Legge Zan: abroghiamo i reati di opinione

Ferve il dibattito sulla cosiddetta legge Zan. Il vero problema è costituito però dall’art. 604 bis del codice penale a cui la proposta rinvia per integrarla.

È di tutta evidenza infatti che non vi è ragione logica e giuridica per non estendere la tutela prevista dal codice penale agli atti di violenza o di discriminazione per motivi sessuali, visto che giustamente questo tipo di atti è già represso laddove siano causati da motivazioni razziali, etniche, nazionali, religiose. Il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione non solo legittima, ma impone la suddetta estensione della portata dell’art. 604 bis c.p.

Il vero problema è l’eccessivo ambito applicativo di detto articolo. Un conto sono infatti gli atti di violenza ovvero gli atti discriminatori che hanno una loro manifesta e immediata concretezza. È pure condivisibile sanzionare l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi, e ovviamente sessuali, data la evidenza e normale inequivocità del comportamento represso. Sarebbe semmai opportuno inserire anche i motivi politici. Incitare alla violenza contro chi non la pensa come te non è accettabile in un Paese democratico.

Completamente diverso è invece l’incitamento o la istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi fondati su religione, razza, nazione, sesso, genere etc. È opportuno fare qualche esempio.

Se qualcuno dovesse affermare che certe interpretazioni radicali dell’Islam, ancorché non dichiarate fuorilegge, sono pericolose e vanno contrastate, alla luce di una interpretazione letterale dell’art.604 bis, potrebbe essere oggi denunciato per istigazione alla discriminazione religiosa. Se poi dovesse anche affermare che all’interno di talune comunità etnicamente caratterizzate la illegalità è molto diffusa, potrebbe essere pure perseguito per incitamento alla discriminazione etnica. Con il progetto di legge “Zan” il rischio di una denuncia potrebbe correrlo anche chi dovesse sostenere che l’unica famiglia degna di essere incoraggiata con provvidenze economiche è quella fondata sull’unione fra due persone di sesso diverso: da questa premessa taluno potrebbe facilmente dedurre che si vuole istigare a discriminare sulla base degli orientamenti sessuali.  Persino criticare l’utero in affitto, da parte di chi intendesse seguire dettami religiosi, potrebbe dar luogo quanto meno a denunce penali.

L'”incitamento alla discriminazione” costituisce qualcosa di magmatico e di indefinito che necessita sempre di una precisazione interpretativa, lasciando ampio arbitrio alle valutazioni soggettive del Pubblico Ministero e del Giudice.

Tutto ciò è certamente intollerabile perché rischia di violare il principio della libera manifestazione del pensiero. Di ciò si rende ben conto lo stesso legislatore che all’articolo 4 è costretto a riconoscere (bontà sua) che è consentita la libera espressione di convincimenti od opinioni, introducendo peraltro una inaccettabile previsione ulteriore: “sono fatte salve le condotte legittime purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori”. Si puniscono condotte “legittime” (SIC!) sulla base del semplice rischio che possano determinare atti discriminatori: una norma da Stato autoritario. Questo articolo va certamente riscritto.

La ulteriore, grave conseguenza di questa discrezionalità interpretativa sarebbe la differenza di trattamento da procura a procura e da tribunale a tribunale. Le citate affermazioni del codice penale introducono cioè margini di discrezionalità tali che possono determinare incertezza del diritto e violazione del principio di eguaglianza.

Insomma, prima di discutere la legge Zan, appare prioritaria una modifica dell’art. 604 bis c.p. nella parte in cui porta a reprimere la “istigazione a commettere atti di discriminazione”.

Pubblicato su Libero del 7 maggio 2021




Bandiere ammainate

Ora che abbiamo due possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, invece, è lo sfondo sociologico e culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono interpretate e applicate.

Ebbene, qual è lo sfondo?

Se la questione me l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra, il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della cultura di sinistra.

Ma oggi?

Oggi non è più così. O meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la destra come avversario e non come nemico, il complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori si è innestata una nuova patologia: la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella maggior parte dei paesi occidentali. Lo zenit di tale deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (un compito cui, invano, lo stesso Barack Obama ebbe ad esortare i giovani)

Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del 2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa americana, Jean Twenge, la più accurata radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui, finalmente, si comincia a parlare  anche in Italia, grazie a libri come quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della suscettibilità, Marsilio),  un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.

Ed eccoci al punto, il clima in cui le leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal lato della libertà di espressione.

E’ un male?

No, è solo sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista. Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il primo imperativo della sinistra. Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze. E che, di fronte alle problematiche della “omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.

Viviamo in un tempo ben strano…

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 maggio 2021




La Neolingua virale

Nei miei precedenti articoli ho sottolineato più volte come nei paesi occidentali, Italia in testa, al di là della pessima gestione del virus ci sia stato anche un evidente tentativo di strumentalizzarlo a fini di potere, per rafforzare i partiti tradizionali, oggi quasi tutti in crisi, mettendo al tempo stesso all’angolo i movimenti antieuropeisti, in genere propensi a simpatizzare con le teorie complottiste e negazioniste.

Questo si può ottenere con vari metodi, ma il più efficace (e quindi il più pericoloso) resta sempre, come ci ha insegnato Orwell, il controllo del linguaggio. Di conseguenza, la creazione di una vera e propria Neolingua virale (nel doppio senso di ispirata al virus e di rapidissima diffusione) è un fenomeno estremamente preoccupante, che merita una attenta analisi.

Tale manipolazione è avvenuta ed avviene tuttora a vari livelli, il primo dei quali è rappresentato dall’uso della menzogna e della censura, che è stato particolarmente grave e diffuso soprattutto sotto il governo Conte, ma anche adesso non è certo finito. Solo per fare un esempio, proprio in questi giorni il Sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha dichiarato che la “mitica” app Immuni non è stata un «fallimento», ma “soltanto” una «delusione», dovuta (ça va sans dire) «all’attacco ingiustificato subito dal centrodestra», concludendo che «anche tracciando solo pochi contagi, Immuni resta utile» (La Stampa, 4 maggio 2021, p. 3). L’affermazione è semplicemente incredibile, dato che Immuni ha tracciato in totale poco più di 5000 contagi, cioè un numero assolutamente inutile o, più esattamente, ridicolo (più o meno quanti negli ultimi mesi di verificavano in sole 6 ore), il che le garantisce un posto di tutto riguardo nelle pur lunghissima hit parade di vergognosi fallimenti vantata (purtroppo) dal nostro paese. Tuttavia, di questo ho già parlato ampiamente nell’articolo Il virus dell’autoritarismo, pubblicato in questo stesso sito, a cui pertanto rimando.

Qui aggiungerò soltanto che sta diventando davvero preoccupante il fenomeno della censura dei “dissidenti” da parte dei social media, che in molti casi è giunta fino alla disattivazione dell’account. La cosa è già inaccettabile di per sé, ma lo diventa ancor più se consideriamo che si tratta di aziende private a scopo di lucro, che non hanno mai dimostrato di avere molto a cuore la verità e che, soprattutto, si assumono la responsabilità dei propri contenuti solo a intermittenza, cioè, in pratica, quando la pressione mediatica su un determinato tema è tale da mettere a rischio i loro introiti pubblicitari (un buon punto di riferimento per una riflessione al riguardo è l’articolo pubblicato su questo sito da Mark Bosshard qualche mese fa, quando il fenomeno non era ancora così grave.

La manipolazione del linguaggio in senso stretto, però, è qualcosa di più della semplice menzogna, perché riguarda il modo in cui la menzogna viene fatta passare, che è più sottile (e quindi più pericoloso) del semplice nascondere o negare la verità.

In realtà, la creazione di qualcosa di simile alla Neolingua di 1984 all’interno della nostra società si stava già verificando da diverso tempo, in parte per un processo spontaneo dovuto al progressivo imbarbarimento della società e in parte sotto la spinta di diverse istituzioni, tra cui in primo luogo le grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali. Tuttavia, il virus ha dato un impulso formidabile a questo processo, non solo per le dinamiche che si sono create e di cui ora parleremo, ma anche perché l’esperienza dimostra che tale processo è molto favorito dalla comunicazione via Internet, che con la reclusione forzata a cui siamo stati sottoposti per oltre un anno è cresciuta esponenzialmente.

Un primo tipo di manipolazione è l’uso di termini tecnici di per sé del tutto “neutrali”, come “pandemia”, Covid-19”, “SARS-CoV2” e simili, come se fossero una sorta di “parola d’ordine”, che viene ripetuta (spesso senza neanche sapere cosa significa esattamente) solo per dimostrare la propria lealtà al sistema, come aveva magistralmente spiegato già nel 1978 Václav Havel, il più celebre dissidente della Cecoslovacchia, di cui poi divenne Presidente dopo la caduta del regime comunista: «Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? […] Il motivo […] non è […] la speranza che qualcuno lo legga o l’idea di convincere qualcuno di qualcosa, ma quello di creare, insieme con migliaia di altri slogan, proprio quel panorama che tutti conoscono bene. Panorama che ha anch’esso il proprio significato occulto: ricorda all’uomo dove vive e cosa ci si aspetta da lui; gli comunica cosa fanno gli altri e cosa deve fare anche lui se non vuole essere escluso, cadere nell’isolamento, dividersi dalla società, violare le regole del gioco e rischiare quindi la perdita della propria tranquillità e della propria sicurezza» (Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese, 2013, pp. 37 e 48). Non è forse una descrizione esattissima anche di ciò che sta accadendo oggi? È per questo che, come forse qualcuno avrà notato, io cerco il più possibile di evitare questi termini, preferendo altri più generici e di per sé meno precisi, come “epidemia”, “virus”, ecc.

La creazione della Neolingua in senso stretto inizia tuttavia solo con l’uso improprio o addirittura insensato di termini di uso comune o con la loro sostituzione con altri creati artificiosamente a tavolino. Per esempio, “distanza sociale” in italiano indica la distanza tra ricchi e poveri, mentre qui viene usata per indicare quella che andrebbe chiamata “distanza di sicurezza”. “Sanificare” o “igienizzare” non sono, a rigore, termini scorretti, ma sono comunque termini del burocratese che sostituiscono il più normale “disinfettare”, così come i termini DPI (“dispositivi di protezione individuale”) al posto di “mascherine” e “tute” e la famigerata DAD (“didattica a distanza”) al posto di teledidattica.

Questo potrebbe non sembrare ancora troppo grave, ma, come sempre Orwell ci ha magistralmente spiegato, per i creatori di Neolingue la sostituzione dei termini del linguaggio naturale con barbarismi creati a tavolino rappresenta di per sé stesso un progresso verso l’obiettivo del controllo totale, perché allontanare le persone dall’espressione naturale del loro pensiero significa allontanarle da sé stesse, confondendole e riducendo la loro capacità di pensare in modo autonomo.

Una riprova indiretta della correttezza della sua intuizione è rappresentata dall’esperienza della Università UCSS-Nopoki di Atalaya, nell’Amazzonia peruviana, con cui collaboro da molti anni, che è nata dall’idea che per preservare l’identità dei popoli amazzonici occorre in primo luogo preservare i loro linguaggi: la cosa sta funzionando, il che significa non solo che l’ipotesi è vera, ma che è vero anche l’inverso, cioè che distruggendo un linguaggio si distrugge anche l’identità del popolo che lo parla (tra parentesi, anche se non c’entra: prima o poi sarebbe il caso di cominciare a riflettere su quanto le differenze linguistiche pesino sulla difficoltà di creare una vera Unione Europea, in cui tutti sentano intimamente di appartenere a uno stesso popolo).

Comunque, l’ultimo e più preoccupane livello è quello in cui il cambio o l’uso improprio della terminologia portano con sé anche una distorsione o addirittura una falsificazione della realtà, il che con il Covid si è verificato con allarmante frequenza.

Comincio da un esempio che trovo particolarmente irritante, cioè l’uso della parola “ristori” al posto di “risarcimenti”, di cui distorce sottilmente il significato, comunicando subliminalmente l’idea che si tratti non di un atto dovuto che deve essere calibrato in base al danno subito, ma piuttosto di una generosa concessione che ha lo scopo, assai più limitato, di dare un po’ di respiro e la cui entità è decisa in base alla benevolenza del governo (il che, in effetti, era esattamente quel che Conte & C. avevano in mente).

Un altro esempio è l’uso di un linguaggio “militare”, che non solo è fuori luogo, ma spesso serve a giustificare comportamenti e provvedimenti in realtà assurdi. Si va dai paragoni con le guerre, tesi a suggerire che siamo di fronte a un’apocalisse (dimenticando che le malattie hanno sempre fatto molti più morti delle guerre: per esempio, senza Covid ogni anno in Italia muoiono 600.000 persone, quanto in tutta la Prima Guerra Mondiale) e che perciò “non dobbiamo dividerci e criticare” (il che nelle guerre vere ha senso, perché un esercito unito può vincere anche se non sta seguendo la strategia migliore, ma nella “guerra” al virus no), fino alla grottesca vicenda del “coprifuoco”, che in guerra significa innanzitutto spegnimento delle luci durante la notte (da cui il nome) per impedire di essere visti dagli aerei nemici, mentre qui è sinonimo di “divieto di uscire di notte”, il che non serve assolutamente a nulla, giacché le probabilità di contagio all’aria aperta è molto bassa (cfr. Ricolfi) e lo diventa ancor più di notte, quando il numero di persone in circolazione è in ogni caso molto inferiore, mentre danneggia tanto gravemente quanto insensatamente bar e ristoranti (qualcuno è mai stato in grado di spiegare in modo intelligibile perché cenare in un locale dovrebbe essere sicuro alle 21,59 e pericoloso alle 22,01?).

E con questo arriviamo all’aspetto in assoluto più pericoloso della Neolingua virale, ovvero all’uso di termini tecnici in senso distorto, in modo tale da determinare convinzioni e, di conseguenza, comportamenti errati.

Il primo di questi equivoci è senza dubbio relativo al concetto di “paese più colpito”, che viene sempre determinato in base al valore assoluto dei contagi e (meno frequentemente) dei morti, il che ha permesso di perpetuare per mesi delle vere e proprie leggende urbane, come quella che l’Italia avrebbe fatto meglio degli USA del “cattivo” Trump solo perché aveva meno morti in assoluto, ma con una popolazione 6,5 volte inferiore, per cui in rapporto ad essa ne ha sempre avuti di più. E l’esperienza non ha insegnato nulla, perché l’equivoco si sta ripetendo tale e quale in questi giorni con l’India: certo, 350.000 contagi e 3.500 morti al giorno fanno impressione, ma, considerando che la popolazione dell’India è 23 volte la nostra, in realtà i valori relativi sono addirittura inferiori ai nostri, anche se è vero che la nostra situazione è in sia pur faticoso miglioramento, mentre la loro è in rapido peggioramento, ma questo non giustifica che in tutti i giornali e telegiornali per l’India si parli di “catastrofe” e se ne ritenga responsabile il governo, mentre nulla del genere accade per l’Italia.

Segue a ruota l’equivoco relativo ai mitici “assembramenti”, che da sempre vengono indicati come la principale causa della diffusione del virus, il che ha portato il governo Conte e tutti gli altri che lo hanno stolidamente imitato a concentrarsi quasi esclusivamente sulle attività all’aperto e sui locali aperti al pubblico, in particolare quelli legati alla non meno mitica “movida” (che la maggior parte di coloro i quali oggi se ne riempiono continuamente la bocca prima non sapeva neanche cosa volesse dire).

Questa convinzione si è formata in gran parte per caso, a causa di uno di quei cortocircuiti politico-mediatici che fanno sì che certe idee buttate lì senza troppo riflettere si diffondano a tal punto da diventare dogmi indiscutibili prima ancora che si abbia il tempo di valutarle scientificamente. La cosa incredibile, però, è che in questo caso non c’era affatto bisogno di nuovi studi, giacché era chiarissimo fin dall’inizio che questa idea era completamente sbagliata, sia in base ai primi studi sui dati di Wuhan, forse l’unica cosa buona fatta dalla OMS in tutta questa disgraziata vicenda, sia, soprattutto, ragionando per analogia con altri virus simili, cosa che però nessuno ha fatto perché a causa del clima di terrore che si era creato nessuno voleva correre rischi (cfr. Dyani Lewis, Covid-19 rarely infects through surfaces. So why are we still deep cleaning?, “Nature”, 590, 26-28).

O meglio, nessuno tranne il sottoscritto: perché se c’è una cosa che davvero mi sento di rivendicare con orgoglio è proprio di aver detto fin dall’inizio che tutta questa fissazione sugli assembramenti era una solenne idiozia. Eppure, perfino adesso che finalmente si comincia ad ammetterlo non si chiede mai scusa per un errore così grave e clamoroso, che, deviando su strade sbagliate le strategie di contenimento, ha causato la morte di migliaia di persone che potevano essere salvate e la rovina di migliaia di locali che non c’era ragione di chiudere.

Perfino Antonella Viola, da sempre una delle scienziate più aprioristicamente schierate a difesa del governo, ha recentemente riconosciuto che «il rischio di contagio all’aperto, sappiamo che è bassissimo: circa 1 contagio ogni 1000 si verifica in queste condizioni, verosimilmente in presenza di assembramenti» (editoriale di La Stampa del 28 aprile 2021). Peccato però che l’illustre immunologa non spieghi perché fino (letteralmente) all’altro ieri non l’avesse mai detto, né perché diavolo abbia sempre difeso a spada tratta (e in parte difenda ancora: vedi coprifuoco) regole che, avendo come unico scopo quello di evitare i suddetti assembramenti, incidono sul contagio totale per appena lo 0,1%, cioè, in pratica, per nulla.

Altro esempio è l’uso dei termini “picco” e “ondata”. Il primo, infatti, suggerisce l’idea che ci sia qualcosa come un Gran Premio della Montagna al Giro d’Italia, che “sta lì” e che noi dobbiamo solo raggiungere e superare, dopodiché (e solo dopo) le cose inizieranno a migliorare. Anche il concetto di “ondata” suggerisce l’idea che l’epidemia sia un fenomeno naturale, in questo caso una specie di tsunami, le cui onde si formano indipendentemente da quel che facciamo e sono già in marcia verso di noi prima che le vediamo, per cui non possiamo far nulla per impedire che ci colpiscano, ma solo cercare di limitare i danni quando questo accadrà. Al contrario, le “ondate” di un’epidemia, così come i suoi “picchi”, non sono la causa delle nostre azioni, bensì il loro effetto: tant’è vero che in molti paesi non si è verificata o la prima o la seconda ondata e in alcuni addirittura nessuna delle due (cfr. Ricolfi, La notte delle ninfee).

Altrettanto fuorviante è il modo in cui in genere si parla della necessità di “rafforzare il sistema sanitario” per non farci più trovare “impreparati”, il che suggerisce irresistibilmente l’idea che si debbano assumere più medici e costruire più ospedali e più terapie intensive. Ora, in parte ciò può anche essere vero, ma in questo modo si evita di affrontare la domanda davvero importante: per che cosa, esattamente, dovremmo essere “preparati”?

Infatti, noi dovremmo innanzitutto prepararci per evitare che la prossima volta sia necessario avere più ospedali e più terapie intensive, il che si può ottenere solo adottando (finalmente) le giuste strategie di prevenzione e non rafforzando quelle sbagliate, tra cui vi è certamente l’aver puntato esclusivamente sulle cure ospedaliere, ignorando completamente o addirittura ostacolando quelle domiciliari (così come, ovviamente, le altre strategie di prevenzione di cui abbiamo parlato ripetutamente su questo sito).

È vero che si è parlato più volte di “potenziare la medicina territoriale”, ma, a parte il fatto che spesso ciò si è fatto per pure ragioni ideologiche, in polemica col sistema sanitario lombardo che risulta ancora indigesto a gran parte della nostra sinistra, ancora una volta questa terminologia suggerisce che il problema sia essenzialmente quello di assumere più medici di base. E ancora una volta bisogna rispondere che in parte ciò può anche essere vero, ma il vero problema è culturale, perché è da almeno vent’anni che i medici, salvo poche eccezioni, hanno smesso di andare a visitare i pazienti a casa, il che ovviamente spinge questi ultimi a rivolgersi sempre più spesso agli ospedali, anche quando non sarebbe necessario. Se non cambia innanzitutto la mentalità, più assunzioni serviranno solo ad avere più studi medici presenti sul territorio, ma non più pazienti assistiti adeguatamente a casa propria.

Altra affermazione estremamente fuorviante è che si deve poter “operare in sicurezza”, il che, per come viene detto, significa di fatto “a rischio zero”, che nel mondo reale semplicemente non esiste. Fermo restando che, come abbiamo più volte spiegato in questo sito e altrove, i danni più gravi sono stati causati da errori su come e quando chiudere e non su come e quando riaprire, non c’è dubbio che questa pretesa irragionevole abbia ritardato riaperture possibili, ma anche, paradossalmente, favorito riaperture a rischio, perché in ogni caso impedisce di ragionare lucidamente in termini di rapporto costi-benefici, cosa che richiede di aver chiaro che il costo non può mai essere zero.

Soprattutto, però, questo ha avuto gravi conseguenze rispetto alla medicina territoriale, di cui abbiamo appena parlato: perché se è vero che in molti casi ai medici di base non sono state fornite le protezioni adeguate, è altrettanto vero che, anche qualora le avessero, in nessun caso il rischio potrà essere azzerato. La verità è che, per quanti sforzi (giustamente) si facciano per renderla più sicura, la professione medica è intrinsecamente pericolosa e bisogna tornare a dirlo chiaramente, perché chi la sceglie dev’esserne consapevole, altrimenti sarà inevitabile che si tiri indietro proprio quando c’è più bisogno della sua opera. E lo stesso vale per i capi degli Ordini dei Medici, che è certamente giusto criticare per avere osteggiato anziché sostenuto quei pochi che visitavano i pazienti, ma un po’ vanno anche capiti, perché è difficile agire diversamente sapendo che non ti viene concesso il minimo margine di errore.

L’ultimo esempio che faccio (ma non certo l’ultimo possibile: individuare gli altri lo lascio come esercizio ai lettori) è quello del celeberrimo slogan “La salute vale più dei soldi”, a cui affianco l’affermazione, tanto cara al Ministro Speranza, per cui “bisogna smetterla di considerare la spesa per la Sanità come una spesa improduttiva”. Qui l’inganno sta nell’intendere il termine “improduttivo” come valutativo e non come meramente descrittivo. “Spesa improduttiva” significa infatti “che non produce utili” e in questo senso la spesa per la sanità è certamente improduttiva, anzi, è addirittura controproducente, poiché facendo vivere più a lungo le persone fa aumentare la spesa per le pensioni e facendone vivere molte con patologie croniche fa aumentare la stessa spesa sanitaria, in una spirale che tende a crescere indefinitamente.

Dire questo non significa però sostenere che tale spesa sia cattiva o superflua: significa solo riconoscere realisticamente che essa, diversamente da altre, non si finanzia da sola e che quindi se la si vuole aumentare lo Stato dovrà trovare altre fonti di introiti. La dura realtà, infatti, è che senza soldi non c’è neanche la salute, non solo perché le cure mediche costano (e molto), ma anche perché, come dimostra la storia, il benessere economico è in sé stesso la più efficace difesa della salute che esista. E poiché in ogni caso le risorse dello Stato non potranno mai essere infinite, ne segue che è giusto (in generale, non solo per il Covid) spendere tutto quel che è possibile per salvare più persone possibile, ma, appunto, solo ciò che è possibile senza arrivare al punto di mandare in bancarotta il paese: perché in un paese in bancarotta morirebbero molte più persone di quelle che potrà mai uccidere il virus.

P.S. Un esempio di spesa non improduttiva, cioè di investimento, è quella per l’Università, che porta dei ritorni già sul breve periodo (in termini di più bandi vinti e quindi di più fondi per la ricerca ottenuti) e ne porta ancor di più sul lungo periodo, grazie ai brevetti, alle applicazioni tecnologiche e al miglioramento del livello culturale medio del paese, il che a sua volta porta a miglioramenti un po’ dovunque. Il fatto che in genere si ritenga invece che quella per l’Università sia una spesa improduttiva e quella per la Sanità un investimento la dice lunga sul livello di confusione mentale in cui si trova la nostra società, anche senza bisogno che ci si metta Speranza a peggiorarlo.




Covid, l’incognita di maggio

Resto dell’idea che, nella recente gestione della pandemia, l’errore capitale sia stato tenerci a bagno maria per 6 mesi (4 in conto al governo giallo-rosso, 2 in quello Draghi), con danni enormi all’economia e pochissimi benefici per la salute. E resto pure dell’idea che iniziare una vaccinazione di massa senza prima aver ridotto drasticamente la circolazione del virus sia stato un azzardo, nonché un errore non scusabile, posto che le voci che avvertivano del pericolo esistevano sia dentro il governo (Ricciardi) che fuori (Crisanti). Se ora siamo così esposti al rischio che qualche variante ci travolga non è solo perché non sappiamo né sequenziare adeguatamente, né limitare gli ingressi in Italia, ma perché la nascita di varianti resistenti ai vaccini è l’effetto statistico, e perfettamente prevedibile, della scelta di non abbattere la curva epidemica prima del decollo della campagna di vaccinazione.

Ma ormai il danno è fatto, le riaperture sono divenute politicamente e socialmente inevitabili, e ci tocca sperare che le cose non vadano troppo male. E’ fuori discussione, come avvertono i virologi meno autocensurati, che il “rischio ragionato” significa migliaia di morti in più rispetto a quelli che avremmo avuto prolungando il lockdown. Ed è pure indubbio, per quanto più difficile da far capire, che il danno economico complessivo all’industria turistica potrebbe essere molto maggiore aprendo adesso che aprendo a giugno, se aprire adesso dovesse regalarci una quarta ondata (con conseguente richiusura) in piena estate.

Quel che invece mi pare non scontato è che, nelle prossime settimane, si arrivi a 500-600 morti al giorno, come alcuni esperti hanno prospettato o lasciato intendere. Pur essendo fra quanti hanno più volte fatto previsioni catastrofiche (fin qui tutte avverate), questa volta mi trovo più in sintonia con quanti non solo si augurano, ma ritengono verosimile, un’evoluzione meno drammatica della mortalità.

Vediamo perché. Il numero medio di morti settimanali è un po’ inferiore a quello con cui sperimentammo le prime riaperture l’anno scorso, proprio ai primi di maggio come quest’anno. Inoltre esso è in lenta ma costante discesa da circa 20 giorni. Questo andamento è la risultante di quattro forze, due che sospingono la mortalità, due che la frenano.

La prima forza, che tende a tenere elevato il numero di decessi quotidiani, è l’altissimo numero di positivi e di ospedalizzati. Fatto 100 il numero di soggetti positivi del maggio scorso, ora siamo fra 300 e 500, a seconda dell’indicatore che si utilizza. Per una stima accurata del numero assoluto di soggetti positivi non ci sono dati sufficienti (o meglio: i dati che servirebbero non sono pubblici), ma l’ordine di grandezza si può calcolare: almeno 1 milione di positivi. Poiché il numero di soggetti positivi si riduce con estrema lentezza, e anzi tende a crescere non appena il governo allenta le misure restrittive, è verosimile che questa forza tenderà a tenere alto il numero dei decessi quotidiani.

La seconda forza è la mobilità delle persone, il fatto cioè che la gente tenda a stare in casa o a muoversi e incontrare altre persone. Qui le cose vanno male, e non potrebbe essere diversamente: il fatto stesso di reclamizzare le riaperture come un (sia pur graduale) ritorno alla normalità inevitabilmente comporta una crescita dei comportamenti rischiosi. In che misura ciò stia accadendo ce lo dicono i dati di mobilità di Google: fatta 100 la propensione a stare a casa di un anno fa, la medesima propensione era scesa intorno a 50 nel mese di aprile di quest’anno ed è intorno a 30 oggi. I nostri comportamenti stanno facendo di nuovo salire l’indice di riproduzione Rt, che sta di nuovo avvicinandosi pericolosamente a 1.

Fin qui le forze che supportano i ragionamenti dei pessimisti. Fortunatamente, ci sono però anche due potenti forze che spingono nella direzione opposta, ossia di una limitazione della mortalità. La prima è l’aumento della quota di tempo passata all’aperto, che tende a neutralizzare gli effetti dell’aumento della mobilità. La seconda è la campagna di vaccinazione, che – nella misura in cui privilegia le categorie più a rischio (vecchi e fragili) – abbassa drasticamente il tasso di letalità dell’infezione, ovvero la probabilità che una persona contagiata si ammali e muoia.

Ed ecco la ragione del mio non eccessivo pessimismo. Nessuno ha abbastanza dati (e modelli matematici collaudati) per prevedere quale potrà essere l’effetto congiunto delle due forze “cattive” (tanti positivi, più mobilità) e delle due forze “buone” (vita all’aperto e campagna vaccinale). E’ possibile che le prime abbiano il sopravvento, e il numero di morti torni a salire in modo apprezzabile (specialmente a Milano, dove i tifosi interisti tifano anche per il virus). Ma è anche possibile che la curva epidemica rallenti, e che le vaccinazioni determinino un drastico abbassamento del tasso di letalità, con la conseguenza di impedire un rialzo della mortalità, o addirittura di sospingere ulteriormente verso il basso il numero di morti quotidiano.

Il rischio maggiore che vedo, per i prossimi mesi, è che si scambi un’eventuale, non impossibile, riduzione del numero di decessi per un arretramento del virus, senza comprendere che – con il procedere della vaccinazione – il numero di morti sarà sempre meno un buon indicatore della diffusione del contagio. Sarebbe un errore di valutazione grave, perché ci condurrebbe – ancora una volta – a sottostimare i pericoli che ci attenderanno quest’autunno, quando il rientro a scuola e il ritorno della stagione fredda potrebbero riservarci, ancora una volta, delle brutte sorprese. Che questo rischio di sottovalutazione dei pericoli che ci attendono in autunno sia reale, e non puramente ipotetico, lo suggerisce del resto una constatazione amara: ancora una volta poco o nulla si sta facendo per mettere in sicurezza gli ambienti chiusi (aule scolastiche e universitarie) e semi-chiusi (trasporti pubblici). E’ probabile che questa distrazione sia dovuta alla credenza che la vaccinazione di massa risolverà tutto. Ma giova ricordare che si tratta, per l’appunto, di una credenza, non di una solida certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 maggio 2021




Resistere alle parole

“Sturm und drang”: tempesta e assalto.

Questa sembra la migliore metafora per una immagine oggi prevalente: quella della vorticosa, incessante presenza delle parole nella nostra vita.

Non è forse la parola la più straordinaria espressione dell’intelligenza umana?

Descrive, spiega, anticipa, apre, conclude, è la chiave di accesso alla porta che si spalanca sul mondo, è il filo sottile che unisce l’umanità, ordito e trama di un invisibile alfabeto universale che ci permette di capire ed essere capiti.

Ma non sempre la sua presenza è così neutrale.

A volte la parola è il nemico invisibile con cui dobbiamo combattere, la catena opprimente che vorremmo spezzare, la verità apparente che ci preme di confutare.

Ci nutriamo avidamente di parole prima che siano loro a impossessarsi della nostra anima.

Volenti o no, siamo più che mai immersi in un oceano di cose dette e sentite, partecipiamo al chiacchiericcio universale che prende le sembianze dei tempi nuovi specie quando si materializza e si alimenta con l’uso delle nuove tecnologie.

È come se l’intero pianeta trattenesse il respiro, avvolto e soffocato dall’abbraccio stretto e infinito delle voci che si levano ovunque e che se potessero pure darsi la mano il nostro mondo sarebbe come impacchettato in una rete impenetrabile.

Un tempo le parole si muovevano con le gambe della gente o si spostavano con misurata lentezza: oggi si mischiano ai fatti in tempo reale, li seguono e li anticipano, sono qui e altrove, davanti a noi e ovunque.

Persino le immagini senza il supporto delle spiegazioni e del commento sono inespresse, sbiadite, spente, indecifrabili.

È come se la stessa realtà, quella dei fatti, dei comportamenti e delle azioni si accendesse di più completi significati smaterializzandosi: la narrazione sostituisce gli eventi e ricostruisce la trama della storia, il ricordo li fa rivivere intimamente, li evoca, li arricchisce, la fantasia li anticipa come non mai si realizzeranno.

Nel turbinio incessante del dire e del commentare le parole vanno misurate, tenute a bada, usate con discernimento: sono apparentemente innocue ma si caricano di valore e di senso, ora appartengono al bene, ora si impregnano del male, hanno un peso, una misura, un esito.

Sono un tesoro da spendere con parsimonia, una risorsa per dare senso alla nostra presenza in mezzo agli altri, un talento per conoscersi e ri-conoscersi.

Se ne pronunciano talmente tante, tutti i giorni e altrettante se ne sentono dire che capita a tutti, prima o poi, di rimanerci impigliati come pesci nella rete, di essere smentiti dall’incoerenza del giorno dopo.

Oltre la cultura della comunicazione e delle immagini sembra materializzarsi quella prevalente del commento, che prende le mutevoli sembianze della riflessione, del dialogo, dell’esternazione, del gossip.

Arriverà il giorno in cui ci scambieremo messaggi con il pensiero?

Lasciamo alle neuroscienze e alle ricerche sull’intelligenza artificiale la risposta a questo affascinante e forse inquietante quesito.

Ma certamente possiamo già fare molto oggi, con i nostri mezzi, per evitare di impostare un rapporto esclusivamente difensivo con le parole.

Per quanto sia diffusa la consuetudine del parlare a vanvera e della chiacchiera, per quanto possa  risultarci fastidioso il mormorio delle voci indistinte, per quanto sia sottile e pervasivo il tambureggiare delle email e dei messaggi di testo, per quanto si possa essere ogni giorno blanditi dai convincimenti mediatici, ci resta pur sempre – a un bel punto – l’opportunità di tacere.

La società muove all’assalto delle coscienze con la lancia della persuasione occulta: cerchiamo di armarci con lo scudo del discernimento e della ragionevolezza, per resistere alle parole che vogliono insinuarsi con l’inganno nella nostra intimità o che finiscono per turbare il nostro già faticoso equilibrio esistenziale.

Mi pare che nello sciocco e inconcludente brusio delle voci senza appartenenza occorra dotarsi di un ponderato senso della misura.

Non possiamo ascoltare tutto né possiamo subire un significato prevalentemente commerciale della comunicazione.

L’aristocrazia della parola non dimora nelle gerarchie dei ceti sociali ma nella nobiltà d’animo di chi ne sa dosare con sapienza e criterio l’uso più appropriato.

Pubblicato su Mente Politica il 1 maggio 2021