L’opposizione Mariarosa

Ci sono parecchie cose, nelle politiche messe in atto da Giorgia Meloni, che possono non convincere (a me, giusto per fare un esempio, non piacciono per niente i condoni più o meno mascherati). Per cui trovo normalissimo che l’opposizione faccia le sue critiche. E che abbia da ridire su un mucchio di cose, dalla politica economica a quella sociale, dalle scelte in materia di immigrazione a quelle in materia di giustizia. Però c’è qualcosa di vagamente patologico nel modo in cui la stampa progressista e tutte le forze di opposizione (eccetto i due partitini del Terzo polo) si rapportano al governo e alle sue scelte. Solo che non so bene come chiamarlo, questo qualcosa.

Perciò provo a descriverlo. Primo aspetto: non c’è una sola azione del governo in carica che non riceva critiche severissime. Non vanno bene le misure della Legge di bilancio, comprese quelle a favore delle famiglie meno abbienti. Non va bene la riduzione del cuneo fiscale per le fasce deboli, anche se sono soldi in più in busta paga. Non va bene il bonus di 383 euro per le famiglie povere con figli, che suscita solo ironia (“un caffè al giorno”) o disprezzo (“la dignità comprata a 383 euro”).

Ma l’aspetto più interessante è un altro. Giorgia Meloni viene criticata, rimproverata,  denigrata, anche quando ottiene un successo, o quantomeno un risultato che la stragrande maggioranza delle persone normali non esita a considerare un successo. L’esempio più clamoroso è la grazia a Zaki, frutto del lavoro diplomatico del governo italiano. Nemmeno in quel caso, l’opposizione è riuscita ad evitare lo schema: “è una buona notizia, però…”.

Però che cosa? Però il merito è anche del governo Draghi; però chissà che cosa il governo Meloni ha dato in cambio; però non ci sarà un baratto con il caso Regeni?

Stesso problema con i successi in campo internazionale, come il coinvolgimento dei vertici dell’Unione Europea nei negoziati con la Tunisia. O come la grande conferenza di domenica a Roma con 21 paesi africani e mediorientali. Anche qui scetticismo e ironia a gogo. Qualcuno arriva a dire che la conferenza è stata organizzata per “far dimenticare la guerra alle Ong, la gestione del naufragio di Cutro, le promesse di blocchi navali e porti chiusi”. Insomma, non una scommessa politica più o meno valida, più o meno rischiosa, ma una banale, miserevole, furbesca manovra di gestione del consenso elettorale.

In realtà, quel che succede è che, da quando ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni sembra baciata dalla fortuna. L’inverno è stato uno dei più miti. La crisi energetica ha creato molti meno disagi del previsto. L’occupazione galoppa. I sondaggi premiano Fratelli d’Italia. Una dopo l’altra, le fosche previsioni degli avversari si rivelano sbagliate: niente esplosione dello spread, niente ostilità dell’establishment europeo, nessun problema con Nato e Stati Uniti.

Di qui lo sconcerto dell’opposizione, e la progressiva formazione di un frame, di una sorta di schema fisso. Più la fortuna arride a Meloni, più l’opposizione (con poche eccezioni) assume una postura da “gufi e rosiconi”, incapaci di visione e privi di ogni senso dell’interesse nazionale. Era già successo con Renzi, quando in tanti non sopportavano che avesse il vento in poppa.

Ecco, finalmente mi è venuta la parola che cercavo: Mariarosa. Anzi Olivella e Mariarosa. Chi ha almeno 50 anni ricorderà la meravigliosa pubblicità dell’olio Bertolli ai tempi di Carosello (per i più giovani, ecco qui un link a youtube: https://www.youtube.com/watch?v=_97KBdnlzvE ). A Olivella, fresca sposina, tutto andava bene, ma ogni successo scatenava l’invidia di Mariarosa. E a Mariarosa i tentativi di fare come Olivella andavano sempre storti. La filastrocca recitava: “Là, là, là, tutto bene mi va” (Olivella). E “Oh, oh, oh, ed invece a me no” (Mariarosa). E un cartone animato raccontava le avventure di Olivella e le esilaranti disavventure di Mariarosa.

Il problema è che oggi noi abbiamo una premier-Olivella e un’opposizione-Mariarosa. Difficile chiedere a Giorgia di non fare Olivella. Ma possiamo sperare che, prima o poi, Elly smetta di fare Mariarosa?




Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.




Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.




La battaglia per il salario minimo legale

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.




Libertario e liberale non è la stessa cosa

Come tutti i garantisti libertari Piero Sansonetti—peraltro un giornalista non poco benemerito per le critiche rivolte alla  magistratura militante—non ha capito ancora cosa sia la democrazia liberale  e questo per non aver preso sul serio il pluralismo. Quest’ultimo significa che  i valori sono tanti e tutti iscritti nell’umano e che, a decidere quale debba prevalere, quando entrano in competizione, è il giudizio degli elettori. Intervenendo su  Rete 4,  con una foga inconsueta, Sansonetti ha assimilato Eugenia M. Roccella a un ministro di Francisco Franco o di altri dittatori contemporanei. Per lui i valori ai quali si ispira il nostro Ministro delle Pari Opportunità e la Famiglia non sono valori ma rigurgiti inquisitoriali, attentati alle libertà dei cittadini che dovrebbero avere la precedenza su ogni altra considerazione e, soprattutto su quelle politiche. Chi non la pensa come noi, in questa logica, è fascista essendo fuori questione che certi diritti sono sacri e inviolabili. In tal modo, però, viene azzerata l’autonomia della politica e ai governi si chiede solo di realizzare quello che è Giusto. Ma giusto per chi? E se non si fosse d’accordo, per es., che il mancato riconoscimento del  matrimonio gay con adozione sia un attentato alle libertà dei cittadini? Se già il giusnaturalismo classico era sommamente discutibile con la sua pretesa che esistono diritti che debbono solo essere portati alla luce e codificati nelle leggi, quello libertario diventa un’ rompete le file’, che consente a ogni individuo di perseguire la felicità come,  quando e quanto vuole: la fine di ogni legame sociale.

 Intendiamoci, non sto difendendo la Roccella (che neppure a me è simpatica a causa del suo tradizionalismo), sto solo dicendo che criminalizzarla perché la sua etica politica è diversa da quella di Sansonetti significa porsi al di fuori della civiltà liberale. Se un disegno di legge viola  diritti  fondamentali dev’essere la Corte Costituzionale a bocciarlo; se è in contrasto con le nuove sensibilità maturate all’interno della società civile, saranno gli elettori a punirne l’autore. Indire una crociata  laica ogni volta che una misura governativa non ci piace, significa solo il trionfo del manicheismo, cavallo di Troia della mentalità totalitaria..