Gli italiani non sono razzisti. Intervista a Luca Ricolfi

Vorrebbero buonsenso nella gestione dell’immigrazione

Gli italiani non sono diventati razzisti. Semplicemente vorrebbero più buonsenso nella gestione dell’immigrazione. Ecco perché «la linea di Salvini è vincente nei consensi». L’analisi è di Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Che spiega: «Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd».Domanda. Secondo un recente sondaggio sette elettori su dieci sono a favore della linea dura del ministro dell’interno e leader leghista, Matteo Salvini, sull’immigrazione e sugli sbarchi. Gli italiani si sono scoperti razzisti e di destra?

“No, gli italiani pensano che non si può continuare a non fare nulla sul problema dell’immigrazione. L’aumento della povertà in Italia è anche dovuto al fatto che non riusciamo a dare un lavoro a tutti quelli che entrano. Di fronte alle continue operazioni di salvataggio, gli italiani hanno la sensazione che i naufraghi ce li andiamo a prendere, per mettere delle stellette sul petto dei salvatori, ma poi non siamo capaci di gestirli. Chi dice che gli italiani sono diventati razzisti non capisce la differenza fra razzismo e buon senso.”

Lei teorizza uno scontro in atto tra utopie, quella cosmopolita e quella comunitaria. Può spiegarsi meglio?

“Credo che solo la sinistra radicale (non parlo di LeU, ovviamente, ma di pensatori come Jean Claude Michéa o Slavoj iek, ad esempio) abbia capito quali sono le vere forze in campo, al di là dei vecchi steccati idelogici. Da una parte ci sono le forze dell’apertura, che vogliono più circolazione di tutto (merci, capitali, informazioni, persone), e sognano un mondo unificato, in cui tutti hanno i medesimi diritti e sono sottoposti a un unico ordine mondiale. Questa è l’utopia cosmopolita, che piace ai capitalisti ma anche al pensiero liberal. Dall’altra ci sono le forze della chiusura, anti-sistema e anti-Europa, che si oppongono alla globalizzazione, e sperano di risuscitare gli stati nazionali, contro le minacce del mondo globalizzato.”

Forze che hanno lo stesso obiettivo, ma sono collocate a due estremi, destra e sinistra.

“Vero, e la cosa interessante è che, in questo momento, in alcuni paesi europei le forze della chiusura, che altrove sono non alleabili, proprio perché vengono percepite come estrema destra ed estrema sinistra, sono riuscite a coagularsi e andare al governo. È successo qualche anno fa con il governo rosso-nero in Grecia, risuccede oggi con il governo giallo-verde in Italia.”

Un terzo di quanti si dicono favorevoli alla linea di Salvini ha votato per il Pd. Come se lo spiega? Siamo davanti a un cambio culturale, sociale della sinistra?

“Sì, ma è un cambio che è iniziato almeno 40 anni fa, come ho cercato di raccontare in Sinistra e popolo, uscito per Longanesi nel 2017. Negli ultimi decenni la sinistra è diventata sempre più l’espressione dei ceti medi istruiti e delle élites che si vergognano della loro condizione, anche quando essa non è il risultato di privilegi ma semplicemente del talento o della buona sorte. L’innamoramento per le virtù del mercato e l’incapacità di capire i rischi della globalizzazione hanno fatto il resto. Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd.”

Questo spiega perché per esempio lavoro e pensioni risuonano più forti nel programma di M5s che non in quello del Pd?

“In termini concreti alla sinistra i diritti civili, compresi quelli dei migranti, interessano molto di più dei diritti sociali. Come aveva previsto Augusto del Noce molti decenni fa (parlando del Partito Comunista), il destino della sinistra italiana è diventare un partito radicale di massa, ovvero pannellizarsi/boninizzarsi sempre più, fino a deporre del tutto quelle che un tempo erano le sue ragioni.”

La linea del governo, ribadita anche dal premier Conte con la Merkel, è che in tema di accoglienza l’Italia vuole la modifica del trattato di Dublino per la quale hanno lavorato anche i governi Renzi e Gentiloni. I modi rudi del nuovo governo serviranno a portare a casa il risultato?

“Non lo so ma non posso che augurarmelo. L’unica cosa certa è che i modi educati dei predecessori di Salvini non hanno portato a nulla, nemmeno alla più volte sventolata redistribuzione dei rifugiati.”

Il leader della Lega ha anche annunciato un censimento dei rom in Italia, salvo poi rettificare dopo il coro di proteste, anche dei pentastellati. L’uscita di Salvini è un errore di percorso o risponde invece a una precisa strategia?

“Non lo so, ma secondo me Salvini fa malissimo a canalizzare l’esasperazione della gente su un’etnia particolare. Questo davvero rischia di alimentare, se non il razzismo, l’ennesima caccia alle streghe. Se fossi al posto di Salvini, prima di prendermela con i rom, farei una bella visita, con i carabinieri e gli ispettori del lavoro, nei campi della raccolta del pomodoro, in cui i migranti sono trattati come schiavi.”

Il problema è la legalità?

“Il vero problema sono i territori, non le etnie. Ci sono interi quartieri, per non dire intere zone del Paese, in cui la legge non esiste, al Nord come al Sud. È a partire da lì che si dovrebbe agire. Il male di questi anni è stato di pensare che, se l’illegalità è mescolata alla povertà, al degrado, all’emarginazione sociale, allora è buona e va tollerata: nelle campagne, negli alloggi popolari, nell’occupazione degli spazi pubblici.”

Il ministero dell’interno potrebbe essere per Salvini il trampolino di lancio per diventare primo partito del centrodestra?

“Se Salvini si impegnerà per ristabilire la legge ovunque sia calpestata, senza guardare in faccia alcuna etnia o alcun clan, avrà il consenso degli italiani. Se invece si accanirà contro specifici gruppi sociali, allora, prima o poi, vedrà evaporare i consensi che ha acquistato in questi mesi. Non capire questo significa credere che gli italiani siano razzisti e xenofobi, mentre sono semplicemente stufi.”

Secondo un sondaggio Swg, la Lega è già il primo partito nazionale, ha superato, seppure di poco, il Movimento5stelle, 29,2 contro il 29%. Come si spiega questo trend a poche settimane dall’insediamento del governo?

“Non credo che il sorpasso della Lega su M5s sia già avvenuto, ma non mi stupirei che avvenisse più avanti. La spiegazione che più mi convince è assai semplice: Salvini è l’unico politico italiano che, insieme a non pochi difetti, tra cui semplicismo e volgarità di linguaggio, possiede due virtù cruciali: la chiarezza e la concretezza.”

Quanto contano nel calo dei consensi del Movimento e nella crescita della Lega le rispettive leadership?

“Molto nel caso di Salvini. Poco nel caso di Luigi Di Maio, che sconta semplicemente il risveglio dell’elettorato di sinistra: votando Cinque Stelle credevano di scegliere una sinistra più idealista e più pura, si stanno accorgendo di aver votato Lega. Come stupirsi se qualcuno si rifugia nell’astensione o medita di tornare alla casa madre?”

M5s e Lega sono forze destinate ad oggi a essere coalizione o a rappresentare il nuovo bipolarismo?

“Bella domanda… Non lo so. E tendo a pensare che non lo sappia nemmeno Salvini: se il governo dovesse andare bene, potrebbe nascere un’alleanza stabile, contro le forze dell’apertura, e dunque Pd e Forza Italia. Se invece andasse male, Salvini potrebbe tornare a guidare il centro-destra e sfidare i Cinque Stelle, accusandoli di aver sabotato il «contratto di governo». In quel caso sarei curioso di sapere che cosa farebbe il Pd, ammesso che non fosse nel frattempo scomparso.”

Già, il Pd. Secondo il sondaggio Swg, il Pd resiste al 18,8, mentre Forza Italia è sotto al 10% . Vede segnali di ricostruzioni per le due opposizioni?

“Per ora vedo solo segnali di suicidio. Forza Italia, o meglio Silvio Berlusconi, pare non aver capito che senza un cambiamento spettacolare, parlo di nuovo nome, nuovo leader, nuovo programma, nuove regole di democrazia interna, non tonerà mai ai fasti del passato. Il Pd, che pure sta recuperando voti grazie ai grillini pentiti, sta facendo di tutto per mettersi fuori gioco. Nessuna analisi coraggiosa degli errori del passato. Nessuna diagnosi seria sui mali del Paese. Nessuna comprensione dei sentimenti e dei pensieri degli italiani.”

Non pensa che l’attuale dirigenza democratica stia ferma in attesa degli errori del governo giallo-verde?

“Basare la propria strategia sulla speranza, o la scommessa, che prima o poi il governo Conte vada a sbattere è una vera sciocchezza. Non perché il governo Conte non possa benissimo andare a sbattere. Ma perché, se ciò dovesse accadere, non saranno certo Matteo Renzi e i suoi a raccoglierne i cocci.”

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi



Verso il tramonto della politica

“C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico” nel linguaggio politico del nostro tempo – sia dei   professionisti del potere sia dei giornalisti e degli intellettuali opinion maker – ed è il ritorno di uno stile comunicativo, caratteristico soprattutto degli stati totalitari o teocratici, che abbatte i confini tra dimensioni dell’umano, che Benedetto Croce teneva distinte: il bello, il vero, l’utile e il buono.

Tra le distinzioni che stanno saltando la più preoccupante è quella tra il criminale e l’egoista. Si riteneva in passato che il criminale fosse colpevole di un reato punito dai codici e che l’egoista peccasse contro la morale e, se credente, contro Dio. Nessuno allora avrebbe portato in tribunale Ebenezer Scrooge, il protagonista del Racconto di Natale di Charles Dickens, ma quanti non avevano il suo cuore di pietra lo evitavano con cura, almeno prima della conversione. Col buonismo imperante, questo non sarebbe più possibile. Se ti rifiuti di soccorrere chi soffre la fame e il freddo, devi venir messo al bando dalla “società civile” e tanto meglio se si riesce a trovare una norma giuridica per farti riflettere al fresco sulla tua malvagità. Si allontanano i secoli in cui un Bernard de Mandeville poteva tessere l’elogio dell’egoismo, appellandosi al principio che se ciascuno pensasse al suo tornaconto, finiremmo per ritrovarci tutti più ricchi. Oggi se il medico-filosofo olandese, autore della Favola delle Api (1714), su licenza del Signore degli Abissi, tornasse sulla terra – come il don Giovanni dell’Occhio del diavolo di Ingmar Berman (1960) – troverebbe ad attenderlo don Lorenzo Milani, anche lui disceso sulla terra, questa volta per decreto dell’Altissimo, col compito di ricacciarlo tra le tenebre.

Intendiamoci, neppure a me piacciono gli egoisti ma mi terrorizza il pensiero che vengano trasformati in delinquenti comuni e che la perdita di stima e considerazione sociale alla quale vanno (giustamente) incontro debba scatenare nuove guerre civili.

Eppure è quanto si sta verificando nei nostri anni con la condanna solenne degli stati che chiudono le frontiere ai “dannati della Terra”, in cerca non di benessere ma di sicurezza. Non ci si chiede se chi prende una decisione senz’altro crudele, sia autorizzato legalmente a prenderla ma si passa subito alla denuncia accorata, alla gogna mediatica, con aggettivi forti (“vomitevole”) che non solo squalificano moralmente un governo ma lo delegittimano agli occhi dell’opinione pubblica europea e internazionale, chiamata a “prendere provvedimenti” nelle sedi nazionali e sovranazionali adatte. Col risultato sicuro di una eticizzazione della politica e del diritto che servirà solo – come nei ricordati regimi totalitari e teocratici – a rimuovere i problemi reali, ad azzerare il confronto tra le diverse strategie sociali, a far ricadere sulle mele marce tutti i disagi e le difficoltà legati all’incontro di “culture” diverse, lontane e spesso conflittuali.  Con gli scellerati, infatti, non si dialoga ma li si smaschera come agenti di Satana.

Nella corruzione del linguaggio, un ruolo decisivo svolge ormai l’accusa di razzismo. Nella sua accezione forte e classica, il termine rinvia alla superiorità dell’uomo bianco sulle altre razze e al dovere di difendersene, ricorrendo anche allo sterminio, alla schiavitù o, nel miglior dei casi, all’apartheid. Definire razzista l’avversario politico, quindi, significa non riconoscergli alcun diritto alla parola e alcuna dignità, farne l’erede dei costruttori dei campi di sterminio nazisti. A chi fa osservare che di razzisti così nel nostro paese non se ne trovano – tranne qualche Obelix leghista o qualche intellettuale postcomunista, come la scrittrice che definì Condoleeza Rice una “scimmietta nera ammaestrata” – si risponde storicisticamente che oggi i razzisti sono costretti ad “attenuare i toni” giacché, se parlassero come i lettori della “Difesa della Razza”, finirebbero a mal partito.

In realtà, al fondo di tutto questo c’è una vasta operazione -soprattutto culturale- intesa a trasformare gli avversari in nemici. Chi non è con me, è contro di me. I campi sportivi in cui due squadre avversarie giocano la loro pacifica partita per stabilire chi debba governare si trasformano in trincee che vedono due eserciti nemici affrontarsi “l’un contro l’altro armati”. Sarà anche vero, come si legge sul Il Foglio di venerdì scorso, che «il discrimine fondamentale della politica italiana (…) oggi corre tra europeisti e sovranisti, pro o contro la strategia dell’integrazione continentale; e destra e sinistra su ciascuno dei due versanti di questo spartiacque, costituiscono solo due declinazioni di questa scelta fondamentale», ma se si presenta tale alternativa come la lotta tra Dio e il Diavolo, siamo al tramonto della politica ovvero alla fine della competizione civile che, in una democrazia reale, è sempre tra due (o più) progetti politici alternativi che riflettono valori e interessi diversi e rispettabili… e paure non tutte prive di fondamento, come ci ha insegnato Luca Ricolfi.

Personalmente sono più dalla parte degli europeisti che dei “sovranisti” ma perché dovrei ignorare quei pochi (o tanti) punti di forza che hanno portato i “barbari” a «svuotare la politica» e a dissanguare elettoralmente i vecchi partiti? Sono propenso a credere che non saranno i gialloverdi ad alleviare i disagi delle vittime della globalizzazione e condivido senz’altro i dubbi sugli “avvocati del popolo”. Non mi si dica, però, che gli elettori italiani sono stati raggirati da una masnada di falsi guaritori: i guaritori saranno pure falsi ma non sono stati loro gli untori che hanno diffuso la peste dell’antipolitica nel nostro paese: ad essa ha provveduto generosamente chi ci ha governato finora.

Articolo inviato a Il Dubbio



​Lettera agli illuminati

​Di che cosa parliamo quando ci dividiamo sull’immigrazione

Oggi a Valencia, porto spagnolo che fronteggia le isole Baleari, dovrebbe attraccare la nave Aquarius, con il suo carico di oltre 600 migranti respinti dai porti italiani per volontà del nostro ministro dell’Interno, il segretario della Lega Matteo Salvini. Giusto ieri la maggior parte dei media hanno riportato i dati di un sondaggio Ipsos che rivela che la maggior parte degli italiani (per l’esattezza il 71% di chi esprime un’opinione) è a favore della linea dura di Salvini, basata sulla chiusura dei porti italiani alle imbarcazioni di soccorso; e, dato forse più interessante, stanno dalla parte di Salvini non solo gli elettori che votano a destra o Cinque Stelle, ma anche circa un terzo degli elettori del Pd.

Personalmente non ne sono stupito affatto: è da anni che invito la sinistra a prendere sul serio le preoccupazioni degli italiani in materia di immigrazione, senza tacciare di razzismo chiunque dissenta dalla linea dell’accoglienza “senza se e senza ma”. Ora però, sull’onda del sondaggio Ipsos, credo siano maturi i tempi per porre la questione in termini più radicali: cari politici progressisti, cari intellettuali impegnati, cari manager illuminati, cari prelati, scrittori, cantanti, professori, conduttori televisivi, giornalisti che ogni giorno vi esercitate in accorati appelli a coltivare il senso di umanità, vi siete mai chiesti perché tanti italiani non la pensano come voi?

Ho l’impressione che, a differenza del passato, non vi sia facile trovare una spiegazione che vi rassicuri. Fino a ieri una spiegazione l’avevate: l’Italia cattiva, xenofoba e razzista, era l’Italia della destra, guidata dal cattivo per antonomasia, l’odiato Cavaliere. Ma oggi? Oggi che la destra si è ridotta a rappresentare poco più di un terzo del paese, mentre gli altri due terzi o guardano a sinistra o guardano al Movimento Cinque Stelle? Oggi che un terzo degli elettori di sinistra sta con quello che per voi è il simbolo stesso del male, anzi della non-umanità?

Piccolo inciso. La copertina dell’Espresso di questa settimana riporta due immagini affiancate, a sinistra quella di un nero (sottinteso: il migrante), a destra quella di Matteo Salvini. Sotto, a caratteri cubitali, la scritta UOMINI E NO, con Uomini sotto il migrante e No (cioè non-uomini) sotto Salvini. Sotto i caratteri cubitali una domanda, rivolta evidentemente a quegli italiani che, di fronte all’alternativa fra Salvini e il migrante fossero ancora un po’ esitanti: “Il cinismo, l’indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l’empatia, l’appello all’unità dei più deboli. Voi da che parte state?”.

Incredibile. “Uomini e no”, per chi fosse troppo giovane per averne memoria, è il titolo di un romanzo di Elio Vittorini uscito nel 1945, che fece discutere già allora, perché la dicotomia si lasciava leggere come contrapposizione fra partigiani-uomini e fascisti-non uomini. Ma usarla oggi che una larga maggioranza degli italiani sta dalla parte del non-uomo Salvini lascia esterrefatti. Dobbiamo pensare che 7 italiani su 10 siano non-uomini?

Forse, anziché usare l’intimidazione morale per squalificare ed umiliare chi non la pensa secondo il pensiero unico progressista, varrebbe la pena sforzarsi di capire perché il dubbio sulle politiche di accoglienza serpeggi persino nell’ultimo avamposto della sinistra, ovvero nell’elettorato del malconcio Pd.

Credo che le ragioni siano tante, ma due prevalgano su tutte le altre. La prima è il sospetto che l’ondata di sbarchi che ha investito le coste italiane fra il 2014 e il 2016 sia, almeno in parte, una conseguenza dei segnali che i nostri governi, ma anche l’Europa nel suo insieme, hanno dato con le vaste operazioni di pattugliamento e salvataggio in mare denominate Mare Nostrum, Frontex, Triton1, Triton2. Non occorre essere esperti di assicurazioni per intuire la logica dell’azzardo morale (moral hazard): tu mi prometti di salvarmi, e io accetto di correre rischi maggiori di quelli che correrei se tu non ti fossi impegnato in questa promessa. Fra gli studiosi, da anni si dibatte su una congettura: il rafforzamento dei dispostivi di salvataggio, incentivando il ricorso a imbarcazioni meno sicure, potrebbe aver aumentato sia il numero delle partenze, sia il numero dei morti in mare. E’ verosimile che, in modi più o meno chiari, congetture del genere si siano fatte strada anche in una parte dell’opinione pubblica, sconcertata dal fatto che tanto spesso a portare i migranti in Italia non siano i soliti pescherecci e i soliti gommoni, ma le navi della nostra Marina militare, della nostra Guardia Costiera, delle numerose Organizzazioni non governative che pattugliano le coste dell’Africa in attesa di raccogliere naufraghi.

Ma c’è anche un’altra ragione che turba l’opinione pubblica. Una ragione senza la quale le operazioni di salvataggio in mare sarebbero guardate con assai maggiore benevolenza, come del resto è nell’indole degli italiani, checché ne pensino quanti preferiscono considerarli non-uomini. Questa ragione è, semplicemente, ciò che la gente vede con i propri occhi dopo gli sbarchi. Vogliamo fare un piccolo ripasso?

Su 100 richiedenti asilo solo 7 hanno diritto allo status di rifugiato (in base alla convenzione di Ginevra). Dei restanti 93, una minoranza ottiene altre forme, più o meno temporanee, di protezione “sussidiaria” o “umanitaria”, ma tutti gli altri, circa il 60% dei richiedenti asilo, entrano in una sorta di terra di nessuno, senza doveri né diritti. Nessun organismo riconosce loro il diritto di stare in Italia, ma nessuno organismo (salvo casi eccezionali), è in grado di fargli rispettare il dovere di lasciare l’Italia. E’ per questo che gli sbarchi creano tanta inquietudine: si sa che la maggior parte di quanti entrano in Italia non ne hanno il diritto, ma si sa altrettanto bene che, una volta entrati, nessuno (nemmeno Salvini) sarà in grado di riportarli indietro.

Qualcuno può stupirsi se, con questo sistema, abbiamo accumulato circa mezzo milione (nessuno conosce la cifra esatta) di stranieri irregolari, che come un fiume carsico riemergono nelle due forme fondamentali del dramma migratorio: come manovalanza della criminalità organizzata (gli stranieri irregolari delinquono circa 30 volte di più degli italiani), e come forza lavoro iper-sfruttata, ai limiti della schiavitù, nelle campagne del Mezzogiorno?

A questo spettacolo, già desolante di per sé, all’opinione pubblica non di rado se ne parano davanti agli occhi altri due, non meno inquietanti: quello dei richiedenti asilo che bighellonano con i loro telefonini in attesa che l’iter burocratico dell’accoglienza faccia il suo corso, e quello degli immigrati, spesso giovani, che chiedono l’elemosina per conto dei loro padroni (un business che a Torino, secondo le forze dell’ordine, è gestito dalla mafia nigeriana).

Il nocciolo del problema migratorio è tutto qui: il sacrosanto diritto di emigrare di chi fugge da guerre e persecuzioni (il 7% degli arrivi), si scontra con la circostanza che, su quel medesimo diritto, altri e ben più numerosi soggetti si appoggiano per esercitare aspirazioni (quella di trasferirsi e lavorare in un paese straniero) che sono appunto aspirazioni, più che legittime aspirazioni, ma non diritti. Accanto al diritto degli individui a fuggire dal loro paese quando la situazione diventa insostenibile, sussiste il diritto degli Stati di proteggere i propri confini e regolare gli ingressi.

Questo è il punto che divide l’opinione pubblica. Una parte di noi ritiene che il diritto degli individui di spostarsi fra gli Stati debba essere sostanzialmente illimitato, e l’accoglienza sia una sorta di imperativo categorico, ciò che separa gli uomini dai non-uomini. Una parte di noi ritiene, invece, che quel diritto abbia dei limiti, e che uno Stato abbia il dovere, oltreché il diritto, di proteggere i propri cittadini. Si può essere per l’utopia cosmopolita o per quella comunitaria, ovviamente. Ma è triste che ci si debba sentire non-uomini se non si aderisce all’utopia giusta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 giugno 2018



I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



Un’opposizione spiazzata

Che Pd e Forza Italia abbiano promesso un’opposizione responsabile, non pregiudiziale, e basata sul merito dei provvedimenti, è senz’altro un fatto positivo. Che quasi tutti i partiti di opposizione (con l’importante eccezione di Fratelli d’Italia) siano fermamente intenzionati a difendere la permanenza dell’Italia in Europa e nell’Eurozona è anch’esso un fatto positivo. Così come è positiva la vigilanza sull’evoluzione dei conti pubblici che da quella scelta procede: molto possiamo permetterci, ma non di far ripiombare l’Italia in una crisi finanziaria, che avrebbe effetti nefasti sui risparmi e sull’occupazione.

Se queste sono le premesse, è arduo non rilevare che il comportamento effettivo dell’opposizione, in Parlamento come sulla stampa amica, sia ben poco coerente con esse. Qui non mi riferisco all’impegno profuso nel mettere alla berlina le gaffe e le goffaggini dei barbari appena entrati nel Palazzo, una pratica che in fondo fa parte della commedia della politica, e a cui i nuovi venuti offrono ogni sorta di pretesto. No, quel che mi colpisce è la sostanza politica dei discorsi dell’opposizione quando si parla di cose serie, ovvero di questioni che possono incidere profondamente sulla vita di tutti: tasse, pensioni, sussidi. Perché quando si arriva al punto, ovvero alle promesse del “contratto” giallo-verde, la critica al neonato esecutivo del professor Conte imbocca, contemporaneamente, due strade divergenti.

La prima strada, detto in estrema sintesi, è l’accusa di mettere a repentaglio i conti pubblici e, per questa via, i risparmi (e il futuro) degli italiani. Poiché il governo si guarda bene dallo spiegare dove prenderà i soldi per mantenere le promesse, si avanza (giustamente, a mio parere) il sospetto che finirà per aumentare il deficit, con conseguente ulteriore aumento del debito pubblico. Un sospetto che sarà difficile dissipare finché il partito di Grillo non ritirerà la proposta di legge 520 (ripresentata poche settimane fa), volta a togliere dalla Costituzione tutte le norme che impongono il pareggio di bilancio nei conti dello Stato.

La seconda strada è quella dello sbugiardamento: una per una, le promesse di Lega e Cinque Stelle vengono passate ai raggi X, mostrando che non verranno mantenute, o saranno abbondantemente annacquate. La legge Fornero non sarà abolita, ma solo ritoccata. Il reddito di cittadinanza non partirà subito, perché prima il governo intende rafforzare i Centri per l’impiego. Quanto alla flat tax, nel 2019 scatterà solo per le imprese, le famiglie dovranno attendere il 2021, quando compileranno la dichiarazione dei redditi per il 2020. Il messaggio è chiaro: attenti, cari elettori di Salvini e Di Maio, perché vi hanno promesso la luna, ma presto vi accorgerete che siete stati ingannati.

Curiosamente, ai politici dell’opposizione pare sfuggire che queste due critiche si elidono a vicenda. E’ piuttosto illogico annunciare la catastrofe dei conti pubblici e, contemporaneamente, accusare il governo di voler drasticamente ridimensionare (o diluire nel tempo) le sue promesse.

Delle due l’una. O stanno per spendere una vagonata di soldi, e allora è vero che mettono a rischio i conti pubblici ma non è vero che stanno tradendo il programma. Oppure stanno facendo retromarcia sulle promesse più costose, ma allora dobbiamo attenuare (non certo cancellare) le nostre preoccupazioni sui conti pubblici. Insomma: un’opposizione non isterica dovrebbe compiacersi dell’auto-smontaggio del contratto di governo, anziché criticare l’esecutivo perché si mostra meno avventato di quanto si supponeva.

Ma c’è di più. Se riuscissimo a mettere più attenzione sulla sostanza di quel che bolle in pentola, forse riusciremmo a cogliere meglio alcune notevoli novità delle politiche che ci attendono. Una prima novità è lo stanziamento di 2 miliardi per le “politiche attive del lavoro”, con il rafforzamento dei finora disastrosi Centri per l’impiego. Si può giudicare come buona o cattiva questa misura (io la trovo pessima) ma non possiamo non notare che è precisamente quel che la sinistra riformista predica da anni, e non è mai riuscita a realizzare, né con Letta, né con Renzi, né con Gentiloni. Una seconda importante novità è l’introduzione di un salario minimo legale, un’altra misura cara alla sinistra, ma mai realizzata, anche per le perplessità dei sindacati, timorosi di veder svuotato il proprio ruolo e il proprio potere.

Il segnale di novità più importante, però, a mio parere è il capovolgimento delle priorità della politica fiscale. Finora sia la destra sia la sinistra hanno sempre privilegiato, per ovvie ragioni di ricerca del consenso, la riduzione delle tasse che gravano sulle famiglie. Vale per Renzi, che nel 2014, di fronte al dilemma fra intervenire sull’Irap (che pesa sui produttori) e intervenire sulle buste paga, sceglie quest’ultima strada, che gli spiana la via del trionfo alle elezioni europee del 2014. Ma vale anche per Berlusconi, che nel 2001, al primo punto del “Contratto con gli italiani”, prevede l’abbattimento delle imposte sulle famiglie (le famose due aliquote al 33 e 23%), ma nulla promette alle imprese.

Ora, se dobbiamo prestar fede alle dichiarazioni di Alberto Bagnai (senatore della Lega) il governo si prepara a capovolgere lo schema: prima (2019) le imprese, poi (2020) le famiglie. Una scelta che, se effettivamente farà scendere subito al 20% l’imposizione complessiva sui redditi delle società, delle imprese individuali, delle partite Iva, segnerà un vero cambiamento di filosofia nella politica fiscale. Un cambiamento che, tradotto in parole semplici, si può enunciare così: anziché distribuire a pioggia pochi spiccioli a tutte (o quasi) le famiglie, proviamo a mettere le imprese in condizione di creare occupazione aggiuntiva, e per questa via aumentare il reddito delle famiglie. Può piacere o non piacere, e soprattutto può funzionare o non funzionare, ma è una novità vera.

Forse, anziché limitarsi a lanciare quotidiani (peraltro sovente fondati) rimproveri verso ogni mossa del governo, alle opposizioni non farebbe male cercare di capire quel che di nuovo bolle in pentola. Se non altro per non restare spiazzate quando il nuovo vedrà effettivamente la luce, e magari si rivelerà un po’ diverso da come lo si era dipinto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 9 giugno 2018