrebbe messo in discussione l’euro. Eppure lo spread era in salita e le preoccupazioni delle istituzioni europee pure. Timori infondati?

R. Sostanzialmente fondati, secondo me. Ho letto per intero il comunicato di Paolo Savona, e non vi ho trovato alcuna esplicita espressione della volontà di fare tutto il possibile per non uscire dall’euro. In compenso conosco le posizioni da lui espresse in passato, non solo sull’esigenza di avere un «piano B» di uscita dall’euro ma anche sul modo di abbattere il debito (con l’allungamento unilaterale delle scadenze, e una complicata operazione di trasferimento ai privati del patrimonio pubblico). Il guaio però non è Savona in sé, ma sono Salvini e Di Maio.

D. Perché?

R. Avessero messo nero su bianco cifre realistiche su come trovare coperture permanenti ai loro faraonici doni all’elettorato, nessun nome di ministro dell’Economia avrebbe spaventato i nostri creditori.

D. Ma l’idea di un «piano B» è sbagliata?

R. No, anzi io la condivido: se vogliamo avere potere negoziale in Europa non possiamo escludere a priori una nostra uscita dalla moneta unica, perché questa posizione ci indebolirebbe e ci renderebbe facilmente ricattabili. Il punto però non è questo

D. E qual è?

R. È che è completamente diverso assumere questa posizione, che io trovo perfettamente ragionevole, in una condizione di forza e, vorrei aggiungere, di legittimità, perché il Paese sta riducendo il rapporto debito/pil, il deficit si avvia ad annullarsi, e vi è un sostanziale rispetto dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio, o invece esprimere (o non respingere) questa posizione in una situazione in cui il rapporto debito/pil non sta scendendo, la vulnerabilità strutturale dei nostri conti è in aumento, ogni anno il nostro Governo mendica flessibilità in cambio di impegni che poi non rispettiamo e, come se non bastasse, siamo sotto attacco da parte dei mercati finanziari.

D. Al presidente della repubblica si rimproverava una eccessiva lentezza per la formazione del governo, ora di aver fatto una scelta troppo politica e interventista.

R. Penso che Mattarella abbia sbagliato, ma non nella mossa finale di rifiutare il nome di Paolo Savona, bensì nel consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale.

D. Quale poteva essere l’alternativa?

R. Se voleva, come è giusto, avere voce in capitolo nella scelta dei ministri, doveva farsi dare una rosa di candidati alla Presidenza del Consiglio, sceglierne uno, e poi condurre il ballo insieme a lui. Aver accettato che la formazione del governo avvenisse entro una sorta di contratto privato fra due partiti, e che la scelta del premier fosse solo l’ultimo passaggio, puramente formale, di un lungo iter negoziale che tagliava fuori la Presidenza della Repubblica non solo è stato un errore, ma è stato, a mio parere, un allontanamento dal dettato costituzionale.

D. Lega e M5s sono passati all’attacco del capo dello stato.

R. È paradossale: Mattarella ha lasciato ai partiti molta più libertà di tutti i suoi predecessori, e ne è stato ripagato con il più scomposto esercizio di prepotenza nei confronti di un capo dello Stato che la storia della Repubblica ricordi.

D. Matteo Salvini per la Lega e Luigi Di Maio per il Movimento5Stelle accusano il Quirinale di aver violato il voto popolare. Stanno così le cose?

R. Indubbiamente la storia si può raccontare così. Ma si può anche raccontare in un modo del tutto diverso, notando il dilettantismo di Salvini e Di Maio: avevano mille modi per cercare, e trovare, un compromesso accettabile, e così far partire il «governo del cambiamento», perché non l’hanno fatto?

D. Già, perché non l’hanno fatto?

R. Per una ragione che spesso si dimentica: che alla Lega (era già così ai tempi di Bossi) fare il pieno di voti interessa molto di più che cambiare il Paese. Tanto più che Salvini al ministero dell’Interno, con ogni probabilità, sarebbe stato un flop. La vera vittima di questa storia è Di Maio, cui andare al governo interessava davvero.

D. Se Mattarella avesse ceduto su Savona, quali sarebbero state le conseguenze?

R. La verità è che tutta questa discussione sull’operato di Mattarella è viziata da un’ignoranza per così dire basica, o insopprimibile, che ognuno di noi dovrebbe umilmente riconoscere: nessuno sa come le cose sarebbero andate se Mattarella avesse ceduto al dictat di Salvini e, su questa base, fosse nato un governo Lega-Cinque Stelle. Non solo, ma nessuno – al momento – sa che cosa potrà succedere nei giorni prossimi, ovvero se il governo Cottarelli riuscirà a placare i bollenti spiriti dei nostri creditori.

D. Quali sarebbero gli opposti scenari?

R. Si può ipotizzare che, con Paolo Savona al timone dell’economia, nel giro di qualche giorno i mercati finanziari si sarebbero calmati, finalmente l’Italia avrebbe affrontato i suoi problemi, grazie alla flat tax la crescita sarebbe ripartita, e Paolo Savona avrebbe ottenuto dall’Europa ciò che i vari Monti e Padoan non erano mai riusciti ad ottenere.

Ma si può anche pensare tutto l’opposto, come pensano, con sospetta coincidenza di analisi e di parole, quasi tutti i progressisti e i rappresentanti dell’establishment, e cioè: che lo spread sarebbe esploso, gli italiani avrebbero visto evaporare i loro risparmi, le banche avrebbero razionato il credito, l’economia sarebbe andata a picco e alla fine avremmo avuto solo due scelte, uscire rovinosamente dall’euro o farci commissariare dalla Troika; e che grazie al governo tecnico a le cose andranno a posto.

D. Mattarella da affossatore a salvatore del Paese…

R. Nel primo caso dovremmo pensare che Mattarella ha impedito la rinascita dell’Italia, nel secondo che ha salvato il Paese da una catastrofe economica e sociale, con un piccolo merito rispetto a Napolitano nel 2011: non aver aspettato di trovarci sulla soglia del burrone prima di agire.

D. Al momento i mercati non festeggiano affatto.

R. Al momento la verità pare stare nel mezzo: a quanto pare infatti i mercati non si fidano dell’Italia chiunque ne sia alla guida. Forse la cosa più saggia sarebbe stata chiedere a Gentiloni e Padoan di riportare il Paese al voto.

D. C’è il rischio che l’Italia diventi la seconda Grecia in Europa?

R. Sì, come dimostra la velocità con cui lo spread si è impennato ieri. Ma la capacità dell’Italia di infliggere un danno irreparabile all’Europa e alla moneta unica è molto maggiore di quella della Grecia: in questo Savona, con la sua teoria del «piano B», aveva ed ha perfettamente ragione.

D. Il primo giugno il Pd, il 2 giungo Lega e M5s vanno in piazza, il primo a sostegno di Mattarella, i secondi contro il Quirinale. C’è il rischio di uno scontro istituzionale? E di una frattura nel paese?

R. Sì, la contrapposizione fra retorica del «voto tradito» e retorica del «salvatore della patria» può essere molto divisiva, perché vedrebbe gli italiani spaccati fra paladini e nemici del capo dello Stato.

D. Carlo Cottarelli, neo incaricato premier, sta facendo un governo che sulla carta non ha chance di avere la fiducia del parlamento. Il voto è dietro l’angolo. Che benefici avrà il paese da un siffatto governo del presidente?

R. Con 3 mesi di tempo, o anche meno, nessun beneficio, suppongo. Sarebbe già un miracolo se Cottarelli ci facesse arrivare al voto con lo spread sotto quota 200.

D. Secondo l’istituto Cattaneo, se M5s e Lega dovessero allearsi per le prossime elezioni, farebbero cappotto nei collegi. Ipotesi secondo lei possibile?

R. È possibilissimo che si alleino, perché i voti fanno gola a entrambi. In quel caso lo scontro sarebbe, per la prima volta in Italia, fra forze della chiusura, Lega e Cinque Stelle uniti, e forze dell’apertura, Pd e Forza Italia divisi.

D. Salvini pare ormai tenere poco a Forza Italia, mentre Berlusconi, pur confermando il sostegno a Mattarella, voterebbe no alla fiducia a Cottarelli per tenere compatta la coalizione. Il centrodestra sta implodendo?

R. L’impressione è che stia implodendo: in questo momento Forza Italia, come il Pd del resto, è una maschera del nulla.

D. Se i sondaggi dovessero avere ragione, Mattarella si ritroverebbe tra un paio di mesi, al massimo in autunno, a dover trattare con una Lega ancora più forte. Che scenario si aprirebbe a quel punto?

R. Spero, e credo, che nessuno degli attori in campo ripeterebbe gli errori commessi in questa fase.

D. Il Pd si presenta alla nuova prova elettorale con un’immagine sbiadita. Il voto così avvicinato può essere un’occasione per uscire dall’angolo in cui è finito il 4 marzo, oppure può segnarne la fine?

R. Penso che il Pd, pur non facendo nulla, tornerà sopra il 20%, perché una parte dell’elettorato di sinistra che ha votato Cinque Stelle si sentirà costretto a tornare a casa. Però potrebbe avere una sorpresa, e scoprire che di case ora ve ne sono due: quella del vecchio Pd, magari ben zavorrato dai dinosauri di LeU, e quella di un nuovo partito centrista-macroniano-europeista fondato dal redivivo Matteo Renzi.

D. Conviene a Renzi farsi il suo partito? Le scissioni finora non hanno portato bene.

R. Sì, Renzi farebbe benissimo a fondare un suo partito, magari non portandosi dietro la Boschi ed evitando il bullismo del passato. Se la sinistra vuole allargare il suo consenso, è meglio che si presenti con due partiti, come è sempre stato, dal 1946 al 2007, piuttosto che con un unico partito né carne né pesce.

D. Ci avviamo a una lunghissima campagna elettorale. Ce la possiamo permettere?

R. Gli italiani sopportano quasi tutto. E restano sempre eguali a se stessi. Il mio timore è, semplicemente, che nulla di sostanziale cambierà.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi del 30 maggio 2018



Il caso Savona: tutti perdenti

Come molti sapranno, nella teoria dei giochi, citata peraltro dallo stesso Paolo Savona, esiste una soluzione chiamata “gioco a somma zero”, la situazione cioè in cui guadagni e perdite sono equamente bilanciati tra i giocatori, dove quindi alla vittoria di un partecipante corrisponde una equivalente sconfitta di un altro partecipante. Bene, nella controversa questione Quirinale-Savona, non si è certo verificata la soluzione a somma zero, poiché alla fine i partecipanti sono tutti risultati perdenti, in maggior o minor misura.

La situazione che si è creata qualche giorno fa è stata invece più simile all’altrettanto famoso “dilemma del prigioniero”, dove un comportamento razionale per ogni individuo genera invece il maggior danno collettivo, per tutti i partecipanti, e dove invece la soluzione migliore è quella della cooperazione, che si ottiene soltanto fidandosi l’uno dell’altro.

Ma si sa che la fiducia reciproca nel nostro paese è ormai diventata, a torto o a ragione, merce rara. Sicché, l’intento di massimizzare i profitti personali, per ciascuno dei soggetti che partecipavano a questa specie di gioco di società, non ha fatto che provocare una sconfitta generalizzata di tutti. Passiamo allora brevemente in rassegna le scelte dei diversi protagonisti e le conseguenze di tali scelte.

Sergio Mattarella. Ha trascorso lunghi giorni a tergiversare, in nome dell’auspicato varo di un governo, concedendo di fatto tutto il tempo che era possibile concedere prima a Di Maio, con la sua logica dei due forni, poi al duo Di Maio-Salvini, che dovevano costruire un programma di governo per sottoporlo al vaglio dei proprio iscritti-elettori, proporre un premier che stilasse una lista di ministri da sottoporre al capo dello stato. Al termine di tutte queste concessioni, decide di non accettare la candidatura di Paolo Savona, con il motivo che questi non era sufficientemente europeista. Come se il ministro dell’economia, da solo, potesse decidere le politiche di un governo che comunque non era certo pervaso da intenzioni molto benevoli nei confronti dell’europa. Con lui o con un altro, sarebbe cambiato realmente qualcosa nell’atteggiamento e nel successivo comportamento dell’esecutivo giallo-verde? Difficile. E quindi, che senso ha rifiutare Savona, per rimandare di fatto il paese alle urne e riproporre, tra qualche mese, la stessa situazione attuale? Mistero.

Luigi Di Maio. La citata politica dei due forni ha scontentato, alternativamente, il suo elettorato più vicino alla destra e quello più vicino alla sinistra. L’idea di voler formare un esecutivo con chicchessia lo ha reso piuttosto vulnerabile, e dipendente dalle scelte di ciascuno dei possibili partner di governo. Prima rifiuta Renzi come possibile interlocutore, poi cerca un’intesa con il Pd, che viene rifiutata dallo stesso Renzi. Cerca un’alleanza con il centro-destra, ma esclude Berlusconi nella possibile trattativa. Infine, sottoscrive un patto con Salvini, che però gli impone Savona, senza possibilità di sostituzione. Blindato. La sua volontà di cimentarsi finalmente con il governo nazionale viene tarpata, nonostante tutti i suoi sforzi. E cosa otterrà? Una possibile riduzione del consenso elettorale, che già si sta manifestando nelle intenzioni di voto di questi giorni, avendo scontentato molti dei suoi precedenti votanti. Quando si tornerà al voto, la distanza tra il M5s e la Lega sarà molto più ridotta dell’attuale, e dovrà subire ancor più, se volesse ritentare un governo con Salvini, i condizionamenti del segretario leghista. E con Di Battista che potrebbe farsi avanti per sostituirlo.

Matteo Salvini. Anch’egli piuttosto ondivago nella sua scelta di andare al governo con o senza il resto del centro-destra. Cerca di convincere Di Maio ad accettare la presenza di Berlusconi, o almeno della Meloni, senza trovare né l’una né l’altra strada. Lo stesso Berlusconi gli concede alla fine il suo beneplacito, rischiando però di affossare la coalizione. Dopo tanti tentativi si trova finalmente in grado di sottoscrivere un patto con Di Maio, per un “governo di cambiamento”. Gli sforzi lo portano quasi in dirittura d’arrivo, ma la sua insistenza sulla persona di Savona, della quale non è chiarissimo il motivo, fa precipitare tutto al punto di partenza. Al voto! Tra tutti, è quello che avrà alla fine il minor svantaggio relativo, visto che alle prossime elezioni avrà un incremento di voti probabilmente prossimo al 10%, a scapito però degli altri partiti del centro-destra, se si presenterà ancora con la coalizione. Ma certo, far nascere un governo in cui diventa protagonista avrebbe avuto un riscontro elettorale sicuramente migliore, se quell’esecutivo avesse funzionato. Non solo a parole.

Gli altri partiti. Pd e Forza Italia, nelle nuove consultazioni elettorali, continueranno forse la crisi che li ha investiti negli ultimi anni, non avendo tempo per ricostruire una proposta politica appetibile per la popolazione. Forza Italia diverrà nettamente subalterna alla Lega, il Pd a se stesso di un tempo.

Il paese. Trascorreremo parecchi mesi sostanzialmente immobili, attendendo nuove elezioni che daranno un risultato pressoché simile a quello del 4 marzo. E in autunno assisteremo di nuovo al tentativo di formare un governo tra Lega e Movimento 5 stelle. Stavolta senza Savona, si spera …