Cosa fu davvero Weimar

La lettura dell’articolo di Francesco Cundari, Corrispondenze da Weimar (‘Il Foglio del 7/8 luglio) -una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter Hett, La morte della democrazia ( The Death of Democracy: Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic, Penguin Books 2018)- ci riporta una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se, per Cundari, Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Forse è il mio impenitente revisionismo a indurmi a ritenere che “autoconsolatorio” sia proprio il modo di spiegare l’ascesa irresistibile del Fuhrer con la cecità dei suoi elettori e con le loro paure indotte ad arte dagli imprenditori del panico. Conta poco che il nocciolo duro del giudizio storico di Hett e del suo entusiasta recensore italiano si differenzi da quello marxista classico per quanto riguarda l’identità del nemico ontologico della democrazia, ieri il capitalismo, oggi il rigetto della globalizzazione. Sostituire alle semplificazioni di un tempo quelle odierne non porta lontano. Dire che il nazismo «fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”» è ancora più privo di senso che definirlo «l’espressione degli interessi degli ambienti più reazionari e più aggressivi della borghesia monopolistica», giacché, nel secondo caso, il diavolo è un soggetto sociale ben determinato, nel primo è una tendenza storica, per lo più indicata con un termine “globalizzazione” il cui significato odierno trasposto nella Germania e nell’Europa di cent’anni fa non rinvia a fatti precisi del passato ma a obiettivi polemici del presente. E infatti non mancano riferimenti a Trump, ai populisti e ai “sovranisti”, né ci viene risparmiato il monito del grillo parlante: stiamo attenti, non siamo diversi dai tedeschi degli anni Venti e Trenta, anche noi abbiamo i nostri imbonitori dediti allo smercio della paura e masse di individui sempre disposti a dare credito alle loro fake news giacché il mondo è vulgo.

Gli apologeti di Weimar possono tirare fuori dai loro bauli magici ogni sorta di demoni però non debbono esagerare nell’alterare i fatti o meglio, nel puntare i riflettori soltanto sulle zone luminose del loro Lost Eden. Mi scuso per la lunga citazione ma mi sembra emblematica del modo di narrare la storia di Hett/Cundari: la Germania di Weimar «aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlar delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein».

Di qui la domanda che già vent’anni fa, dopo essere stati a scuola dai grandi storici revisionisti del Novecento, ci saremmo vergognati a porre: «Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista?». Ormai ce l’hanno spiegato centinaia di saggi, articoli, libri che riempiono intere scaffalature (nella mia modesta biblioteca occupano una parete!) ma, evidentemente, non sono degni di considerazione, forse perché non possono venir usati, in America, contro gli elettori di Trump e, in Italia, contro le orde di Salvini e di Di Maio.

Cundari, però, sa bene che il rifiuto di un mondo razionale non fu solo nazista ma caratterizzò una corrente di pensiero, la rivoluzione conservatrice, i cui aderenti forse non erano ottusi e imbecilli. Non potevano certo dirsi “barbari” Thomas Mann, Oswald Spengler, Othmar Spann, Arthur Moeller van den Bruck, Rainer Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Ernst von Salomon, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, Werner Sombart, per non parlare di uno dei massimi compositori del Novecento, Richard Strauss. Non tutti i conservatori rivoluzionari, è vero, aderirono al nazismo ma se non si riconobbero nelle istituzioni e nel clima di Weimar ci sarà stata pure una ragione.

Forse tutti condivisero il disgusto di Stefan Zweig «Ber­lino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti. Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo e nei bar con le luci abbassate si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uo­mini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia. Nel generale collasso dei valori, una sorta di pazzia parve cogliere proprio quegli strati della classe media che fin a quel momento erano parsi incrollabili nel, loro ordine. Giovani signore andavano van­tandosi con orgoglio delle loro perversioni e per una sedi­cenne essere in odore di verginità sarebbe stato considerato un’ignominia in tutte le scuole di Berlino».

«Non tutto è esagerazione nel racconto di Zweig», commenta Peter Gay, ne La cultura di Weimar (Ed. it. Dedalo, Bari 1978) ma se solo un terzo del racconto di Zweig fosse vero, non si dovrebbe essere più comprensivi nei riguardi dei tedeschi, che vedevano sconvolta la loro “casa in ordine” e crollare quel mondo della Tradizione, nutrito di luteranesimo, di senso del dovere, di spirito di servizio che aveva fatto la loro grandezza e li aveva resi così potenti da sconfiggere due imperi (quello degli Asburgo e quello di Napoleone III) nel giro di cinque anni? Del resto non è un caso che il recente Babylon Berlin del regista Tom Tykwe abbia riscosso un tale successo da sfidare i colossi americani. Come scrive Michela Tamburrino, su La Stampa, «Tutto il fascino ruggente di un periodo storico in passato solo sfiorato; siamo nei folli Anni Venti, a Berlino, capitale cosmopolita nella quale si incontrano gli estremi: lusso e povertà, femministe, omosessuali, nazisti, comunisti, in un’ubriacatura che precede la grande crisi finanziaria e l’inflazione, quando gli echi della Grande guerra non si sono spenti e si intravedono le premesse del disastro a venire». Si comprende che i tedeschi siano rimasti sconvolti da un’opera che non rievoca giorni radiosi ma un incubo senza fine, terminato in una tragedia da crepuscolo degli dei. »

Già prima di Babylon Berlin, però, un grande film, Cabaret di Bob Fosse (1972) ispirato ai racconti berlinesi di Christopher Isherwood, ci aveva mostrato l’ambivalenza di Weimar, la tolleranza, nel cabaret, per l’unione di un uomo e di una grossa scimmia e la scena campestre in cui ragazzi biondi in divisa nazista intonano un inno patriottico che commuove tutti i presenti.

In realtà, il fallimento di Weimar fu dovuto all’incapacità di tenere assieme la Gemeinschaft, la dimensione comunitaria (le tradizioni, lo spirito  nazionale, i “costumi della mente e gli abiti del cuore”, che sono irriducibili e non universalizzabili in quanto appartengono a un popolo particolare e non a un altro) e la Gesellschaft, la dimensione societaria (in cui maturano i diritti universali dell’uomo e del cittadino, le scienze, le grandi creazioni artistiche destinate a diventare “patrimonio  dell’umanità”). I momenti trasgressivi di Weimar non erano modalità dell’umano che chiedevano di essere riconosciute e inserite in un quadro di valori autenticamente pluralistico (come nei paesi anglosassoni) ma pugni nello stomaco della vecchia, putrefatta, società borghese che trovava nei disegni di George Grosz la sua crudele caricatura e nella satira di Bertolt Brecht la sua implacabile Erinni.

Un autentico liberale, come Raymond Aron, in poche righe, nel Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (1957) -Ed. Guida, 2006- aveva detto l’essenziale «Cresciuto all’ombra della monarchia, il parlamento (della Repubblica di Weimar) avrebbe potuto ottenere la sovranità e condividere il prestigio delle istituzioni tradizionali. Promosso di colpo all’onnipotenza, dopo una rivoluzione involontaria, venne schiacciato dal disprezzo di chi si definiva nazionale, dal risentimento delle masse e dall’amarezza frutto di una sconfitta della quale aveva raccolto l’eredità». Senza “il prestigio delle istituzioni tradizionali” una democrazia non dura: Aron tirava in campo la “legittimità politica”, un concetto ormai incomprensibile nell’era dell’imperialismo del diritto e dell’economia.

Articolo inviato a Il Foglio




Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.




Non solo Salvini. Le origini dell’insicurezza

Fra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato.
A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci: in era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura?
Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione.
Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti – bianchi e non bianchi – devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “la mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli USA cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”.
Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi?
La risposta è: assolutamente no. Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede: 100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “la sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture” scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (Per tutti i gusti, Laterza 2011).
La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’ è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti.
E’ il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”?
Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo.
E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco.




Decreto dignità?

Non so se sia vero che nella predisposizione del “decreto dignità” abbia avuto un ruolo significativo la Cgil. Certo l’ipotesi non è inverosimile, vista l’impostazione del decreto nella parte che riguarda il mercato del lavoro. Non entro qui nei dettagli (lo ha già fatto ottimamente ieri (3 luglio ndr) Oscar Giannino su questo giornale), se non per ricordare che il decreto rende la vita più dura alle imprese sia sotto il profilo dei costi sia sotto quello della flessibilità. E infatti il governo è stato sommerso dalle proteste delle associazioni delle imprese, comprese quelle piccole che il partito di Di Maio tanto aveva corteggiato in campagna elettorale.

L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle, recuperando alcune idee della sinistra dura e pura, stia cercando di allargare il proprio consenso verso l’elettorato progressista, sottraendo consensi sia a Leu sia al Pd, i cui elettori non sono tutti entusiasti del Jobs Act. Del resto un certo collateralismo fra una parte del mondo sindacale e i Cinque Stelle non è una novità di oggi, sia a livello locale sia a livello nazionale. Quali che siano le intenzioni dei Cinque Stelle, sta di fatto che il Pd è stato preso in contropiede dall’iniziativa di Di Maio, come si vede bene dalle prime dichiarazioni, che oscillano fra la drammatizzazione (il decreto “farà diminuire l’occupazione ovunque”) e la minimizzazione (il decreto “non cambia niente”, perché “l’impianto del Jobs Act non viene neanche scalfito”).

Come spesso accade, credo che la verità stia nel mezzo. Dire, come ha fatto il capo dei Cinque Stelle, che il decreto dignità è “la Waterloo del precariato” è semplicemente ridicolo. Il precariato in Italia è fatto di circa 6 milioni di posti di lavoro, abbastanza equamente suddivisi fra 3 milioni di regolari (quelli contro cui combatte il “decreto dignità”) e altri 3 milioni in nero (quelli di cui nessuno intende occuparsi). E’ ragionevole pensare che il principale effetto del decreto sarà un aumento della quota in nero del lavoro precario, piuttosto che l’inizio di una serie di trasformazioni di posti a tempo determinato in posti stabili. Quanto alla ventilata diminuzione dell’occupazione, anch’essa mi pare un’esagerazione: la crescita dei posti di lavoro rallenterà un po’, ma se si fermerà sarà per altri motivi, non certo a causa del decreto dignità.

Quel che mi colpisce, tuttavia, non è tanto l’apparente ingenuità della promessa di sconfiggere il precariato, quanto la diagnosi che sembra star dietro le prime mosse del governo in materia economica. L’idea che 3 milioni di posti di lavoro a tempo determinato ma regolari, pari al 17% degli occupati dipendenti, siano un dramma, un’anomalia assoluta, o addirittura la priorità fondamentale in campo economico-sociale, è piuttosto bizzarra. Se si dà un’occhiata alla situazione nell’Unione Europea si vede che non è certo il precariato il nostro problema: la nostra posizione in graduatoria è a centro classifica, facciamo peggio di Germania e Regno Unito, ma meglio di Francia e Spagna, giusto per stare ai quattro grandi paesi con cui di solito si fanno le comparazioni. Il nostro vero problema, semmai, è il numero di posti di lavoro, specie nella componente giovanile: fra i paesi Europei solo la Grecia ha un tasso di occupazione totale più basso del nostro.

Ma c’è anche un altro aspetto che lascia perplessi nella filosofia del decreto dignità. Il pugno duro contro i contratti a termine pare ignorare un aspetto cruciale del funzionamento del mercato del lavoro in Italia, ovvero il fatto che la percentuale di posti di lavoro regolari ma a termine (oggi vicina al 17%) si muove in sincronia con il ciclo economico: quando l’economia tira aumenta il peso dei contratti temporanei, quando l’economia va male aumenta il peso dei contratti stabili. Un aumento del tasso di occupazione a termine può non piacerci, ma è anche il segno di un’economia che cresce, mentre un aumento del tasso di occupazione stabile può rallegrarci, ma è anche il segno che il ciclo economico sta perdendo colpi: nella grande recessione del 2008-2009 il tasso di occupazione precaria era in diminuzione, ma non era certo una buona notizia. Da questo punto di vista l’attuale impetuoso aumento del numero di posti di lavoro a termine andrebbe, quantomeno, guardato come una moneta a due facce, negativa sul versante delle tutele, ma positiva su quello dei livelli occupazionali.

Tornando al punto centrale, ovvero gli effetti prevedibili del decreto dignità, credo che essi saranno essenzialmente tre. Il primo, ovvio per chi guarda il mercato del lavoro senza lenti ideologiche, è di rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Il secondo effetto è di convincere le autorità Europee che l’Italia è entrata in un’era di contro-riforme, e quindi non merita ulteriori concessioni sul versante della flessibilità di bilancio (da questo punto di vista enfatizzare l’entità della retromarcia sul Jobs Act è semplicemente autolesionistico).

Il terzo effetto è più sottile, ma non meno importante. Se questo decreto indica la strada che si intende percorrere anche in futuro, dobbiamo aspettarci che il mito del reddito di cittadinanza finisca per rivelarsi una sorta di profezia che si autorealizza. A forza di misure che, in nome dei diritti dei lavoratori, mettono sabbia negli ingranaggi dell’economia, la formazione di posti di lavoro potrebbe prima rallentare e poi diventare negativa, e così convincere gli elettori che l’unica strada sia il reddito di cittadinanza: in un paese in cui il lavoro non c’è, non resta che dare un reddito a tutti, che lavorino o no.

Ecco perché ci andrei piano, con l’espressione “decreto dignità”: in Italia c’è ancora moltissima gente che un reddito preferirebbe guadagnarselo, piuttosto che ricevere un sussidio grazie alla benevolenza del Principe.




Le parole e le cose

Sigmund Freud, padre della psicanalisi, sosteneva che le parole, in quanto suscitano effetti, sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Credo non siano molti i politici ad aver letto Freud, specie fra le nuove generazioni finalmente libere dalla zavorra della cultura, ma in compenso si comportano tutti quanti come se lo avessero letto. È questa la ragione fondamentale per cui le parole, nel discorso pubblico, sono usate in modo sistematicamente improprio. Lo scopo non è aiutarci a capire, ma guidare i nostri sentimenti e le nostre percezioni, per poter pilotare i nostri comportamenti. È questa la ragione fondamentale per cui la politica è inflazionata di due particolari figure retoriche, l’iperbole e l’eufemismo. La funzione della prima è drammatizzare, quella della seconda sdrammatizzare.

L’eufemismo, ad esempio, domina il campo della politica economica, specie quando si tratta di chiedere sacrifici ai cittadini. I tagli a pensioni, stipendi, servizi pubblici, vengono quasi sempre definiti con termini neutri, spesso incomprensibili: razionalizzare la spesa, consolidare il debito, rimodulare le imposte.

Alle volte la ridenominazione assume aspetti curiosi, al limite della comicità: ricordo che molti anni fa, a chi chiedeva a Bertinotti come poteva digerire che nel programma dell’Ulivo ci fossero le liberalizzazioni, venne risposto: ma che problema c’è? basta chiamarle “lotta ai monopoli”. Altre volte, invece, la ridenominazione assume tratti aberranti (e anche un po’ odiosi), come quando pensioni di 4 mila euro vengono qualificate come “pensioni d’oro”. Una sorta di eufemismo al contrario, che anziché cercare un termine per mascherare qualcosa di brutto (i tagli di spesa), cerca un termine per dipingere come brutto qualcosa di normale (le pensioni alte).

L’iperbole, non assente nei discorsi sulla politica economica (ricordate i tagli di spesa denominati “macelleria sociale”?), domina invece i discorsi sui migranti e sulla sicurezza. Può accadere così che la destra presenti come una “invasione” l’afflusso disordinato di migranti sulle nostre coste, e che da sinistra, per meglio far capire che orribile persona sia Salvini, lo si associ al criminale nazista Adolf Eichmann (copyright Furio Colombo).

Ma l’uso fuori luogo delle parole non è un’esclusiva della politica. Giornalisti e conduttori, ad esempio, non resistono mai, di fronte a un fenomeno che secondo loro sta aumentando molto, alla tentazione di parlare di crescita “esponenziale”, mostrando di ignorare che cosa l’aggettivo significhi (una crescita è “esponenziale” se avviene ad un tasso composto costante, e può quindi benissimo essere lentissima, come quella di un conto corrente che dà un interesse dello 0.1% all’anno).

Studiosi, professori universitari, autorità accademiche non sono da meno. Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni è l’abuso delle parole “violenza” e “violento”, con la conseguente perdita della distinzione fra aggressioni fisiche e aggressioni verbali, e persino della distinzione fra comportamenti intenzionali e non intenzionali. Accade così che, persino nelle statistiche, la categoria delle violenze sessuali si estenda progressivamente a coprire qualsiasi approccio non gradito o fastidioso, specie se la vittima è donna. La psicologa americana Jean Twenge, autrice di un bellissimo studio sulla generazione Internet (Iperconnessi, Einaudi 2018), racconta con preoccupazione che il concetto di “aggressione” si sia esteso fino al punto di includere, sotto la categoria delle “micro-aggressioni”, qualsiasi comportamento che possa offendere la sensibilità di qualcuno, anche involontariamente (come se dentro la parola “aggredire” non fosse implicita la volontarietà). Può accadere così che un professore perda la cattedra perché i suoi studenti dichiarano di essersi sentiti offesi dai materiali di studio proposti, anche se gli autori di quei materiali erano Mark Twain o Edward Said.

Mi si potrebbe obiettare, naturalmente: “è il linguaggio, bellezza!”. Dopotutto la capacità di evolvere, e di adattarsi a situazioni sempre nuove e diverse, è uno dei pregi fondamentali del linguaggio naturale. È vero, ma ci sono usi appropriati della flessibilità, e ci sono usi fuorvianti, distorsivi, manipolatori.

L’uso sconsiderato delle parole può avere due effetti negativi. Il primo è di fornirci descrizioni errate, spesso antitetiche, della situazione in cui ci troviamo, quando invece quello che serve, quali che siano le nostre idee e i nostri propositi, è innanzitutto una descrizione accurata della situazione com’è. Questa è una differenza cruciale fra le licenze della letteratura e quelle della politica, specie nel ricorso alle metafore. Se un romanziere scrive “il cuore di Pamela sanguinava”, di norma sei in grado di capire se Pamela usciva da uno scontro a fuoco, o se era stata mollata dal fidanzato. Ma se un politico dice “c’è un’invasione dall’Africa”, può esserci qualcuno che la prende come una descrizione sostanzialmente esatta della situazione. Simmetricamente, se un giornalista dice che Salvini è come Eichmann, ossia come un nazista, qualcuno può essere indotto a pensare che dobbiamo reagire come al pericolo nazista. E non sto riferendomi all’eventualità, fortunatamente remotissima, che un neo-partigiano si senta in dovere di organizzare un attentato a Salvini, ma all’eventualità che la lotta politica in Italia precipiti in un baratro di incomprensioni e sopraffazioni reciproche.

Ma forse l’effetto più negativo dell’uso sconsiderato delle parole è ancora un altro, assai più sottile: la banalizzazione delle tragedie. Riservare il medesimo termine, violenza sessuale, a uno stupro e a un complimento sgradito, è profondamente offensivo per le vere vittime, le donne che hanno vissuto la tragedia della violenza sessuale. Così, etichettare come nazista la proposta di censire i rom, è anche un’offesa alla memoria dei rom eliminati da Hitler nelle camere a gas.

Voglio dire che, portata al di là di ogni ragionevolezza, l’equiparazione di fenomeni di natura e gravità del tutto diverse, non solo offende la verità, ma offende le vere vittime. Perché la lodevole intenzione di stigmatizzare anche i peccati veniali finisce per attutire la distinzione fra peccati veniali e peccati mortali. Il linguaggio funziona anche così: a forza di ampliare il territorio di una parola, finiamo per far cadere ogni confine. A forza di dire che anche un insulto è violenza, rischiamo di trattare le vere violenze come semplici insulti. Come fece Pietro Maso che, dopo aver massacrato i genitori per appropriarsi dell’eredità, ebbe a definire il suo gesto “una cazzata”, come se una categoria unica potesse includere bravate e crimini.

Ecco perché il linguaggio conta, e abusarne è pericoloso. Nominando le cose con le parole sbagliate, quel che rischiamo non è solo di non capire la realtà, ma di smarrire la capacità di giudicarla.