Come nel mito greco il cacciatore vittima del cervo

Ci siamo dimenticati della vendetta. È un gesto che non ci piace più, che sentiamo estraneo e sbagliato, ignobile, ingeneroso. La nostra è la cultura del perdono, porgere l’altra guancia o almeno evitare l’automatismo dell’occhio per occhio dente per dente.

Eppure un tempo la vendetta era un compito, un imperativo morale. Amleto è lì a ricordarcelo, anche se già in lui il dovere s’incrina dolorosamente nel dubbio che paralizza l’azione. E la guerra di Troia, in fondo, è la vendetta di Menelao a cui lo straniero Paride ha rapito la moglie…

Il tema rimane in certi film, che appartengono alla cultura americana del farsi giustizia da sé. Il giustiziere della notte, per esempio, dove Charles Bronson, nei panni di un architetto di New York a cui hanno aggredito la figlia e ucciso la moglie, s’improvvisa spietato vendicatore. Difficile non amare il personaggio, non vedere che la vendetta può anche essere intesa come la risposta, più che umana, a un atto criminale, disumano.

Gli animali tengono memoria. In loro non c’è cultura che tenga. Agiscono d’istinto e sanno cosa fare.

Pochi giorni fa, nell’Oregon, un uomo di 66 anni va a caccia nella proprietà di un amico e ferisce un cervo con una freccia. Si fa buio, e non trova la preda, così decide di andarlo a cercare il mattino dopo. Arriva la notte. L’uomo dorme beato, il cervo no. Ha male, non riesce più ad alzarsi. Pensa: perché quell’uomo andava a caccia proprio di lui, perché lo ha colpito, che cosa gli ha fatto di male? Non sa nulla di violenza, e nemmeno di destino e di condizione mortale. Sente che la sua vita s’interrompe, e questo è tutto.  Ma su quella domanda muta e inconsapevole, sul perché, sulla gratuità colpevole di chi lo ha voluto uccidere, non si placa. È un istinto. Se tu mi togli la vita, io ti devo punire. Non riavrò la vita, ma la toglierò a te.

La notte di quel cervo è la forza della memoria. Le ferite non si dimenticano. Quando al mattino il cacciatore ritorna, il cervo, con le poche forze che gli restano, lo uccide.

Difficile, in questa storia, stare dalla parte del cacciatore. Qui ci è più facile prendere le difese della vittima, visto che la vittima è un cervo (e su questa facilità, che ci viene con gli animali ma non con gli esseri umani, dovremmo riflettere: c’è qualcosa di primordiale e atavico che, a dispetto di tutti i nostri principi, se ne sta ancora acquattato dentro di noi?). Il cervo, poi, ha qualcosa in più che ci muove: è l’animale delle favole, è il cerbiatto timido e elegante che corre per i boschi. È Bamby.

Imperdonabile uccidere Bamby.

Ma c’è un’altra storia, depositata in noi da millenni: il mito di Atteone, il cacciatore sventurato che, durante una battuta di caccia, vede la dea Artemide mentre fa il bagno nuda. Vietato guardare la divinità: Artemide lo trasforma in cervo, e Atteone viene raggiunto dalla muta dei suoi cani che, non riconoscendolo, lo sbranano. Il cacciatore cacciato. Il carnefice che si trasforma in vittima. Anche questa è una storia di vendetta. Gli dei erano persone molto vendicative…

Anche il cacciatore dell’Oregon cade vittima del suo gesto. Ma il suo gesto era violento e determinato. Non si caccia impunemente, e alla fine si viene cacciati.

Atteone invece era innocente. Colpevole solo di uno sguardo, che non poteva in alcun modo evitare, visto che la dea gli appare davanti casualmente, senza che lui lo voglia, senza che lui scelga di guardarla. Uno sguardo inevitabile, che si muta in condanna.

La storia di Atteone ci muove ancora oggi, e per sempre, a pietà. E ci porta a riflettere su cosa sia colpa e cosa sia innocenza. E se la vendetta non sia, in fondo, solo una delle maschere del Destino.

Pubblicato su La Stampa del 2 settembre 2020




Scuola, ripartenza rischiosa

“La scuola riapre regolarmente il 14 settembre”, ha affermato il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma avrebbe fatto meglio a dire la verità, tutta la verità: le scuole cercano di ripartire il 14, ma non riusciranno a farlo in tutta Italia.

Infatti la situazione reale è questa. Il Friuli Venezia Giulia e quasi tutte le regioni del Sud (6 su 8) hanno già deciso di rimandare la riapertura, per lo più a dopo le elezioni del 21 settembre. Quanto alle altre regioni, alcune scuole partiranno, altre no: regioni e comuni possono autorizzare le singole scuole a rinviare la partenza, e già lo stanno facendo dove i dirigenti scolastici ritengono che non ci siano le condizioni per riaprire subito.

Le ragioni del ritardo sono fondamentalmente tre: cattedre scoperte (come tutti gli anni), lavori edilizi non completati o ancora privi delle necessarie certificazioni, mancata consegna dei banchi, originariamente prevista entro l’8 settembre, ed ora slittata alla fine di ottobre.

Si poteva fare diversamente?

Se teniamo conto del fatto che le scuole sono state chiuse da marzo, e che a metà maggio già si sapeva che non avrebbero riaperto prima di settembre, la risposta è: sì, almeno per quanto riguarda la consegna dei banchi. Bastava fare il bando a maggio, come fin dalla fine di aprile suggerivano alcuni produttori, anziché aspettare il 20 luglio (più di 4 mesi dopo la chiusura delle scuole!). Quanto alle nomine degli insegnanti, non riesco a credere che – con i pieni poteri che questo governo si è auto-attribuito – non vi fosse alcun modo di coprire la maggior parte delle cattedre, se non altro in considerazione del fatto che la carenza di insegnanti, nella misura in cui genera caos amministrativo e organizzativo, è anch’essa un potenziale fattore di rischio.

Possiamo almeno dire che la riapertura, dove avverrà, sarà “in sicurezza”?

Questo è difficile stabilirlo in anticipo, anche se il fatto che il premier abbia già messo le mani avanti, dicendo che eventuali focolai non sono imputabili a carenze dell’azione di governo, non è particolarmente incoraggiante. E’ ovvio che, come ha detto al figlio Niccolò, “se succede qualcosa a scuola non è perché papà ha lavorato male”. Ma il punto non è se ci saranno casi di Covid a scuola (questo è certo, ed è perfettamente normale, ahimè), ma se ve ne saranno pochi o parecchi, se sarebbero potuti essere molti di meno con scelte politiche diverse, e se ci siano le condizioni per gestire efficacemente i casi che certamente ci saranno, tanti o pochi che siano. Il caso di Israele, che giusto in questi giorni – primo paese al mondo – ha annunciato il ritorno al lockdown, dovrebbe insegnare qualcosa: se Israele deve di nuovo chiudere, è essenzialmente perché ha sbagliato tutto sulla scuola, dai tempi di riapertura, alla dimensione delle classi, agli errori nella aerazione dei locali (basata sui condizionatori).

Ebbene, sul versante della sicurezza il quadro è tutt’altro che rassicurante, per due ordini di ragioni. Il primo è che le misure adottate sono alquanto deboli, specie se confrontate con quelle di diversi paesi europei, che prevedono regole precise sulla frequenza di aerazione dei locali, un distanziamento maggiore (1.5 metri o 2), vincoli stringenti alla dimensione delle classi (da 10 a 20 bambini, a seconda dei paesi). Per non parlare della incapacità di assicurare un adeguato distanziamento nei trasporti: quella di considerare “congiunti” i bambini che vanno nella medesima scuola è una trovata degna di un Azzeccagarbugli; una acrobazia linguistica cui il governo è dovuto ricorrere perché per mesi e mesi si era occupato d’altro e, arrivati al 27 agosto, non c’era più tempo di provvedere diversamente, innanzitutto rafforzando il trasporto pubblico locale. Viene da chiedersi: a che serve tentare maldestramente di assicurare il distanziamento a scuola, con la ridicola regola del metro fra le “rime buccali”, se prima e dopo l’ingresso a scuola – per mancanza di bus – si costringono i ragazzi ad assembrarsi sui mezzi pubblici?

Ma c’è anche un altro ordine di ragioni, strettamente sanitarie, che non ci può lasciare tranquilli. Dalla metà di giugno, quando l’epidemia ha dato chiari segni di rialzare la testa (un fatto inizialmente segnalato da pochi, ma progressivamente riconosciuto da tutti), nulla è stato fatto per invertire la tendenza, e molto è stato invece fatto per prolungare il più a lungo possibile il periodo in cui la gente poteva divertirsi, il turismo riprendere fiato, e il virus accomodarsi fra noi; fino alla decisione finale di tenere le discoteche aperte anche a Ferragosto, nonostante i disastri provocati dalla folle estate fossero divenuti evidenti a tutti. Ebbene tutte queste scelte e omissioni (specie quella di chiudere un occhio su discoteche e movida) un risultato, prevedibile e previsto, l’hanno prodotto: aumentare il numero di contagiati e, con esso, il rischio che chiunque, ragazzo, insegnante, o familiare, contragga il virus.

Mentre ipocritamente si proclamava che la scuola era una “priorità assoluta”, e che “nemmeno una ora di lezione” doveva andare perduta, si permetteva che il rischio di contagiarsi, sceso ai minimi all’inizio dell’estate, tornasse inesorabilmente a salire.

Ma di quanto? A che punto siamo oggi?

Difficile fornire una stima precisa, ma l’ordine di grandezza è chiaro. Rispetto ai minimi toccati all’inizio dell’estate il numero di morti è quasi triplicato, e il numero di ricoverati in terapia intensiva è circa quadruplicato. Quanto al numero dei contagiati, è verosimile che sia aumentato ancora di più, perché l’età mediana si è drasticamente abbassata, e più la popolazione di contagiati è giovane, minore è la probabilità di un ricovero in terapia intensiva o di un decesso. Morti e ricoverati in terapia intensiva tornano, anche se per ragioni diverse rispetto a marzo e aprile, ad essere solo la punta dell’iceberg del contagio.

Tirando le somme, credo che il numero di contagiati sia almeno quintuplicato, ma non sarei stupito che qualche collega epidemiologo meno prudente di me ipotizzasse che sono decuplicati.

Ecco perché affermare che la scuola riapre “in condizioni di sicurezza” è semplicemente una bugia. No, tra luglio e agosto la scelta di chi ci governa non è stata di approfittare dell’estate per ridurre ulteriormente la circolazione del virus e arrivare alla riapertura delle scuole in condizioni di massima sicurezza (linea di condotta più volte invocata dal prof. Crisanti, e non solo da lui). La scelta è stata di risarcire gli italiani per il lockdown regalando loro un’estate senza regole, anche se si sapeva benissimo che questo avrebbe reso meno sicuro il ritorno a scuola.

Ora che la frittata è fatta, ora che è chiaro che molte scuole non potranno garantire una ripartenza in sicurezza, ora che lo spettro di un ritorno alla didattica a distanza si fa più minaccioso, vorrei almeno, a nome di tanti genitori, chiedere una cosa, minimale ma dovuta: se uno studente viene confinato nella stanza del Covid, e mandato a casa perché sospetto, potete almeno garantirgli il tampone (e la comunicazione dell’esito) entro 48 ore?

Già, perché non tutti i genitori se ne sono ancora accorti, ma non c’è nulla, ma proprio nulla, nei protocolli e nelle procedure, che dia alle famiglie questa garanzia. Non paghi di scaricare sulle famiglie un’operazione (la misurazione della temperatura) che la scuola non è in grado di assicurare, i nostri politici ed esperti hanno previsto che, in caso di sospetto Covid, i genitori debbano riprendersi il pargolo e provvedere loro stessi a contattare un medico, che a sua volta deciderà. Come se non si sapesse che proprio questo è il problema, in tante realtà: non c’è garanzia che il medico venga a casa per una visita, non c’è garanzia che qualcuno effettui subito il tampone, non c’è garanzia che l’esito venga tempestivamente comunicato, e non si perda invece nei meandri della burocrazia delle mail, della “sanità digitalizzata” e senza volto.

Questo è, purtroppo, quello che è successo nei terribili mesi della prima ondata. Possiamo chiedervi che non succeda più?

Pubblicato su Il Messaggero del 12 settembre 2020




La ruota e il ruotino. Perché la didattica a distanza non è la soluzione

Avete presente quando bucate una gomma? Questo è quello che facciamo: imprechiamo, montiamo la ruota di scorta, e ci premuriamo di sostituirla con una ruota della misura giusta appena possibile. Tutti e tre questi passaggi sono fondamentali.

Credo sia successo esattamente questo quando il Covid ci ha costretti ad abbandonare le lezioni in presenza: abbiamo forato e, con prontezza, abbiamo montato il ruotino, ovvero siamo passati alle lezioni online. Era la cosa giusta da fare, meno male che ce l’avevamo, la ruota di scorta. Quello che voglio dire è solo questo: le lezioni online non sono niente di più che una ruota di scorta, da sostituire al più presto con una ruota vera. Per favore, non affezioniamoci al ruotino!

Ci tengo a sottolineare che l’imprecazione è fondamentale, ma su questo punto tornerò alla fine.

Parlerò solo di quello che vedo coi miei occhi, e cioè le lezioni universitarie della disciplina che mi dà da vivere, ovvero la matematica. Il principio si applica in generale, anche a lezioni non universitarie. L’unica cosa che dovete sapere sul mestiere del matematico è questa: per comunicare con un suo simile, al matematico lavagna e gesso sono più che sufficienti.

Partiamo dal presente, cioè le lezioni online. Premetto una cosa: durante il lockdown ho comprato un tablet, ci ho messo mezzora a imparare a usarlo e l’ho sfruttato diverse volte per fare seminari, di ricerca e non, che normalmente avrei fatto alla lavagna. Non è solo divertente e facile da usare, è uno strumento eccellente. Ma, appunto, mi fermo qui: è uno strumento. Non può sostituire lavagna e gesso, e voglio spiegare perché.

Com’è una lezione online? Si sceglie una piattaforma in rete a cui collegarsi, per esempio Zoom, e una volta arrivati tutti gli interessati il docente inizia a condividere lo schermo, che sostituisce la lavagna. A questo punto, ci sono diverse modalità possibili (riporto solo le più efficaci tra tutte): il docente può scrivere sul tablet in tempo reale, di solito copiando la lezione preparata in anticipo su dei fogli, e gli studenti vedono il testo apparire sul proprio schermo, proprio come alla lavagna; oppure, può decidere di mostrare delle slide preparate in anticipo. I partecipanti, fin da subito, chiudono il microfono e il video, così da migliorare la connessione e non disturbare la lezione: sono muti e invisibili. Il docente parla per un’ora o due da solo nel salotto di casa sua, e gli studenti ascoltano da casa propria. Se vogliono, alla fine fanno domande. E questo è quanto.

Invece prima era così: lo racconto in prima persona. Entro in aula con due gessetti, nient’altro. Un numero più o meno grande di studenti si sono svegliati quel giorno e sono entrati in università nella speranza di imparare cose nuove guardando quello che succede alla lavagna. Voglio enfatizzare che la matematica, come molte altre discipline, si impara soprattutto parlando con le persone: i libri sono fondamentali, ma difficili da interiorizzare. A volte cinque minuti spesi alla lavagna con qualcuno che ci spiega qualcosa, anche da studente a studente, valgono molto di più di due ore passate su un libro.

Continuiamo: inizio a scrivere alla lavagna. Il gesso fa rumore. Scrivo lentamente, per non mettere ansia a nessuno: il rumore del gesso che batte freneticamente sulla lavagna potrebbe far scattare la preoccupazione di non saper stare al passo. Mi giro spesso a guardare le facce degli studenti: gli sto raccontando una storia, magari non è una storia facile e non sono di certo quello che la sa raccontare meglio, ma girandomi spesso per incontrare i loro sguardi capiscono che sono lì per loro, che sto facendo del mio meglio per passar loro qualcosa e che quel viaggio lo stiamo facendo insieme. Li guardo negli occhi. Così sanno che, se vogliono, possono interagire, fare domande. Avete mai fatto caso ai baristi, quando evitano il contatto visivo? E’ il loro modo di dirci che non hanno tempo per noi. Quindi, li guardo negli occhi. Mentre scrivo, non posso farlo. Ma posso ascoltare. Magari c’è silenzio, ma ci sono diversi tipi di silenzio: per esempio, quello che riflette la consapevolezza che si sta toccando un passaggio cruciale, o quello che mi dice che sono curiosi di vedere come finisce la storia. Significa che devo fare uno sforzo per mantenere quell’atmosfera fino alle fine del discorso.

E poi, arriva la cosa più importante: il brusio. Fondamentale, sentire il brusio. Significa che non sono stato efficace, che la cosa che ho appena detto avrei potuto dirla meglio. Torno indietro, mi ci soffermo, la dico in modo diverso, li riguardo negli occhi e all’istante ho la conferma che non sono stato abbastanza chiaro. Di solito, a quel punto parte una domanda.

Intervallo: siamo a metà lezione. Qualcuno si avvicina alla lavagna, fa una domanda troppo intricata da proporre durante la lezione, o magari mi chiede di rispiegare una cosa. Adesso siamo lì, alla lavagna, anche lo studente ha un gessetto in mano, possiamo scrivere entrambi e guardarci negli occhi, e la vicinanza fisica aiuta quella spirituale: sembra un’idiozia, ma mi ricordo bene che, da studente, le cose che imparavo meglio erano quelle che mi venivano spiegate da qualcuno che avevo la prova tangibile che fosse un essere umano, a pochi passi da me, mentre disegnava simboli alla lavagna che erano lì sopra, bianco su nero, proprio per me.

Non farò una comparazione tra le due descrizioni che ho dato, delle lezioni online e di quelle in presenza. Osservo semplicemente che nulla di quello che ho descritto della lezione in presenza si trova, o è in qualche modo recuperabile, nella lezione online.

Anche i seminari di ricerca si fanno online. Lì il clima è simile ma anche un po’ diverso, per esempio il pubblico non è formato da studenti ma da dottorandi, ricercatori: non si tiene una lezione ma si espongono i risultati delle proprie ricerche. Buttiamola sul ridere, per stemperare un po’: mi manca molto vedere il professore di turno addormentato in prima fila con la bocca aperta dopo dieci minuti che parlo, forse perché una pasta cacio e pepe prima del seminario non era una buona idea, oppure perché sono veramente noioso. In ogni caso, era bello da vedere. Potevo scegliere di fare una battuta, o direttamente dedurre che avrei potuto migliorare l’esposizione. Ma qualunque cosa scegliessi di fare, sapevo esattamente cosa stava succedendo attorno a me. Io stesso, assistendo a dei seminari online fatti da altri, mi sono alzato diverse volte dal divano (sì, li ascoltavo sul divano, e, per essere onesto fino in fondo, non sempre avevo i pantaloni) per prendermi una fetta al latte nel frigo. Le lezioni e i seminari fatti così assomigliano più a delle serie su Netflix, e la cosa mi spaventa proprio per lo smisurato successo di Netflix.

Infine, parliamo dell’imprecazione. Essa non scaturisce solo nel momento in cui foriamo: anche dopo che abbiamo montato il ruotino, ci accorgiamo che in curva la tenuta di strada è peggiorata, e siamo costretti ad andare a velocità ridotta, perché il veicolo è diventato d’un tratto meno sicuro. Voglio chiedere a tutti coloro che sono in posizione di imprecare, per favore di non smettere. Non abituiamoci al ruotino: non è uno strumento sicuro, e chi rischia di rimetterci sono i giovani, gli studenti che ci stiamo impegnando a formare ogni volta che entriamo in un’aula. Non permettiamo ai burocrati di pensare che, siccome la macchina continua ad andare avanti, va bene così e non dobbiamo passare dal gommista. La macchina va avanti solo perché il danno non era al motore, ma le ruote sono ugualmente importanti.




La mente sotto il Covid

Del Covid, in questi lunghi mesi, si è parlato quasi sempre da due angolature: come minaccia alla salute, e come minaccia all’economia. Meno spazio ha avuto un terzo possibile punto di vista, quello degli effetti sul modo di funzionare delle nostre menti. Eppure è quest’ultimo, probabilmente, il terreno su cui stanno avvenendo i cambiamenti più radicali.  Forse non amiamo parlarne perché questi cambiamenti non ci piacciono, o ci fanno soffrire, o aumentano il nostro disorientamento e la nostra angoscia.

Il cambiamento più evidente, probabilmente, è l’aumento dell’incertezza. Che non significa semplicemente che non sappiamo come sarà il mondo fra un anno, e nemmeno fra un mese, ma che viviamo in uno stato di sospensione perenne, senza fine. Rimandiamo ogni decisione, non siamo più capaci di pianificare nulla, né progettare le nostre vite. Il Covid ci paralizza esistenzialmente. Ma forse sarebbe più esatto dire: il Covid paralizza gli italiani, forse gli europei. Non gli americani: le notizie che provengono da New York, che descrivono una città che si sta svuotando e una popolazione in fuga verso siti più periferici, mostrano che la paralisi non è l’unica reazione possibile. Forse perché molto più abituati di noi ai cambiamenti – cambiare lavoro, cambiare città, cambiare stato – gli americani sembrano aver deciso che il mondo non tornerà come prima, e il momento di cambiare abitudini e modi di vita è adesso, non chissà quando nel futuro. La società americana è elastica, forse anche per questo lì il contraccolpo economico del Covid – nonostante la catastrofe sanitaria (grave quasi come la nostra) – potrebbe risultare meno drammatico che in Europa. Per il 2020 l’Ocse prevede un tracollo del Pil di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna compreso fra l’11 e il 15%, mentre per gli Stati Uniti prevede un calo del 7-8%, poco più della metà.

Non è solo la difficoltà di progettare il futuro, però. Il Covid sta portando nelle nostre vite cambiamenti più sottili, ma potenzialmente ancora più distruttivi. Il più importante, a mio parere, è uno stato generalizzato di anarchia mentale, un fenomeno che mi è più facile spiegare con esempi che con un discorso astratto.

Prendiamo un invito a cena. In condizioni normali lo accetti, se ti piacciono le persone che incontrerai. Ma in condizioni Covid, specie se si sono superati i 50 anni, può succedere di chiedersi: quante persone ci saranno? si mangia all’aperto o al chiuso? il pranzo è in piedi, o saremo tutti seduti a tavola? e in questo secondo caso, a che distanza ci metteranno? chi sono gli invitati? sono persone prudenti e isolate, o sono persone che, per lavoro o per svago, hanno centinaia di contatti? potendo scegliere il posto a tavola, è più rischioso sedere fra X e Y o fra Z e W?

Ovviamente sono tutte domande che, di norma, nessuno osa rivolgere esplicitamente ai suoi interlocutori.  Però non vuol dire che non ce le facciamo. O che alcuni di noi potrebbero farsele. O che potrebbero abitare le menti delle persone che incontriamo. Ed ecco la conseguenza: puoi essere più o meno ansioso, più o meno preoccupato, più o meno razionale, ma non puoi sfuggire al fatto che il mondo sociale in cui il Covid ti ha gettato è un mondo in cui non è irragionevole pensare che l’altro possa essere un pericolo per te e tu possa essere un pericolo per lui. Possiamo negarlo finché vogliamo, protestare che noi siamo superiori, che per noi tutto è come prima, ma la realtà è che in ciascuno la percezione degli altri è cambiata, tanto o poco, ma è cambiata. E vale anche per i negazionisti: loro possono credere quel che vogliono, ma non possono sfuggire al fatto che gli altri non la vedono come loro.

Quello descritto sarebbe già, di per sé, un mondo inquietante. Ma non è tutto. Nel mondo sociale che il Covid ci ha regalato le nostre menti non si trovano semplicemente a fare i conti con il trauma dell’altro come pericolo. Accanto a quel trauma, che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi, c’è un altro dramma: il sistematico disallineamento fra le soglie di rischio, ossia il fatto che molto raramente due persone hanno il medesimo grado di avversione al rischio, e ancora più raramente hanno le medesime idee su che cosa è veramente rischioso e che cosa non lo è. Può così capitare di essere considerati pavidi (o fobici), se l’interlocutore ha una avversione al rischio minore della nostra, e imprudenti (o incivili) se la sua avversione è maggiore. L’altro non è semplicemente percepito come un pericolo, ma come diverso e incompatibile con noi, perché non ha le nostre stesse sicurezze e paure.

Questa situazione in parte è normale. Le differenze di avversione al rischio ci sono sempre state, Covid o non Covid. Quel che è nuovo, e tutt’altro che normale, è che le soglie di rischio individuali siano del tutto disallineate. C’è chi pensa che il Covid sia un pericolo mortale, e chi pensa che sia poco più di un’influenza. C’è chi porta la mascherina anche all’aperto senza nessuno nelle vicinanze, e chi si ammassa su autobus e vaporetti, in strada, in discoteca. C’è chi pensa che la trasmissione del virus avvenga solo interagendo con altri, e chi teme la trasmissione attraverso le superfici, o attraverso l’aria. C’è chi smette di pensare che il Covid sia un pericolo, perché pensarlo gli rovinerebbe le vacanze, salvo poi tornare a temerlo quando prendere sul serio il Covid comporta solo la noia di sottoporsi a un tampone (è il caso dei giovani di ritorno da vacanze massificate).

La realtà, come ben sanno gli psicologi sociali dai tempi di Leon Festinger, inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”, è che gli esseri umani funzionano come macchine di auto-rassicurazione. Mediamente, non pensano quel che l’evidenza empirica disponibile suggerisce, ma quello che li fa stare meglio, o li fa soffrire di meno, o mitiga la loro angoscia. La loro capacità di ignorare la realtà, o di autoingannarsi, non ha alcun riscontro nel mondo animale. E il Covid ha fornito una eccezionale occasione di esercitare questa loro capacità.

E’ un problema?

Sì, perché la vita sociale si regge su regole comuni e accettate, ma anche su schemi condivisi di percezione della realtà. Il regime di anarchia mentale innescato dal Covid è pericoloso per la coesione sociale perché nessun società può sopravvivere senza una descrizione delle cose minimale e comune. Ma è anche pericoloso per l’equilibrio psicologico del singolo, perché un mondo in cui ognuno vede quel che vuol vedere, senza riguardo a quel che vedono gli altri, è altamente ansiogeno, conflittuale, destabilizzante.

Si poteva evitare?

In parte no, perché la paura è uno stato d’animo con cui ognuno fa i conti o modo suo, in base alla sua personalità, alle sue esperienze, e anche ai propri interessi. Per un imprenditore, o per un lavoratore non garantito, prendere sul serio la paura può essere troppo costoso, perché fermarsi significa la rovina economica. Per un pensionato, un dipendente pubblico, o un operaio tutelato dalle organizzazioni sindacali, la paura è meno costosa, perché il suo reddito non è a rischio (per ora).

In parte però sì, l’anarchia mentale e i suoi danni si potevano evitare, almeno un po’. Non era impossibile, volendo, arrivare a un minimo di regole e di standard di prudenza condivisi. Bastava non dire prima che le mascherine e i tamponi non servivano, e poi che erano assolutamente necessari. Bastava non stabilire regole illogiche e incoerenti (distanziamento sui Freccia rossa, ammucchiate sugli altri mezzi di pubblici). Bastava far rispettare le regole che si enunciavano, senza chiudere un occhio sulle violazioni (movida, assembramenti). Bastava essere netti e chiari sulle discoteche, anziché pilatescamente scaricare ogni responsabilità sui Governatori delle regioni. Bastava che gli scienziati e gli esperti veicolassero un messaggio sostanzialmente coerente e ragionevole, anziché dividersi nei programmi televisivi in cerca di attimi di celebrità. Se ognuno può permettersi di percepire la realtà in modo del tutto personale, e privo di agganci obiettivi, è perché in questi mesi il racconto pubblico è stato dissonante e cacofonico.

L’anarchia mentale che ci attanaglia è certamente, innanzitutto, figlia della filogenesi, ovvero di ciò che siamo diventati come membri della specie umana. Ma è anche, in qualche misura, figlia della classe dirigente che ci ritroviamo: incapace di parlare con una voce sola, e proprio per questo destituita di ogni autorevolezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 settembre 2020




Also sprach Mario Draghi

    1.- Questo agosto mi sono preso una pausa sui temi giuridici per cimentarmi con l’attualità, in particolare col noto discorso di Mario Draghi al meeting di CL tenutosi a Rimini. Ovviamente la lettura che darò del discorso dell’ex governatore della BCE è del tutto personale, ma mi sforzerò di indicare le ragioni per cui ritengo che Draghi abbia voluto in quella sede mandare una serie di messaggi indirizzati a certi ambienti. Del resto è noto che le parole hanno il senso che gli attribuisce chi le ascolta, che non necessariamente coincide con la volontà di chi le ha pronunciate. Se chi parla è responsabile di quel che dice, chi ascolta è responsabile di quel che capisce. Dunque io vi racconto quel che ho capito, correndo il rischio che sia cosa diversa da quel che Draghi intendeva dire (o che, magari, intendeva davvero dire, ma senza volerlo).

Quel che è certo è che quello di Draghi a Rimini è stato un discorso indubbiamente assai denso di spunti e – secondo me – assai più profondo ed incisivo di quanto abbiano saputo o voluto cogliere opinionisti e commentatori, specie quando non ci si limiti ad analizzare il “cosa” Draghi ha detto (e magari tenendo conto della successione di tutto quel che ha detto, non di uno o due passaggi opportunamente scelti, come per lo più hanno fatto i media nazionali), ma si ponga attenzione anche al contesto di “quando” e “dove” Draghi ha deciso di parlare. Prima ancora di tutto questo, tuttavia, va considerato anche il fatto “che” Draghi abbia scelto di parlare.

Quando qualcuno sente il bisogno di parlare in pubblico (viepiù quando si tratta di un personaggio prestigioso e ascoltato, ma di regola assai riservato e misurato nelle sue uscite pubbliche) ritiene di avere delle buone ragioni per farlo. E solitamente le ragioni di un personaggio importante che dice qualcosa in pubblico sono che intende dare un proprio contributo al dibatto sui temi in cui ritiene di avere voce in capitolo. I contributi al dibattito servono però solo quando si pensa di avere qualcosa da aggiungere al dibattito stesso e – dunque – quando si ritiene che lo stato attuale del dibattito non sia del tutto soddisfacente. Tutto questo per dire che a mio avvisto Draghi ha scelto di parlare a Rimini perché ritiene che il modo in cui viene affrontata l’emergenza economica che sta seguendo all’epidemia di Covid – a livello di Unione Europea e anche in Italia – non sia ottimale e sia soprattutto connotato, per quel che concerne l’UE, da una pesante sottovalutazione delle possibili ricadute sistemiche degli errori commessi a livello unionista. Si tratta di un’impressione che – come vedremo – appare confermata dal contenuto di un discorso che, in diversi punti, appare velatamente critico circa le ricette sinora elaborate dall’UE per reagire alla crisi.

    2.- Svolta questa essenziale premessa vediamo dunque di capire il senso che potrebbe celarsi dietro al “dove” Draghi ha scelto di parlare (credo sia chiaro che un personaggio importante e riservato come Draghi viene infatti “invitato” a un evento solo se fa capire che desidera parlarvi). Il meeting di CL è infatti un evento di un certo rilievo a livello nazionale, ma non è di sicuro tanto prestigioso a livello internazionale da giustificare di per sé l’interesse di un big internazionale del calibro di Mario Draghi. Va tuttavia considerato che Draghi – devoto a Sant’Ignazio di Loyola e considerato vicino all’ambiente dei gesuiti, che notoriamente domina la politica vaticana in tempi recenti – è stato da poco nominato membro dell’Accademia Pontificia delle scienze sociali, organo consultivo che si occupa dello sviluppo della dottrina sociale della Santa Sede. A sua volta Comunione e Liberazione – che organizza il meeting di Rimini – mentre in epoca passata era stata catalogata tra i movimenti cattolici “di destra”, sotto l’ultimo pontificato (il primo nella storia retto da un gesuita) ha svoltato piuttosto nettamente “a sinistra”, aderendo in toto all’agenda, che potremmo definire come vagamente global-peronista, della chiesa Bergogliana.

Questa potrebbe essere una delle ragioni per cui Draghi ha accettato (ma, in realtà, scelto) di tenere proprio in quella sede un discorso, come vedremo, assai “forte” per contenuti. Interessante notare a tale riguardo (per ragioni che chiariremo alla fine di questo articolo) anche che lo stesso Giuseppe Conte, attuale capo di Governo, è uomo politico considerato vicino ad ambienti vaticani e gesuiti, di guisa che vi è “fungibilità” dell’uno con l’altro in termini di vicinanza a certe posizioni ideologiche e a certi interessi di cui si fa portatore attualmente la Santa Sede. La mia impressione è insomma che la scelta del pulpito riminese ci indichi uno dei due ambienti in nome del quale Draghi intendeva parlare, vale a dire quello della (neo-)chiesa (post-)cattolica a trazione gesuitica (e di tutta la costellazione di enti e associazioni che le gravitano intorno), impegnata a definire e proporre al mondo la sua nuova dottrina politico-sociale; dottrina della quale il discorso di Draghi potrebbe dunque rappresentare una sorta di essai.

Mario Draghi è tuttavia anzitutto un uomo di potere che ha molta familiarità con gli ambienti della grande finanza di Wall Street, ossia con quei “signori dello spread” che – potendo muovere capitali immensi in un secondo e potendo in via di fatto influenzare le decisioni delle agenzie di rating – danno le carte a livello di investimenti globali. Oltre ad essere stato manager di Goldman Sachs per parecchio tempo, Draghi è stato a suo tempo appoggiato e sostenuto come presidente della BCE anche dagli ambienti finanziari statunitensi, che lo hanno sostenuto contro candidati graditi ad esempio alla Germania. Il discorso di Rimini, dunque, potrebbe rappresentare anche un riassunto ragionato e sistematizzato di una serie di percezioni e impressioni raccolte da Draghi presso esponenti di quegli ambienti finanziari.

Che Draghi possa aver parlato manifestando la sensibilità attuale di alcuni ambienti di Wall Street e degli ambienti vaticani assume valenza politica non trascurabile, quanto si considera che l’attuale Presidente della Repubblica (dunque il solo soggetto che può in autonomia decidere le sorti di governo e legislatura) si è mostrato in più di una occasione – per un verso – attento e sensibile alle opinioni dell’attuale pontificato e – per altro verso – viene considerato anche un solido altantista. Mario Draghi, dal punto di vista dell’attuale capo dello stato italiano, sarebbe dunque senz’altro un candidato premier tra i favoriti (se non addirittura – considerando la sua preparazione tecnica e il suo prestigio internazionale – il migliore in assoluto), qualora la situazione dovesse richiedere una sostituzione di Conte senza indire nuove elezioni. Non sarebbe del resto una novità per il nostro paese il fatto che un ex banchiere centrale si insedi a Palazzo Chigi per condurre un esecutivo con il compito di “traghettare” il paese – in situazione di crisi economica – verso le elezioni politiche. La differenza tra Draghi e Conte sta nel fatto che il secondo è un burocrate romano – in quota cattolicesimo di sinistra – che ha ricoperto sinora solo qualche carica amministrativa di media caratura sostenuto da Berlino (cui fa riferimento in sostanza la corrente più europeista del PD, che attualmente controlla il MEF) e da Pechino (grazie alla corrente sinofila del movimento cinque stelle e dei prodiani), laddove il secondo è un importante uomo di potere assai rispettato ed influente a livello internazionale – pure gradito al Vaticano – che potrebbe portare invece in dote il consenso dei padroni di Wall Street e dell’amministrazione USA, ma che di sicuro non piace ai tedeschi.

    3.- Passiamo ad esaminare ora il “quando” del discorso di Draghi, partendo dalla considerazione che quella di Rimini non è stata in realtà la prima uscita pubblica di Draghi sulla crisi Covid, bensì la seconda. Draghi si era infatti manifestato sull’argomento per la prima volta con un breve articolo apparso il 25 marzo 2020 sul Financial Times, vale a dire l’organo ufficioso della finanza di Wall Street. Si trattava di un articolo assai stringato ma che già prefigurava ricette per certi versi eterodosse per la soluzione della crisi e che – forse proprio per questa ragione – è stato largamente ignorato sia dal nostro esecutivo che dalle istituzioni dell’UE, che – si sarebbe visto poi – avrebbero battuto vie assai più consuete rispetto a quelle ipotizzate in quell’articolo.

Questo potrebbe spiegare la scelta di Draghi di partire alla carica in agosto e in Italia, ossia alla vigilia di un autunno 2020 che, proprio nel nostro paese, sarà caldissimo sotto il profilo economico e sociale, essenzialmente in ragione delle ricette (insufficienti) scelte dal nostro governo (e dall’UE) per affrontare la crisi economica indotta dal Covid. Si tratta di una tempistica tutt’altro che casuale, a mio avviso dovuta alla considerazione che – secondo Draghi – l’Italia potrebbe essere il paese in cui la mancanza di coraggio mostrata dall’UE di fronte all’emergenza (insieme all’insufficienza delle misure messe in campo dal Governo nazionale) rischiano di far deflagrare una crisi, sociale prima e politica poi, di portata tale da condurre – in un quadro di grave incertezza e di debolezza economica mondiale destinato a protrarsi per diverso tempo – ad un effetto domino che potrebbe passare dapprima dall’Italia all’UE per poi incidere anche sugli assetti economici e finanziari anche a livello globale.

Agosto, infatti, non è solo il mese che viene prima del disastro economico e sociale che già si profila all’orizzonte per il prossimo autunno: è anche il mese immediatamente successivo a quel luglio 2020 in cui l’UE – dopo settimane di travaglio – ha infine partorito le sue “ricette” per aiutare gli stati a uscire dalla crisi, tra le quali il cosiddetto recovery fund e il famigerato MES sanitario. Ricette che – per quanto siano state definite epocali dai nostri media, essenzialmente per fornire un sostegno di immagine al governo – secondo alcuni osservatori, specie d’oltre atlantico, hanno in realtà solo confermato l’incapacità degli stati dell’UE di superare i loro egoismi nazionali e non hanno di conseguenza segnato una svolta rispetto all’impostazione (rigorista, deflattiva, pro ciclica e poco coraggiosa) con cui l’UE – a partire dalla crisi Greca – intende gli “aiuti” agli stati membri che si trovano in difficoltà economica.

    4.- Prima di iniziare ad affrontare il tema di “cosa” Draghi ha detto a Rimini, occorre peraltro a mio parere fare un salto indietro a quello che potremmo definire come il preambolo al discorso di Rimini, rappresentato dal già citato articolo sul Financial Times del 25 marzo scorso.

L’articolo in questione si apriva con un chiaro monito: “a deep recession is inevitable” e, di conseguenza, altrettanto inevitabile sarà negli anni a venire “a significant increase in public debt”. Dunque la recessione – per Draghi – non può essere evitata e sarà tanto grave da non poter essere affrontata se non a colpi di spesa pubblica in deficit. Sin qui, dunque, nulla di nuovo sotto il sole.

Però Draghi aggiunge che “Much higher public debt levels will become a permanent feature of our economies and will be accompanied by private debt cancellation”. E qui invece già troviamo una piccola sorpresa, consistente nell’indicazione della cancellazione (vale a dire in forme di socializzazione a carico del bilancio pubblico) del debito privato come soluzione praticabile per uscire dalla crisi. Si tratta – è bene sottolinearlo – di una soluzione del tutto contraria alla cosiddetta “austerity” che sinora ha ispirato l’UE a trazione tedesca, che ha prodotto sinora solo strumenti come i regolamenti di Basilea 2, il bail in e i prestiti condizionati del MES. Ma soprattutto in questa piccola frase, apparentemente innocua, Draghi chiarisce che quello che viene ritenuto dai più (soprattutto nell’UE) un problema di debito pubblico in realtà lo è solo di riflesso, trattandosi semmai di un problema di trasferimento al bilancio pubblico di una consistente quota di quel debito privato che – per effetto delle varie crisi economiche susseguitesi negli ultimi anni (e, mi viene da aggiungere, anche per le politiche deflattive e pro cicliche adottate in UE) – risulta ormai inesigibile.

Poi Draghi passa ai dettagli della reazione all’emergenza economica, mettendo al primo posto il sostegno al reddito delle famiglie da conseguire sia mediante misure di alleggerimento fiscale che di sussidi diretti: “employment and unemployment subsidies and the postponement of taxes are important”. In secondo luogo, Draghi parla di possibili finanziamenti alle imprese da parte del sistema bancario “banks must rapidly lend funds at zero cost to companies prepared to save jobs” , specificando però che “the cost of these guarantees should not be based on the credit risk of the company that receives them, but should be zero regardless of the cost of funding of the government that issues them”. Si noti in particolare che – per Draghi – lo stato dovrebbe consentire alle banche di erogare a costo zero il credito anche a debitori che sarebbero considerati ad alto rischio, fronteggiando con risorse pubbliche (ecco dunque il trasferimento del debito privato sul bilancio pubblico) l’eventuale insolvenza dei creditori mediante forme di garanzia pubblica a favore delle banche per i crediti che non verranno restituiti. Draghi non si allinea dunque alla narrazione rigorista (e tutta nordica) del debito/Schuld che deve essere sempre puntualmente e integralmente restituito dal creditore privato, quasi appunto per purgare la colpa di averlo contratto. Particolarmente significativo in questo senso appare il passo seguente dell’articolo sul FT, in cui Draghi sostiene quanto segue: “and, were the virus outbreak and associated lockdowns to last, they (riferendosi alle imprese) could realistically remain in business only if the debt raised to keep people employed during that time were eventually cancelled”.

Ma è nel finale che Draghi – parlando della specifica situazione europea – manda messaggi inaspettati, ancorché in punta di penna: “Faced with unforeseen circumstances, a change of mindset is as necessary in this crisis as it would be in times of war. The shock we are facing is not cyclical. The loss of income is not the fault of any of those who suffer from it”. Qui dunque si ribadisce il concetto secondo cui l’Europa, di fronte ad un evento grave ed eccezionale che colpisce persone incolpevoli, dovrebbe mostrarsi capace di un cambio di paradigma rispetto a quello tradizionale – quasi calvinista – del debito-colpa che deve per forza essere sempre integralmente ripagato, dunque rispetto alla narrazione che ispira attualmente la politica economica e monetaria dell’UE. Ancora più chiara in tal senso appare la chiusura: “and, as Europeans, supporting each other in the pursuit of what is evidently a common cause”.

In sintesi: il messaggio mandato da Draghi al mondo e all’Europa nell’articolo di marzo pare consistere nella necessità di attenuare il rigore e l’austerità, in favore sia di politiche a sostegno del reddito delle famiglie e della continuità delle attività d’impresa (niente concessioni, dunque, per narrazioni – à la Attali – imperniate sulla supposta efficacia salvifica della “distruzione creatrice”, che tanto va di moda in certi ambienti economici e finanziari), sia di un facile accesso al credito bancario per far fronte alla crisi di liquidità delle imprese, ma facendo gravare il costo ultimo delle misure adottate sul debito pubblico.

    5.- Come si è già avuto modo di accennare, l’UE non pare aver ascoltato un granché le proposte di Draghi, contando che – giunti a fine agosto 2020 – l’unica vera misura “solidaristica” che è stata messa in campo dalle istituzioni unioniste è consistita nell’aumento del quantitative easing della BCE, ormai esteso a qualunque emissione di titoli di stato e – dunque – in deroga alle quote di sottoscrizione e agli altri limiti previsti ordinariamente dal diritto UE. Misura certamente importante, ma che, da un lato, non risolve il problema della restituzione del debito contratto (una volta che la BCE decidesse di far cessare il programma di acquisti, l’immenso debito accumulato potrebbe infatti non essere più rinnovabile a scadenza, con tassi bassi, dai singoli stati mediante emissioni sul mercato privato di nuovi titoli del debito pubblico) e che – d’altro canto e soprattutto – lascia ai singoli stati membri il compito di decidere se, quanto e come spendere le risorse finanziarie ottenute grazie al QE (con il rischio che questo mare di danaro, come avvenuto in passato, finsica per lo più a rimpinguare i bilanci della banche, piuttosto che non a sostenere l’economia reale).

Quanto infatti agli strumenti di soccorso individuati a luglio dall’UE e amministrati dalla Commissione o da altri enti sovranazionali (Sure, recovery fund e MES sanitario), si tratta di misure ancora largamente in fieri e che, comunque, si basano in larga parte sulla collocazione di titoli sul mercato, dunque – di nuovo – su debiti “normali” che, prima o poi e in un modo o nell’altro, andranno per intero ripagati dagli stati. Questo è vero – si badi – anche in relazione ai cosiddetti contributi a fondo perduto, in quando si tratta comunque di contributi concessi dall’UE che dovrebbero essere finanziati a bilancio con la creazione di nuove tasse comunitarie. Nulla di particolarmente diverso, insomma, rispetto alle vecchie ricette unioniste, salvo una piccola concessione all’aumento dell’entità del bilancio comune, ma finanziate con nuove entrate, dunque senza fare del vero debito condiviso.

Passando all’Italia, non ci vuole un genio dell’economia che capire che le soluzioni adottate per fronteggiare la crisi sono state assai poco incisive. A fronte di massicci scostamenti di bilancio non sono state infatti state messe in campo misure di sostegno strutturale alla ripresa proporzionate alle dimensioni della disastrosa contrazione economica che sarebbe poi arrivata, dal momento che – nonostante un periodo di chiusura delle attività più lungo ed esteso rispetto ad altri paesi – non c’è stato un sostanziale contributo pubblico diretto alle imprese (in termini di finanziamento diretto in conto capitale o di sgravio fiscale), ma soprattutto alle banche non è stato consentito di derogare ai criteri ordinari di valutazione del merito di credito per finanziare le imprese in maggiore difficoltà (se non per importi minori). A fronte di un sostegno all’occupazione esteso e prolungato (con una pioggia di cassa integrazione straordinaria e divieti di licenziamenti per causa economica protratti per mesi e mesi) e a fronte di una tutela pressoché totale di reddito e stabilità dell’impiego pubblico, non c’è stata sostanziale sospensione o riduzione del carico fiscale per le imprese e – anzi – le imprese (specie quelle piccole) e le attività professionali non hanno avuto aiuto immediato e concreto in termini di liquidità, a differenza di quanto avvenuto nella maggioranza degli altri paesi europei. Le imprese medie e quelle piccole, dunque quelle che sostengono la grande parte dell’economia italiana, sono state insomma dapprima costrette a sospendere l’attività per mesi e poi lasciate sole ad affrontare una gravissima crisi simmetrica.

Infine, l’atteggiamento ondivago e poco chiaro del governo su temi quali la riapertura delle scuole e degli uffici pubblici e – in generale – sulle regole per la transizione del sistema dalla fase di epidemia a quella di endemia e per la gestione di quest’ultima (specie con riferimento alla questione del lavoro a distanza e delle responsabilità dei datori di lavoro per eventuali infezioni da Covid) hanno creato una insidiosissima situazione di incertezza, che sta lasciando in sospeso a tempo indeterminato – salvo per le grandi imprese che hanno risorse sufficienti per adattarvisi – ogni ipotesi di investimento e/o di ristrutturazione diversa da un taglio di risorse e costi o dalla chiusura delle saracinesche.

Tutto questo lascia presagire che in autunno assisteremo a una progressione crescente di fallimenti (spesso chiesti dalla stessa impresa ormai decotta causa chiusura Covid) seguita, tra la metà di novembre e gennaio, da massicci licenziamenti collettivi (si stima già oltre il milione di persone), che potrebbero far crescere la tensione sociale a un livello tale da portare alla crisi di governo, dunque – in sostanza – rinnovando il dilemma (tutto italiano) tra un “governo tecnico” di salute pubblica e le elezioni politiche anticipate (che sarebbero verosimilmente stravinte dal centrodestra). Proprio in previsione di questo (ormai quasi scontato) scenario – come si diceva – Draghi ha probabilmente sentito l’esigenza di parlare subito, dunque già ad agosto, da Rimini. Ma veniamo, finalmente e appunto, al “cosa” l’ex governatore della BCE ha detto.

    6.- Il discorso di Rimini è un discorso articolato e di ampio respiro in cui – a differenza di quanto aveva fatto nell’articolo di marzo – Draghi illustra in dettaglio il suo pensiero su come l’Unione Europea dovrebbe affrontare la crisi economica che seguirà al Covid. Non si tratta ovviamente di un discorso politico che prefigura un programma di governo, ma nondimeno è un discorso in cui si possono individuare tutti gli spunti necessari per elaborare il programma di politica economica di un futuro governo che volesse (o fosse incaricato di) affrontare la seconda fase (quella economica) della crisi provocata dal Covid. Draghi stesso – del resto – riconosce che a Rimini avrebbe potuto limitarsi a fare una semplice lectio magistralis sulle conseguenze dell’emergenza Covid sull’economia globale, ma che invece ha preferito dare indicazioni chiare e specifiche in termini di “cosa fare” per uscire in piedi dal guado. Questa notazione a mio avviso chiarisce che l’intento di Draghi a Rimini è stato proprio quello di offrire la “sua” ricetta per la crisi. E – come vedremo – si tratta di una ricetta che non coincide né con quella adottata dal Governo italiano né – soprattutto – con quello che sta facendo l’Unione Europea.

Il punto di partenza del discorso è che la crisi indotta dal Covid giunge in realtà come l’ultima – e senz’altro la più grave – di una serie di crisi che hanno lasciato l’economia mondiale (e in particolare quella di alcuni stati, tra cui l’Italia) in una situazione di cronica debolezza economica. Questa è la ragione per cui l’emergenza sanitaria potrebbe divenire l’evento scatenante per una fase di vera e propria depressione assai duratura. Il rischio prefigurato da Draghi è in particolare quello dell’incertezza e della paura che paralizza assunzioni, consumi e investimenti. Dunque, in sintesi: per Draghi il Covid potrebbe dare inizio a una spirale deflattiva, provocata da una prolungata debolezza della domanda, che a sua volta provoca una contrazione dell’offerta, generando disoccupazione che si traduce in una ulteriore compressione della domanda (e così via in un circolo infernale che dalla stagnazione porta alla recessione e dalla recessione porta alla depressione economica). Questo rischio si manifesta in particolare per le economie che – come ad esempio quella del nostro paese – non si erano ancora del tutto riprese dalle crisi precedenti.

Per questa ragione – secondo Draghi – la politica dei semplici sussidi di necessità non basta: i sussidi risolvono forse i problemi del presente ma non rilanciano il futuro. Per creare un futuro occorre ricostruire, non medicare. E qui arriva la prima “bomba”, quando Draghi sostiene senza troppi giri di parole che “molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?”. La citazione di Keynes (definito dallo stesso Draghi come l’economista più influente del secolo scorso) segna a mio parere il primo punto focale del discorso: anche Mario Draghi, tutore dell’Euro sino all’altro ieri, alla fine ammette di essersi convinto del fatto che, di fronte alle possibili conseguenza di un disastro di questa portata, occorre cambiare ricetta in politica economica, perché la situazione è cambiata rispetto al passato.

Ed è cambiata non da oggi, tanto che Draghi cita – tra le conseguenze dei modelli errati di gestione adottati sinora per rimediare alle crisi economiche degli ultimi anni – il declino della giurisdizione WTO e del multilateralismo (i due pilastri su cui si fonda la cosiddetta globalizzazione), il mancato raggiungimento di un accordo sul clima, il diffondersi dell’euroscetticismo e del sovranismo anche nei grandi stati europei. Draghi non si allinea però al coro di chi vorrebbe risolvere comodamente il problema demonizzando sovranisti e populisti, per riconoscere anzi che “l’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente”. Il crescente successo dei populismi è insomma, per Draghi, anche dovuto all’incapacità del sistema attuale di individuare le proprie criticità e di mettersi in discussione.

La crisi Covid – ci ricorda Draghi – interviene in un simile scenario come catalizzatore ed amplificatore di una serie di tendenze certifughe già in atto. Dunque si tratta di una crisi che – al di là degli effetti economici diretti – porta con sé soprattutto una forte carica destabilizzante per il sistema anche in termini di spostamento del consenso politico. In sintesi: Draghi segnala che nel dopo Covid ci troviamo per la prima volta davvero in una situazione di “crisi” (secondo l’etimo greco) del sistema nel suo complesso, che non va sottovalutata e che tanto meno può essere risolta ignorando e disprezzando – dunque sottovalutandone la potenzialità disgregante – le istanze di chi apertamente critica il sistema.

Draghi scende poi nello specifico, indicando i principi che secondo lui occorrere salvare ma che potrebbero anche “saltare” se non si avrà la forza di affrontare crisi economica e sociale provocata dal Covid in modo adeguato, vale a dire “l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà” e “il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale”. Dunque Draghi non usa troppi giri di parole per dire che – se non si agisce rapidamente e con forza per affrontare la crisi nel modo giusto – il Covid potrebbe mettere in pericolo la costruzione politica dell’Unione Europea, il cui eventuale crollo – provocato dal successo dei movimenti definiti come sovranisti e/o populisti – potrebbe minare lo stesso multilateralismo (ossia il modello di politica internazionale che ha consentito e ancora oggi sostiene la globalizzazione economica).

Non è dunque un caso che in questa parte del suo discorso Draghi citi Bretton Woods, Keynes e De Gasperi per sostenere che la riflessione sul come gestire il post-covid deve iniziare già ora, durante il Covid, non domani, quando la crisi sarà passata (almeno per gli stati meglio attrezzati ad affrontarla). Si noti bene che qui Draghi non paragona il Covid alle crisi dei subprime o del debito pubblico greco, ma alla seconda guerra mondiale. E lo fa a mio avviso per due ragioni: la prima – più evidente – è che la crisi Covid, come un evento bellico, è crisi simmetrica, nel senso colpisce domanda e offerta allo stesso tempo, e la seconda – più sottile – è per sottolineare che si tratta di una crisi che, proprio perché colpisce domanda e offerta a livello planetario, non può essere risolta con le ricette che erano state adottate in passato per le precedenti crisi economiche, che erano di origine finanziaria e soprattutto asimmetriche.

   7.- Appurato che occorre fare in fretta qualcosa di diverso rispetto al passato, resta ovviamente da capire cosa fare. Ed è proprio su questo punto che Draghi cala il carico da undici (l’enfasi è aggiunta): “È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito”. Frase che non sarà piaciuta affatto dalle parti di Berlino, dato che si sostanzia in una supposta inevitabilità – se si vuole superare questa ultima crisi – di un cambiamento del modello economico unionista rispetto a quello attuale (deflattivo, rigorista e mercantilista) che, come è noto, avvantaggia la Germania e i suoi paesi satelliti.

Draghi prosegue ribadendo quel che aveva già anticipato nell’articolo sul FT, ossia che questo nuovo modello di politica economica sarà fondato essenzialmente sull’aumento del  debito pubblico, tracciando tuttavia la distinzione – che tanto ha attirato l’attenzione dei commentatori – tra debito buono e debito cattivo. Debito “buono” è quello utilizzato “a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc.” mentre debito cattivo è tutto quello usato “a fini improduttivi”. Si potrebbe liquidare questa distinzione – e alcuni commentatori l’hanno fatto – come una velata tiratina d’orecchi al nostro governo (che ha impiegato tutte le risorse dello scostamento di bilancio per spese assistenziali e comunque largamente improduttive), ma la mia opinione è che la vera chiave di lettura della distinzione tracciata da Draghi tra categorie di debito si collochi nella frase seguente, in cui l’ex governatore della BCE sostiene che “Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto”. In parole povere: di fronte alla prospettiva di una depressione causata da un evento eccezionale occorre tornare ad una politica economica incentrata sul valore della “persona”, ossia a mirata a una crescita espansiva che si sostanzi in investimenti produttivi finanziati con l’aumento del debito pubblico.

Riassumendo, dunque, Draghi a Rimini ha messo in fila i seguenti concetti:

  • la crisi Covid è simmetrica e di portata e tipo simile a quella seguita alla seconda guerra mondiale e – dunque – non può essere affrontata come le precedenti crisi finanziarie dei subprime e dei debiti sovrani;
  • Keynes è stato l’economista più influente del secolo passato in quanto – insieme ad alcuni politici dotati di visione – ha indicato, mentre la guerra era ancora in corso, la ricetta per la ricostruzione postbellica;
  • la politica economica dell’UE, per come condotta sinora, non potrà essere ripristinata,
  • una crescita economica che tenga conto del valore e della dignità della persona dovrà essere l’imperativo categorico per poter uscire dalla crisi;
  • questo genere di crescita può essere conseguito con investimenti pubblici in capitale umano (formazione e piena occupazione), infrastrutture produttive e ricerca, ma non attraverso investimenti improduttivi (e – si badi bene, perché a mio avviso è importante – anche la pura speculazione finanziaria è investimento improduttivo, dato che non crea crescita economica).

Altrettanto importante rispetto a quel che ha detto è infatti quel che Draghi ha non ha detto: in tutto il suo discorso, Draghi non ha infatti mai parlato una sola volta della necessità di tutelare o aiutare gli investitori e/o il sistema creditizio.

In sintesi, a me pare che ce ne sia più che abbastanza per sostenere che Mario Draghi a Rimini abbia proposto all’Unione Europea il passaggio a una vera e propria “svolta keynesiana” (ossia uno spostamento verso politiche economiche espansive con l’obiettivo di risollevare anzitutto l’economia reale, anche eventualmente a scapito – almeno sul breve e medio periodo – degli interessi del sistema finanziario e degli investitori) come unico efficace antidoto a un disastro economico e sociale ormai annunciato e che – questa volta – si prefigura di dimensioni e durata tali, se non verrà affrontato adeguatamente ed in tempi rapidi, da mettere a rischio l’intero sistema dell’economia finanziaria e globalizzata. Il messaggio di Draghi agli investitori e ai governi è insomma piuttosto chiaro: fate attenzione che – vista la gravità della crisi – se continuate a guardare solo ai vostri singoli vantaggi a breve termine, rischiate davvero di far morire di inedia la mucca che sinora vi ha garantito così tanto latte.

   8.- Si badi che una simile posizione non dovrebbe suonare del tutto sorprendente agli analisti più attenti, tenendo conto di come Draghi ha interpretato in passato il proprio ruolo di guardiano dell’Euro. Anche la politica monetaria di Draghi quale governatore della BCE, sintetizzata nel celeberrimo “whatever it takes”, è consistita infatti in un “disallineamento espansivo” della prassi della BCE rispetto alle regole ferree (e scritte nei trattati) di divieto di acquisto da parte della banca centrale del debito degli stati membri. Che Draghi abbia salvato l’Euro – di fatto – aggirando i trattati fondativi dell’UE è cosa ben nota, tanto che la sua azione ha in passato creato forti malumori alla Bundesbank e ha addirittura provocato un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca, la quale – di recente – ha dichiarato che una parte dei programmi di acquisto di titoli di stato della BCE sarebbe stata adottata “ultra vires” rispetto alle regole (rigoriste) dei trattati dell’UE.

Per questa ragione non dovrebbe stupire più di tanto che Draghi manifesti nuovamente il pragmatismo tutto latino di chi vuole “salvare” un sistema in cui crede, correggendone gli errori, onde evitare di portarlo alla sconfitta finale (esito tipico quest’ultimo – quanto meno sul piano storico – della ben nota inflessibilità teutonica). Questo pragmatismo – consistente nel far quel che serve hic et nunc per salvare il sistema (anche se si tratta di andare contro principi e regole) – è dunque la ragione per cui Draghi (ieri ha creato il bazooka “nonostante” la Germania ed ha avuto ragione) e oggi – di nuovo, “nonostante” la Germania – suggerisce all’UE di adottare politiche economiche espansive. Occorre infatti considerare che la banca centrale europea ormai da diverso tempo (sia sotto Draghi che con la direzione Lagarde) sottolinea come il protrarsi e l’ampliarsi della politica monetaria espansiva, per quanto essenziale in fase di crisi, non può da sola creare crescita, specie se i flussi di moneta che genera finiscono in pancia alla banche private che li usano per i loro investimenti speculativi e non vengono invece utilizzati per condurre politiche economiche a loro volte orientate a sostenere una crescita equilibrata dell’economia. E questo – come Draghi ben sa – è ancora più vero oggi, in una situazione in cui un quadro di debolezza economica già sistemico viene colpito dallo shock – improvviso, violento e simmetrico (su domanda e offerta) – provocato dall’emergenza Covid.

   9.- A questo punto del discorso, Draghi si prende una pausa per trattare alcuni temi specifici più vicini alla sensibilità degli organizzatori del meeting (quali ecologismo, agenda digitale, promozione del sistema sanitario e istruzione dei giovani), ma che rivestono minore interesse in termini politico-economici. Si tratta di un intermezzo piuttosto breve, quasi per alleggerire la tensione, terminato il quale l’ex governatore della BCE riprende a parlare di questioni generali. Stupisce dunque – o, meglio, non stupisce affatto quelli sanno a quali interessi rispondono i media mainstream nazionali – che cosi tanti commentatori si siano concentrati su questo intermezzo, senza invece sottolineare i temi di fondo (ben più interessanti e soprattutto “densi” di significato) del discorso di Rimini.

Nell’ultima parte – infatti – Draghi tira le fila del suo discorso, traendo in particolare le conseguenze politiche delle considerazioni economiche svolte nella prima, segnalando per prima cosa che “la pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei”. Si tratta di un ulteriore monito a non sottovalutare le tensioni sociali e politiche che potrebbe causare l’emergenza economica e sociale causata dal Covid. Draghi sostiene poi che “da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata”, ma si premura di indicare anche le condizioni perché questo accada (dunque mostrando di non dare affatto per scontato che l’UE sopravviva al colpo Covid), che sono “Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo. Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione”.

Si noti anzitutto che questa parte del discorso di Draghi si fonda su una premessa non manifestata expressis verbis, ma che rappresenta il presupposto logico necessario del suo discorso, ossia che Draghi non ritiene sufficienti per salvare il sistema dell’UE le misure adottate sinora, dunque – in particolare – Sure, MES sanitario e Recovery fund. Che gli ambienti di Wall Street la vedano proprio in questo modo pare del resto confermato dal fatto che l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, ha avuto modo non molto tempo fa di sostenere che l’accordo raggiunto sul Recovery Fund – spacciato dai nostri media per un “accordo storico” – in realtà non intacca affatto l’impostazione (rigorista, deflattiva e finanziaria) con cui l’UE è stata sinora disposta ad elargire “aiuti” agli stati membri che si trovano in difficoltà economica. Dunque Draghi, a Rimini, potrebbe aver voluto far capire a chi di dovere che questa è l’opinione che sta maturando in ambienti che – come quelli della grande finanza d’oltre atlantico – contribuiscono in modo determinare a dettare le politiche di investimento a livello globale.

E’ tuttavia l’auspicio espresso da Draghi nel senso della creazione di un ministero del tesoro europeo ad essere veramente la chiave di volta dell’intero discorso, in quanto chiunque sia un po’ pratico di cose europee sa benissimo che si tratta del peggiore incubo della Germania. Draghi, si badi bene, non ha parlato della creazione di un ministero delle finanze europeo (ossia di un organo che definisce e raccoglie le tasse con cui finanziare il bilancio dell’unione), ma proprio di un ministero “del tesoro”, ossia del tipo di organo che – analogamente a quanto accade negli stati nazionali – avrebbe il compito di emettere Eurobond “puri”, ossia titoli di debito comune collocati sul mercato e garantiti da tutti quanti gli stati membri dall’UE (e magari – ma questo Draghi a Rimini non è arrivato a dirlo – acquistabili, in caso di necessità, dalla stessa BCE, che diverrebbe a quel punto un vero prestatore di ultima istanza dell’area euro). La strada indicata da Draghi per evitare un collasso in Europa, dunque, è quella di finanziare la ripresa con una politica economica espansiva a sua volta finanziata con l’emissione da parte dell’UE di titoli di “vero” debito condiviso (in cui cioè i tassi di interesse siano determinati dal fatto che il maggiore rischio di insolvenza degli stati più deboli viene compensato dalla solidità degli stati più forti).

Questa parte del discorso contiene dunque il messaggio più forte e dirompente. Draghi sa infatti benissimo che – da un lato – il ministero del tesoro UE non è affatto all’ordine del giorno (e che, anzi, proprio la Germania non ne vuole sentire parlare). Ma Draghi sa anche bene che – dall’altro lato – nell’ultima tornata di consultazioni per la definizione delle misure di aiuto agli stati in difficoltà a causa dell’emergenza Covid, la Commissione ha avuto ben poca voce in capitolo, nel senso che – al di là delle dichiarazioni di facciata – l’UE si è mostrata divisa a livello di eurogruppo e di conferenza di capi di governo, in cui si sono manifestate feroci lotte tra fazioni (“frugali” contro “latini” con Berlino a far la parte del poliziotto buono) che alla fine hanno portato all’adozione dell’ennesimo compromesso al ribasso (sul recovery fund, appunto) di incerta adozione e ancor più dubbia efficacia pratica.

Ed infatti lo stesso Draghi – subito dopo aver parlato del (preteso) ruolo centrale della Commissione nelle consultazioni di luglio – chiosa: “in futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia”. E ancora: “non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà”.

Dunque – proprio perché Draghi sa tutto questo e sa anche che in Europa tutti sanno che lui sa come davvero stanno le cose nell’UE – in realtà Draghi, in questa ultima parte del discorso, sta mandando un messaggio alle cancellerie di alcuni stati europei, dicendo loro – seppure in modo trasversale e garbato – che se andranno avanti come prima a concepire l’unione europea come uno strumento per perseguire i propri interessi nazionali a danno di altri stati membri, questa volta rischiano davvero – per effetto della crisi economica e sociale che seguirà al Covid – di far saltare il banco per tutti quanti (e non solo in Europa).

Mario Draghi è del resto la persona più qualificata per mandare un simile messaggio. Come si è già avuto modo di segnalare, già una volta Draghi ha infatti salvato il sistema dal collasso con il suo bazooka (per cui pure, nonostante ciò, è stato a suo tempo fortemente criticato dai soliti rigoristi del nord) e ora – sapendo bene che la leva monetaria della BCE potrebbe iniziare a girare a vuoto se, come accaduto sinora, il quantitative easing non venisse indirizzato verso l’economia reale in modo da farla tornare a crescere a ritmi sostenuti – dice a chi di dovere che, di fronte a una crisi epocale e simmetrica come quella del Covid, il “whatever it takes” è oggi che l’UE riesca ad adottare una politica economica espansiva fondata sull’emissione di “veri” eurobond da parte di un “vero” ministero del tesoro UE (e – possibilmente, ma questo Draghi non l’ha detto – con una BCE che abbia gli strumenti per giocare il ruolo di “vero” prestatore di ultima istanza).

Altrimenti – se si continuerà ad insistere con la vecchia ricetta dell’unione monetaria in uno spazio di libero scambio, i cui squilibri potrebbero essere risolti da “salvataggi” a colpi di prestiti e austerità, dunque senza strumenti di compensazione solidaristica che riducano gli effetti deflattivi degli “aiuti” sulle economie più deboli – il Covid potrebbe realmente innescare una successione di eventi che, partendo dall’Europa, potrebbe mandare a gambe all’aria tutto il sistema. E ricordiamoci che per “sistema” non deve intendersi, questa volta, solo la moneta unica e neppure solo l’Unione Europea, bensì l’intero sistema fondato sul multilateralismo che consente la globalizzazione degli scambi economici e finanziari. E questo è uno scenario che non può non preoccupare i signori di Wall Street, che sulla globalizzazione hanno costruito le loro (immense) fortune.

Che questo sia il messaggio sotteso al discorso di Draghi risulta anche per il fatto che – subito dopo – lo stesso Draghi afferma che sarebbe un errore derubricare i timidi passi in avanti fatti sinora nel senso di una costruzione europea “diversa” come altrettanti rimedi temporanei dovuti al Covid: “questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato”.

Chi vuole che la moneta unica e l’Unione Europea abbiano un futuro – per Draghi – deve dunque spingere oggi per “la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni” tendenzialmente stabili, che possano adottare strumenti di aiuto economico finalizzati alla crescita e finanziati con emissione di titoli di debito comune, non certo con un allentamento temporaneo delle rigide regole sul rapporto deficit/pil insieme a qualche “vecchio” strumento finanziario (come MES, Sure o recovery fund), pure temporaneo e rigorosamente vincolato a uno scopo, con cui si crea debito da ripagare secondo le regole consuete e magari pure imponendo a chi ne fruisce altri giri di austerità (ossia soluzioni pro cicliche che, in temi di deflazione, innescano solo recessioni peggiori). In pratica: se è vero – come è vero – che l’introduzione dell’euro, la creazione del mercato unico, la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali e l’unione bancaria (tutte misure che Draghi diligentemente elenca nel suo discorso come altrettanti risultati positivi della costruzione unionista), hanno sinora avvantaggiato le economie di alcuni stati membri a scapito di altri, è arrivato il momento – se non si vuole veder franare il progetto (col rischio che questo fallimento trascini con sé la stessa globalizzazione economica e il sistema finanziario che su questa globalizzazione fonda i propri profitti) – di rimettere in equilibrio l’architettura fondamentale dell’unione, introducendo – non certo rimedi temporanei e pezze provvisorie – bensì correttivi strutturali e duraturi che rimedino in via definitiva ed effettiva alle sue asimmetrie.

In sintesi: il messaggio mandato da Rimini potrebbe essere che alcuni ambienti (finanziari e non solo) al di fuori dell’Europa – segnatamente tra quelli che sono in grado di muovere immensi capitali con un click, di influire sull’andamento dello spread e di indicare la rotta alle agenzie di rating – potrebbero non avere più interesse a sostenere l’ostinazione con cui certi stati impongono alle istituzioni dell’UE una agenda di politiche economiche (pro cicliche, deflattive e mercantiliste) che non vengono più ritenute da questi stessi ambienti la risposta più adeguata a una fase di prolungata depressione economica e di forti tensioni politiche e sociali, quale quella che si prospetta per gli anni a venire. Per farla ancora più breve: i signori del danaro fanno capire ai politici europei che in questa fase occorre ricostruire e che per ricostruire occorre far crescere l’economia facendo debito pubblico, non prestare soldi a strozzo agli stati più deboli, anche a costo di smenarci qualcosa sul breve periodo, perché i danni potenziali sul lungo periodo potrebbero essere immensamente maggiori.

   10.- Ma veniamo alle ricadute del discorso di Draghi sulla situazione italiana, facendo anzitutto un riassunto di quel che abbiamo detto sin qui. Il discorso di Draghi, come si è detto, intendeva probabilmente far capire – dalle parti di Berlino e Bruxelles – che a Wall Street temono che l’Unione Europea – di fronte all’aggravarsi della crisi economica globale provocata dal Covid – se non cambia registro potrebbe prima perdere pezzi essenziali e poi implodere. E non è improbabile che un simile processo di disgregazione possa partire proprio dall’Italia, il cui governo nazionale – sostenuto da uno scarso consenso nel paese, tecnicamente poco attrezzato per reagire ad eventi epocali e che, per prestare ossequio all’europeismo ad oltranza del PD, ha risposto all’emergenza economica da Covid con misure deboli nel quantum e assai poco espansive nel quomodo – si troverà, già da settembre, a fronteggiare una grave crisi sociale ed economica che potrebbe condurre il paese ad esprimere alla prossima tornata elettorale una maggioranza che potrebbe portarla ad uscire dall’Euro e, a quel punto, anche dall’Unione Europea (un’Italia che resta nell’UE, ma senza più la palla al piede dell’Euro sopravvalutato rispetto alla moneta nazionale, sarebbe infatti un concorrente troppo pericoloso per la Germania).

L’italexit potrebbe tuttavia a sua volta indurre qualche altro stato ad uscire dal sistema, ma soprattutto – a quel punto, ossia con il suo principale concorrente che torna ad essere competitivo con una moneta svalutata – potrebbe essere la stessa Germania a non avere più tutto questo interesse a restare nell’unione insieme a stati come Spagna e Francia (dunque a Berlino potrebbero pensare di crearsi una nuova unione con Olanda e Danimarca, i paesi baltici e scandinavi e alcuni paesi dell’est). Sennonché l’indebolimento (o, ancora peggio, la caduta) dell’UE in una situazione di debolezza economica mondiale (e di aspra conflittualità tra gli USA e la Cina) implica la possibilità – specie se a novembre Trump dovesse ottenere il suo secondo mandato presidenziale – di un ritorno alla logica del bipolarismo dei blocchi contrapposti est-ovest, mettendo fine alle condizioni che hanno sinora consentito lo sviluppo ottimale del sistema del commercio globalizzato fondato su WTO, OCSE e FMI e che attualmente avvantaggia non solo (gli investitori di) USA ed Europa ma anche la stessa Cina.

Il timore che questo scenario si avveri, come si diceva, rende auspicabile – per chi trae vantaggi dal sistema attuale (dunque in particolare i grandi investitori finanziari istituzionali, ma forse anche della stessa Cina) – che, sul medio-lungo periodo, venga avviata una riforma del sistema UE in senso più espansivo e keynesiano e, di conseguenza, meno sbilanciato a favore degli interessi della Germania. Questo significa anche che quegli stessi investitori e stakeholder – nel breve periodo, ossia prima di verificare se e in che tempi sia possibile un eventuale processo di ristrutturazione dell’unione europea – potrebbero avere un preciso e convergente interesse a che l’UE riesca efficacemente ad arginare la crisi economica in Italia (ma anche in Spagna e Francia, che non stanno messe tanto meglio di noi), in modo appunto da evitare che l’avvento al potere, in questi stati, delle forze euroscettiche possa portare all’uscita di qualche paese “pesante” dal sistema dell’Euro o dall’UE. Sennonché – quanto meno a giudicare da quel che si è visto nelle trattative di luglio –  non pare proprio che l’UE di oggi – ancora monopolizzata dagli interessi strategici della Germania e dei suoi paesi satelliti e  dunque ancora sostanzialmente sorda a qualunque tentativo di discostarsi dalle consuete politiche di rigore e austerità – sia in grado (ma sopratutto manifesti una volontà politica) di adottare gli strumenti che consentirebbero di ovviare a questo rischio.

Mettere un Mario Draghi al timone dell’Italia in tempi brevi potrebbe essere allora un buon modo (forse l’unico) per creare una convergenza (magari – appunto – proprio con Spagna e Francia e con l’importante “appoggio esterno” della finanza di Wall Street) per tentare di convincere i “falchi del nord” circa la necessità di una riforma strutturale dell’UE. Altrimenti – vuoi per l’intransigenza teutonica nel difendere i propri interessi nazionali e vuoi per la ormai conclamata incapacità dell’attuale esecutivo italiano di affrontare la crisi economica in da indurre una ripresa nel paese – si potrebbe venire a creare proprio in Italia la tempesta sociale ed economica perfetta. Tempesta in seguito alla quale – a valle delle prossime elezioni politiche – si potrebbe avviare il processo politico che, verosimilmente passando per una serie di “dure” proposte di Roma altrettanto duramente rifiutate da Berlino e Bruxelles, porterà all’italexit, dunque ad un colpo micidiale per la tenuta dell’UE, la cui esistenza è a sua volta un fattore di equilibrio per la conservazione del sistema economico e finanziario fondato sulla globalizzazione degli scambi di merci e capitali.

E’ insomma immaginabile che – specie se Trump dovesse vincere le presidenziali di novembre – giocare la carta Draghi in Italia potrebbe rappresentare un scelta obbligata per quelli che – dentro e fuori Europa – hanno interesse a evitare che l’eventuale indebolimento progressivo dell’UE porti a ripercussioni globali che potrebbero recare danni ai loro interessi economici, finanziari e strategici. Mi riferisco ovviamente ai padroni di Wall Street, a Washington (specie se vincerà Trump) e a parte dell’industria europea. Ma non solo. Contando infatti che la globalizzazione – proprio in questa fase di uscita dal Covid – sta avvantaggiando l’economia cinese più di altre, stabilizzare l’Europa potrebbe divenire una priorità anche per il dragone, che – messo di fronte al rischio di Italexit (e soprattutto di una Italia antitedesca che a quel punto potrebbe essere attratta totalmente nell’orbita USA, lasciando sguarnita la via della seta) – potrebbe non avere più tutto questo interesse a sostenere ad ogni costo né la leadership tedesca in Europa né – di conseguenza – un governo filotedesco in Italia.

Se si manifestasse dunque questa convergenza di interessi tra Wall Street, Washington e Pechino, ecco che Mario Draghi primo ministro a Roma potrebbe essere lo strumento ideale con cui mettere Berlino e i suoi alleati europei di fronte a una scelta: o accettano di rinegoziare le regole dell’unione in modo meno favorevole ai loro interessi o si assumono il rischio – e la responsabilità politica – di mandare a gambe all’aria l’Unione Europea e, con essa, forse l’intera globalizzazione. In questo scenario non va sottovalutato il ruolo di Parigi, che a sua volta potrebbe anche non voler entrare – per causa dei tedeschi – in rotta di collisione (ossia in una guerra commerciale di altri quattro anni) con gli USA, anche contando che nello scacchiere africano sarà prima o poi inevitabile che gli interessi di Parigi finiranno per incontrare l’ostacolo dell’espansionismo cinese.

   11.- Al termine di questo lungo discorso possiamo dunque tentare di dare una (mezza) risposta alla domanda da un milione di dollari (quella che anche voi lettori con tutta probabilità vi starete facendo in questo momento): il discorso di Rimini prelude all’assunzione di ruolo attivo di Mario Draghi nella politica nazionale? La risposta è che si tratta di uno scenario probabile, ma che si manifesterebbe comunque non prima di novembre.

Prima di capire in che modo gestire lo scacchiere europeo (e – di riflesso – come trattare la questione Italia), a Wall Street, Parigi e Pechino devono infatti sapere chi darà le carte oltre atlantico per i prossimi quattro anni. In particolare, a Wall Street devono capire se il tesoro americano continuerà a fornire la garanzia, come ha fatto sinora Trump, che – in caso di dissesto del sistema bancario Tedesco (e Francese) – la Fed coprirà con l’emissione di nuova moneta le perdite delle banche e dei fondi statunitensi esposti verso quei sistemi. A Parigi devono capire se restare alleati con Berlino implicherà il fatto di essere trascinati in una guerra commerciale contro gli USA – combattuta a colpi di dazi – per almeno altri quattro anni. A Pechino devono capire se dovranno affrontare altri quattro anni di scontro con Trump e soprattutto se Berlino – che, con l’elezione di Trump, entrerebbe in altri quattro anni di guerra commerciale con gli USA e che, con la sua intransigenza nell’esercitare la propria egemonia nella politica economica unionista, rischia davvero di spingere l’Italia in crisi nelle braccia di Trump e verso l’italexit – è ancora un cavallo su cui puntare incondizionatamente.

Tutto questo mi induce a ritenere che se le prossime presidenziali USA saranno vinte da Trump è probabile che – per evitare elezioni anticipate in Italia – “qualcuno” potrebbe far presente a chi di dovere che è arrivato il momento di mandare a casa un governo chiaramente inadeguato (sinora mantenuto in vita solo per tatticismi politici nazionali) per chiedere a Mario Draghi di scendere in campo per salvare il salvabile nel nostro paese, ma – soprattutto – per tentare di creare le condizioni per iniziare ad attuare il programma di Rimini a livello di UE. Se le mie supposizioni sono anche solo in parte vere si tratterà peraltro di “qualcuno” cui le nostre istituzioni e le nostre forze politiche non avranno grande possibilità di dire no. Se invece a novembre negli USA vincesse Biden, è meno probabile che un governo Draghi arrivi in tempi brevi, dovendo gli stakeholder capire prima quale sarà l’atteggiamento che la nuova amministrazione USA assumerà sia nei confronti del dragone che – soprattutto – del mercantilismo tedesco.

Sta di fatto che – appena un paio di giorni dopo il discorso di Draghi a Rimini – sulla stampa tedesca è uscito un articolo che definiva il governo Conte come “molto affidabile” per i tedeschi ed è pure arrivato in visita in Italia niente meno che il ministro degli esteri Cinese, dunque il rappresentate di un paese che appoggia (oltre all’attuale governo italiano) anche la leadership tedesca in Europa. Sarà una coincidenza? Forse. O forse per niente. Al di là delle alpi – infatti – Mario Draghi, non solo non è mai stato un granché amato, ma anzi è molto temuto, proprio per il fatto che – quando era Governatore della BCE – è stato l’unico (italiano) che è riuscito a far fare all’UE qualcosa che i tedeschi non volevano fare (qualcosa che però ha salvato l’UE, anche se questo a Berlino non lo ammetteranno mai apertamente e forse li fa irritare ancora di più).

La paura di Frau Kanzler Merkel – e forse anche di Pechino – è infatti che si possa creare la situazione per cui un Supermario appoggiato da Washington e Wall Street potrebbe promuovere un bis del suo celeberrimo “whatever it takes” come capo del governo italiano, magari come primo passo verso un gran finale come Presidente delle Repubblica italiana (invece dell’ultasinofilo Romano Prodi) se non, addirittura, come primo Ministro del Tesoro UE. Che ai tedeschi non piaccia perdere è noto, così come è noto che sono anche molto bravi nell’esercitare la propria egemonia per ottenere la vittoria. La storia degli ultimi due secoli dimostra tuttavia che la Germania ha finito per perdere tutte le grandi guerre a causa della smania di voler stravincere (mettendosi contro tutti quanti) quando stava già vincendo. Tutto questo per dire che – causa Covid – è verosimile che nei prossimi mesi si creino i presupposti storici e geopolitici per qualche sorpresa di non poco conto ed è probabile che Mario Draghi faccia (già ora) parte del quadro.