Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.

Ma c’è una cosa che sommamente m’indigna: che nessun politico mai risponda alla domanda!

Ho analizzato molto la questione, è da non credere. Il giornalista chiede una cosa specifica (ad esempio: “Perché non avete fatto più tamponi quando i contagi erano bassi ed era utile farli per contenere l’epidemia?”) e il politico, senza la minima difficoltà o vergogna, parla d’altro. Riempie il vuoto con parole non importa quali e, cosa ancor peggiore, secondo uno schema retorico fisso e orribilmente ripetitivo:

1) Intanto mi lasci dire che…

2) Abbiamo passato l’estate a lavorare…

3) Anche gli altri Paesi però…

4) Stiamo facendo molti sforzi per…

Scusate, ma fare sforzi assicura di per sé dei risultati? Non so, sarà che nella vita precedente ho fatto l’insegnante, ma mi viene in mente il solito allievo impreparato, che fa scena muta all’interrogazione e quando l’insegnante gli dà 4 dice: Ma io ho studiato!

La cosa grave è che l’intervistatore tace, non reagisce, non incalza il politico, non gli fa notare che non ha risposto e non pretende che risponda. Nulla. Silenzio. Si passa ad altro. Ad altre domande che innescheranno altre non-risposte. Mistero! Perché il giornalista tollera che il politico non risponda? Qual è il suo lavoro? Per chi lavora?

Nel mondo delle talpe è tutto molto più nitido. Forse siamo delle sempliciotte, ma quel che pensiamo è questo: se ti faccio una domanda, tu per piacere rispondi a quella domanda, non è che te ne puoi partire in tutt’altro discorso. Oppure se non vuoi rispondere lo dici, dici: Mi dispiace, mi scusi, a questo non rispondo, passiamo a un’altra domanda. Onestà. E chiarezza. Non trovate che ci vorrebbero?

Lo dico in un altro modo, con un esempio. Ci troviamo sulla panchina, io e la talpa Cristina mia vicina di casa, chiacchieriamo prendendo un po’ d’aria e godendoci la campagna, e a un certo punto io le chiedo:

Senti, Cristina, tuo figlio ha poi trovato lavoro?

E Cristina mi risponde:

Ma guarda, le patate al forno le puoi fare in vari modi, io le faccio col rosmarino.

Vi par possibile? No, che non vi par possibile. Eppure è quel che succede ogni giorno, più volte al giorno, in ogni rete tivù, a ogni programma, con qualsiasi conduttrice o conduttore, con qualsiasi politico, ministro, sottosegretario o tirapiedi: l’uno pone una domanda precisa e l’altro risponde a tutt’altro. Cioè, non risponde.

E qui, di nuovo, il mio vecchio mestiere mi sovviene: se io durante un’interrogazione chiedevo cos’ha scritto Petrarca, e l’allievo mi rispondeva che Cagliari è una ridente città della Sardegna, io non solo lo mandavo a posto con 2, ma chiamavo anche l’ambulanza, molto preoccupata per la sua salute mentale.

Ora, perché non diamo 2 ai politici? Perché non chiamiamo l’ambulanza?

Perché tolleriamo che non rispondano?

Mi piacerebbe che la smettessimo di tollerare. Che non gliela lasciassimo passar liscia. Mi piacerebbe che, se tu politico non rispondi, io giornalista lo rimarcassi con grande energia: Non hai risposto, Non hai risposto, Non hai risposto! Un po’ à la Sgarbi (può non piacere, ma funziona): Capra! Capra! Capra! E se continui a non rispondere, io chiudo il collegamento dicendo che tu, politico tal dei tali, non hai risposto alle domande. Sancisco la tua non-risposta, ti inchiodo a quel che sei.

Mi piacerebbe che i politici avessero paura di andare in tivù, non che ci andassero allegramente ogni giorno come a un picnic tra amici. Non so se l’avete notato, ma non esiste, qui in Italia, alcun programma tivù in cui i politici temano di andare: non è la prova che il conduttore non sta facendo il suo dovere?

Credo che abbiamo, noi cittadini, il diritto di ricevere risposte. Oggi più che mai, visto il disastro in cui siamo precipitati, credo sia un diritto sacrosanto.

Ebbene, questo diritto io lo vedo continuamente violato, calpestato.

Non capisco perché permettiamo questo, non capisco perché si facciano tante interviste e tanti talkshow se poi si accetta di non avere risposte e si sopportano queste continue elusioni e fughe. È, anche, un’offesa all’intelligenza dei telespettatori, cioè di noi cittadini. Va bene, l’epidemia ci ha resi confusi e inermi, tristi e a tratti disperati. Ma non ci ha ancora instupiditi.

Non capisco che gioco perverso sia, a chi giovi, e chi abbia paura di chi.

Dobbiamo smettere di giocare. E anche di aver paura. Siamo gente libera o no?

Okay, sono risbucata dalla galleria. Siamo di nuovo rinchiusi, quindi le talpe ritornano, e a tratti risbucano.

Non è come l’altra volta, però: adesso dipende da dove abiti. In certi posti sei chiuso, in altri meno, in altri ancora quasi per niente. Questo rende tutto meno semplice, e anche meno chiaro. A marzo c’era una chiarezza adamantina che ci rendeva un pochino più sereni: eravamo tutti chiusi uguale. Ora ce lo chiediamo ogni giorno, se e quanto siamo chiusi, o aperti ma poco, o semichiusi, o chiusi con vista mare, o aperti senza via d’uscita…

Comunque siamo tornati talpe, chi più chi meno. E adesso abbiamo capito che forse la talpitudine non ci abbandonerà mai del tutto, d’ora in poi: sarà uno stato intermittente. Come le lucine di Natale. Avremo una pelliccia marroniccia da indossare in certi periodi, e in certi altri rimettere nell’armadio, con le tasche piene di naftalina. Il mondo è cambiato. Prima, nell’armadio, avevamo solo cappottini di lana o morbidi piumini di penne d’anatra. Ora quella pellicciotta da talpa esiste, e ci squadra con aria minacciosa: Ricordati che sei talpa, e (ogni tanto) talpa ritornerai.

Ogni tanto però usciamo a parlarci, tra talpe. Almeno questo. Parliamoci! Le parole non mi sono mai parse così teneramente inutili… Mi fa tenerezza, la loro abbagliante inutilità. Ma sono convinta che ora meno che mai si debba tacere. Inutili di tutto il mondo, unitevi e parlatevi!

La parola è quel che ci resta, l’unica libertà che nessuno ci può togliere. Meglio se scritta. Scripta manent ancora, tutto sommato: i libri per esempio resisteranno sempre e oggi più che mai devono far sentire la loro voce.

Usiamola dunque, questa parola! Con lealtà, e parsimonia… Ad esempio per esigere risposte.

Pubblicato su La Stampa del 15 novembre 2020




Vaccini, la posizione di Andrea Crisanti

Pubblichiamo qui di seguito la lettera che il professor Andrea Crisanti (Ordinario di Microbiologia e Direttore del Dipartimento di Medicina molecolare, Università di Padova) ha scritto al Corriere della Sera.

Caro Direttore,

In una recente intervista a Focus life in risposta alla domanda se mi sarei vaccinato a gennaio ho affermato che non lo avrei fatto fino a che i dati di efficacia e sicurezza non fossero stati messi a disposizione sia della comunità scientifica sia delle autorità che ne regolano la distribuzione.

Ho formulato un concetto di buon senso che non esprimeva alcun giudizio negativo sulla bontà del vaccino né tantomeno metteva in discussione la validità della vaccinazione come il mezzo più efficace per prevenire la diffusione delle malattie trasmissibili. La mia storia personale e scientifica ne è la testimonianza.

La mia dichiarazione, che credo abbia interpretato il sentimento dei tanti che hanno a cuore e danno valore al metodo scientifico, è stata ispirata dalla modalità con cui le aziende produttrici hanno comunicato i risultati raggiunti senza accompagnarli ad una adeguata informazione almeno per quanto riguarda la Fase III.

La trasparenza è la misura del rispetto che si nutre nei confronti degli altri e genera un bene prezioso, la fiducia. In questi giorni le aziende produttrici, invece di condividere i dati con la comunità scientifica, hanno privilegiato una comunicazione basata su proclami non sostanziati da evidenze.

Noi tutti riponiamo in questi vaccini delle grandi aspettative; se le aziende in questione sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata largamente finanziata con quattrini dei contribuenti.

La notizia che dirigenti delle due aziende produttrici abbiano esercitato il loro diritto, ne sono certo legittimo, a vendere le azioni per sfruttare i vantaggi legati al rialzo di prezzo non ha contribuito a generare un sentimento di fiducia.
A poche ore dalla mia intervista si è scatenato un inferno mediatico senza precedenti, illustri colleghi in coro hanno fatto a gara per censurare le mie parole definite irresponsabili. Secondo alcuni avrei addirittura messo in pericolo la sicurezza nazionale!

I custodi della ortodossia scientifica non ammettono esitazioni o tentennamenti, reclamano un atto di fede a coloro che non hanno accesso a informazioni privilegiate «il vaccino funzionerà», tuonano indignati. Io sono il primo ad augurarmelo, mi permetto tuttavia di obiettare che il vaccino non è un oggetto sacro. Lasciamo la fede alla religione e il dubbio ed il confronto alla scienza che ne sono lo stimolo e la garanzia.

Tra gli indignati si annoverano alcuni che durante l’estate ci hanno raccontato che le evidenze cliniche portavano a pensare che la crisi sanitaria fosse superata e che il virus fosse meno contagioso, e purtroppo possono avere inconsapevolmente incoraggiato comportamenti che hanno dato un contributo importante alla trasmissione del virus in quei mesi. Altri sono autorevoli membri del comitato tecnico scientifico a cui l’Italia si è affidata fiduciosa per prevenire una possibile seconda ondata, tutelare le attività commerciali, favorire la ripresa produttiva e garantire le attività didattiche.

Lascio agli italiani e agli storici il giudizio sul loro operato. Sono ormai settimane che si registrano più di 35.000 casi di infezione e circa 700 morti al giorno.

A partire dal mese di luglio il virus ha ucciso circa 15.000 persone e ne ha infettate 1.140.000: vorrei scriverlo «ad alta voce» perché per questa strage silenziosa non si indigna nessuno. Chi racconterà la storia di questa epidemia in futuro non troverà eco delle mie parole di qualche giorno fa, ma rimarranno impietose le statistiche a denunciare questi numeri e a mettere a nudo gli errori commessi.

La mia dichiarazione sul vaccino pronunciata con schiettezza ha toccato un nervo scoperto. Senza strumenti per controllare l’epidemia a meno di affidarsi a severe misure restrittive e senza una linea di difesa contro una seconda e possibile terza ondata, le opzioni a disposizione sono drammaticamente ridotte.

A questo punto tutte le speranze sono riposte nel vaccino come la pioggia per un popolo assetato nel deserto. Questo non giustifica la demonizzazione di chi possa avere dubbi, di chi chiede spiegazioni e di chi chiede trasparenza. Continuare su questa strada è il modo migliore per alimentari sospetti e fornire argomenti a chi si oppone all’uso dei vaccini.

Pubblicato su Il Corriere della Sera del 23 novembre 2020




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020




Gli italiani e la pandemia: più lungimiranti dei loro governanti

Un paio di decenni orsono, insieme all’amico e collega Giorgio Grossi, elaborai un indicatore che oggi è divenuto patrimonio comune di gran parte della ricerca demoscopica. Esso si basa sulla considerazione che, per capire l’approccio al voto da parte del cittadino-elettore, sia indispensabile considerare non soltanto il suo orientamento di voto individuale, ma anche la sua specifica “percezione” dell’ambiente che lo circonda, del clima pre-elettorale in cui si trova inserito.

È stato dunque predisposto un indicatore robusto e semplice nello stesso tempo, che consiste nella pura richiesta all’intervistato di cosa – a suo parere – sarebbe successo nelle elezioni considerate, cioè di chi avrebbe vinto. Insomma: l’elettore come oracolo. O meglio, l’insieme delle previsioni individuali come “predittore” del vincitore. Per questo, l’abbiamo etichettato con il termine di “winner”. L’utilizzo di questo indicatore si è dimostrato negli anni molto affidabile: sia applicandolo ad elezioni locali che ad elezioni nazionali, il campione di intervistati evidenzia costantemente capacità predittive talora superiori a quelle degli studiosi e ai responsi dei sondaggi demoscopici.

La storia di “winner” mi è tornata alla mente in questo periodo pandemico, rileggendo i risultati di diverse migliaia di interviste effettuate da Ipsos durante i mesi di giugno e luglio scorsi, perché anche in quel frangente i cittadini interrogati sul decorso futuro del Covid-19 parevano aver compreso, oserei dire molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto politici e governanti, che il virus non si sarebbe arrestato tanto facilmente. Un po’ come accade appunto con la corretta profezia del vincitore, la stragrande maggioranza della popolazione pareva aver fiutato che le cose non si sarebbero risolte tanto facilmente o tanto velocemente, come qualche leader partitico o qualche presidente di Regione aveva al contrario proclamato agli albori della scorsa estate con lo slogan: riapriamo tutto!

Alla semplice domanda sulla possibilità che nei 6 mesi successivi ci saremmo trovati nella condizione di fronteggiare una seconda forte ondata di contagi in Italia, quasi l’80% degli italiani rispondeva che la ripresa pandemica era molto o abbastanza probabile. E che occorreva prepararsi per tempo, non quando saremmo stati nella sua fase più acuta.

E alla questione successiva: “Secondo Lei l’allentamento del lockdown e le riaperture delle attività decise nelle scorse settimane faranno aumentare il numero di contagi in Italia?” soltanto uno sparuto 14% degli intervistati dichiarava che “il trend di diminuzione dei contagi proseguirà più o meno come in questi giorni estivi”. Certo, magari il comportamento di alcuni dei nostri connazionali non è stato adamantino, proprio in quel periodo, ma è indubbio che la lungimiranza dei cittadini interrogati fosse di gran lunga maggiore di chi ha il potere decisionale, che come è stato da molti sottolineato in questa situazione è stata piuttosto carente, se non del tutto deficitaria.

Infine, anche sulla proroga dello stato d’emergenza si dichiarava d’accordo il 78% del campione, per una durata di almeno tre mesi per alcuni, ma per molti ancora di più, fino a 6 od oltre i 6 mesi. Il senso di responsabilità degli italiani sembrava superare (anche) in questo frangente quello dei governanti, preoccupati al solito della consueta ricaduta elettorale. Non a caso, tra coloro che minimizzavano il pericolo, erano soprattutto gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia, sospinti dai rispettivi leader di partito, a ribadire che il peggio era ormai alle nostre spalle, che il virus era definitivamente sconfitto, e che occorreva tornare alla vita di sempre. Potere dello “storytelling”!




Investimenti: ritorno agli anni ’70?

Nel mondo degli investimenti, il sentimento che si rileva spesso da parte dei risparmiatori è la nostalgia per gli anni ’80. Si ha spesso la sensazione che fosse più facile investire e far crescere i propri risparmi in quegli anni: era sufficiente investire in un buono postale, tenerlo lì fermo 10 anni, e alla fine ritrovarsi il capitale ben rivalutato, senza che fosse necessario avere una grande cultura finanziaria per far fare le scelte giuste.

Oggi, invece, molti risparmiatori si sentono quasi sopraffatti dal fatto di dover “seguire” i mercati, mentre in passato non era affatto così.

Insomma, molti vorrebbero rendimenti “certi” e senza sorprese, e così, si sono abituati a vivere l’investimento obbligazionario come un investimento con pochissimi rischi, però oggi questo non corrisponde più alla realtà.

L’investimento obbligazionario piace a molti perché c’è un punto di partenza, una scadenza, e paga cedole fisse (che sono viste come rendimento fisso): anche se il prezzo dell’obbligazione scende, questo tende a creare poche preoccupazioni in genere, perché molti sono disposti ad “aspettare la scadenza” per riavere il capitale (nominale) investito.

La possibilità che il titolo possa rendere molto meno del tasso di inflazione, e dare cioè un rendimento reale negativo, non sembra preoccupare, forse perché è da oltre 30 anni che l’inflazione scende e dunque questa possibilità non preoccupa più. Oggi forse ci siamo dimenticati che l’obiettivo dell’investimento finanziario è proprio quello di mantenere il passo con l’inflazione, ed evitare la svalutazione nel tempo dei propri risparmi.

Negli ultimi 40 anni, l’investimento in obbligazioni a cedola fissa è stato il miglior investimento possibile, proprio perché durante tale periodo, il tasso di inflazione è stato in costante discesa.

All’inizio degli anni ’80, il tasso di inflazione toccò un picco massimo in tutto il mondo occidentale, superando il 15% in molti paesi. Per cercare di far scendere il tasso di inflazione, le banche centrali introdussero una politica monetaria stringente, facendo salire i tassi di interesse, e così l’inflazione iniziò il suo percorso di discesa. Tale discesa sarebbe durata quasi 40 anni, e con buona probabilità sta giungendo a termine.

Nel grafico seguente vengono invece riportati il tasso di inflazione negli USA (linea nera) e nei paesi G7 (linea blu) dagli anni Sessanta ’60 ad oggi, insieme ai tassi di rendimento dei titoli di stato decennali americani (linea rossa) e dei titoli di stato dei paesi G7 (linea arancione).

Si vede bene come i tassi di rendimento dei titoli di stato abbiano seguito nel tempo il tasso di inflazione. Negli anni ’80 non soltanto le obbligazioni rendevano molto più di oggi, in linea con un tasso di inflazione più elevato, ma le obbligazioni decennali avevano un rendimento reale positivo, cioè ben superiore rispetto al tasso di inflazione. Negli ultimi 15 anni, invece, i rendimenti reali, cioè i rendimenti al netto dell’inflazione, si sono ridotti notevolmente.

Quando acquistiamo un titolo obbligazionario con cedole fisse, blocchiamo quel rendimento fisso fino alla scadenza. Se poi, successivamente all’acquisto, l’inflazione scende rispetto al momento in cui abbiamo acquistato il titolo, finiamo per aver bloccato un rendimento superiore all’inflazione che va via via scendendo (esempio nel terzo grafico sotto). In pratica, finiamo per ottenere un rendimento reale positivo.

Negli anni ’80 e ’90, gli investitori in obbligazioni in particolare hanno beneficiato di questa possibilità di bloccare rendimenti fissi mentre l’inflazione scendeva.

Nei periodi di inflazione crescente, invece, com’è accaduto dagli anni ’50 fino al 1981/1982, accadeva l’opposto: investire in obbligazioni a tasso fisso non permetteva di avere un rendimento reale positivo, anzi. Acquistare un titolo di stato con cedole fisse portava a vincolarsi ad un rendimento fisso che si rivelava penalizzante in quanto c’era una situazione di inflazione crescente, risultando in un rendimento reale negativo.

Negli ultimi anni, a causa dei rendimenti bassi offerti dai titoli di stato e dalle obbligazioni “sicure” dette “investment grade”, è partita la ricerca per il rendimento da parte dei risparmiatori, arrivando ad investire in obbligazioni “sub prime” (2005–2008), in obbligazioni bancarie subordinate (2012–2015), in obbligazioni high-yield, in certificates, ecc. Si tratta comunque di strumenti complessi e più rischiosi.

Molti risparmiatori quindi scelgono di tenere i soldi sul conto corrente e di non investire, questo per paura di restare scottati, oppure perché investire sembra diventato veramente troppo complicato. Tenere i soldi sul conto va bene fino a quando continuiamo ad avere un tasso di inflazione vicino allo zero: in una situazione di inflazione crescente, situazione che potrebbe arrivare nei prossimi anni, è la scelta peggiore.

L’idea di investire in strumenti “senza rischio” è un’ illusione: è come dire di voler guidare l’auto senza correre il rischio di incidente. Possiamo ridurre il rischio, possiamo minimizzarlo, ma non possiamo eliminarlo del tutto. In questa ricerca di certezze, molte persone si affidano a polizze o a prodotti a “capitale garantito”. I prodotti a capitale garantito garantiscono il rimborso del capitale nominale, non del capitale in termini reali: non garantiscono il rimborso di un capitale rivalutato al tasso dell’inflazione.

Questi prodotti devono inoltre sostenere dei costi per poter dare una garanzia del capitale nominale; pertanto, i prodotti a capitale nominale garantito spesso hanno costi impliciti più alti a parità di altri fattori rispetto ad investimenti uguali che non offrono la garanzia del capitale nominale, e dunque alla fine il prezzo del capitale nominale garantito è quello di ottenere rendimenti più bassi.

La ricerca di certezze negli investimenti è la vera bolla

È comprensibile voler evitare il rischio di perdita definitiva di capitale, come accade quando un emittente di un titolo non rimborsa e fa default: è un rischio che viene ridotto tramite la diversificazione del portafoglio. Voler eliminare invece completamente la volatilità e l’incertezza sui singoli componenti di un portafoglio è un’illusione: è come coltivare un orto avendo la pretesa di poter prevedere le condizioni climatiche e garantire che tutte le coltivazioni andranno bene in ogni momento. Le previsioni finanziarie sono simili alle previsioni del meteo: vanno riviste e rettificate man mano che escono nuove informazioni, e anche le strategie di portafoglio vanno rettificate in funzione delle nuove informazioni. Sono queste incertezze che creano volatilità e incertezze nei risultati di breve periodo.

Molti si innamorano dell’idea di poter fare un investimento dove non ci sono sorprese o incertezze, ed è forse per questo motivo che qualcuno sceglie di investire in strumenti che promettono certezze, come le polizze vita.

Le polizze vita sono prodotti di tutela, non sono investimenti finanziari in senso stretto. Hanno una componente di investimento finanziario, a cui si abbina qualche tutela legale per proteggersi da rischi personali, in copertura per i beneficiari della polizza. Queste tutele in alcuni casi possono essere utili, però le tutele costano!

È giusto pagare i costi per certe tutele offerte da una polizza solo se c’è una vera esigenza personale. Non è sempre giustificabile scegliere una polizza come investimento finanziario semplicemente perché promette un capitale o un rendimento nominale garantito a scadenza.

La diversificazione vera e la diversificazione finta

Invece di cercare a tutti i costi prodotti che promettono rendimenti certi, credo che sia più utile “gestire” la volatilità invece che cercare di comprimerla. Se è così diffusa la ricerca di rendimenti certi, probabilmente i prodotti che promettono certezze saranno sopravalutati: possiamo avere un vantaggio netto se abbandoniamo le false illusioni di avere rendimenti certi e garanzie inutili, in favore della gestione della volatilità. Così, invece di pagare costi per avere garanzie nominali, possiamo operare nella realtà e tenere per noi il denaro non speso per tali costi.

Il primo passo: suddividere il patrimonio per obiettivi.

Può essere una buona idea avere più di un conto/dossier titoli: un conto può essere dedicato alle spese ed entrate quotidiane, dove va tenuta una cifra che serve per affrontare imprevisti e che non va mai investita. Sul secondo conto con dossier, invece, teniamo il capitale che serve per affrontare l’obiettivo di investimento di medio periodo; sul terzo dossier teniamo il capitale che serve per affrontare gli obiettivi di lungo periodo (oltre 10 anni). Molte banche offrono la possibilità di avere di più di un dossier titoli senza spese; in questo modo possiamo essere prudenti con il capitale che serve magari entro tempi brevi, ed accettare più volatilità sul capitale che serve tra 10 anni, ad esempio.

Questo non vuol dire correre rischi non calcolati, significa avere aspettative realistiche.

Secondo passo: costruire una diversificazione utile

Diversificare non vuol dire investire piccolissime cifre in tantissimi fondi simili tra loro: significa abbinare investimenti che hanno andamenti molto diversi tra loro tramite strumenti che danno un valore aggiunto. Noto spesso che molte persone investono in titoli di Stato italiani non tramite acquisti diretti, ma tramite fondi o ETF.

Se il prodotto in questione investe solo in titoli di Stato italiani, dobbiamo chiederci che valore aggiunto offre questo prodotto, dato che si possono comprare titoli di Stato direttamente presso un qualsiasi intermediario. Se invece il fondo diversifica davvero, investendo in obbligazioni di emittenti molto diversi tra loro, allora posso anche trovare il valore aggiunto. In altre parole, è una buona idea analizzare il contenuto dei prodotti che abbiamo in portafoglio. Se abbiamo fondi o ETF che investono solo in Btp, possiamo chiederci se non sia il caso di sostituire il fondo con l’acquisto diretto di Btp, ad esempio.

Poi dobbiamo chiederci se il portafoglio di fondi che abbiamo offre una vera diversificazione oppure una “finta” diversificazione. Vediamo un esempio: qui sotto, nel grafico 4, (sotto) si vede l’andamento di un ETF che investe in obbligazioni societarie globali (linea nera) ed un ETF che investe nell’indice azionario globale (linea rossa).

I due prodotti non hanno un andamento identico, però sono sicuramente molto simili, cioè molto correlati. La diversificazione tra questi due strumenti quanto valore aggiunto crea la qualità del portafoglio?

Nel grafico 5, (sotto) invece, si vede l’andamento di un ETF che investe in titoli di Stato americani in dollari (linea nera) ed un ETF azionario globale (linea rossa): hanno un andamento molto divergente e poco correlato: diversificare in investimenti con andamento divergente può dare un valore aggiunto e servire per migliorare la qualità del portafoglio.

Per capire in quali fondi o ETF investire con l’obbiettivo di diversificare sul serio, è opportuno conoscere il contenuto dei singoli fondi, verificando di non avere troppi prodotti che siano delle “repliche” tra loro, cioè che abbiano andamenti identici.

Tradizionalmente si tende ad investire sia in azioni che in obbligazioni a tasso fisso, con una strategia cosiddetta bilanciata. Le strategie bilanciate di questo tipo sono una scelta sicuramente giusta nei periodi di inflazione calante, mentre possono essere una scelta non ottimale in periodi di inflazione crescente, scenario che potrebbe diventare realtà nei prossimi anni.

[le opinioni espresse in questo articolo sono personali, e non possono essere interpretate come suggerimenti finanziari]