Vecchi e nuovi governanti, intervista a Luca Ricolfi

  • Professore, oggi lei quanto scommetterebbe sulla tenuta del governo Lega-Movimento 5 stelle?

Non farei alcuna scommessa. È come se lei lanciasse in aria una moneta e mi chiedesse se prevedo che venga testa o venga croce…

  • Le differenze programmatiche tra i due partiti di governo si stanno già evidenziando con forza sul tema pensioni: ma non crede esploderanno in settembre, con il Documento di economia e finanza?

Temo che a settembre ad esplodere non siano le differenze fra Lega e Cinque Stelle, ma fra il governo italiano e la Commissione europea. E, ancora di più, fra le credenze economiche del governo giallo-verde e le percezioni dei mercati finanziari.

  • Certo, i guai più grossi, al momento, li vive il centrodestra. Lei crede possa sopravvivere l’alleanza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia?

No, penso che l’eventualità più probabile sia un’annessione di Fratelli d’Italia al campo della destra anti-europea, con conseguente isolamento di Forza Italia.

  • La nomina del presidente della Rai si è trasformata in un contrasto tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Alla ripresa, in settembre, potrebbe essere quello il casus belli finale?

Sarebbe bellissimo se i contrasti riguardassero cosucce come la Rai, o gli interessi economici di Berlusconi. Ma la realtà è che ci sono cose ben più importanti a dividere Lega e Forza Italia, prima fra tutte la politica verso Bruxelles.

  • Alcuni esponenti azzurri iniziano a parlare, testualmente, di «tradimento» da parte della Lega. Prevede un’intensificazione delle ostilità? Dove potrebbero scatenarsi?

Forza Italia è nell’angolo. Non ha il coraggio di allearsi con il Pd, perché sarebbe un suicidio. Non ha la forza di vincolare Salvini al programma del centro-destra, perché Salvini guida il primo partito italiano ed è affetto da una sensazione, non del tutto ingiustificata, di onnipotenza personale. Credo che Forza Italia non farà nulla, perché non ha alcuna freccia al suo arco.

  • Lei ha detto che «la linea di Salvini è vincente nei consensi» e che gli italiani non sono diventati razzisti, ma «vorrebbero più buonsenso sull’immigrazione». È stata l’immigrazione il cavallo vincente della Lega su Forza Italia?

In parte sì, ma in parte no. Il vero cavallo vincente di Salvini è stato l’approccio concreto ai problemi, l’uso di messaggi semplici e comprensibili, oltreché ripetuti senza limiti. Quando parla Salvini, la gente ha la sensazione (spesso fallace, ma tant’è) che “lui” i problemi sappia risolverli e abbia ogni intenzione di prenderli per le corna.  Berlusconi e i suoi, in particolare Tajani, usano un linguaggio esangue ed esausto, assai simile al politichese della sinistra.

  •  Una rottura tra Lega e Forza Italia potrebbe far cadere qualche giunta regionale dove oggi sono alleate?

Non credo che Forza Italia abbia voglia di perdere le ultime roccaforti di potere che le restano.

  •  La Lega, intanto, ha annunciato che in autunno correrà da sola alle elezioni in Abruzzo: crede prevarrà anche lì su Forza Italia, come negli ultimi voti locali?

Sì, penso che a destra come a sinistra la gente si è stufata di votare partiti troppo piccoli, e quindi impotenti.

  •  Quante speranze ha Berlusconi di recuperare consensi alle europee del maggio 2019, nel caso fosse candidato?

Pochissime, a mio parere. Una delle ragioni della estinzione di Forza Italia è proprio la cecità di Berlusconi, che non è stato capace di cogliere il passaggio dalla stagione in cui era un valore aggiunto a quella in cui è un valore sottratto.

  • Quella di Antonio Tajani come successore è stata una buona scelta?

Pessima direi. Tajani, anche fisicamente, è il perfetto emblema della burocrazia europea.

  •  Ma esiste a suo avviso un qualche percorso che possa fare recuperare terreno a Forza Italia? Oppure la sua crisi è irreparabile?

È  da qualche anno che sostengo che, per salvarsi, Forza Italia dovrebbe, come minimo – ossia come condizione preliminare – cambiare nome e gruppo dirigente. E poi ci vorrebbe qualche idea nuova e comprensibile: non è solo la sinistra che è a corto di idee, e senza idee non si può resuscitare un partito.

  • Anche il Pd è in crisi: dovrebbe sciogliersi per dare vita a un nuovo partito di centrosinistra?

I casi di autoscioglimento di un partito sono molto rari, finché il partito riesce a raccogliere voti e a gestire il potere che – non dobbiamo mai dimenticarlo – non è solo nazionale ma anche locale e territoriale. Tuttavia una “Rifondazione democratica” non si può escludere, come estremo tentativo di salvare la pelle.

  • In quel caso, chi potrebbe esserne il leader?

Apparentemente il federatore naturale di tutto ciò che sa ancora di sinistra è Nicola Zingaretti. Ma un Pd ricostruito a partire da una figura come la sua sarebbe una sorta di “Ulivo senza Prodi” o, se preferite, una ri-bersanizzazione del medesimo partito che Renzi aveva prima rigenerato e poi distrutto. Un po’ troppo per un organismo già provato da anni di cure sbagliate.

  • Vede altre soluzioni?

Non ne vedo molte, più che altro per ragioni culturali. Se si compara il livello dei dirigenti del passato con quello dei quarantenni e cinquantenni attuali non si può che essere colti da sconforto. Per costruire un partito non populista ci vogliono idee, visione, conoscenze approfondite, oltreché un certo carisma. Io non vedo alcun leader dotato di carisma e, quanto alle idee, ne trovo tracce in pochissimi dirigenti del Pd attuale.

  • In chi, ad esempio?

A sinistra in Gianni Cuperlo, forse l’unico vero intellettuale del Pd. A destra (della sinistra) in Minniti e Calenda, due persone che – a differenza della maggior parte dei loro compagni di partito – sanno sempre di che cosa stanno parlando.

  • Alla fine si realizzerà il nuovo «bipartitismo imperfetto» italiano, con la Lega che ingloberà il resto del centrodestra e il M5s che assorbirà quanto resta del Pd e della sinistra?

È  possibile, ma non è l’unico scenario verosimile. Io ne immagino almeno altri due.

  • Quali?

Il primo scenario è quello della discesa in campo di un imprenditore della politica (Urbano Cairo?) che, come Berlusconi nel 1994 e Macron nel 2016, fondasse un nuovo partito, che andrebbe a occupare il centro del sistema politico. Questa eventualità attiverebbe una dinamica fra forze della chiusura, tendenzialmente populiste, nazionaliste, stataliste, e forze dell’apertura, tendenzialmente moderate, europeiste, liberali. In un simile scenario lo scontro politico vedrebbe da una parte Lega e Cinque Stelle, dall’altra il neopartito di centro supportato da quel che resterà di Pd e Forza Italia.

  • E il secondo scenario?

Il secondo scenario, che considero improbabile ma non impossibile, è che l’imprudenza di questo governo in materia di conti pubblici precipiti l’Italia in una crisi tipo quella del 2011, con conseguenze economico-sociali devastanti (una nuova recessione se va bene, uscita dall’euro e iper-inflazione se va male). In questo caso non si può escludere che Lega e Cinque Stelle subiscano un grave ridimensionamento elettorale, e il sistema torni a un’alternanza più o meno tradizionale fra destra e sinistra. Con un’importante differenza rispetto al passato: nella nuova situazione destra e sinistra non si confronterebbero sulle ricette per creare più prosperità, ma su quelle per ritrovarne un po’, sulle macerie di un paese andato in default.

Intervista a cura di Maurizio Tortorella pubblicata su La Verità lunedì 20 agosto 2018

 




Ponte Morandi, le domande che non ci facciamo

Mentre non è ancora finito il tragico conto delle vittime del disastro di Genova, mentre diverse famiglie ancora si chiedono angosciate se i propri cari siano fra i dispersi, seppelliti sotto tonnellate di cemento, i responsabili diretti e indiretti, prossimi e remoti, di questa ennesima catastrofe italiana stanno dando uno dei peggiori spettacoli cui io abbia mai assistito.

Dicendo questo non mi riferisco tanto all’incredibile ritardo con cui la società Atlantia-Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton (che ne ha il controllo indiretto) hanno trovato modo di esprimere cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime, quanto alla girandola di dichiarazioni strumentali, talora palesemente false o spudoratamente fuorvianti, con cui politici di governo e di opposizione (ma sarebbe più esatto dire: governanti di oggi e di ieri) hanno provato a trarre profitto elettorale, o a limitare possibili perdite di consenso, dal disastro del ponte Morandi.

Eppure, di fronte a quel che è successo, dovrebbe essere abbastanza chiaro che sono molti, e non uno solo, i soggetti che potrebbero farsi qualche domanda.  Certo, se come è molto probabile l’inchiesta dimostrerà che non è stato né un sabotaggio né un evento incontrollabile a provocare il disfacimento del ponte, sul banco degli accusati non potrà non salire la società privata Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha in concessione la gestione di buona parte delle autostrade italiane. La concessione prevede senza ambiguità che la responsabilità della manutenzione e della sicurezza è in capo alla concessionaria, né vi possono essere dubbi sul fatto che il ponte Morandi richiedesse ulteriori interventi (che infatti erano già stati pianificati, salvo poi rimandarli a dopo l’estate).

Fin qui tutto relativamente chiaro. Ma non è tutto. L’attuale ministro alle infrastrutture Danilo Toninelli ha dichiarato che il Ministero da lui presieduto potrebbe costituirsi parte civile nel giudizio contro Autostrade per l’Italia, il che – in concreto – significa pretendere un risarcimento in quanto parte danneggiata. Peccato che la situazione sia leggermente diversa: è vero che la società Autostrade per l’Italia ha la piena responsabilità della sicurezza, ma dal 1° ottobre 2012 è al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) che spetta la vigilanza sulle concessionarie, che prima era in capo all’ANAS. E infatti presso il ministero presieduto da Toninelli esiste una specifica “Direzione generale per la Vigilanza sulle Concessioni autostradali” (DGVCA), fra i cui compiti vi è precisamente la “verifica del rispetto dei parametri tecnici di qualità e sicurezza” da parte delle società private che gestiscono le autostrade.

Non saprei dire (non sono un giurista) se qualche vittima potrebbe costituirsi parte civile contro il Ministero delle infrastrutture, o accusare il Ministro di “omesso controllo”, ma non mi sembra possano esservi dubbi sul fatto che, su un piano politico e morale, oltre alla responsabilità della società concessionaria, vi sia anche una responsabilità da parte del concedente e cioè del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Certo, al neo-arrivato ministro Toninelli non si può imputare di non aver vigilato, ma semmai di non avere ancora capito di quante cose è tenuto ad occuparsi il suo ministero, e forse ancor più di non possedere l’umiltà di chi sta imparando un mestiere difficile. Qualche domanda potrebbero invece farsela i ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti (Del Rio, Lupi, Passera) che sono venuti prima di Toninelli, sotto i governi Gentiloni, Renzi, Letta, Monti, e cioè nel periodo in cui la vigilanza sulle concessionarie autostradali era passata dall’ANAS al MIT. Il ministro Del Rio ha dichiarato che, sulla tragedia del Ponte Morandi, “non ci dorme la notte”, e di “non aver mai ricevuto segnalazioni di alcun tipo”, senza farsi la domanda cruciale: ma il mio ministero ha vigilato abbastanza? Una domanda che, forse, i numerosi crolli, sprofondamenti, cedimenti di ponti e viadotti avvenuti degli ultimi anni avrebbero potuto suggerirgli.

Con questo non voglio certo dire che, sul banco degli accusati, dovremmo chiamare, oltre ad Atlantia (che ha la piena responsabilità della sicurezza, ed è giusto che paghi se ha sbagliato), tutti i ministri e presidenti del consiglio che hanno indirizzato la politica delle infrastrutture negli ultimi decenni. Quel che mi colpisce è quanto poco i politici (ma anche noi stessi, come cittadini) siano disposti a interrogarsi sulle proprie responsabilità, certo non penali, non dirette, non immediate, ma pur non del tutto insussistenti.

Penso a tante omissioni, a tanti sviamenti, a tante domande che potremmo farci e non ci facciamo. I Cinque Stelle, ad esempio, sono penosamente impegnati a nascondere il fatto di essere stati vicini (per usare un eufemismo) al movimento No-Gronda, fieramente avverso a chi il problema del ponte Morandi lo aveva posto, e aveva suggerito un alleggerimento mediante una nuova arteria di scorrimento. Salvini non si vergogna ad imputare all’eccesso di regole, vincoli e parametri imposti dall’Europa lo stato deplorevole delle infrastrutture in Italia, come se non fossero state italianissime (e politiche) le scelte che in questi anni hanno prima portato ad aggredire il debito pubblico vendendo i “gioielli di famiglia” (fra cui le reti stradali e di telecomunicazione) anziché eliminando gli sprechi, e poi – nei lunghi anni della crisi – a ridurre ai minimi termini gli acquisti e gli investimenti della Pubblica Amministrazione, pur di salvare le spese correnti portatrici di consenso, a partire dagli stipendi dei dipendenti pubblici e dalle pensioni più o meno anticipate.

Se fossi un politico che ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni, certe domande me le farei. Mi chiederei se sia normale che, da decenni, i costi delle opere pubbliche in Italia siano molto più alti di quelli europei. Mi chiederei se sia normale che ci siano centinaia di ospedali, strade, pontili, raccordi iniziati e mai terminati. Mi chiederei se è stato giusto elargire miliardi e miliardi di false pensioni di invalidità, anziché mettere in sicurezza gli edifici scolastici. Mi chiederei se, per entrare in Europa, anziché vendere ai privati il patrimonio pubblico, non sarebbe stato meglio provare a spendere e sprecare di meno.

Mi chiederei, infine, se anche noi, come cittadini, come società civile, come corpi intermedi, non abbiamo le nostre responsabilità, se non altro per aver permesso a chi ci ha governati di portarci al disastro di cui poco per volta stiamo prendendo atto. Soprattutto, riguardo allo stato delle nostre infrastrutture, non chiamerei in causa l’Europa. Che ha tanti e gravi difetti, limiti e colpe, ma non quella di aver impedito all’Italia e ai suoi governi di fare quel che doveva e poteva essere fatto.

Articolo pubblicato su il Messaggero il 18 agosto 2018




Il governo della continuità

Non passa giorno senza che gli esponenti dell’esecutivo gialloverde sottolineino la sua radicale discontinuità con il passato. Talora cadono nel ridicolo (“stiamo scrivendo la storia”), talora più sobriamente dichiarano che quel che fanno è completamente diverso dal passato, e che il loro è il “governo del cambiamento”. Ma è così?
Per certi versi sì, suppongo. Intanto perché in Italia il clima è cambiato. Con la consueta cecità, intellettuali, scrittori e artisti credono che il nuovo governo susciti razzismo e xenofobia, mentre quel che succede è molto più banale: la gente pensa più o meno quel pensava già prima, con la cruciale differenza che ora si sente autorizzata a dire quel che pensa. E’ esattamente quel che accadde 25 anni fa con la vittoria di Berlusconi, alle Politiche del 1994. Ricordo come fosse ieri un Consiglio di Facoltà in cui il preside, noto storico antifascista, ci gridava “in Italia sta tornando il fascismo”, mentre quel che era successo, anche allora, era ben più banale: le persone di destra, che erano sempre esistite in Italia, ora ritenevano di poterlo dichiarare, senza tema di scomuniche.
Se poi guardiamo al futuro, nessuno può escludere a priori che il governo Salvini-Di Maio venga ricordato come il governo del cambiamento, o in chiave positiva (se la flat tax dovesse far ripartire l’economia), o in chiave negativa (se il dissesto dei conti pubblici dovesse far precipitare l’Italia in una situazione greca, turca, o argentina).
Ma se restiamo all’oggi? Se ci limitiamo ai provvedimenti concreti, a ciò che il governo ha già fatto o si appresta a fare con la prossima legge di bilancio?
Beh, se stiamo alla bassa cucina della politica e dell’economia io vedo più continuità che rottura con i due ultimi governi.
Come il governo Renzi, anche il governo gialloverde ha iniziato annunciando provvedimenti simbolici contro la cosiddetta casta. Allora si vendevano come “lotta agli sprechi” misure di scarsissimo impatto macroeconomico quali la rottamazione delle auto blu e la riduzione del numero di parlamentari, ora si fa lo stesso identico gioco con il taglio dei vitalizi dei parlamentari e la smobilitazione del cosiddetto “Air Force Renzi”, l’aereo presidenziale voluto dal “ragazzo di Rignano”.
Come tutti i governi precedenti, anche questo preferisce lottizzare la Rai piuttosto che mettere sul mercato una o due reti. Per non parlare delle nomine nei posti chiave dello Stato, dove le appartenenze e le fedeltà politiche continuano a giocare un ruolo chiave.
Quanto ai migranti, la riduzione degli sbarchi è in gran parte merito (o demerito, per alcuni) del ministro Minniti e degli organismi internazionali (Unione Europea e Onu), cui si devono gli accordi con la Libia e l’apertura dei primi corridoi umanitari per entrare in Europa legalmente, senza la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Ma è sulla politica economica che, almeno a prestar fede alle importanti dichiarazioni del ministro Tria, la continuità è quasi perfetta.
Gli 80 euro di Renzi vengono confermati. Il decreto dignità sposta pochissimo, e quel poco che sposta in parte è in contrasto con la filosofia del Jobs Act (più rigidità sui rinnovi dei contratti), in parte è in sintonia (reintroduzione dei voucher), come si capisce dalle critiche – di segno opposto – che arrivano dalla Cgil e dalla Confindustria. Del resto è stato lo stesso Tommaso Nannicini (economista Pd) a dichiarare che il decreto dignità lascia il Jobs Act “sostanzialmente intatto”. Forse è troppo ottimista (una modesta frenata occupazionale non è da escludere), ma in ogni caso non siamo di fronte a una restaurazione, a un ritorno a prima del Jobs Act.
Come negli anni passati, il cardine della manovra è il disinnesco di qualche clausola di salvaguardia ereditata da governi precedenti (in questo caso l’aumento dell’Iva). E poi ci sono tante piccole cose, più o meno le solite. Un po’ di alleggerimento delle tasse sulle imprese (ieri l’Irap, oggi il regime fiscale delle partite Iva); un rafforzamento del reddito di inclusione (misura caldeggiata dal Pd), prontamente ridenominato “reddito di cittadinanza”; qualche limatura delle spese, sotto al pomposa etichetta della lotta agli sprechi.
Persino sulle grandi opere, Tav e Tap, e sulle grandi crisi aziendali, Ilva e Alitalia, potrebbe esserci continuità più che rottura. E’ possibile che, alla fine, per la maggior parte di esse si assista solo a un ennesimo rallentamento dei processi decisionali, più che a uno stop definitivo, di nuovo in sostanziale continuità con la lentezza dei governi precedenti.
E infine il debito. I governi di Renzi e Gentiloni, nonostante la ripresa, si sono ben guardati dal ridurre il rapporto debito-pil o l’indebitamento netto strutturale, preferendo chiedere ogni anno nuovi margini di flessibilità per poter continuare a spendere in deficit. Esattamente quel che intendono continuare a fare i nuovi governanti, decisi ad andare in Europa a negoziare qualche concessione in materia di spesa pubblica e di investimenti.
Se il ministro Tria dice il vero, alla fine ci troveremo con il solito aumento del debito pubblico, un rapporto debito-pil sostanzialmente invariato, un deficit ampiamente al di sotto del 3%, ma altrettanto ampiamente al di sopra degli obiettivi fissati dall’Europa, che come si sa non pretende solo il rispetto del 3%, ma la progressiva discesa verso il pareggio di bilancio. Insomma la solita manovra da 25-30 miliardi, con spostamenti di pochi decimali nell’allocazione delle risorse e dei costi.
Tutto bene, dunque?
Niente affatto. Se il fatto che il governo, grazie al ruolo assunto da Tria, si muova con prudenza e gradualismo non può che rassicurarci, non possiamo d’altra parte ignorare i segnali che arrivano dai mercati finanziari. Che sono tutti negativi: capitali in fuga dall’Italia, borsa fragile, spread dei titoli di Stato in aumento. E si noti che l’aumento dei rendimenti non è solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Spagna, al Portogallo, e persino alla Grecia. Non era mai successo, nemmeno nel 2011, che i titoli di Stato italiani fossero i più cari dell’Eurozona dopo quelli della Grecia. Oggi il rendimento dei titoli italiani sfiora il 3%, quello dei titoli greci oscilla intorno al 4%, mentre Portogallo e Spagna (gli altri due Pigs mediterranei) sono entrambi nettamente sotto il 2%.
Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.

Articolo pubblicato su Il Messaggero l’11 agosto 2018



La gestione dell’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Perché Salvini cavalcando la battaglia contro gli sbarchi ha conquistato gli italiani?

Perché gli sbarchi, anche quando sono pochi (come oggi, e come prima di Mare Nostrum) vengono percepiti come una sorta di prepotenza, aggravata dal ricatto umanitario, come se i migranti dicessero: “voi siete così civili che ci dovete salvare in mare e accogliere una volta a terra”.

La chiusura a riccio dei confini (soprattutto dei porti) operata dal Viminale è stata applaudita dagli italiani. Perché questa paura verso l’integrazione dei migranti?

La maggior parte degli italiani non ha paura dell’integrazione, ma che l’integrazione fallisca, come in effetti è successo.

Quale è la portata di responsabilità della crisi economica e del dilagare dei social, rispetto alla crescente rabbia razzista?

Lei è sicuro che ci sia una “crescente rabbia razzista”? Penso che, ammesso che vi sia una crescita dei sentimenti razzisti, qualche responsabilità vada cercata anche nei media “seri”, che amplificano episodi marginali che ci sono sempre stati.

Un annuncio di Trenord dagli altoparlanti dei vagoni contro “gli zingari sui treni che hanno rotto i c…” ha fatto il pieno di commenti positivi su Facebook. Perché il popolo del web è unanime contro i rom e sinti?

Non esiste un popolo del web sostanzialmente diverso dal popolo non-web, semplicemente il popolo non web è invisibile, mentre il popolo-web è iper-visibile per definizione. Ma entrambi condividono l’ostilità verso i rom e i sinti, un sentimento che non è nuovo e non è solo italiano.

 “La ruspa” di Salvini e gli sgomberi dei campi rom sono sempre accolti con grande favore da destra e da sinistra.

Da dove nasce la diffidenza collettiva verso questi popoli?

Dall’esperienza. Anche se non mancano le persone di origine rom/sinti che lavorano e vivono normalmente, il fatto che una percentuale elevata (nessuno sa esattamente quale) dei membri di queste comunità viva di accattonaggio e di furti non può che suscitare diffidenza in chi vive del proprio lavoro, e magari fatica a sbarcare il lunario.

Dai sondaggi pochi italiani si dicono razzisti, ma la percezione di un ritorno dell’odio contro gli stranieri è molto forte. Qual è il reale sentimento sociale?

Più o meno quello degli ultimi decenni, con la differenza cruciale per cui oggi chi ha sentimenti razzisti, o meglio sentimenti che i media e gli intellettuali etichettano come razzisti, si sente più legittimato ad esprimerli. Ma nella maggior parte dei casi il razzismo non c’entra, semmai quel che interviene è un meccanismo di generalizzazione, che tocca un po’ tutti, anche i più illuminati difensori dei rom. Se non ci crede prenda 1000 Vip progressisti, e controlli quanti di loro hanno assunto, o assumerebbero, una colf di etnia rom/sinti…

La sinistra italiana è stata spazzata via dai populisti perché ha fallito sulla questione migranti?

Sì e no. Il problema degli sbarchi è stato sostanzialmente risolto da Minniti, ma la sinistra anziché rivendicare il risultato ha cercato di nasconderlo, continuando con la retorica del “noi siamo quelli che salvano vite umane in mare”.

Passare da “accogliamo tutti” a “non accogliamo nessuno” da un giorno all’altro che conseguenze può avere sulla società italiana?

Non accogliere nessuno lascia irrisolti i due problemi principali: gli irregolari presenti (almeno mezzo milione), e le esigenze delle imprese, che di migranti economici hanno tuttora bisogno.

Intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale il 9 agosto 2018




Commento ad Angelo Panebianco e a Sofia Ventura

«Spesso, sono i governi che bene amministrano quelli che hanno vita breve e vengono cacciati a furor di popolo. I governi che male amministrano, invece, hanno sovente vita lunga e felice. Perché? Perché mentre i primi si occupano del benessere collettivo e così facendo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati, i secondi sanno costruirsi, a scapito del benessere collettivo, un insieme di clientele (alcune più ristrette e potenti, altre più povere di risorse ma più ampie numericamente) le quali, per non rinunciare ai benefici che il governo elargisce loro, lo sosterranno in tutti i modi. Il buon governo può contare (e nemmeno sempre) su un consenso diffuso ma disorganizzato. Il mal governo si regge, di solito, su un consenso più ristretto ma organizzato. In politica, l’organizzazione ha sempre la meglio sulla disorganizzazione». Lo sostiene Angelo Panebianco nell’editoriale, Perché durerà. Le ingenue profezie sul governo, apparso sul Corriere della Sera il 26 luglio u.s. Confesso che le sue parole hanno lasciato molto perplesso chi, come me, da anni va sostenendo che bisogna Dimenticare Platone—è il titolo di un mio saggio di qualche tempo fa—se davvero vogliamo far prosperare anche in Italia l’albero della democrazia liberale. L’articolo dello scienziato politico bolognese riecheggia antiche critiche—da Platone, appunto, a Ugo Spirito—rivolte al governo del demos e ai suoi ludi cartacei dove prevalgono quanti votano con la pancia e non con quello che Woody Allen chiamava “il mio secondo organo preferito”. Se le cose stanno come vien detto nell’articolo non sarebbe venuto il momento di pensare a un governo di saggi (o di ‘tecnici’, per non peccare d’immodestia) imposto dall’alto, senza tener conto dei risultati elettorali che hanno premiato i Di Maio, i Salvini, gli Orban? Leggere oggi che «i governi che si occupano del benessere collettivo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati» fa un certo effetto. Innanzitutto perché è difficile pensare a compagini ministeriali che abbiano vinto le elezioni o comunque abbiano registrato una forte affermazione senza il consenso di “potenti gruppi organizzati”: i risultati ottenuti, nella Prima e Seconda Repubblica, da DC e PCI non avevano nulla a che fare con la Federconsorzi, Confindustria, sindacati, magistratura, amministrazioni pubbliche, etc? L’idea di una divisione tra ‘consenso diffuso’ e debole (giacché i cittadini responsabili non si organizzano) e ‘consenso clientelare’ sarebbe stata condivisa da Auguste Comte, critico implacabile dell’irrazionalità democratica, ma non trova credibili corrispondenze sul piano empirico. Panebianco, facendo l’esempio dell’attuale coalizione di governo, scrive che la benevola neutralità dell’alta dirigenza e l’appoggio incondizionato della Magistratura, di cui “i Cinque Stelle hanno sempre dichiarato la loro volontà di essere l’obbediente braccio politico” giocano a favore della sua durata. Sono d’accordo ma il potere giudiziario, chiedo umilmente, è diverso, in quanto gruppo di pressione, da quelli su cui ha potuto contare per oltre mezzo secolo la sinistra italiana, come il potere sindacale? E non è strano dover ricordare a un realista, come l’amico Panebianco, che l’espressione ‘benessere collettivo’ (quanto mai ‘equivoca’, per non dire ideologica), non è che la versione laica e secolarizzata—perché riferita a bisogni materiali e non più alla salvezza delle anime—del “bene pubblico”, dell’etica politica cognitivista, ovvero da quella filosofia che fa derivare da un fatto, da una verità, una prescrizione, un’obbligazione, contraddicendo alla ‘grande divisione’, teorizzata da Davide Hume, per la quale, dall’essere non si può dedurre nessun dover essere? Tornando al vecchio significato, cos’è il ‘bene collettivo’ se non ciò che ritengono tale, nella selva selvaggia delle opinioni e degli interessi contrastanti e spesso conflittuali che caratterizzano le moderne società ipercomplesse, i vari gruppi, classi, individui, in competizione per il potere? Del ‘bene collettivo’, per la Cirinnà, fanno parte le adozioni gay, per ‘Scienza e Vita’ il divieto del matrimonio omosessuale. La democrazia liberale non è il metodo infallibile che realizza, su questa terra, Giustizia e Virtù ma un accordo arazionale, che nelle grandi questioni che dividono la società civile, fa prevalere (fino alla prossima tornata elettorale) le opinioni del maggior numero.

La questione cruciale—ben nota ai liberali classici, alla cui fonte Panebianco, come il suo Maestro Nicola Matteucci, si è senza dubbio abbeverato– è che lo spazio della politica sia ben circoscritto, che un Parlamento e un Governo non abbiano la libertà e l’autorità di invadere tutti gli ambiti dei rapporti umani, di ‘poter fare tutto’ (tranne che trasformare un uomo in una donna, come sostenne ironicamente quel deputato di Westminster, che non poteva certo prevedere i miracoli dell’ingegneria genetica). Purtroppo —per ragioni storiche e culturali che, a spiegarle, ci vorrebbero non saggi ma interi tomi–sappiamo che non è così—e non solo in Italia—e che lo ‘stile politico limitato’—che distingue le democrazie dalle dittature—da noi non ha mai preso stabile alloggio.

Nei primi decenni del nuovo millennio, una civic (sic!) culture che ha insegnato a decine di generazioni  che ‘tutto è politica’, che non esistono competenze oggettive—giacché i diversi codici professionali sono sempre ideologicamente condizionati—reagisce sgomenta davanti all’invasione degli Hyksos, si chiede come sia stato possibile, rimette (inconsapevolmente) in discussione il principio di maggioranza, riattualizza le vecchie diagnosi dei grandi conservatori dell’Ottocento e del Novecento sulla ‘ribellione delle masse’, sulla fine delle ‘mediazioni politiche’, sul tramonto delle elite. A ben riflettere, però, ci troviamo di fronte a uno sgomento che nasce dalla falsa coscienza, dalla messa sotto accusa del corpo sociale malato non accompagnato da alcuna autocritica né, tanto meno, dalla consapevolezza che è l’ambiente malsano a far insorgere la malattia.

In nome dei diritti, del Welfare, della ‘tutela delle fasce deboli’, si è accresciuto, per citare Panebianco,”il controllo politico sull’economia”, si sono messe “a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele”, si sono creati enti, uffici, associazioni che hanno fatto quasi avverare la profezia del Tocqueville della seconda Democrazia in America: “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?». La profezia si è realizzata un po’ dappertutto, ma specie in Italia dove si è creata una pericolosa (per le libertà civili) cabina di comando politico e di monitoraggio sociale, mai pensando che degli strumenti messi a disposizione degli ‘amici del progresso’ si sarebbe potuta impadronire la progenie di Cleone e di Catilina.

Suscita un sorriso amaro, pertanto, l’union sacrée contro i populisti e i sovranisti al governo che dovrebbe includere proprio quelli che hanno instaurato lo stato assistenziale in Italia e i loro ideologi, filosofi e giuristi, che, paladini dei ‘diritti sociali’, dichiaravano candidamente che un partito con un programma thatcheriano da noi sarebbe incostituzionale? Gli attuali governanti saranno pure “amici della Cgil”, certo non lo sono degli eserciti in rotta della vecchia sinistra.

Sofia Ventura, una scienziata politica non meno seria e documentata di Panebianco, in una breve, densa intervista, concessa a ‘La Stampa’, Il popolo non è saggio. La politica vuole le élite, (24 luglio 2018), dove a ragione critica la ‘democrazia diretta’ dei sedicenti neo-rousseauiani, scrive giustamente: «occorre più mediazione politica, non meno» ma poi aggiunge «Se noi abbiamo un problema, oggi, è che il ceto politico assomiglia troppo al popolo per povertà di esperienza, di background, di capacità». “È la democrazia di massa, bellezza!” Ma non è un processo irreversibile? Il problema è quello di capire perché tale trend nei sistemi politici stabili e liberali non ne minacci le fondamenta istituzionali mentre nelle democrazie senza salda legittimazione nell’immaginario e nell’etica collettiva finisca per lastricare la via per l’Inferno.

«L’errore di fondo, per Sofia Ventura, è credere che nel popolo risieda una saggezza universale, invece non è così». Già, non è così ed è ben per questo che, a fondamento della democrazia liberale c’è lo scetticismo di Montaigne e di Hume, non l’ottimismo antropologico di Rousseau. Poiché nessuno di noi ha la verità in tasca ma esprimiamo tutti opinioni più o meno caduche —a guidarci è la doxa non l’aleteia—non è arbitrario stabilire che debbano prevalere quelle della maggioranza. La democrazia liberale nasce dalla diffidenza verso l’uomo, segnato dal peccato originale, non verso il popolo, entità vaga e misteriosa alla quale apparteniamo tutti, o verso questa o quella classe o razza. Ritengo anch’io assurda la sostituzione della democrazia diretta alla democrazia rappresentativa che consegnerebbe il potere di far e le leggi quell’incompetenza, che ci investe tutti, fingendo di dimenticare che «chiunque di noi, chiamato ad esprimersi su argomenti difficili che non conosce, ha reazioni simili a quelle di un bambino». Sennonché, chiarito questo punto, ci si dovrebbe poi rendere conto che la politica è, sostanzialmente, mercato, sia pure sui generis, dove gli elettori sono i consumatori dei prodotti messi in vendita da vari imprenditori, che offrono le loro diverse merci, i programmi di governo. Se qualcuno vende più degli altri significa che viene incontro a bisogni di cui la concorrenza non tiene alcuna considerazione. Le élite sono quelle scelte dal popolo sovrano—ovvero dall’insieme dei cittadini iscritti nelle liste elettorali—: un politico militante, un intellettuale impegnato, potranno sentirsi in dovere di pesarle sul bilancino della loro ‘cultura superiore’ ma il dato inoppugnabile è che esse portano sul mercato i prodotti più ricercati. E se questi ultimi—è il timore fondato della politologa– comportassero la fine delle libertà politiche e dei diritti? «Pensiamo solo a che cosa può accadere, se un demagogo|…| convincesse la maggioranza che le donne sono esseri inferiori. Seguirebbero leggi a sancirne l’inferiorità». Certo è quanto potrebbe capitare in una democrazia progressiva come la nostra dove il controllo pubblico sempre più totale della società civile nelle mani di chi vuol cambiare tutto potrebbe passare in quelle di chi vuol tornare indietro. Nei paesi liberali, però, nessuno potrebbe farlo. Come scriveva Tocqueville, nella Democrazia in America: «la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti. La maggioranza riconosce queste due barriere e, se le capita di superarle, è perché essa ha delle passioni, come ogni uomo, e perché, come lui, essa può fare il male pur discernendo il bene».

Ma c’è un’altra domanda che ho spesso rivolto agli amici analisti della politica e che non ha trovato risposta: se la maggioranza sceglie, nel supermercato della politica, le merci cosiddette ‘sovraniste’ e ‘populiste’ è a causa della sua naturale irrazionalità o perché quelle merci appagano bisogni—ad es. di sicurezza e di identità—che le altre non sono in grado di appagare? Continueremo a lungo a concentrarci sulla paranoia di Hitler e sulla misteriosa fascinazione da lui esercitata sulle masse tedesche senza considerare minimamente quali buone ragioni esse avevano per rivolgersi a un leader politico che con gli occhi del poi, sembrò vomitato dall’Inferno.

Tornando a Panebianco, il suo discorso fa pensare più a un ideologo liberista che non a uno scienziato sociale alle prese con la ‘realtà effettuale’: «Innalzare dazi, protegge certe industrie inefficienti scaricandone i costi sui consumatori. Il protezionismo, in altri termini, colpisce il benessere dei più per favorire il benessere di pochi. Ma i più (i consumatori) sono disorganizzati e quindi hanno scarso peso politico mentre i pochi (gli addetti all’industria inefficiente) sono organizzati. I dazi li ‘fidelizzano’: una volta ottenuto il dazio essi non smetteranno mai di appoggiare il governo che glielo ha concesso (per timore che altri governanti lo tolgano di mezzo).|….|Più in generale, puntare su una economia chiusa in nome di un preteso neo-nazionalismo provoca danni economici (l’economia langue) ma genera vantaggi politici che tendono a protrarsi oltre il breve termine: assicura il consenso senza riserve al governo della parte più inefficiente del mondo della produzione, accresce il controllo politico sull’economia, mette a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele. Si capisce perché né i Cinque Stelle né la Lega apprezzassero Sergio Marchionne: era il simbolo di una economia aperta, efficiente e dinamica. Il loro ideale economico (come quello dei loro amici della Cgil) è l’opposto».

Avrei qualche obiezione di metodo da fare, dal momento che c’è protezionismo e protezionismo e talora si confonde il protezionismo col dirigismo e con la socialdemocrazia—come hanno mostrato gli studi di insigni storici come i compianti Rosario Romeo, Giuseppe Are e mostra oggi Guido Pescosolido nei suoi magistrali saggi sulla questione meridionale e sull’arcicalunniata Cassa per il Mezzogiorno—ma rimando la riserva ad altra sede. Quello che vorrei ribadire, invece, è che la politica è l’arte della mediazione per antonomasia, non la realizzazione di ricette astratte, per quanto ragionevoli, di economia. Se la globalizzazione provoca delle vittime, cosa si dirà a chi se ne trova male: chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato? sicché non resta che rassegnarsi alla legge del mondo fatto a scale dove c’è chi scende e c’è chi sale? E se il rottamato dal progresso trova chi fa mostra di comprendere le sue esigenze e il suo dramma per la perdita di status e di reddito? Lo considereremo una zavorra di cui liberarsi al più presto per consentire al pallone aerostatico del progresso di volare liberamente nei cieli azzurri della globalizzazione? E se la questione sicurezza e la difficoltà di convivenza interetnica nei quartieri popolari delle nostre città fa vincere i populisti diremo che, come gli untori manzoniani, sono loro ad aver creato un clima di diffidenza per trarne beneficio? O ripeteremo agli irresponsabili elettori che gli arrivi dall’Africa sono in calo e che Tito Boeri (citato da Panebianco come un’autorità indiscussa) ha invitato a fare entrare quanta più gente è possibile in Italia giacché sono i nuovi lavoratori che pagheranno le nostre pensioni e la loro esuberante vitalità a rimediare al nostro regresso demografico?

A scanso di fraintendimenti, anch’io credo che le politiche neonazionaliste non facciano bene alla nostra economia e che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro per l’Italia ma il vero problema, ripeto, è un altro: che ne facciamo di chi non condivide il mio liberalismo condito di liberismo con juicio? Gli diremo come il dignitario ecclesiastico, nel terribile sonetto del Belli, ‘avanti alò chi more more’? In un paese ci sono individui e classi sociali, regioni e aree economiche, che hanno interessi e prospettive di vita molto diversi: lo Stato nazionale era sorto anche allo scopo di trovare un modus vivendi che non garantisse il benessere collettivo (vaste programme!) ma riuscisse, ad ogni crisi, a ricucire quella ‘collaborazione sociale’ senza la quale i governi restano sempre esposti a sommosse e a potenziali rivoluzioni. A volte questo può comportare il sacrificio dell’efficienza sull’altare di un compromesso sociale che non soddisfa interamente le parti in conflitto ma riesce a tenerle buone per un certo periodo. A volte non ce né bisogno grazie al fattore ‘spazio’, che la retorica antifascista ha fatto relegare tra i ferri vecchi della storia. L’Inghilterra vittoriana spediva i poveri, i ribelli, gli asociali nelle più lontane terre dell’Impero dove poteva accadere che ex forzati creassero, come in Australia, una società civile oggi non meno raffinata di quella scandinava. Gli Stati Uniti avevano a disposizione la frontiera per rovesciarvi irregolari e scontenti che non si trovavano bene sulla costa orientale.

In Italia Giovanni Giolitti, uno statista che in fatto di pragmatismo non era secondo a nessuno, non arretrava dinanzi a ‘protezioni’ e favoritismi atti a riconciliare con lo Stato risorgimentale le masse cattoliche e socialiste per mezzo secolo estranee ed ostili. La politica è questa: la capacità di registrare attese, paure, speranze della gente comune per trovare il modo di portarle alla luce e metterle sul tavolo della grande, incessante, ’transazione collettiva’, dissinnescandone la carica potenziale. Le Group Mind Fiction—globalizzazione vs protezionismo, sovranismo vs europeismo etc. etc.—non sono di aiuto. Ci troviamo dinanzi ad antitesi troppo radicali e assolute, che   rischiano di riportarci ai climi ideologici infuocati di passate stagioni della storia italiana, il 1948, il 1968 etc. In un articolo uscito sul ‘Messaggero’ del 19 luglio u.s., Se il diritto di critica sfocia nell’incitamento all’odio la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni ha messo in guardia dall’uso di un linguaggio politico manicheo, volto a demonizzare gli avversari «Preoccupa che questa metodologia di attacco, combinata alla crescente deculturazione dell’uditorio, possa avere effetti dilanianti sulla dialettica democratica e possa istigare qualche sprovveduto alla violenza». Negli anni di piombo, gli ‘effetti dilanianti’ si videro bene, con gli attentati della destra a esponenti e a sedi di partiti e di sindacati e della sinistra ai militanti del MSI e di Forza Nuova—v. l’episodio dei fratelli Mattei, su cui è calato uno spesso velo di silenzio. E, tuttavia, se gli ‘eccessi polemici’ sono ancora comprensibili in bocca ai politici—ma anche qui con juicio –essi diventano armamenti retorici ai quali dovrebbe essere vietato l’ingresso nei laboratori della ricerca e dell’analisi sociale e politica. Altrimenti la Wertfreiheit—la neutralità della scienza–prescritta da Max Weber e richiamata da tutti i politologi (persino da quelli che, a differenza di Panebianco, non hanno alcuna pratica di liberalismo) diventa un mero omaggio verbale.

Ancora un’ultima (perfida) annotazione. Leggendo Panebianco si tira un sospiro di sollievo. «La classe politica oggi al potere—scrive—può contare sull’appoggio delle più potenti corporazioni del paese». Se si considera, però, che i maggiori quotidiani nazionali—da ‘La Stampa’ al ‘Corriere della Sera’, da ‘Repubblica’ al ‘Fatto quotidiano’, senza contare i ‘cespugli’ come ‘Avvenire’ e ‘Il Foglio’— pubblicano, in fatto di sovranismo, populismo, emigrazione, editoriali intercambiabili, rivolti a quell’opinione pubblica ‘disorganizzata’ ma capace di ragionare nella cabina elettorale, se ne deduce: o che non c‘è nessuna ‘potente corporazione’ dietro quei giornali o che abbiamo una stampa libera che non prende ordini da alcuna centrale di potere. Nel secondo caso, ci troveremmo davvero dinanzi a un nuovo ‘miracolo italiano’.