Per “Il Foglio” del G8 di Genova verrà ricordato il conflitto ideologico. Gli stracci che volarono passano in secondo piano

Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a “far di tutta l’erba un fascio” ovvero a unificare “chi è contro di me” in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni “distinguo”. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese – i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. E’ la liquidazione del “dialogo”, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante – e di veritiero – da dire.

Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul “Foglio” del 21 luglio (Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista), Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al WTO, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito. Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di “associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero”. Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti) ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra – v. il suo saggio del 2006 significativamente intitolato, Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century (Cambridge U.P. 2006). E’ la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.

Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina “no global” e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” Luca 11,14-23) ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle “virtù del nazionalismo” – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?

In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i “sì..ma”, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.

Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black bloc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. “La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi” fa da pendant alla “evitabilissima prova di forza della polizia” ed entrambe concorrono alla “rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico”. Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: “Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto”. E’ proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.

Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta “rilevanza etico-politica delle piazze” per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della “libertà come partecipazione” e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. E’ sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi – sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire.

Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci. Per certi ideologi, lo stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.

Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali, si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le “nuove” sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli “eccessi” sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la “giusta causa” li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli “eccessi” della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che “per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo”.

Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the whitness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella mail del mio lettore, al contrario, l’“amarezza per lo sfregio fatto alla città” non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.




Ddl Zan, perché Renzi non dice la verità?

Credo che la stragrande maggioranza dei cittadini non abbiano letto un solo rigo del Ddl Zan sull’omotransfobia. Cionondimeno, i sondaggisti parlano degli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della nuova legge, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, come se tali orientamenti avessero qualcosa di reale.

E’ un grosso equivoco. Non perché – in generale – la gente non possa avere un’idea su una legge se non ne ha letto il testo, ma perché c’è legge e legge. Ci sono leggi su cui si può avere un’opinione fondata anche senza averle lette (le chiamerò leggi “sondaggiabili”), e leggi su cui non è possibile avere un’opinione fondata finché non se ne sono compresi bene i meccanismi interni (leggi “non sondaggiabili”).

Perché?

Perché ci sono leggi che, nel loro titolo, indicano anche i mezzi usati per raggiungere un dato fine, e ci sono leggi che indicano solo il fine, senza chiarire i mezzi usati per raggiungerlo. Una eventuale legge di semplificazione del sistema fiscale che introducesse una flat tax al 25%, ad esempio, è una legge sostanzialmente sondaggiabile, perché permette a ciascuno di farsi un’idea di quel che succederebbe se dovesse passare. La legge Zan per la “prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è invece una legge sostanzialmente “non sondaggiabile”, perché i fini sono chiari (e difficilmente contestabili) ma nulla lasciano indovinare sui mezzi impiegati per raggiungerli.

La discussione sulla legge Zan è complicata per questo. Tutti ne conosciamo le finalità, quasi tutti le approviamo, ma non tutti siamo informati adeguatamente sui mezzi che la legge mette in campo per raggiungere i suoi fini. Su alcuni di questi mezzi (inasprimento delle pene per i crimini d’odio) c’è sostanziale accordo fra tutte le forze politiche, di destra, di centro e di sinistra. Ma su altri mezzi, invece, non tutti sono d’accordo. Le critiche più frequenti si appuntano su tre articoli.

L’articolo 1, che pretende di fissare il significato di termini come sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale, sancendo per legge la possibilità di scegliere il proprio genere in base alla percezione che ognuno ha di sé.

L’articolo 7, che – tra le altre cose – introduce una giornata nazionale “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, senza prevedere alcuna esenzione per le scuole elementari, le scuole cattoliche, e più in generale gli allievi minorenni.

L’articolo 4, che limita la libertà di manifestazione del pensiero se le idee espresse appaiono (a un giudice) “idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

La maggior parte delle proposte alternative al Ddl Zan, compresi gli emendamenti dei renziani, si concentrano su questi tre articoli, per sopprimerli o riformularli. Sull’articolo 1 si osserva, anche da parte di autorevoli esponenti del mondo femminista, che lasciare al singolo la libertà di definire il proprio genere può determinare conseguenze inique o pericolose per le donne, come quando detenuti maschi pretendono di trasferirsi nei reparti femminili asserendo di sentirsi femmine, o come quando, con la medesima motivazione soggettiva, atleti maschi pretendono di gareggiare con le donne. Per non parlare dell’accaparramento da parte dei maschi dei benefici del welfare riservati alle donne.

Sull’articolo 7 si osserva che, stante che le credenze del mondo LGBT in materia di stereotipi di genere riflettono solo una delle tante possibili visioni del mondo, nulla assicura che la giornata contro l’omotransfobia non si tramuti, in parte o in tutto, in un tentativo di diffondere tali idee, in aperto contrasto con il comma 3 dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”.).

Sull’articolo 4, infine, si osserva che l’articolo 21 della Costituzione prevede che l’unico limite alla libertà di espressione sia la contrarietà “al buon costume”, e che è estremamente pericoloso delegare a un giudice la valutazione della pericolosità di un’idea.

Conclusione. Tutte le principali proposte alternative al Ddl Zan, comprese alcune precedentemente formulate da Ivan Scalfarotto e dallo stesso on. Zan, sono altrettanto incisive nella loro capacità di reprimere i crimini d’odio, e molto superiori nella tutela della libertà di espressione e di insegnamento (oltreché nella protezione del mondo femminile).

Non capisco quindi come Renzi e gli esponenti di Italia Viva possano presentare le proposte alternative come “un compromesso” fra la perfezione immacolata del Ddl Zan e la rinuncia ad avere una legge contro l’omotransfobia. No, la realtà è che le proposte alternative, nella misura in cui meglio tutelano la libertà, sono migliori del ddl Zan da qualsiasi punto di vista ci si ponga, eccetto il particolarissimo punto di vista del mondo LGBT, che ha tutto il diritto di difendere e promuovere le sue idee e la sua visione del mondo, ma non ha alcun titolo per imporla a tutti.

Ecco perché mi auguro che, quando proporrà i suoi emendamenti, Renzi la smetta di nascondersi dietro i rischi del voto segreto, che potrebbe affossare “la migliore delle leggi possibili”, e trovi il coraggio per dire forte e chiaro che quel che Italia viva ed altre forze politiche propongono non è un compromesso al ribasso, ma un miglioramento sostanziale del Ddl Zan.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 luglio 2021




Le dimensioni culturali e la pandemia: come in Cina la cultura ha favorito il successo della gestione del Covid-19

La sorprendente evoluzione dell’epidemia in Cina

Secondo i dati diffusi dalla World Health Organization, la Cina è tra gli Stati che, a oggi, registrano il minor numero di casi e di morti da Covid-19 nel mondo. Ciò risulta particolarmente sorprendente se si tiene conto della densità della popolazione, della presunta paternità finora del virus e dell’ancora permanente stato di squilibrio socioeconomico delle regioni interne.

In particolare, in rapporto all’Italia…

Leggi l’articolo completo Le dimensioni culturali e la pandemia




“Errore imporre i vaccini ai giovani” – Intervista a Mario Menichella

La Verità (nella persona di Daniele Capezzone, ndr) ha conversato con Mario Menichella, fisico e divulgatore impegnato con la Fondazione David Hume, guidata da Luca Ricolfi.

Partiamo dal tema più delicato e spinoso, e cioè la vaccinazione dei ragazzi e poi quella dei bambini. Lei è stato il primo in Italia a individuare un “punto di break even”: sopra i 25-30 anni vaccinarsi è certamente vantaggioso (i rischi legati al vaccino sono senz’altro inferiori ai rischi delle conseguenze del Covid). Sotto quel limite di età, invece, le cose si invertono. Vuole spiegarci meglio?
Il rischio di morte per Covid si abbassa – e davvero di molto – al diminuire dell’età dei contagiati. Purtroppo, come abbiamo imparato nel caso delle trombosi legate ai vaccini, non altrettanto si può dire del rischio di morte per gli effetti collaterali. Pertanto, a un certo punto i due rischi si equivalgono, e ciò avviene grosso modo intorno ai 25-30 anni di età, come mostrato in un’analisi che ho reso pubblica a marzo e come in seguito ammesso ufficialmente anche dall’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali.

Tra l’altro, un conto era la situazione 8-9 mesi fa: l’ipotetica positività di un ragazzo poteva davvero portare il virus in famiglia, con conseguenze pesanti per gli anziani di casa. Ma ora genitori e nonni sono vaccinati. Quindi perché far correre un rischio ai più giovani?
Sì, a livello individuale un giovane ha più da perdere che da guadagnare nel vaccinarsi. A livello di società, invece, l’apparente beneficio sarebbe di non far circolare il coronavirus. Tuttavia, se si analizza la questione dal punto di vista quantitativo, come ho fatto in un’altra analisi più recente pubblicata anch’essa nel sito della Fondazione Hume, si scopre che, perfino se si vaccinasse il 100% dei giovani, il virus potrebbe in teoria ancora tranquillamente circolare, poiché i dati provenienti dal Regno Unito indicano che una buona percentuale dei vaccinati non impediscono la trasmissione del virus se contagiati. Il piccolo contributo alla riduzione dell’Rt fornito dalla vaccinazione dei giovani potrebbe essere quindi ottenuto in altro modo, senza mettere necessariamente a rischio giovani vite.

In generale, non le pare che con i ragazzi si sia esagerato? Tra open day, notti bianche del vaccino, per non dire dell’associazione di idee tra vaccino e vacanza, non le pare che si sia spinto troppo verso di loro?
Sì, non solo non è stata fatta per loro un’analisi rischio-beneficio come ci si aspetterebbe prima di prendere decisioni così importanti, ma più in generale non si è voluto prendere realmente atto del fatto che il problema Covid riguarda – come del resto avviene anche per l’influenza – principalmente gli over 60. Aver voluto coinvolgere i giovani può essere parso politicamente corretto, ma dal punto di vista matematico, ad esempio del minimizzare l’impatto sul tessuto economico e sociale, mi suscita più di qualche dubbio. Perciò, mi pare davvero curioso che nel CTS non vi sia un matematico o almeno uno statistico, nonostante l’importanza degli aspetti quantitativi e dell’ottimizzazione nelle decisioni da prendere.

Vogliamo ribadire un punto che mi pare troppo sottovalutato? Per forza di cose, cioè vista la miracolosa rapidità con cui i vaccini sono stati realizzati, stiamo parlando di vaccini necessariamente in fase sperimentale. Voglio dire che non ne conosciamo gli effetti nel medio e lungo termine. È giusto?
Esattamente. Senza creare inutili allarmismi, è così. E il fatto che un tale modo di procedere normalmente non sarebbe accettabile è il motivo per cui si è derogato alle normali procedure di sperimentazione – che di solito durano molti anni – con l’autorizzazione all’uso di emergenza. Vorrei evidenziare che si sta anche creando un pericolosissimo precedente per altre tecnologie, come ad esempio il 5G, che secondo esperti indipendenti assai qualificati, se fosse un farmaco, non supererebbe neppure la sperimentazione preclinica.

È vero o è falso che alcune delle tecnologie usate non erano mai state utilizzate prima nella vaccinazione umana?
Vero. È ben noto che i vaccini a mRNA non sono mai stati usati prima sull’uomo, per cui questa inattesa occasione di sperimentarli senza troppi “lacci e lacciuoli” ha rappresentato una grossa opportunità per l’industria farmaceutica, che ora evidentemente ha forte interesse a testarli anche su ragazzi e bambini.

A questo punto, la interrogo su due conseguenze. La prima: non dovremmo essere specialmente prudenti verso i ragazzi ed i bambini? La seconda: davanti a farmaci sperimentali, parlare di eventuale obbligatorietà del vaccino sarebbe una ipotesi gravissima, irricevibile, inaccettabile. È così?
Sì, dovremmo essere prudenti con i ragazzi e tanto più con i bambini, perché sul Covid sappiamo tantissimo, ma mi sembra assai poco sugli effetti dei vaccini attuali, al di là di poche scarne statistiche: che io sappia – ma sarei molto felice di sbagliarmi – nessun soggetto terzo rispetto alle case farmaceutiche ha testato un campione di vaccinandi con semplici esami del sangue e monitoraggio dei parametri vitali per vedere l’azione dei vaccini sul livello di coagulazione sanguigna, sulla frequenza cardiaca, etc., nonostante non fosse difficile o costoso farlo. Insomma, ci si è fidati a occhi chiusi dell'”oste” e del suo vino. L’obbligo a sottoporsi a un vaccino di fatto sperimentale mi pare quanto meno eticamente sbagliato, soprattutto per i giovani, tanto più che si è costretti a firmare una manleva dalle responsabilità su eventuali effetti collaterali.

Lei ha detto che l’immunità di gregge è una chimera, perché anche i vaccini attuali, pur per molti versi efficaci, sono “leaky”. Vuole spiegarci meglio?
Come mostrano i dati contenuti nei rapporti periodici di Public Health England, gli attuali vaccini anti-Covid prevengono molto bene la malattia grave ma in una buona percentuale di vaccinati non prevengono l’infezione e, in molti di questi, neppure la trasmissione a terzi della stessa, perciò si dicono “leaky”. L’immunità di gregge è un concetto nato per i vaccini cosiddetti sterilizzanti, cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Se si vuole estendere il concetto di immunità di gregge ai vaccini leaky anti-Covid, come ho mostrato quantitativamente in due modi diversi nella mia analisi pubblicata dalla Fondazione Hume, si scopre che troppi vaccinati contribuirebbero alla circolazione del virus, per cui l’immunità di gregge con i vaccini attuali non sembra essere raggiungibile.

Veniamo agli anziani. Ferma restando la libertà di ciascuno di vaccinarsi o no, mi pare che il punto sia qui: negli oltre 2 milioni di over 60 che ancora non si sono vaccinati. Sono loro i soggetti potenzialmente a rischio a settembre-ottobre?
Principalmente, poiché circa il 95% dei morti per Covid è costituito da over 60. Nel mio articolo, sotto ipotesi oggi del tutto ragionevoli, ho mostrato come il bacino di potenziali nuove vittime nel prossimo autunno-inverno sarà verosimilmente costituito soprattutto da anziani non vaccinati e, in misura minore, da quella piccolissima percentuale di anziani vaccinati su cui i vaccini non risultano essere efficaci.

Dunque occorrerebbe informarli e convincerli razionalmente. Condivide?
Assolutamente, e anche raggiungerli capillarmente, ma non mi pare che in tutte le regioni ciò sia stato fatto.

Non dobbiamo trascurare un’altra carta importantissima: le cure domiciliari. Nello scenario che lei ha descritto può essere uno strumento decisivo in autunno.
Per gli anziani non vaccinati avere un protocollo di cura serio e ufficiale sarà fondamentale. Quello proposto dal gruppo del prof. Remuzzi è assai efficace nel ridurre la mortalità. Lo dimostra il loro studio pubblicato a giugno su una prestigiosa rivista peer-reviewed. Ora Aifa e Cts, a mio parere, non hanno più “scuse” per non adottarlo, anche perché in caso di ulteriore inerzia in tal senso qualche magistrato potrebbe magari trovare i presupposti per aprire un caso giudiziario, come già accaduto per il piano pandemico non aggiornato.

La Fondazione Hume e Luca Ricolfi hanno suggerito altri due interventi di buon senso: attivarsi da ora per un notevole potenziamento dei trasporti in vista della ripresa scolastica, e spendere un po’ di soldi (ne basterebbero forse meno dei 300 milioni spesi per i banchi a rotelle) per mettere in tutte le aule impianti di purificazione dell’aria. Conferma?
Sì. Il ricambio d’aria è un approccio interessante e non solo a scuola, non a caso la questione sarà affrontata in dettaglio proprio nella mia prossima analisi quantitativa, che uscirà a settembre. Suggerirei poi una misura a costo zero: eseguire controlli e test a campione sulle mascherine in commercio, anche online, ritirando quelle – temo ancora numerose – che non garantiscono quasi alcuna protezione a chi le indossa.

 Se facciamo tutto questo, possiamo ragionevolmente sperare di trattare le varianti più o meno come le malattie respiratorie stagionali, insomma come delle influenze? Ogni anno ci sono vittime, lo sappiamo bene. Ma nessuno ha mai proposto un lockdown contro l’influenza…
Sì, la matematica ci suggerisce che, ampliando l’arsenale delle armi per ridurre l’Rt e vaccinando più anziani possibile, arriveremo prima a una convivenza pacifica con questo coronavirus. I vaccini ed i farmaci di nuova generazione, probabilmente, faranno il resto.

Intervista rilasciata a Daniele Capezzone e pubblicata su “La Verità” del 12 luglio 2021
(riprodotta per gentile concessione di D. Capezzone / La Verità)




Il “ricalcolo” dei morti in Perù certifica la disfatta dell’Occidente

Quando ero bambino, tra i più famosi cartoni animati dell’epoca c’era quello dei Barbapapà, una famiglia di simpatici esseri gommosi che erano in grado di cambiare forma e dimensioni a piacimento, cosa che in genere facevano allo scopo di aiutare il prossimo e prevenire disastri. Ogni trasformazione era accompagnata dalla mitica frase, entrata anche nell’uso comune fra i bambini di allora, “Resta di stucco, è un barbatrucco!”

Ecco, proprio questa frase, che ormai non usavo da anni, è stata la prima che mi è venuta in mente di fronte all’ultima trovata della OMS, che qualche settimana fa ha improvvisamente deciso di “riscrivere” i numeri della pandemia in base ad alcuni criteri elaborati a tavolino, tra i quali quello fondamentale è l’eccesso di mortalità rispetto agli anni precedenti. Il primo (e finora unico) paese che abbia accettato di fare questo ricalcolo è stato il Perù, che il 1° giugno scorso ha annunciato che i morti erano improvvisamente passati da 69.342 a 180.764, come per magia o, appunto, un “barbatrucco”,

C’è davvero da restare di stucco, infatti, di fronte a un’operazione del genere, che in un solo giorno ha “gonfiato” di ben 2,6 volte il numero dei morti in base ad una stima puramente teorica. Intendiamoci: non è che di per sé l’idea di cercare di valutare più esattamente i numeri dell’epidemia sia sbagliata, ma è il modo in cui ciò è stato fatto che lascia a dir poco perplessi.

Anzitutto, è incredibile che ci sia ancora chi prende sul serio le indicazioni di un’istituzione così palesemente screditata come la OMS, che, per come è ridotta oggi, andrebbe semplicemente rasa al suolo e ricostruita dalle fondamenta. Non è certo un caso che ad andarle dietro per primo sia stato il Perù, paese che conosco molto bene e che da tempo dimostra una sudditanza particolarmente accentuata nei confronti delle organizzazioni internazionali, dovuta da un lato alla cultura illuminista delle sue élites, che vi vedono la possibilità di “modernizzare” il paese (ovviamente secondo il loro concetto di modernità, che non è condiviso dalla maggioranza della popolazione) e dall’altra alla forte crescita economica, che spinge molti a cercare in esse (perlopiù invano) un punto di riferimento più affidabile delle sue fragilissime istituzioni.

Inoltre, è evidente che la OMS, dopo l’iniziale minimizzazione fatta per favorire il tentativo di insabbiamento degli “amici” cinesi, ha sempre cercato di “gonfiare” il più possibile l’allarme Covid e quindi, innanzitutto, le sue cifre, allo scopo di giustificare la propria inutile esistenza. Si noti, fra l’altro, che la OMS ha proposto di ricalcolare solo i morti e non anche i contagi, benché sia evidente che questi ultimi sono di sicuro molto più sottostimati, essendo molto più difficili da identificare, soprattutto gli asintomatici. Il risultato è quello di innalzare artificiosamente il tasso di letalità del virus (che è dato dal rapporto tra il numero dei contagiati e quello dei morti), il che equivale a innalzare artificiosamente il livello di allarme e, di conseguenza, il potere della OMS stessa, che per ovvie ragioni è tanto maggiore quanto più grave è l’emergenza.

Del resto, ciò non deve stupire, perché non è affatto una novità. Già con l’influenza suina (2009-2010), di fronte al numero fortunatamente bassissimo dei contagi e dei morti e a quello invece altissimo delle accuse di incompetenza, nonché di corruzione e di conflitto di interessi per aver fatto comprare a vari governi centinaia di milioni di dosi di vaccini poi rivelatesi inutili, la OMS nel 2012 aveva commissionato uno studio che aveva “ricalcolato” il numero dei morti facendolo passare dai 18.449 accertati a 284.000 stimati.

Che tutta l’operazione sia altamente sospetta è dimostrato dal fatto che, quandanche ciò fosse vero, non giustificherebbe comunque il titolo di pandemia, che invece la OMS continua pervicacemente ad attribuirle, visto e considerato che la suina ha colpito quasi esclusivamente USA, Messico e alcuni paesi sudamericani e asiatici e che 284.000 decessi in due anni equivalgono a 142.000 all’anno, che sono meno di quanti se ne verifichino normalmente nel mondo in un solo giorno.

Più in generale, sono almeno vent’anni che di fronte ad ogni nuovo virus che appare all’orizzonte la OMS, puntuale come la morte e le tasse, annuncia l’imminente arrivo di una pandemia, che poi, altrettanto puntualmente, non si verifica: e anche questo continuo gridare “al lupo, al lupo” ha contribuito a far sì che, per una volta che il suo allarme era giustificato, venisse preso sottogamba.

Ma c’è una considerazione più sostanziale. Infatti, l’eccesso di mortalità può al massimo essere un criterio euristico, cioè un “segnale d’allarme” indicante che in un certo luogo potrebbe esserci un certo numero di morti da Covid che non sono stati riconosciuti come tali. Tale criterio, per esempio, era stato usato da Ricolfi l’anno scorso a proposito di certe zone del Sud che, pur essendo ufficialmente Covid-free o quasi, presentavano un notevole e inspiegato eccesso di mortalità. Tuttavia, che tale eccesso sia realmente dovuto al Covid deve essere dimostrato in base a dati oggettivi e non solo presunto su base puramente statistica, perché nella scienza la sola coerenza logica non basta a convalidare una teoria: occorre sempre la verifica sperimentale.

Inoltre, l’eccesso di mortalità è un dato di per sé molto variabile. Per esempio, questi sono i dati ISTAT relativi all’Italia negli ultimi 9 anni pre-Covid (il valore minimo è evidenziato in azzurro, il valore massimo in giallo):

Come si vede, la minima differenza, che corrisponde anche alla minima variazione tra due anni consecutivi (2018-2019), è di appena 1.284 morti, mentre la massima differenza (2017-2011) è di 55.634 e la massima variazione tra due anni consecutivi (2014-2015) è solo di poco inferiore: 49.207. In altre parole, la mortalità dovuta alle cause usuali (non Covid) è variata spontaneamente da un anno all’altro di quasi il 9%, il che influenza pesantemente anche le stime sui morti da Covid: per esempio, i 746.146 morti totali del 2020 rappresentano un eccesso di 111.729 unità rispetto al 2019, ma di solo 97.085 rispetto al massimo del 2017 e di ben 152.719 rispetto al minimo del 2011.

Ciò significa che l’eccesso di mortalità del 2020 rispetto al 2019 è stato superiore di 37.582 unità ai 74.147 morti da Covid ufficialmente accertati nello stesso 2020, il che suggerisce che il numero reale potrebbe essere di circa il 50% superiore. Ma se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2017 (cosa perfettamente concepibile, dipendendo da cause che nulla hanno a che vedere con il Covid) il gap tra morti da Covid accertati e possibili si ridurrebbe moltissimo, suggerendo che il valore ufficiale sia molto vicino a quello reale; mentre se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2011 tale gap crescerebbe al punto da suggerire che il valore reale potrebbe essere addirittura il doppio di quello ufficiale.

Con le medie le cose vanno (ovviamente) meglio, ma le variazioni restano significative. Questa è la tabella delle medie relative ad alcuni diversi periodi pre-Covid in Italia:

Come si vede, qui la variabilità è minore, ma comunque la differenza tra la media più alta e quella più bassa è pur sempre di 18.330 unità in più o in meno, il che può fare aumentare o diminuire il totale dei morti da Covid stimati per il 2020 della stessa quantità. Ciò rappresenta una variazione di ben il 25% rispetto al numero dei morti accertati ufficialmente, dovuta interamente al mero fatto di scegliere (in modo fondamentalmente arbitrario) un dato periodo di riferimento. E si badi che stiamo parlando di un paese come l’Italia attuale, molto stabile sia dal punto di vista sanitario che demografico: figuriamoci quindi cosa può succedere in paesi come il Perù, in cui la mortalità può essere influenzata significativamente anche da eventi per noi non particolarmente drammatici, come ondate di caldo o di freddo, siccità, alluvioni, crisi economiche o altre malattie (spesso più letali del Covid, ma di cui non parla nessuno solo perché restano confinate nel Terzo Mondo).

Inoltre, fin qui abbiamo ragionato come se tutte le altre cause di morte avessero seguito il loro andamento naturale, cioè come se il Covid non le avesse in alcun modo influenzate. Ma è chiaro che non è così. Infatti, come molti hanno drammaticamente sperimentato sulla propria pelle, l’affollamento degli ospedali ha spesso impedito di curare adeguatamente (e a volte addirittura completamente) persone affette da altre patologie, anche gravi, causando quindi altre morti che, pur essendo state indirettamente provocate dal Covid, tuttavia non sono dovute ad esso e quindi non possono essere classificate come “morti da Covid”.

Il loro numero è però difficile da quantificare perfino in un paese come l’Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo: figuriamoci quindi se è possibile farne una stima affidabile in un paese come il Perù, che ha invece un sistema sanitario molto fragile, che in questo periodo è davvero collassato (mentre il nostro, checché se ne dica, ha sofferto molto, ma nell’insieme ha retto).

Se si considerano tutti questi fattori, dunque, è facile capire come un’operazione del genere non possa che essere molto imprecisa già per sua natura e più ancora se la si vuol fare in paesi poveri e con istituzioni inefficienti, tanto da far dubitare seriamente che abbia senso. In ogni caso, se la si vuole comunque fare, bisognerebbe almeno tenere accuratamente distinti i morti accertati da quelli semplicemente stimati, altrimenti si mescolano fra loro dati del tutto eterogenei, con l’unico risultato di generare una confusione tale da rendere praticamente impossibile ogni confronto statistico.

Ma non sembra essere questa l’intenzione della OMS. Infatti, gli pseudo-dati del “ricalcolo” peruviano sono immediatamente finiti in un calderone unico insieme a quelli reali, “premiando” la sua masochistica docilità al pandemically correct con l’attribuzione della poco invidiabile (e peraltro, per quanto appena detto, altrettanto poco giustificata) “maglia nera” di peggiore paese al mondo nella gestione del Covid.

Tuttavia, c’è almeno una lezione che possiamo davvero trarre da questa pasticciatissima vicenda, il cui significato è però l’esatto opposto di ciò che sembra a prima vista. Infatti, sia negli articoli pubblicati su questo sito che anche altrove, io ho sottolineato ripetutamente che vedere i paesi più ricchi e progrediti del mondo, cioè gli USA e l’Europa Occidentale, con un tasso di mortalità superiore a quello dei paesi sudamericani rappresenta un’abnormità di tale portata che non può essere spiegata se non come il frutto di una sequela di macroscopici e gravissimi errori da parte nostra.

Ogni volta, però, mi veniva regolarmente obiettato che verosimilmente il numero dei morti in Sudamerica era di molto sottostimato, al che io contro-obiettavo che ciò era sicuramente vero, ma non bastava a cambiare i termini della questione. Infatti, da loro i morti potevano essere sottostimati al massimo di due o tre volte, ma non certo di venti o trenta: e se anche noi avessimo avuto solo la metà o perfino solo un terzo dei morti dei paesi sudamericani, la cosa sarebbe stata ugualmente inaccettabile, vista l’enorme sproporzione di mezzi esistente tra noi e loro.

Ebbene, il ricalcolo peruviano conferma in pieno la mia tesi. Infatti, anche accettando per buona la stima fatta dal governo (che, per le ragioni anzidette, è invece quasi certamente esagerata), al 1° giugno 2021 il numero di morti per abitante del Perù risultava essere 5.408 contro i 2.090 dell’Italia, cioè circa 2,5 volte maggiore del nostro e, in generale, della media dell’Occidente progredito.

Ma non basta: dobbiamo ancora considerare due fattori che incidono pesantemente, distorcendo i dati a nostro favore. In primo luogo, infatti, un analogo ricalcolo applicato ai nostri paesi farebbe verosimilmente crescere di parecchio anche il numero dei nostri morti, come si desume facilmente dalle tabelle precedenti. In secondo luogo, all’epoca in Europa e negli USA stava arrivando l’estate e la campagna vaccinale era già abbastanza avanzata, mentre in Perù (che si trova nell’emisfero Sud) stava arrivando l’inverno e la campagna vaccinale era appena agli inizi.

Possiamo quindi senz’altro affermare che il rapporto reale tra il numero di morti per abitante del Perù e quello dei paesi più progrediti è non solo certamente inferiore a 3, ma verosimilmente addirittura inferiore a 2, esattamente come ho sempre sostenuto.

E per l’Occidente avere la metà dei morti del Perù è una disfatta su tutta la linea.