L’incertezza del diritto

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.




La sinistra securitaria – Verso le elezioni europee

Il trend del consenso elettorale in Europa è piuttosto chiaro: elezioni e sondaggi, da qualche anno, segnalano uno spostamento del baricentro dell’opinione pubblica verso destra. I segnali più recenti in questo senso vengono, oltre che dall’Italia, da Francia, Germania, Svezia, Finlandia, Grecia e, per certi versi, pure dalla Spagna e dalla Danimarca, due paesi dove la destra ha perso le elezioni ma il complesso delle forze di centro-destra ha, sia pure di poco, aumentato i consensi.

È ragionevole pensare che, alla base di tali spostamenti, vi sia l’aggravarsi del problema dei migranti. Un tema che noi italiani traduciamo automaticamente in “sbarchi”, ma che nella maggior parte dei paesi significa attraversamenti (terrestri) delle frontiere esterne dell’Europa e movimenti secondari fra Stati dell’Unione Europea, due fenomeni che allarmano sempre di più governi e opinioni pubbliche. Si può molto disquisire sulla gravità effettiva della situazione, dividendosi fra quanti vedono un’invasione in atto, e quanti preferiscono parlare di “invasione percepita”. Ma è del tutto inutile. Grave o no che sia la situazione, è inevitabile che il tema dei migranti sia al centro della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Tanto più che il voto è previsto per il prossimo mese di giugno, in una stagione che è la più favorevole agli attraversamenti del Mediterraneo.

A prima vista, l’irrompere del tema dei migranti favorisce la destra, che da decenni ne ha fatto un cavallo di battaglia. Ma non è scontato. Molto dipende dalla linea politica con cui le forze di sinistra, prima fra tutte il Pd, si rivolgeranno all’elettorato. Ove Elly Schlein dovesse insistere con la linea attuale, che minimizza la gravità del problema degli sbarchi, effettivamente l’esito più probabile sarebbe un rafforzamento dei partiti più ostili ai migranti, ossia Lega e Fratelli d’Italia. E forse pure una redistribuzione di voti interna della sinistra a vantaggio dei Cinque Stelle, che da sempre rappresentano la componente più critica sugli sbarchi e sulle Ong (ricordate i “taxi del mare” di Luigi Di Maio?).

Ma se Elly Schlein correggesse la rotta, prendendo sul serio il problema dei flussi migratori? Se il Pd ammettesse che la moltiplicazione dei salvataggi in mare e il rafforzamento delle strutture dell’accoglienza non possono essere la soluzione, e proponesse delle misure realistiche e praticabili?

In quel caso, l’accusa a Giorgia Meloni di non aver mantenuto le promesse di bloccare gli sbarchi, un’accusa ossessivamente ripetuta da tutti i media progressisti da quando è in carica il nuovo governo, potrebbe diventare credibile (ed elettoralmente remunerativa per la sinistra). Una parte degli italiani, delusi dall’impotenza dell’esecutivo, potrebbe convincersi che – in materia di controllo dei flussi migratori – la sinistra ha soluzioni più efficaci di quelle della destra.

Fantascienza?

Probabilmente sì, perché il Pd è saldamente in mano a un manipolo di fedeli della segretaria. Ma non perché sinistra e sicurezza siano due parole che non possono stare insieme. Una sinistra non sorda alla domanda di sicurezza proveniente dai ceti popolari esiste da tempo negli Stati Uniti (con i Blue dogsdel partito democratico) e nel Regno Unito (il cosiddetto Blue Labour), ma anche in Europa, dove le recenti affermazioni elettorali dei partiti socialisti in paesi come la Danimarca e la Slovacchia sono avvenute su severi programmi di controllo dell’immigrazione.

E in Italia?

In Italia basterebbe non dimenticare la nostra storia. Su posizioni nettamente securitarie si sono trovati in passato diversi sindaci di sinistra, come Flavio Zanonato a Padova, Sergio Cofferati a Bologna, lo “sceriffo” Vincenzo De Luca a Salerno. Ultra-securitari sono stati i comportamenti del ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) ai tempi del governo Gentiloni, così come i suoi recenti interventi a sostegno della linea Meloni-von der Leyen in Africa. E posizioni securitarie sono state assunte da intellettuali di sicura fede progressista, come lo psicanalista Massimo Recalcati o l’economista Carlo Cottarelli. Quest’ultimo, in un’intervista di poche settimane fa, è arrivato ad elogiare il “modello australiano”, proponendo di concentrare in Algeria i migranti salvati in mare “in attesa che siano sbrigate le pratiche burocratiche”.

Insomma, in Italia una sinistra securitaria esiste, anche nel Pd. Se non la vediamo, è perché la comunicazione del partito è monopolizzata dal cerchio magico della segretaria. E la minoranza, il coraggio di uscire allo scoperto non lo ha ancora trovato.




Vecchio fascismo duro a morire…

“Giorgio Napolitano, ho letto su un quotidiano di area liberalconservatrice,  è stato una figura divisiva, ma non si meritava la mancanza di rispetto che gli hanno tributato alcuni tifosi in diversi stadi italiani. Il presidente emerito della Repubblica è venuto a mancare a 98 anni lo scorso venerdì: per onorare la sua memoria era stato disposto dalla Figc il classico minuto di silenzio, da rispettare prima dell’inizio delle partite”. Non è difficile immaginare i volti delle componenti canagliesche  delle tifoserie e soprattutto di quella laziale che un Federico Fellini redivivo avrebbe ripreso, con sadico piacere, in un documentario aggiornato sulla capitale. Facce feroci e grottesche, insulti triviali, canzonacce oscene nel fetore sudaticcio di corpi scalmanati. E tuttavia, dispiace dirlo al direttore del quotidiano, il problema è un altro. Ed è quello del fascismo—davvero Ur Faschismus per citare il peggiore Umberto Eco—che in Italia sembra non tramontare mai. In un vecchio film di Mario Mattoli, Totò Fabrizi e i giovani d’oggi (1960) Totò viene schiaffeggiato dalla camicia nera Aldo Fabrizi perché non si è tolto il cappello al passaggio delle bandiere e dei gagliardetti fascisti. A pensarci bene, è l’essenza della dittatura: obbligare tutti a venerare i simboli del potere, anche se l’ossequio è soltanto formale. Quanti si ritrovano insieme, senza conoscersi e solo casualmente, ad es., per acquisti al supermercato, per sentire un’opera, per assistere a una partita di calcio, per un minuto, debbono diventare una comunità di destino, sentirsi figli e fratelli d’Italia, obbligati a onorare i grandi che hanno lasciato questo mondo.E’ ancora viva in molti liberali l’indignazione suscitata da Maurizio Pollini alla Scala di Milano quando prima di eseguire le sonate di Chopin in programma, lesse un manifesto di condanna dell’aggressione degli Stati Uniti al Vietnam. Gli spettatori, si disse, avevano acquistato il biglietto per ascoltare musica non per essere indottrinati dal pianista contestatore. Il caso della scomparsa di un personaggio pubblico certo, è diverso ma, lo confesso, mi è difficile capire perché lo sia tanto. Uno stato democratico e liberale può—anzi    è tenuto a—indire grandi manifestazioni pubbliche per ricordare gli statisti che hanno segnato un’epoca ma non può pretendere che, per citare una famosa storiella, si commuovano tutti, anche quanti appartengono a una parrocchia diversa da quella del de cuius.

Se Napolitano è stato una figura divisiva—e su questo non ci piove, basterebbe ricordare la nomina di Monti a senatore a vita, ancor prima del  ‘servizio reso all’Italia’—perché obbligare tutti a sentirne le lodi? Lo si celebri pure nelle scuole pubbliche ma senza costringere tutti gli alunni a sentire le parole alate degli apologeti ufficiali. Il minuto di silenzio negli stadi deciso dalla FIGC, francamente, mi è parso incomprensibile, non ricordando altri casi, di grandi protagonisti della vita pubblica ai quali siano stati tributati analoghi omaggi. Se nel 1964 questi ultimi fossero stati riservati dai Signori del pallone a Palmiro Togliatti–che non ricopri certo la più alta carica istituzionale dello Stato anche se fu titolare del Ministero di Grazia e Giustizia  e comunque,  protagonista indiscusso della vita politica, diede un notevole contributo alla stesura della nostra Carta Costituzionale, le varie tifoserie sarebbero state costretto a osservare il minuto di silenzio? Anche i neofascisti, i parafascisti, i picchiatori della suburra che avevano esultato per la  sua morte?

 La FIGC non è stata solo imprudente ma ha rivelato un poco rassicurante costume di casa: la pretesa che tutti debbano sentire profondamente i ‘valori’ di un regime politico e le ‘narrazioni’ (che brutto termine!) fornite dalle autorità. Dal Presidente della Repubblica al Pontefice Romano, dai pennaruli dei grandi quotidiani nazionali ai filosofi, giuristi, economisti dell’establishment, il ritratto ufficiale  di Napolitano è l’unico vero e guai a metterlo in discussione. E’ la stessa logica che fa dire al Primo Cittadino dello Stato che il fascismo è stato una dittatura spietata, feroce e sanguinaria e che ogni tentativo di metterne in evidenza i tratti positivi denuncia una preoccupante immaturità democratica e liberale.

 Per non essere frainteso, credo anch’io che insolentire  quanti commemorano un politico ieri avversato sia da condannare nella maniera più assoluta. Se qualche gruppo di sciamannati disturbasse, ad es., una grande manifestazione a Piazza del Popolo per ricordare l’illustre scomparso, le forze dell’ordine dovrebbero intervenire senza alcun riguardo contro i provocatori, il cui ‘stile fascista’ sarebbe dimostrato dall’odio per quanti hanno idee diverse dalle loro sull’Italia, il suo passato, il suo futuro.

 Una ‘società aperta’, però, deve guardarsi dall’esigere l’uniformità ideologica, il pensiero unico. Non c’è bisogno di cittadini che la pensino alla stessa maniera sui grandi problemi della storia e della politica nazionale. L’essenziale è che tutti rispettino la Costituzione, riconoscano le libertà civili e politiche da essa garantite e che l”agire esterno” sia l’unico a essere tenuto in conto. Ma, soprattutto, bisogna porre al vertice della piramide liberale la libertà di parola, ben più importante della ’verità’: nelle faccende umane infatti, non si sa cosa sia la seconda (“quid est veritas?”) mentre si sa bene cosa sia la prima. Oggi chi è di diverso parere rispetto alle veline ufficiali non viene certo riguardato come un trasgressore delle leggi ma delegittimato moralmente e squalificato intellettualmente come persona non degna di rispetto. Ha scritto Massimo Giannini su ‘La Stampa’ del 24 settembre u.s., Re Giorgio e l’Italia orfana di una destra repubblicana,  “Nella cerimonia degli addii a Napolitano, più profondo del dolore c’è solo lo sgomento per la reazione glaciale col quale la destra politica e giornalistica regola i suoi conti con questo Servitore dello Stato. In Parlamento i patrioti tacciono, riparandosi dietro al comunicato di Giorgia Meloni che, stitico e burocratico, trasuda gelo puro da ogni riga. In redazione gli squadristi bastonano, inchinandosi “di fronte alla sua morte ma non alla sua vita”. Intorno al feretro di Re Giorgio si celebra, postuma, un’odiosa luna di fiele”.  Non condividere l’elogio del ‘caro estinto’—il riferimento è a un editoriale di Alessandro Sallusti—significa essere uno squadrista armato di manganello. Ci sono italiani che hanno nostalgia del fascismo (una minoranza in via di estinzione) ed altri che ne hanno della guerra civile e fanno di tutto per tenerla accesa.




Ritorno a Carosello? – A proposito dello spot Esselunga

Per chi si occupa di comunicazione i prossimi mesi si annunciano interessanti. Lo spot Esselunga, quello della pesca e di Emma bambina triste figlia di genitori separati, quello che è piaciuto a Giorgia Meloni (“bello e toccante”), e di conseguenza non può piacere a un buon progressista, ha infatti aperto una serie di interrogativi sull’evoluzione futura dei messaggi pubblicitari.

Lo “spot della pesca”, infatti, è al tempo stesso nuovissimo e vecchissimo, quasi antico. Nuovissimo perché rarissimamente, negli ultimi decenni, abbiamo avuto occasione di vedere spot così lunghi. Soprattutto, molto raramente abbiamo visto degli spot che raccontassero una storia, una vicenda, anziché limitarsi a mostrare una situazione, una performance, un’immagine in movimento. La brevità degli spot è strutturalmente incompatibile con il respiro di un racconto, che richiede un tempo almeno triplo o quadruplo rispetto alla durata media degli spot attuali.

Ma lo spot Esselunga è anche antico, perché ci riporta al ventennio di “Carosello” (1957-1977), quando la pubblicità era rarissima in tv, e si concentrava nei 10 minuti che precedono le 21, subito prima di mandare i bambini “a nanna”. In quel tempo solo 36 grandi marche avevano le risorse per permettersi Carosello, uno spazio che occupavano ogni 9 giorni, ma il punto interessante è che lo facevano con dei filmati (sketch, cartoni animati, intermezzi musicali) ogni volta nuovi, e tuttavia sempre fedeli a sé stessi. Lo spettatore riconosceva personaggi e situazioni (alcune indimenticabili: Calimero pulcino nero, Olivella e Maria Rosa, Caio Gregorio “er guardiano der Pretorio”, eccetera), ma aveva una garanzia: il prossimo spot, la settimana successiva, sarebbe stato diverso. E c’erano regole precise, ad esempio lo spettacolo o la storia dovevano occupare molto più tempo di quello dedicato all’esaltazione del prodotto.

E ora?

Ora si aprono molti bivii e molte domande. Non è chiaro, ad esempio, se la scelta di Esselunga verrà imitata da altri marchi. E, nel caso lo dovesse essere, se assisteremo a oppure no a una riduzione della frequenza (attualmente ossessiva) con cui i medesimi spot ci bombardano, spesso contemporaneamente da più di un canale. Vi siete mai accorti che, quando facciamo zapping perché il programma che stiamo seguendo va in pubblicità, non solo caschiamo dentro un altro incubo pubblicitario, ma incocciamo nelle medesime pubblicità del canale che abbiamo appena abbandonato? Ci sono pubblicità che letteralmente ci perseguitano, con la loro frequenza e la loro ubiquità. Ebbene, è possibile che l’adozione del modello Esselunga porti anche, per ovvie ragioni di costi, a una riduzione del tasso di bombardamento attuale: spot più lunghi, ma sensibilmente meno frequenti.

Ma qui incontriamo un altro bivio. Se una o più marche dovessero adottare il modello Esselunga, si aprirebbero due possibilità: riproporre la stessa identica storia per mesi e mesi, oppure rinnovarla, variarla (o farla evolvere in una stoia più lunga? E se i genitori di Emma tornassero insieme?) con una frequenza comparabile a quella delle pubblicità di Carosello, diciamo almeno una volta ogni due settimane. I costi di produzione degli spot salirebbero vertiginosamente, ma anche questo – insieme alla maggiore durata dello spot – potrebbe indurre una (forse auspicabile) riduzione del tasso di ripetizione del medesimo spot.

Vedremo. Ma se il caso Esselunga, scemate le demenziali polemiche politiche di questi giorni, innescasse una riflessione sul senso e l’efficacia delle strategie di bombardamento pubblicitario, sarebbe un fatto positivo. Almeno per chi, dell’attuale selva di spot tanto brevi quanto (sovente) brutti, ha fatto indigestione.




La pesca della discordia – A proposito dello spot di Esselunga

Antefatto. Lunedì 25 settembre va in onda uno spot della Esselunga in cui Emma, una bambina figlia di genitori che non vivono più insieme, ruba una pesca al supermercato per poi donarla al padre, facendogli credere che il dono provenga dalla madre. Il messaggio è limpido e semplice: la bambina è triste perché i genitori sono divisi, e ricorre a un piccolo sotterfugio nella speranza di farli tornare uniti.

Passano poche ore, e fioccano le critiche, ma anche gli elogi. C’è chi dice che lo spot strumentalizza il dolore dei bambini per fini commerciali (Bersani). C’è chi invita a riflettere sul carrello degli italiani, per molti dei quali “anche una pesca rischia di diventare un lusso” (Fratoianni). C’è chi legge lo spot come un attacco alla legge sul divorzio e chi, viceversa, vi vede un omaggio alla famiglia tradizionale. C’è chi, insorge a difesa dei genitori che divorziano, e ci spiega che non tutti i figli di genitori divorziati sono infelici, così come non tutti i figli di genitori sposati sono felici.

In generale, gli esponenti della destra apprezzano lo spot, a partire da Giorgia Meloni che lo trova “bello e toccante”. Mentre quelli della sinistra lo criticano, anche se non tutti (con la consueta franchezza, Antonio Padellaro confessa di pensarla come Giorgia Meloni).

Quanto ai social non è affatto vero che la gente sia divisa. La stragrande maggioranza dei commenti è favorevole, spesso addirittura entusiasta.

Ma perché lo spot della Esselunga ha suscitato tanto interesse e tanto consenso?

Una ragione, probabilmente, è che è uno dei pochissimi spot che non trasmette un’idea stereotipata, banale e sostanzialmente falsa della realtà. Con lo spot di Esselunga, la realtà irrompe mostrando la normalità del dolore. Perché, forse non tutti lo sanno, ma la normalità, oggi in Italia, non è la famiglia Mulino Bianco, bucolica e felice, ma la famiglia che si è spezzata o si sta spezzando. La durata media delle unioni è crollata rispetto a quella del passato. Ci si sposa più tardi, e ci si divide più presto (già a 40-45 anni). Il numero di separazioni e divorzi ha ormai raggiunto il numero di matrimoni e, nelle cause di separazione o divorzio, la norma è che bambine e bambini siano affidati a entrambi i coniugi, come pare essere nel caso dello spot. Ed è curioso che, nel vortice dei temi quotidianamente affrontati sui giornali, sui siti, nei talkshow, trovino quotidianamente spazio una miriade di argomenti marginali, di fatti contingenti, di problematiche di nicchia, ma che del dolore delle famiglie in disgregazione si preferisca parlare pochissimo. Da un certo punto di vista, il massiccio consenso allo spot è parallelo e affine a quello che ha accompagnato il libro-bestseller del generale Vannacci: la normalità e la sua rappresentazione suscitano scandalo nelle élite intellettuali e politiche, ma riscuotono l’approvazione, non di rado entusiastica, di tanti cittadini comuni, che riconoscono più verità e umanità nello spot della pesca che in tante contese mediatiche, spesso lontane mille miglia dalle sofferenze quotidiane di tanti.

C’è però, forse, anche una seconda ragione alla base del successo dello spot. Una ragione che, stranamente, non mi pare di aver sentito evocare da nessuno. Questa ragione è il completo cambiamento del formato dello spot, che è diventato molto più lungo e, soprattutto, racconta una storia. Non più messaggi brevi e pretenziosi, non più situazioni improbabili o demenziali, non più lusinghe del consumatore e poco credibili gratificazioni dell’ego, bensì una storia semplice, comprensibilissima, e capace di andare dritta al cuore. Senza sottintesi ideologici, senza ipocriti messaggi umanitari, senza pretese di educare nessuno o di salvare il mondo. In breve: un racconto, non una predica.

Insomma: forse Esselunga, a 46 anni di distanza, ha riscoperto e rilanciato la formula di “Carosello”, quel quarto d’ora di messaggi pubblicitari che, intorno alle 21, segnalavano in modo irrevocabile che, per i bambini, era l’ora di “andare a nanna”. In quegli spot l’elemento essenziale, quello che affezionava l’ascoltatore, era il brio e l’originalità delle storie, delle scenette, spesso cartoni animati, sempre quelle ma ogni volta diverse. Il messaggio pubblicitario era secondario, quasi marginale. Allora, come nello spot Esselunga, l’elemento cruciale era la capacità dei pubblicitari di inventare  storie efficaci, una capacità che – a dispetto della proliferazione dei “creativi” – non appare oggi copiosa come allora.

La reazione del pubblico alla storia di Emma e della pesca fa pensare che, forse, fra la pubblicità-messaggi e la pubblicità-storie, la gente preferisca la pubblicità-storie. E questo non solo perché le storie hanno una loro grazia e una loro semplicità, ma perché la pubblicità-messaggi è martellante, fintamente benevola, e in definitiva rozza e semplicistica. Che la mossa di Esselunga preluda a un ritorno all’antico?

[uscito sul Messaggero, 29 settembre 2023]