Ddl Zan, cavallo di Troia del politicamente corretto

Ho cercato di capire come funziona il ddl Zan e, poiché non sono un giurista né sono dotato di un’intelligenza prodigiosa, ho impiegato circa una settimana per ricostruire la ragnatela di norme che esso introduce, spesso modificando leggi precedenti e articoli del codice penale. Sono quindi assai stupito che tante persone, negli studi tv e nelle piazze, siano convinte di possedere delle opinioni su un oggetto che – nella stragrande maggioranza dei casi – semplicemente non conoscono.

La ragione per cui ciò accade è abbastanza semplice: siamo abituati a giudicare le leggi dalle intenzioni dei proponenti, anziché dagli effetti che verosimilmente sono destinate a produrre. E’ un grave errore, perché non è raro che intenzioni ed effetti divergano, tanto è vero che lo studio degli “effetti perversi” e delle “conseguenze non attese” dell’azione è uno dei filoni di studio più fecondi delle scienze sociali.

Nel caso del ddl Zan le intenzioni paiono chiarissime, e sostanzialmente condivisibili: colmare una lacuna della legislazione esistente. La lacuna è che le leggi vigenti (e in particolare la legge Mancino) puniscono con particolare severità alcuni comportamenti motivati da ostilità nei confronti di razze, etnie, nazionalità, religioni, ma si dimenticano altri possibili moventi: sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità.

Messa così, come non essere d’accordo? L’unica obiezione che mi sentirei di sollevare è di natura logica: siamo sicuri che allungare la lista delle categorie protette sia la strada giusta?

Si potrebbe osservare, ad esempio, che nella lista del ddl Zan mancano i barboni, spesso oggetto di cieca violenza. E, se uno dei fenomeni che si vogliono colpire è il bullismo giovanile, come non considerare che, nelle classi scolastiche, da sempre la crudeltà dei nostri amati bambini umilia i grassi, i secchioni, gli introversi?

Non mi stupirei che, in futuro, il “legislatore” – questa figura mitica del discorso politico – si decidesse a novellare periodicamente le norme esistenti, aggiungendo di volta in volta, alle categorie da proteggere, nuove e sempre diverse sensibilità offese.

Ma supponiamo, per un attimo, che la moltiplicazione delle categorie sovra-tutelate sia la strada giusta, e che la lista Zan sia completa. E torniamo alla domanda inziale: al di là dei fini dichiarati, sicuramente lodevoli, quali sono gli effetti prevedibili del ddl Zan?

E’ su questi effetti, infatti, che si concentrano le critiche che, non solo da destra, sono state sollevate nei confronti del disegno di legge.

Una prima classe di critiche riguarda il restringimento dell’area della libertà di espressione, determinato non tanto dall’ampliamento delle categorie protette, ma dal fatto che a decidere se la manifestazione di un’idea, di un sentimento, di un’opinione sia o non sia reato, non potrà che essere la sensibilità del singolo giudice. Questo è già un problema oggi, vigente la legge Mancino, ma viene aggravato dall’articolo 4 del ddl Zan (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte), secondo cui le idee si possono esprimere “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Qualcuno può credere che, sul giudizio di “idoneità” di un’idea a determinare il “concreto pericolo” di atti discriminatori, non influiranno pesantemente le idiosincrasie (e le idee politiche) del magistrato chiamato a giudicare?

Ma la classe di critiche più fondata, a mio parere, è quella che osserva che il ddl Zan non si limita ad allargare le tutele di determinate categorie, ma pretende di rieducare ideologicamente i reprobi (articolo 5), intervenire attivamente sui contenuti trasmessi dalla scuola (articolo 7), e persino di legiferare sul linguaggio (articolo 1), fissando e delimitando il significato di parole come sesso biologico, genere, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Che simili pretese possano determinare effetti aberranti credo sia evidente a (quasi) tutti. Ne abbiamo avuto un assaggio nelle linee guida gender apparse sul sito dell’Ufficio Scolastico del Lazio, poi precipitosamente ritirate (il titolo esatto era: “Linee guida per le strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere).

Questa seconda classe di critiche mette a nudo il vero punto debole del ddl Zan. Che non è di voler assicurare una protezione speciale a determinate categorie finora trascurate (obiettivo sensato, e condiviso anche dal centro-destra) ma di voler imporre alla società nel suo insieme il linguaggio, la visione del mondo e gli obiettivi educativi di una élite politico-culturale. Questo progetto, in forme più innocenti e ridicole, era già in atto negli anni ’80, quando Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa e dell’Unità – con un coraggio e un anticonformismo che agli intellettuali di oggi difetta – denunciava il velleitarismo e l’ipocrisia del politicamente corretto. Ma nel corso degli ultimi anni ha assunto forme sempre più pervasive, condizionando pesantemente il mondo dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, persino dell’economia, con l’effetto – presumibilmente non voluto – di allargare sempre più la frattura fra le parole dell’establishment e il comune sentire dei ceti popolari.

Che sia questo il vero obiettivo del ddl Zan lo prova, in modo secondo me incontrovertibile, una comparazione filologicamente puntuale fra il testo finale (già approvato dalla Camera) e le proposte di legge che l’hanno preceduto, sempre a firma di Alessandro Zan. Se si ha la pazienza di leggere, ad esempio, il disegno di legge del 2013 (primi firmatari Scalfarotto e Zan) o la proposta di legge del 2018 (primi firmatari Zan e Annibali) si può notare, con enorme sorpresa, che tutto ciò che inquieta i critici attuali del ddl Zan semplicemente non c’è. Niente articolo 4 su “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.  Nessuna pretesa di legiferare sul linguaggio. Nessuna pretesa di intervenire nelle scuole.

Ma c’è di più. Se andiamo alla sostanza, e lasciamo perdere la tecnica giuridica adottata (intervenire su leggi precedenti, o direttamente sul codice penale), scopriamo una cosa molto interessante: le due vecchie proposte Scalfarotto-Zan e soprattutto Zan-Annibali, sono del tutto esenti dalle critiche che oggi vengono rivolte al ddl Zan. E la proposta di legge del centro-destra (prima firmataria Licia Ronzulli) è decisamente più avanzata della proposta Zan-Annibali del 2018, che si era scordata dei disabili.

Dunque la situazione è abbastanza chiara. Fino a un certo punto le principali proposte di legge si sono mosse in una direzione ragionevole, o quantomeno circoscritta all’obiettivo di estendere a nuovi soggetti tutele finora previste per un insieme troppo ristretto di situazioni e di categorie. Poi, non saprei dire perché, i proponenti hanno deciso di strafare, finendo per snaturare gli obiettivi originari. Il ddl Zan, anziché limitarsi a proteggere i deboli, è diventato un cavallo di Troia per imporre a tutti una particolare concezione del bene comune, dell’educazione, e persino degli usi appropriati del linguaggio. Il tutto semplicemente riscrivendo in Commissione Giustizia i testi originari, e senza un dibattito pubblico, come invece è avvenuto in altri paesi.

Il minimo che si dovrebbe pretendere è che delle preoccupazioni dei cittadini (sulla libertà di espressione) e delle inquietudini delle famiglie (per l’educazione dei figli) si discuta apertamente, senza demonizzare nessuno. Perché la posta in gioco è alta, e nessuno ha il monopolio del bene comune.

Pubblicato su Il Messaggero del 22maggio 2021




Diversamente di sinistra ?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo di Cristina Cona.

Leggendo l’articolo di Luca Ricolfi  “Bandiere ammainate” mi si sono riaffacciati alla mente certi interrogativi sul ruolo che le varie forze in campo (politiche, culturali ed economiche) hanno svolto e continuano a svolgere nel diffondersi del politicamente corretto, nonché sulla coerenza, o viceversa incongruità, di certe scelte ideologiche.

Prendiamo ad esempio il modo in cui, ormai da anni, la sinistra non solo si beve acriticamente ogni sorta di teorie “woke”, ma si sforza anche di dare a queste ultime realizzazione concreta sul piano didattico, giuridico, penale. Queste prese di posizione non possono non lasciare perplessi, e ciò per un certo numero di ragioni.

Innanzitutto si tratta di dottrine e pratiche che si sono per lo più irradiate dagli Stati Uniti d’America: sì, proprio da quel paese che da decenni la sinistra considera come l’impero del male e la cui egemonia politica, economica e militare non ha mai smesso di denunciare e combattere. Ma allora: non le è mai venuto in mente che difficilmente un’egemonia così pervasiva sul piano strutturale può risparmiare quello sovrastrutturale? Che quando si parla di imperialismo USA bisogna fare i conti anche sui suoi risvolti culturali? Che, in altri termini, lungi dal rappresentare un’autentica opposizione alla tanto disprezzata America neocapitalista, la cultura “woke” ne sia espressione tanto quanto il modello economico, le multinazionali e le basi NATO, e che la scelta di accodarsi ad ogni sua manifestazione sia di fatto uno dei tanti aspetti della nostra sudditanza?

Anche perché un’occhiata anche rapida ai fatti di cronaca internazionale ci mostra come questa cultura sia stata abbracciata con un entusiasmo decisamente sospetto proprio dal grande capitale e dagli organi di stampa che possono essere considerati suoi portavoce, come certi grandi quotidiani prediletti dalle fasce sociali garantite dei paesi avanzati e le pubblicazioni a carattere finanziario. Un pubblico non certo proletario, insomma. Di fronte allo zelo con il quale certe grandi imprese modificano il linguaggio, gli slogan e le immagini da utilizzare a fini pubblicitari in funzione dei (veri o presunti) desiderata di gruppi ritenuti oppressi e vulnerabili (si pensi alla frenesia con la quale l’establishment hollywoodiano si sforza ad ogni pie’ sospinto di “abbracciare la diversità”), è lecito chiedersi quali interessi vengano serviti da queste genuflessioni alla moda “progressista” del momento.

Mi sembra comunque un fatto che, al di là del desiderio di conquistarsi un sempre più vasto numero di clienti e non farsi nemici tra quelli già acquisiti (anche se, ripeto, sussiste il dubbio che questo timore sia spesso più immaginario che reale), queste strategie non siano soltanto, soggettivamente, a finalità commerciale, ma risultino, oggettivamente, del tutto funzionali agli interessi del neocapitalismo, di quella che definirei “l’economia di supermercato”: un mondo dominato dal consumismo ben al di là degli aspetti puramente economici, in cui la vita umana nel suo insieme è vista, per l’appunto, come un gigantesco supermercato in cui ciascuno può scegliere tutto e il contrario di tutto, seguire cioè ogni suo capriccio, usare i rapporti umani, le scelte affettive, come se fossero giocattoli da buttare via quando non interessano più; non solo, ma pretendere di mettere a tacere qualsiasi opinione con la quale non è d’accordo, “cancellare” tutto ciò che sul momento gli può causare il minimo disagio … E’ davvero questo supermercato planetario infantilizzato il mondo al quale la sinistra intende dare il suo contributo? Non ha mai pensato che sotto questo manto falsamente progressista si rivela tutta la sua nudità?

Senza contare, poi, che la cultura “woke” sta regalando ai padroni del vapore un metodo quanto mai efficace di dividere i loro soggetti, attizzando fra loro perenne inimicizia e diffidenza. Alla sinistra (o almeno a quella parte di essa che ancora presta attenzione alle diseguaglianze sociali e al mondo del lavoro) vorrei chiedere: come immaginate di potere, in futuro, organizzare una protesta, un corteo, un’azione a carattere sindacale quando i lavoratori saranno già da tempo autoconfinati in gruppi distinti, contrapposti, talvolta ostili o ad ogni modo restii a collaborare per il bene comune (se pure questo concetto esisterà ancora …) e il risentimento reciproco avrà sostituito la solidarietà? In cui ovunque, ma soprattutto sul luogo di lavoro, la gente avrà smesso di esprimersi e di comunicare perché timorosa di offendere una delle tante categorie oppresse? Non si tratta di un’esagerazione: nei paesi soprattutto del mondo anglofono si afferma sempre più la tendenza, particolarmente marcata nelle scuole e nelle università, a richiudersi nella propria conventicola etnica, di genere, di orientamento sessuale, e vigilare su tutto quanto di dice e si fa, onde evitare guai anche gravi. Di questo autoisolamento ci si potrà forse rammaricare, ma è in fondo una scelta logica: se un uomo, un bianco, un eterosessuale, un non-trans (o “cis”) azzarda un commento o un gesto fino a poco fa considerato del tutto innocente, ma che oggi la cultura PC giudica alla stregua di un peccato mortale, e viene accusato di comportamenti discriminatori (con conseguenti ripercussioni sul piano lavorativo e anche sociale), la conclusione che ne trarrà, e che ne trarranno anche molti suoi colleghi, sarà che è meglio non avere che contatti minimi con quell’altro gruppo o gruppi, stare zitti e badare agli affari propri. E se c’è da unirsi per uno sciopero o una protesta: “chi me lo fa fare?”: tanto ci è stato spiegato che fra “noi” e “loro” non vi è alcuna comunanza di interessi … “Divide et impera”, dunque.

Un altro aspetto da non sottovalutare: lungi dal combattere efficacemente il sessismo, l’omo(trans)fobia, il razzismo, la censura e la minaccia di sanzioni non fanno che incoraggiare questi fenomeni. Se un’opinione è ritenuta sbagliata, il peggio che si possa fare è metterla fuori legge e costringerla alla clandestinità, perché in tal modo non verrà mai contestata e spinta a giustificarsi. Se una persona esprime in mia presenza un parere a mio giudizio errato, per non dire offensivo, posso rispondere “No, guarda che sbagli, e ti spiego perché …”, e magari in tal modo potrei indurre un ripensamento, ma se quella persona non mi conosce, non si fida di me e teme di venire denunciata se dice quello che pensa, le sue opinioni se le terrà per se e per i pochi amici che le condividono. Viene così a crearsi uno spazio autoreferenziale in cui non entra mai aria fresca e i discorsi fatti sempre e soltanto all’interno della propria cerchia rischiano di sfociare in posizioni ancora più estreme, alimentate fra l’altro dal rancore verso quei gruppi visti come privilegiati e immuni da ogni critica.

Rinuncia ormai esplicita alla difesa della libertà d’espressione, subordinazione acritica ai diktat ideologici del neocapitalismo, pseudoegualitarismo astratto e autoritario cui viene accordata la precedenza rispetto alla lotta al disagio sociale ed economico di vaste fasce di popolazione: sì, parliamo pure di bandiere ammainate. O magari, prendendo a prestito una delle formule più diffuse del gergo politicamente corretto, potremmo dire: diversamente di sinistra.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Dopo settimane di calo, la temperatura dell’epidemia è tornata finalmente sotto quota 50. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 16 maggio) segna 46.0 gradi pseudo-Kelvin ed è in calo di 2.3 gradi rispetto a sabato 15 maggio.

Questo risultato è dovuto al miglioramento di tutte e tre le componenti alla base dell’indice. A diminuire sono stati soprattutto i nuovi contagi (+45 mila nuovi casi settimanali rispetto ai 62 mila della settimana precedente). Più lieve è stato il calo degli ingressi ospedalieri stimati e dei decessi (+1.3 mila nuovi decessi settimanali rispetto ai 1.6 mila della settimana precedente).

La variazione settimanale della temperatura è pari a -16.9 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il pass vaccinale

Dalla prossima settimana, ne possiamo star certi, quello del pass vaccinale diventerà il nostro pensiero perenne. L’obiettivo del governo, infatti, è piuttosto chiaro: massimizzare il numero di persone che, grazie al pass, possono contribuire alla ripartenza dell’economia consumando, spostandosi, partecipando ad eventi culturali, ricreativi e sportivi. Siamo entrati, infatti, in una fase in cui i timori di perdere il treno dell’economia prevalgono nettamente sulla preoccupazione di limitare il numero di morti e di malati. E questo per tre solidi motivi: la maggior parte degli indicatori dell’epidemia sono in ritirata (per ora), il danno inflitto all’economia da 6 mesi di chiusure è divenuto insostenibile, i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è nettamente schierata a favore delle riaperture, e terrorizzata dal rischio di mettere a repentaglio le vacanze estive.

In questo quadro, il pass vaccinale sta diventando il santo Graal cui ognuno aspira per riconquistare la normalità perduta. Non entro nel merito della sensatezza di questa corsa al pass, né sul realismo delle previsioni ottimistiche che politici, medici e mass media stanno dispensando in queste settimane, contro il cupo ma non irragionevole pessimismo dei Galli e dei Crisanti. Quel che vorrei invece domandarmi è: ammesso che la ritirata dell’epidemia prosegua, e non capiti di dover richiudere tutto fra qualche settimana, come potrà funzionare il pass vaccinale?

Qui io vedo almeno tre problemi, che sarà bene affrontare e risolvere per non essere travolti dal caos.

Primo: che cosa è il pass?

Finora si è solo detto che, per muoversi liberamente o accedere a determinati eventi pubblici, si dovrà essere in possesso di almeno uno di tre requisiti: certificato di guarigione dal Covid, certificato di vaccinazione, certificato di negatività a un test molecolare o antigenico (rapido) rilasciato nelle ultime 48 ore. A me pare che solo i primi due certificati (essere guariti dal Covid, essere vaccinati) possano ragionevolmente venir inclusi in un pass, ossia in un documento che – tendenzialmente – ha una durata di almeno qualche mese. Pretendere di includere nel pass anche l’eventuale esito negativo di un test appena effettuato comporterebbe ripetute operazioni di aggiornamento del pass stesso, con conseguente inferno burocratico-informatico.

Secondo: chi e come rilascia il pass?

Posto che le informazioni necessarie per emettere il pass sono già in possesso della Pubblica Amministrazione (in particolare: delle Asl e dei medici di famiglia), sarebbe logico che fossero le autorità sanitarie a rilasciare il pass, o recapitandolo (per via postale o informatica) a tutti coloro che hanno titolo per averlo (guariti e/o vaccinati), o permettendo di scaricarlo da un sito sulla base della semplice digitazione dei propri identificativi anagrafici. Se non si farà così, o si introdurranno capziose complicazioni “a tutela della privacy” (SPID, password, ecc.), possiamo star certi che nessuno ci eviterà anche questo ulteriore inferno burocratico-informatico.

Terzo: che cosa certifica il pass?

Qui c’è una notevole confusione, perché si tende a pensare il funzionamento del pass come quello di un semaforo: disco verde se ce l’hai, disco rosso se non ce l’hai.

E’ un grave errore logico. E’ certo che il pass conterrà delle date (di guarigione e di vaccinazione), ed è estremamente probabile che contenga delle informazioni sul tipo di vaccino ricevuto. I vari vaccini, infatti, non solo non assicurano la medesima protezione, ma potrebbero – sulla base di nuove evidenze scientifiche – essere giudicati non equivalenti quanto a durata dell’immunità, rischio di trasmissione, resistenza alle varianti. Questo significa che due persone, pur entrambe dotate del pass, potrebbero avere gradi di libertà molto diversi in funzione di quando e come (con quale vaccino) si sono vaccinate.

Dunque il pass sarà, inevitabilmente, un documento che – a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, delle conoscenze scientifiche e delle decisioni dei governanti – stratificherà la popolazione in classi di rischio diverse. Anche trascurando il problema dell’anzianità di vaccinazione (da quanto tempo ci siamo vaccinati), già oggi si stanno delineando 5 grossolane classi di rischio:

A2 = vaccinati Pfizer o Moderna con 2 dosi

A1 = vaccinati Pfizer o Moderna con 1 dose

B2 = vaccinati AstraZeneca con 2 dosi e vaccinati Johnson&Johnson

B1 = vaccinati AstraZeneca con 1 dose

C   = non ancora vaccinati.

E’ comprensibile che le autorità sanitarie, supportate dai medici più sensibili alle istanze governative, si affannino a dire che l’importante è essere vaccinati, non importa con che vaccino, e se con 1 o 2 dosi. Lo scopo di questa campagna di (pseudo-) informazione è infatti quello di massimizzare il numero di persone che si sentono al sicuro, così favorendo la ripartenza dell’economia. E la campagna funziona: già oggi, se non si distingue fra classi vaccinali, e si aggiungono i guariti dal Covid, il messaggio che la politica è in grado di veicolare è che gli italiani al riparo del virus sono circa 1 su 3 (18 milioni di vaccinati almeno una volta, più circa 2 milioni di guariti non vaccinati).

Ma occorre anche non dimenticare due cose. Innanzitutto, che il pubblico non è stupido, e un vaccinato con 2 dosi di Pfizer sa benissimo di essere più al sicuro di un vaccinato con 1 sola dose di AstraZeneca. E, in secondo luogo, che cercare di nascondere questa differenza, come spesso i politici e i medici-politici tendono a fare, può rivelarsi un boomerang. Più ci autoconvinceremo di essere protetti quando ancora non lo siamo abbastanza, più alto sarà il rischio che l’epidemia obbedisca alle fosche previsioni di Galli e Crisanti, secondo cui fra qualche settimana l’aumento dei morti ci costringerà a richiudere tutto.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 maggio 2021




Lettera sulla cattiva gestione della pandemia

“Quando la prudenza è ovunque il coraggio non è da nessuna parte”
Cardinale Mercier

Caro professor Ricolfi,

in riferimento al suo articolo del 25/4 sul perché non sia stato fatto ciò che ragionevolmente andava fatto per combattere la pandemia, che lei spiega con la superbia e la sordità dei governanti e con la loro incapacità di imparare dagli errori fatti, vorrei suggerirle uno spunto di riflessione diverso.
Anch’io mi arrovello per cercare di spiegarmi scelte, decisioni e comportamenti inspiegabili e alla fine mi sono convinto che almeno una parte in tutto questo ce l’ha l’ostinata “avversione al rischio” della nostra società, dei nostri tempi.

Io sono un medico di base e quindi sulle notizie monotone dell’ultimo anno e mezzo ho sia le conoscenze teoriche che la conoscenza diretta di quello che succedeva per poter fare delle valutazioni affidabili. Ho vissuto il disorientamento dei medici e dei pazienti con i primi casi, ho lavorato e continuo a farlo nelle USCA e ho visto il lento sedimentarsi di procedure efficaci, ho battagliato con strutture burocratiche (uffici di igiene ecc.) assolutamente inadeguati e incapaci di modificarsi, ho affrontato con i pazienti i mille problemi, e spesso errori clamorosi, nei certificati di quarantena, nelle richieste dei tamponi e così via,  ho fatto i vaccini e ho visto come vengono fatti dai colleghi e dai cosiddetti hub, insomma posso abbastanza seriamente definirmi un “esperto” di questa faccenda.

Molte cose non tornavano, nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società.

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avvallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spengere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!), pensi alla saggia decisione di liberare dalla quarantena dopo massimo 21 giorni i guariti che ancora risultano positivi al tampone subito contraddetta da una regola più “protettiva” del (credo) ministero del lavoro (o forse un successivo DPCM…) che impediva il ritorno al lavoro finché non si ha un tampone negativo (questo vuol dire per esempio che un dipendente di un supermercato può tranquillamente andare lì a fare la spesa ma non a lavorare (non si dica mai che i nostri governanti facciano esporre al rischio i lavoratori e che i sindacati gli piantino una grana).

Le faccio un ultimo esempio: le vaccinazioni. A parte i primissimi tempi in cui era d’obbligo una maggior cautela, da marzo – aprile quando hanno cominciato a darli anche ai medici di famiglia ormai era noto che non sono vaccini più pericolosi di quello per l’influenza (e comunque quei rarissimi casi di complicazioni non si possono prevedere prima). Eppure questa vaccinazione è stata resa farraginosa da una burocrazia ipertrofica (si figuri che nel consenso informato che ci ha fornito l’Asl per vaccinare gli ultraottantenni, per le donne bisognava barrare anche la casella se erano incinta o allattavano) per cui molti miei colleghi si sono spaventati (rischi di avere grane burocratiche o legali, si torna sempre lì) e ne hanno fatti pochissimi. Soprattutto non ne hanno fatti a domicilio, che pure in quella fascia di età è a volte necessario. All’inizio era un avvertimento della ditta produttrice (Pfizer) che per somma cautela avvertiva che non era stata sperimentata l’efficacia del vaccino con il trasporto dopo la diluizione (sono molecole instabili e poteva essere); alla fine di marzo è arrivato il comunicato Pfizer che si poteva trasportare senza problemi. A me sembrava sufficiente per cui io ho cominciato a farli anche a domicilio ma il coordinatore dei medici della nostra zona in una riunione ha diffidato tutti dal farlo finché non ci fosse stata una dichiarazione ufficiale da parte della Regione Toscana (ma le pare possibile che un medico debba avere un’autorizzazione da parte di un funzionario della regione per fare una cosa che a quel punto era scritta a chiare lettere nel bugiardino del vaccino se non per la solita esagerata prudenza?). Risultato: la maggior parte dei vaccini a domicilio li ha dovuti fare l’Asl con altri medici e infermieri e sa quanti riescono a farne? Sei in sei ore (un medico con un infermiere più un altro medico che passa le giornate al telefono per fissare gli appuntamenti). Mostruosamente inefficiente ma nessun rischio, burocratico ovviamente, perché le complicanze vere, quelle sono identiche anche se ne fanno una al giorno.  Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? Molte leggi a protezione della salute, degli infortuni, della privacy sono giuste ma mi sembra che siano usate oltre la loro necessità e soprattutto in questo caso sembrano più forti dell’emergenza.  Sono i social media che fanno lievitare le paure? Sono i colossi del web che agiscono da persuasori occulti per renderci insicuri affinché sempre più viviamo nel web? Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.