Lettera di una mamma

A proposto del “danno scolastico”

Professoressa Mastrocola, Professor Ricolfi, buongiorno.

Vi scrivo questa lettera che, temo, sarà piuttosto lunga per il desiderio di portarvi la mia esperienza, da mamma, riguardo al mondo della scuola e forse anche per la necessità tutta mia personale di dare sfogo ad un urlo di rabbia che fino ad ora ho soffocato.

Non so ancora bene cosa ne verrà fuori e se potrà essere di una qualche utilità. Si vedrà. Spero di non tediarvi eccessivamente.

Mi presento. Mi chiamo Sara, ho cinquant’ anni, sono psicologa, ho tre figli maschi, di 24, 22 e 11 anni, i due grandi studiano all’ università e il piccolo è in prima media. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine, i laureati si perdono nelle generazioni degli avi. Nella mia famiglia si è sempre data moltissima importanza allo studio, alla conoscenza, alla riflessione, in generale alla cultura.

Ora dunque, i miei figli.

I due più grandi hanno frequentato sempre scuole pubbliche e non sono mai stati aiutati da me né seguiti privatamente. Hanno avuto degli insegnanti molto validi, alle elementari direi addirittura eccezionali e molto, molto esigenti. Usciti dalle scuole medie  sono andati al liceo scientifico, il maggiore a scienze applicate e l’ altro al tradizionale.

Durante i loro anni di liceo iniziarono i miei dubbi.

Il maggiore, che è sempre stato bravino e che, ritengo, abbia anche avuto dei bravi insegnanti, dedicava allo studio un tempo che poteva variare da una a due ore al giorno per non più di cinque mesi ad anno scolastico. Per i miei criteri poco, troppo poco. In diverse occasioni dissi ai suoi professori che dedicava poco tempo allo studio, anche se, confesso, non dissi mai loro di quanto poco si trattasse. Ora ha 24 anni e sta facendo la magistrale di ingegneria, è bravino, sicuramente possiede le “competenze di base”, ma non è riflessivo, non si pone domande, non è curioso, non ha interessi, non legge saggi. Ho provato a riflettere un po’ con lui dicendogli che sicuramente uscirà dall’università con una buona (aiuto, in realtà lo spero!) preparazione tecnica, ma ci sono altre competenze non tecniche da affinare. Di recente ho provato a proporgli un saggio ereditato da mio padre, “Il professionista riflessivo”(tanto per citarne uno). Ma no. Non gli interessa. Sembra che accendere la mente sia una cosa che non rientra nei suoi piani. E non era così. Io, che lo osservo da sempre, direi che si sia appiattito durante gli anni di liceo, che indubbiamente per lui sono stati molto poco stimolanti. Ricordo la sua fatica nell’ andare a scuola, cosa che all’ epoca mi stupiva molto e che non riuscivo a spiegarmi dal momento che non aveva alcun problema di rendimento. Nella vita se la caverà, ma rimane un dispiacere di fondo, un po’ di amarezza.

Quando arrivò al liceo l’altro figlio compresi la differenza fra studiare poco e studiare niente. (Permettetemi una precisazione: non abbiamo geni in famiglia, i miei figli hanno una intelligenza normalissima).

Il secondo dei miei ragazzi, mai stato bocciato, mai stato nemmeno rimandato, una unica insufficienza in pagella in una materia di un primo quadrimestre in 5 anni di liceo, studiava, forse, 15 minuti a giorni alterni (sono certa di quanto dico riguardo allo studio poichè di recente ne ho parlato con entrambi e me lo hanno confermato). Andava a scuola molto volentieri, si trattava di una specie di paese dei balocchi. Nei vari confronti/scontri avuti negli anni la sua risposta è sempre stata che se fosse stato difficile si sarebbe impegnato ma visto che era così facile non ne vedeva la necessità. Come dargli torto! E allora quando fu in quarta liceo, in marzo, mi presentai alla professoressa di matematica e fisica dicendole che mio figlio non aveva neppure i quaderni delle sue materie, che non svolgeva mai i compiti che venivano assegnati per casa e che non apriva un libro. La pregai che lo rimandasse, spiegandole che le facevo questa richiesta perché ero seriamente preoccupata che arrivasse impreparato all’università e rincarai la dose assicurandole che non la avrei denunciata se lo avesse rimandato a settembre (mia mamma ha insegnato italiano per quarant’ anni e sono ben consapevole delle paure degli insegnanti nei confronti dei genitori). Quando la professoressa si riebbe dallo shock, mi disse che non avrebbe saputo come fare, che se a giugno fosse arrivato ad avere la media matematica del 6 lei non lo avrebbe potuto rimandare. A quel punto lo shock fu mio. Pensavo che fossero i professori a decidere quali voti assegnare. Forse non era così. Forse il tutto veniva affidato ad un complicato algoritmo governato da chissà quali fattori! Chiedo scusa, nella foga del racconto mi sto un po’ facendo prendere la mano. E dunque, uscii da quel colloquio con un tale sconforto addosso e con la nettissima sensazione di dover combattere una battaglia presentandomi a lei sola e disarmata. A giugno venne promosso. Per inciso, a fine anno scolastico trovai diversi libri di testo ancora ricoperti con la pellicola di cellofan. L’ anno successivo, la sua quinta liceo, presi una leggera terapia antidepressiva per riuscire a sopportare meglio (infischiandomene un po’) questa situazione di totale, a parer mio, degrado culturale. Alla maturità, che era ancora una buona maturità con i tre scritti, la tesina e l’orale su tutte le materie, prese 80/100. Gli dissi che non lo aveva meritato. La sua risposta, la ricordo come fosse ieri, fu: “Mamma, ma tu non hai idea di come sono messi gli altri” (i suoi compagni di classe). Purtroppo penso avesse ragione; all’ epoca corressi ad una sua compagna di classe, ragazza diligente, bravina e studiosa, la tesina di maturità sull’ anoressia. Francamente era scritta maluccio (grammatica, lessico, sintassi, costruzione del periodo e struttura del testo; insomma, a parte l’ortografia, tutto). Rimasi molto stupita. Ora mio figlio sta faticosamente e con un po’ di ritardo finendo la triennale di matematica.

I miei ragazzi se la caveranno nonostante il liceo a mio parere troppo facile che hanno frequentato. Penso che nel loro caso siano state determinanti le ottime elementari fatte, il teatro per il maggiore e il pianoforte per il secondo oltre alla famiglia comprensiva di “mamma rompiscatole”, come dicono loro.

Ma che occasione mancata il liceo! Che peccato!

Ed ora il piccolo. E qua si passa probabilmente, come dite nel vostro libro, dalla tragedia alla catastrofe.

Il mio piccolo, nato nel 2010, andò alla scuola elementare che avevano frequentato i suoi fratelli. Io ebbi subito il sentore di qualcosa che non andasse, ma pensai che si dovesse semplicemente ambientare. A metà della seconda elementare era diventato estremamente oppositivo (a 7 anni!!) e sapeva a mala pena scrivere e leggere le parole. In classe c’ erano diversi bambini che disturbavano molto, alcuni anche certificati. Il risultato era una bolgia pazzesca e per tenerli buoni le insegnanti facevano fare ai bambini dei “progetti di cucina”, li facevano cucinare! Attività che erano in grado di svolgere tutti i bimbi. Il tutto ovviamente con il benestare di dirigente scolastico e genitori. Se non lo avessi vissuto non ci crederei (per inciso, io ho visto negli ultimi 10 anni un gran proliferare di certificazioni grazie alle quali spesso accade che i bambini possano tranquillamente evitare di impegnarsi per imparare e le maestre possano tranquillamente evitate di impegnarsi nell’insegnare). Ebbene, lo togliemmo dalla scuola pubblica e lo mandammo in terza elementare in una scuola privata religiosa, scuola nella quale ancora vige una certa idea di, passatemi il termine, “sacralità” dell’istituzione scolastica, dove ancora resiste l’idea che a scuola si faccia qualcosa di importante e nella quale gli insegnanti sono tuttora un po’ più esigenti che altrove (io purtroppo penso che gli insegnanti esigenti siano oramai una specie in via di estinzione, come pure i genitori severi). Perdonate il mio divagare. Riprendo. A metà della terza elementare il maestro mi chiese se volessimo far fare al bimbo le prove per la dislessia. Risposi che se anche fosse stato lievemente dislessico, cosa che peraltro non pensavo fosse, non avevo nessuna intenzione di fornirgli un alibi per non sforzarsi e per poter lavorare poco. Ora è in prima media ed ha ampiamente recuperato il distacco rispetto ai compagni, ma, mi verrebbe da dire, solo grazie alla famiglia in seno alla quale ha avuto la fortuna di nascere.

Concludo raccontando brevemente del colloquio che ho avuto con uno degli insegnanti di mio figlio. Qualche giorno fa sono andata a parlare col professore di italiano che è anche il coordinatore di classe. Dopo aver parlato delle solite cose (rendimento, comportamento, socializzazione), ho espresso il mio pensiero rispetto a cio’ che desidererei dalla scuola. Ho esordito così: “Professore, il mio obiettivo non è che mio figlio prenda dei voti altissimi e che venga a scuola sempre preparatissimo in tutto. Paradossalmente, e lo dico mordendomi la lingua, mio figlio potrebbe anche non studiare quasi per nulla una materia e studiarne benissimo un’altra; quello che mi interessa è che impari a studiare, è che colga la differenza di quando è preparato e sa le cose e di quando non lo è e non le sa. Io voglio pensare in grande e il mio obiettivo è che mio figlio diventi uomo e questo non avviene se a scuola gli spianate sempre la strada in tutto, se gli togliete ogni frustrazione, se eliminate ogni esperienza avversa. Mio figlio diventerà grande solamente se imparerà ad affrontare le difficoltà.”

Vi ringrazio moltissimo per la pazienza dimostrata e vi ringrazio per il libro che avete appena pubblicato. Spero che la vostra pubblicazione possa dar luogo ad una riflessione seria sul mondo della scuola, riflessione libera da contese e dispute in un’ottica costruttiva diversa da quella del “voler avere ragione”.

(lettera firmata)




Dal Green Pass alla Green Economy, tutti i disastri del nuovo “modello Italia”

Che Disperazione (vero nome del purtroppo-ministro Speranza) continui ad elogiare il demenziale sistema del Green Pass fa arrabbiare, ma non stupisce: dopotutto, egli non solo ne è il principale artefice, ma è anche quel tale che l’anno scorso, giusto di questi tempi, stava facendo ritirare da tutte le librerie d’Italia, in tutta fretta e cercando di non dare troppo nell’occhio, il libro autocelebrativo che aveva scritto durante l’estate invece di preoccuparsi di prevenire la prevedibilissima ripresa dell’epidemia, che proprio in quegli stessi giorni aveva ripreso a diffondersi esponenzialmente.

Che però anche un ministro tedesco lo elogi, come è accaduto pochi giorni fa, dicendo testualmente che «dall’Italia abbiamo molto da imparare», non solo stupisce, ma preoccupa molto. Non c’è dubbio, infatti, che in Italia la situazione quest’anno sia nettamente migliore non solo rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma anche a molti altri paesi europei (benché non a tutti). Tuttavia, ciò è dovuto assai più ai demeriti altrui che ai meriti nostri, dato che molti paesi europei, soprattutto dell’Est, che avevano fatto molto meglio di noi nella fase pre-vaccinale, hanno fin qui vaccinato pochissimo, mentre altri che stavano procedendo bene negli ultimi mesi hanno enormemente (i dati seguenti sono tutti tratti da Our World in Data, https://ourworldindata.org/).

Paradigmatico è il caso di Israele e Gran Bretagna, che dopo essere stati per lungo tempo in testa alla classifica, con un netto vantaggio su di noi, hanno poi frenato così bruscamente che mentre scrivo, cioè al 6 dicembre 2021, hanno rispettivamente il 62,2% e il 68,2% di completamente vaccinati contro il nostro 73,2% (la discrepanza dal dato ufficiale dell’85% si spiega col fatto che il governo, furbescamente, per alzare la percentuale si riferisce alla sola popolazione vaccinabile, non comprendente i minori di 12 anni: peccato solo che per il virus il motivo per cui uno non è vaccinato sia irrilevante).

E ancor peggio stanno facendo gli Stati Uniti, che sono attualmente appena al 59,5% nonostante fossero al 50,2% già a inizio agosto, il che significa che in oltre 4 mesi sono avanzati appena di un misero 9,3%. L’avesse fatto il “cattivone” Trump, ce lo ritroveremmo nei titoli di tutti i giornali e le televisioni un giorno sì e l’altro pure. Siccome invece l’ha fatto Biden, che è “buono” per definizione, nessuno dice nulla. Così funziona il nostro mondo…

Eppure, anche così non siamo affatto i migliori dell’Occidente, dove ben 7 paesi ci precedono: Portogallo (87,8%), Malta (83,9%), Islanda (81,9%), Spagna (80,5%), Danimarca (76,9%), Canada (76,5%) e Irlanda (73,3%). E ancor meno confortante ci apparirebbe poi la situazione se guardassimo anche al di fuori dei rassicuranti confini euro-atlantici in cui in genere ci piace rinchiuderci, supponendo, tanto spocchiosamente quanto infondatamente, che questo sia l’unico termine di paragone degno di noi.

Scopriremmo allora, con sorpresa mista a vergogna e (si spera) a qualche domanda, che al 6 dicembre 2021 l’Europa (58,7%) ha vaccinato addirittura meno del Sudamerica (59,7%) e che l’Italia, in particolare, ha meno vaccinati di Cile (84,4%), Cuba (82%) e Uruguay (76,3%) pur avendo un sistema sanitario di gran lunga migliore e, più in generale, essendo un paese molto più avanzato praticamente sotto ogni aspetto. E nel resto del mondo ci stanno davanti anche gli Emirati Arabi (88,4%), la Cina (74,5%) e perfino la Cambogia (79,1%), anche se il suo dato non è troppo affidabile, ma resta comunque piuttosto imbarazzante.

E ancor più imbarazzante è il paragone con i paesi virtuosi del Pacifico, che all’inizio, data la loro invidiabile situazione, se l’erano presa un po’ troppo comoda e per mesi erano rimasti nettamente alle nostre spalle. Ciononostante, a parte Taiwan, che è ancora un po’ indietro (59,4%), ma sta rimontando a ritmo vertiginoso (+22,5% nell’ultimo mese), gli altri sono ormai tutti giunti più o meno ai nostri stessi livelli di immunizzazione o perfino oltre (Singapore 91,9%, Corea del Sud 80,7%, Giappone 77,5%, Australia 73,9%, Nuova Zelanda 72,2%) pur avendo cominciato a fare sul serio solo da inizio giugno. In altre parole, hanno fatto in 6 mesi quello che noi abbiamo fatto in 11.

Insomma, c’è davvero poco di cui menar vanto e, men che meno, dar lezioni agli altri. E ancor peggio vanno le cose se consideriamo l’andamento globale dell’epidemia (che poi, alla fine, è l’unica cosa che conta).

Per il confronto con gli altri paesi avanzati dell’emisfero nord rimando all’analisi pubblicata da Luca Ricolfi su La Repubblica del 6 dicembre e disponibile anche su questo sito (Luca Ricolfi, Vaccinare non basta), che mostra come su 26 paesi considerati attualmente ci posizioniamo esattamente a metà classifica.

Qui invece voglio sottolineare il confronto con i paesi del Pacifico, che continua ad essere devastante, nonostante essi abbiano tutti pagato (ma la Nuova Zelanda, ancora una volta, meno di tutti) il ritardato inizio della campagna vaccinale con un numero di morti per loro inconsuetamente alto (benché sempre enormemente inferiore al nostro). Al 6 dicembre 2021, infatti, l’Italia aveva 2.227 morti per milione di abitanti (mpm), ovvero 253 volte più della Nuova Zelanda (8,8) e da 61 a 15 volte più di Taiwan (36), Corea del Sud (77), Australia (80), Singapore (130) e Giappone (146).

E si noti che il Giappone, che ha il risultato peggiore, avendo pasticciato più di tutti nella prima fase della campagna vaccinale (cfr. Silvia Milone, Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico), attualmente ha quasi azzerato l’epidemia, con appena 5.332 contagi e 103 morti (cioè 42 contagi e 0,8 morti per milione di abitanti) dall’inizio di novembre a oggi, 6 dicembre 2021.

Questo certamente dipende dal fatto che, data la rapidità della somministrazione, lì i vaccini non hanno ancora iniziato a perdere di efficacia, ma smentisce anche la tesi che l’immunità di gregge sia irraggiungibile in senso assoluto: alla velocità a cui siamo andati noi certamente non lo è, ma andando appena un po’ più veloci del Giappone ci si potrebbe riuscire. Il problema è che le terze dosi finora sono finora andate non più velocemente, bensì più lentamente, principalmente perché il governo ancora una volta ha cantato vittoria troppo presto, smantellando prematuramente molte delle strutture con tanta fatica allestite per la campagna vaccinale, considerandola evidentemente già in fase terminale.

Se poi guardiamo al Sudamerica, dove la maggior parte dei paesi continua ad avere un numero globale di mpm pari o addirittura inferiore al nostro, c’è davvero da preoccuparsi, tanto più che le cose non migliorano neppure se ci limitiamo alla situazione più recente. Per esempio, per restare ai paesi sopra menzionati, dal 1° novembre ad oggi, a fronte dei nostri 35,3 mpm, Cuba ne ha avuti appena 7 e l’Uruguay 15,7, mentre solo il Cile sta leggermente peggio con 39,1 (e ricordiamoci che il Cile paga il fatto di aver usato molto il pessimo vaccino cinese, soprattutto all’inizio, quindi proprio per la fascia di popolazione più a rischio). Perfino il Perù (che uso sempre come termine di paragone privilegiato, dato che lo conosco benissimo e posso avere notizie di prima mano) ha avuto nell’ultimo mese 34,6 mpm, cioè un pelo meno di noi, nonostante la cronica inefficienza del sistema sanitario, lo stato di paralisi totale in cui versa da tempo il governo e il fatto che i vaccinati siano solo il 56,6%.

È vero che lì stanno andando verso l’estate mentre noi verso l’inverno, il che, come ormai sappiamo, fa una notevole differenza, ma in ogni caso il paragone resta imbarazzante. D’altronde, perfino la OMS ha finalmente ammesso che oggi l’epicentro della pandemia è l’Europa (come in realtà è sempre stata): il problema è perché, visto che in teoria siamo quelli meglio attrezzati di tutti per fronteggiarla.

Una prima risposta è che purtroppo i paesi europei, con l’Italia in testa, tanto per (non) cambiare, hanno puntato esclusivamente sui vaccini, mantenendo per il resto le solite misure preventive che fin qui hanno miseramente fallito, comprese quelle che la scienza (su cui i nostri governi dicono sempre di basarsi, ma che in realtà hanno sempre ignorato) ha da tempo dimostrato essere sostanzialmente inutili e che rappresentano quindi dei veri e propri casi di pseudoscienza istituzionale. Anzitutto, la disinfezione di mani e superfici, con addirittura, in qualche caso, un ritorno all’uso dei guanti, benché sia ormai accertato che i contagi per contatto sono estremamente rari. Poi l’obbligo di mascherina all’aperto, che è sempre la prima cosa che si fa appena i contagi risalgono (come anche ora), benché sia ormai accertato che i contagi avvengono quasi tutti al chiuso (e proprio per questo aumentano in inverno). Infine, gli pseudo-lockdown con chiusure selettive, che colpiscono sempre le attività a minore rischio di contagio e, di conseguenza, causano regolarmente più danni che benefici.

In compenso, nessuno si è ancora degnato di considerare misure alternative più efficaci, a cominciare dalle due citate da Ricolfi nel già menzionato su Repubblica: gli impianti di filtraggio dell’aria e il tracciamento elettronico dei contagi. Il risultato è che l’unico modo di depurare l’aria nei luoghi chiusi continua ad essere quello di aprire le finestre, come se fossimo un paese del Terzo Mondo e non uno dei più ricchi e progrediti del pianeta. Quanto al tracciamento dei contagi, la cosa più incredibile non è neanche che nessuno in Europa lo stia facendo seriamente (a cominciare dall’Italia, dove la mitica App Immuni è svanita nel nulla dopo aver prodotto il nulla), ma che i nostri governanti abbiano l’impudenza di ripeterci che bisogna continuare a farlo, quando non si è mai neanche cominciato.

Venendo ai vaccini, sicuramente pesa la loro perdita di efficacia nel tempo, che penalizza di più chi ha incominciato più presto, cioè proprio l’Europa e gli Stati Uniti, tuttavia questa spiegazione non basta. In primo luogo, infatti, i vaccini continuano fortunatamente a proteggerci con buona efficacia dalle conseguenze gravi, per cui il loro indebolimento influisce poco sul numero dei morti. In secondo luogo, bisogna considerare (cosa che invece non si fa quasi mai) che il rischio di contagiarsi per chi è vaccinato non dipende solo dall’efficacia intrinseca del vaccino, ma anche dal numero di persone infette con cui ciascuno entra in contatto.

È chiaro, perciò, che, oltre all’arrivo dell’inverno e al grave ritardo nella somministrazione della terza dose (a oggi siamo appena al 15,8%), l’altra causa determinante della risalita dei contagi e dei morti è la presenza di un numero ancora molto grande di persone non vaccinate (che almeno per i morti è anche la causa principale). Su questo punto cruciale il governo continua a gettare fumo negli occhi, vantando l’elevata percentuale di vaccinati e cercando di farci dimenticare che, per quanto quella dei non vaccinati sia assai più bassa, corrisponde a un valore assoluto ancora elevatissimo: al 6 dicembre erano circa 14 milioni, cioè quasi un quarto della popolazione italiana. Quindi, non solo non siamo stati così bravi come ci dicono, ma neanche il risultato fin qui ottenuto è così buono come ci dicono.

E purtroppo non si tratta solo di un problema di efficienza, perché i nostri governi continuano a commettere gravissimi errori concettuali, come già avevano fatto nella prima fase dell’epidemia (cfr. Paolo Musso, Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe). Prima, infatti, hanno puntato tutto sui vaccini (cosa già sbagliata di per sé), poi hanno involontariamente sabotato la propria stessa scelta con decisioni confuse e pasticciate.

Io ho almeno una decina di amici che non intendono vaccinarsi, ma solo due o tre di loro sono contrari ai vaccini in generale, mentre gli altri sono contrari soltanto a “questi” vaccini, in gran parte proprio a causa del comportamento dei governi, che nell’alimentare tale diffidenza ha pesato molto più delle tesi dei No-Vax (cfr. Paolo Musso, Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax).

Prima, infatti, è arrivata l’immotivata sospensione di AstraZeneca, voluta dalla Merkel e accettata supinamente da tutti gli altri governi europei contro il parere dell’EMA (la European Medicines Agency che sovrintende alle sperimentazioni dei farmaci). Poi c’è stata l’assurda decisione di proteggere per legge dalle cause per i possibili danni provocati dai vaccini non solo i medici (come era giusto), ma anche gli Stati, il che invece non ha alcun senso. Infine, è venuto lo scellerato regime del Green Pass, che sta causando un’enorme quantità di disagi a tutti, vaccinati e no, senza apportare benefici significativi, come peraltro era facilmente prevedibile (e infatti io l’avevo previsto, per filo e per segno, in un articolo pubblicato il 6 settembre, ma scritto addirittura a metà agosto: cfr. Paolo Musso).

Queste decisioni, benché ciascuna di esse sia stata presentata dai governi come un segno della loro scrupolosità e del loro rispetto per la libertà dei cittadini, sono state invece interpretate da gran parte di questi ultimi come un segno di sfiducia da parte dei governi nei confronti dei vaccini da loro stessi promossi. E siccome anche questo era facilmente prevedibile, viene da chiedersi com’è possibile che neanche uno dei nostri leader politici se ne sia reso conto, con tutti i fior di esperti di comunicazione che pagano profumatamente per gestire la loro immagine.

È perciò lecito il sospetto che, come già per gli errori precedenti, la vera motivazione sia stata la volontà di evitare di prendersi le responsabilità più scomode, scaricandole ancora una volta sui cittadini. E il sospetto si tramuta in certezza nel caso del Green Pass, che, contrariamente a ciò che, con sovrano sprezzo del ridicolo, continua a ripetere il nostro governo, non è affatto “una misura di prevenzione” e men che meno “uno strumento di libertà”, bensì, con ogni evidenza, un tentativo di introdurre surrettiziamente un obbligo vaccinale di fatto senza prendersi, appunto, la responsabilità di imporlo per legge.

La prova più evidente di ciò è che i luoghi in cui lo si è imposto per primo sono stati quelli a minore rischio di contagio, mentre quelli a rischio maggiore sono arrivati per ultimi e alcuni addirittura ne sono tuttora esenti. Avevo già detto che sarebbe andata a finire così nell’articolo sopra citato, ma se per caso aveste ancora dei dubbi date un’occhiata a queste due foto che ho scattato personalmente a fine ottobre, a soli due giorni di distanza, su due treni della linea Milano-Bologna, uno con obbligo di Green pass e uno no, e poi ditemi per favore come si può avere l’impudenza di sostenere che queste regole servono a prevenire i contagi. Eppure, questa impudenza il nostro governo ce l’ha.

La controprova viene dal confronto con la Spagna, che da subito ha detto ufficialmente che di Green Pass non ne vuol sapere, eppure dal 1° novembre a oggi ha avuto una media di soli 11,7 mpm contro i 35,3 dell’Italia (cioè appena un terzo), nonché i 27,7 della Francia, i 92,5 della Germania e i 154 dell’Austria, giusto per citare alcuni dei paesi che stanno facendo più ampio uso del Green Pass. Poi uno guarda le percentuali delle vaccinazioni e scopre che la Spagna è arrivata all’80,5%, mentre noi, come detto, siamo al 73,2%, la Francia al 70,2%, la Germania al 68,4% e l’Austria appena al 65,1%. La conclusione appare quindi inequivocabile: a proteggere è il vaccino e non il Green Pass.

Certo, se consideriamo solo i luoghi in cui si può entrare unicamente con esso e in cui per giunta vengono mantenute tutte le misure di sicurezza (che all’inizio il governo, mentendo per farci digerire meglio la misura, aveva promesso di togliere), è ben difficile che lì qualcuno si contagi. Tuttavia, considerando le cose globalmente, alla scala dell’intero paese e non solo di alcune specifiche situazioni, i suoi benefici sono molto limitati, mentre i danni sono enormi, soprattutto per il progressivo inasprimento dello scontro sociale che sta provocando, con i non vaccinati che si sentono perseguitati ingiustamente e i vaccinati che li accusano di essere il principale ostacolo al ritorno alla normalità.

Anche l’affermazione, ripetuta con ossessiva insistenza dal governo, che senza il Green Pass si tornerebbe alla chiusura delle attività commerciali e sociali è del tutto falsa. O meglio, è vera, ma solo perché il governo ha deciso così, ancora una volta arbitrariamente e senza seguire alcuna logica di prevenzione, dato che si tratta di attività molto meno rischiose di altre, come fabbriche, uffici, autobus, metropolitane e, appunto, treni regionali, che però non sono mai state realmente sospese, neanche durante lo pseudo-lockdown della prima fase (e infatti si è visto come è andata a finire).

Ma la cosa più grave è che, nonostante tutti i disagi che ha creato, il Green Pass non ha ancora raggiunto il suo vero obiettivo: quello di indurre tutti a vaccinarsi. E, continuando così, non lo raggiungerà mai. Certo, molti hanno ceduto alla pressione e si sono vaccinati, ma, come detto, mancano ancora all’appello 14 milioni di italiani, dei quali solo una minoranza sono bambini sotto i 12 anni e perciò (finora) non vaccinabili. La maggior parte sono invece adulti, che hanno deciso di non vaccinarsi e ben difficilmente lo faranno in futuro, perché appartengono a categorie (come pensionati, casalinghe, colf, badanti, lavoratori autonomi e altri ancora) che non possono essere controllate, a meno di trasformare davvero l’Italia in uno Stato di polizia, autorizzando quest’ultima ad entrare nelle case e negli studi privati anche senza un mandato.

La verità, evidente a chiunque tranne che, a quanto pare, ai nostri governanti, è che se si ritiene, a torto o a ragione, che tutti debbano vaccinarsi esiste una sola strada, limpida e chiara, per raggiungere l’obiettivo: imporre per legge l’obbligo vaccinale, come previsto dalla Costituzione, dopo un dibattito parlamentare altrettanto limpido e chiaro, dal quale risulti chiaro pure di chi sarà il merito se le cose andranno bene e di chi sarà la colpa se invece andranno male. Ma questo è esattamente ciò che non si vuole che accada e quindi si preferiscono le soluzioni pasticciate.

La cosa più paradossale è che la maggior parte delle persone ostili ai vaccini anti-Covid, compresi i miei amici di cui sopra, pur essendo (ovviamente) contrarie all’obbligo, lo ritengono in genere più accettabile del Green Pass, non solo perché sarebbe meno ipocrita, ma anche perché presenterebbe dei vantaggi anche per loro. Oggi, infatti, con la scusa che la vaccinazione è volontaria e che quindi chi ha paura può sempre non farla, non è previsto nessun motivo di esenzione, neppure per comprovate gravi allergie o perché, essendo guariti dal Covid, si ha già un numero molto elevato di anticorpi, il che è gravissimo (e inoltre fornisce ulteriori motivi di diffidenza agli scettici). L’instaurazione dell’obbligo vaccinale, invece, facendo cadere questa giustificazione, comporterebbe necessariamente la definizione delle situazioni in cui si può chiedere di essere esentati.

Come si vede, dunque, gli altri non hanno affatto “molto da imparare” da noi. Eppure, a causa dell’imperante pandemically correct, a cui non importa che le regole siano efficaci nella realtà, ma solo che siano ritenute tali da “color che sanno” (o presumono di sapere), stiamo ugualmente rischiando che si imponga di nuovo una sorta di “modello Italia”, altrettanto privo di fondamento del primo e altrettanto pericoloso. E ciò perfino se alla fine passasse l’obbligo vaccinale, cosa che da qualche giorno non è più fantascienza, non tanto perché la realtà stia finalmente imponendosi (come ho appena detto, oggi come oggi in Europa della realtà non frega niente a nessuno), ma perché è stato violato il tabù, dato che il 19 novembre l’Austria ha annunciato l’adozione dell’obbligo vaccinale a partire dal 1° febbraio 2022. E questo, invece, conta eccome.

Il pandemically correct, infatti, così come, più in generale, il politically correct, di cui rappresenta un sottogenere (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), non si forma attraverso un dibattito razionale, bensì seguendo un processo molto simile a quello che porta alla nascita degli “influencers”. Ciò non è casuale, perché tale processo in gran parte si svolge proprio attraverso Internet, ma anche la parte che passa per altri canali segue dinamiche analoghe: infatti, tra le varie proposte, ridotte rapidamente alla forma iper-semplificata di slogan, ad affermarsi sono quelle che hanno una maggiore capacità di attirare “followers”, non importa per quale motivo, purché siano tanti e in fretta.

Nonostante la sua rapidità, però, tale processo produce risultati estremamente difficili da cambiare, perché ben presto il sistema mediatico comincia a ripetere ossessivamente le idee più gettonate, che diventano così “regole” vincolanti, indipendentemente dal loro effettivo valore e perfino dal fatto che vengano esplicitamente proclamate tali a livello legislativo, perché chi prova a metterle in discussione viene immediatamente censurato e demonizzato dal sistema stesso. Si pensi che i “dogmi” del pandemically correct sono stati creati nel giro di non più di due settimane, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020, e ci governano ancora adesso, sostanzialmente immutati, dopo quasi due anni e nonostante l’evidenza del loro fallimento.

Tuttavia, benché sia difficile, attraverso gli stessi meccanismi e con la stessa rapidità (e, purtroppo, anche con la stessa irrazionalità) tali regole possono anche essere sovvertite, se qualcuno riesce a lanciare una nuova “parola d’ordine” capace di attirare molti consensi con grande rapidità, prima che il linciaggio mediatico abbia il tempo di zittirlo. L’impressione è che l’Austria ce la stia facendo.

Al proposito è molto significativo che solo due giorni dopo, il 21 novembre, su La Stampa sia apparso un editoriale del direttore Massimo Giannini intitolato Fate presto sull’obbligo vaccinale in cui, con un ribaltone totale (ovviamente non riconosciuto come tale) della linea fin lì tenuta, si affermava che «il governo ha oggi un solo dovere, etico e politico: introdurre l’obbligo vaccinale. Subito. […] Lo dicono i numeri» (e, ça va sans dire, anche «la OMS» per bocca del suo direttore per l’Europa Hans Kluge).

Per la verità, i numeri lo dicevano anche il giorno prima, e quello prima ancora, e anche il mese prima, e anche l’anno prima: lo dicevano perfino prima che arrivassero i vaccini e, per vero, perfino prima ancora che esistessero (la OMS invece non lo diceva, ma tanto quel che dice la OMS vale meno di zero: e anche questo lo dicono i numeri, visto che fin qui non ne ha mai azzeccata una). Giannini sostiene di averlo detto anche lui fin dall’inizio «in diretta tv all’allora premier Conte» e poi «ribadito più volte al Ministro della Salute Speranza». Sarà (non guardo molto le trasmissioni sul virus perché servono solo ad alimentare la confusione), ma quel che è certo è che finora non l’aveva mai scritto sul quotidiano da lui diretto, né l’aveva mai fatto nessuno dei suoi collaboratori, tranne Sorgi in un breve articolo del 31 agosto.

Siccome è chiaro ormai da tempo che sul Covid i grandi giornali e le grandi televisioni spalleggiano sempre i governi e si muovono all’unisono con essi, una simile inversione di rotta da parte del quotidiano che più spazio ha dedicato al dibattito sul Green Pass, ma sempre ribadendo che la linea ufficiale del giornale era di totale sostegno, rappresenta un chiaro segnale che qualcosa è cambiato. E infatti solo tre giorni dopo Draghi, dopo avere anche lui elogiato gli italiani per i (presunti) straordinari risultati ottenuti, ha annunciato il Super Green Pass, accompagnato dall’introduzione dell’obbligo vaccinale per diverse categorie professionali, per alcune delle quali, come i dipendenti pubblici, non si vede la ragione di tale regime differenziato. Solo un’altra settimana e ha cominciato a parlarne pure la Von Der Layen. La strada sembra dunque segnata.

L’impressione è però che ci si voglia avvicinare gradualmente all’obbligo generalizzato, da una parte rendendo obbligatorio il Green Pass (e quindi, di fatto, il vaccino) per fare qualsiasi cosa e dall’altra ampliando progressivamente le categorie sottoposte anche all’obbligo formale, in modo che alla fine quest’ultimo tocchi il minor numero possibile di persone non vaccinate. E pazienza se, così facendo, si dimentica ancora una volta che «la legge fondamentale dell’epidemia è una sola: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti» (Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, p. 21).

Il rischio più grave (che a questo punto è quasi una certezza) è però che il Green Pass diventi lo strumento per gestire anche la vaccinazione obbligatoria, benché ciò non abbia alcun senso, dato che, come già detto, la sua vera funzione è quella di essere un obbligo vaccinale camuffato, mentre la sua efficacia come strumento di prevenzione è pressoché nulla. Il problema è che in questo modo si rischia di renderlo permanente, soprattutto se l’evoluzione del virus rendesse necessari periodici richiami o aggiornamenti del vaccino, come succede con l’influenza. E una volta che la gente si sia abituata, inevitabilmente a qualcuno verrà in mente di usare il Green Pass anche per monitorare qualcos’altro e poi qualcos’altro ancora, aumentando sempre più l’invadenza, già ora intollerabile, dello Stato nella vita delle persone.

Sia chiaro che non penso che tutto ciò sia frutto di un piano elaborato a tavolino, anche perché se c’è una cosa che le nostre classi dirigenti hanno dimostrato in tutta questa vicenda è la loro totale incapacità di gestire un problema che tutto sommato all’inizio non era troppo complicato ed è stato reso tale soprattutto dai loro errori: figuriamoci quindi se sarebbero capaci di far funzionare cospirazioni tipo “il Grande Reset” o roba simile.

Tuttavia, è innegabile che nel nostro mondo esista una vera ossessione per la sicurezza, che ormai da tempo è arrivata a livelli di vera e propria psicosi, come si vede dal fatto che di fronte ad ogni problema si pretende sempre il “rischio zero”, benché sia una richiesta chiaramente impossibile e quindi chiaramente insensata. E la vicenda del Covid ha dimostrato che, pur mugugnando, mediamente la gente è disposta a rinunciare a parti sempre più ampie della propria libertà non solo in cambio della sicurezza, ma anche solo dell’illusione della sicurezza. Quindi il rischio vero non è che a un certo punto arrivi il Grande Fratello a imporci la sua tirannia, ma piuttosto che finiamo per autoimporcela da soli, per la convergenza tra diversi gruppi sociali (governi, burocrati, scienziati, giornalisti, cittadini, ecc.) che, pur diffidando gli uni degli altri, di fatto si muovono spontaneamente nella stessa direzione.

La cosa più inquietante, infatti, è che questo non è un fenomeno isolato. Per quanto mal gestita, prima o poi anche l’emergenza Covid finirà, come tutte le cose di questo mondo. Ma non resteremo “orfani”, perché c’è già pronta per noi un’altra emergenza: quella ecologica. Ancora una volta, non sto dicendo che tale emergenza non sia reale: lo è, ed è anche molto più seria di quella del Covid. Il problema è come verrà gestita: e ancora una volta i segnali che stanno arrivando non sono incoraggianti e ancora una volta vengono dall’Italia.

Solo qualche settimana fa, infatti, precisamente il 7 novembre, durante gli inconcludenti lavori della COP26, di fronte al «bla bla, bla» di Greta Thunberg e alle sue accuse ai politici ivi presenti di «non rappresentare nessuno», il nostro Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha replicato che il suo atteggiamento era «ipocrita» ed «eversivo» (o, secondo altre versioni, «quasi eversivo», ma la sostanza non cambia).

Ora, io non ho mai avuto nessuna particolare simpatia per Greta e meno ancora per il “gretinismo”, cioè la grottesca sceneggiata (questa sì veramente ipocrita) che ha visto per oltre due anni molti dei principali leader della Terra sottoporre le loro proposte ambientaliste al vaglio della ragazzina svedese, felici e contenti di essere da lei giudicati, benché ovviamente non avesse alcuna competenza per valutarle, salvo poi scaricarla (com’era ampiamente prevedibile) quando la sceneggiata suddetta non faceva più comodo. Ma molto, molto più grave è affermare che criticare i governi è “eversivo”, tanto più se tale sconcertante affermazione, degna in tutto e per tutto di uno Stato totalitario, viene rivolta dal ministro di uno dei paesi più potenti del mondo (ché tale è ancora, nonostante tutto, l’Italia) a una ragazzina di appena 18 anni.

E ancor più grave è che questa intollerabile intimidazione sia passata praticamente sotto silenzio, soprattutto se la confrontiamo con le interminabili risse scatenate da frasi infinitamente più innocue pronunciate da persone infinitamente meno autorevoli. Provate a pensare cosa sarebbe successo se Cingolani avesse risposto: «Ma cosa volete che ne capisca una donna di questi problemi?». Essendo state violate le regole del politically correct, avremmo assistito per almeno una settimana a infuocati dibattitti sui social e a indignati editoriali sui giornali di tutto il mondo. Invece, essendo state violate “soltanto” le regole della democrazia, nessuno ha detto una parola.

È facile vedere che l’atteggiamento di Cingolani nasce dalla stessa tendenza autoritaria “emergenziale”, già emersa prima del Covid e poi consolidatasi con esso, che si giustifica sempre con la scusa che i governi non possono essere criticati perché “siamo in guerra” (prima contro la crisi economica, ora contro il virus, fra poco contro i disastri ambientali). Di conseguenza, chi critica non è uno che sta esercitando (bene o male, non è questo il punto) il suo diritto di cittadino e, prima ancora, di essere umano pensante, ma un disertore o addirittura un sabotatore, quindi, in ultima analisi, un nemico dell’umanità, dato che i governi si pongono per definizione come i difensori dell’umanità stessa.

E infatti Cingolani ha giustificato la sua incredibile sparata esattamente così: affermando che i governi «stanno lavorando» e che «ci sono delle regole, c’è la democrazia che stabilisce chi sono i rappresentanti», cioè con considerazioni che eludono (o per inconsapevolezza o intenzionalmente: e non so quale delle due sia peggio) la sostanza dei problemi. È evidente, infatti, che Greta non intendeva certo mettere in discussione la legittimità formale delle loro cariche, ma il fatto che ciò che stanno facendo corrisponda a ciò per cui i cittadini hanno conferito loro tale legittimità. Ed è altrettanto evidente che, sia vero o no, aveva tutto il diritto di dirlo.

O meglio: dovrebbe essere evidente. Ma a quanto pare non lo è più. E quando i fondamenti stessi della democrazia cessano di essere evidenti, c’è davvero da preoccuparsi.




Vaccinare non basta

Come va l’epidemia nelle società avanzate?

Dipende dalla direzione in cui guardiamo. Il dato più drammatico è il tasso di mortalità (e di occupazione delle terapie intensive) nei paesi dell’Est Europa, che è quasi 14 volte quello dell’Italia. E’ verosimile che la ragione di questo squilibrio stia essenzialmente nella vaccinazione, che è in clamoroso ritardo nei paesi ex-comunisti. Ed è possibile che, alla radice di tale bassissima propensione a vaccinarsi, vi sia anche, se non soprattutto, la diffidenza dei cittadini di quei paesi verso lo stato centrale, una diffidenza maturata in 70 anni di dittatura e di invasione della vita privata.

Ma nelle altre società avanzate, occidentali e orientali, come vanno le cose?

Qui ci sono due sorprese, o meglio due dati, che contraddicono la narrazione oggi prevalente in Italia.

Il primo dato è che l’Italia non è affatto un’isola relativamente felice, e tantomeno un modello per gli altri paesi. Se guardiamo alla mortalità dell’ultimo mese, ci sono 13 paesi che stanno meglio di noi e 12 che stanno peggio (vedi grafico seguente). In breve: siamo a metà classifica. Lo stesso accade se, anziché guardare ai morti per abitante, guardiamo al valore di Rt: anche in questo caso, metà dei paesi ci precedono e metà ci seguono.

Il secondo dato è che, nella stragrande maggioranza dei paesi, il valore di Rt è maggiore di 1. Ossia: l’epidemia galoppa quasi ovunque. Ma soprattutto, e qui sta il lato sorprendete, galoppa indipendentemente dalla copertura vaccinale. Anche nei paesi che, come Portogallo e Spagna, hanno vaccinato quasi il 100% della popolazione vaccinabile, il valore di Rt è ampiamente sopra 1, e analogo a quello dell’Italia. A giudicare dai dati disponibili, la vaccinazione riduce drasticamente la mortalità, ma non ha alcun impatto apprezzabile sulla diffusione del contagio. Dunque vaccinare è necessario, ma non sufficiente.

Sulle ragioni che fanno sì che il pieno successo della campagna vaccinale non basti a fermare l’epidemia si può discutere a lungo, perché nessuno ha dati sufficienti a fornire una riposta incontrovertibile. Al momento la spiegazione che più mi convince, anche in quanto supportata da alcune analisi statistiche su dati americani, è che la capacità dei vaccinati di trasmettere l’infezione sia stata ampiamente sottovalutata. Detto in altre parole: si confonde la capacità dei vaccini di proteggere dalla morte e dalla malattia grave (che è indubbia e molto elevata) con la loro capacità di rallentare la trasmissione. Da questo punto di vista la strategia di “premiare i vaccinati”, lasciando loro la libertà di fare quasi tutto, o la scelta di rimandare la quarantena nelle classi scolastiche fino a quando non vi sia un focolaio di almeno tre studenti positivi, appare quantomeno imprudente. L’idea che la colpa sia (quasi) tutta dei non vaccinati, e che vaccinando (quasi) tutti le cose tornerebbero miracolosamente a posto, è incompatibile con i dati: se fosse corretta, non assisteremmo a una preoccupante espansione dei casi in Spagna, Portogallo, Irlanda, Danimarca, Malta, Islanda, tutti paesi che hanno vaccinato moltissimo.

Che fare, dunque?

Prima di tutto, prendere atto che non siamo i primi della classe. E poi avere il coraggio di farci la domanda cruciale: siamo sicuri che la ricetta italiana, fatta di vaccini + restrizioni, sia la strada giusta per tenere sotto controllo l’epidemia?

Io penso che non lo sia, e che anche l’Europa dovrebbe cominciare a riflettere sul problema. L’esperienza di due stagioni fredde e due stagioni calde dovrebbe averci insegnato che l’illusione di domare il virus prende forma e si consolida in estate, ma immancabilmente svanisce con l’autunno.

Puntare tutte le carte su vaccini e restrizioni significa tenere permanentemente sotto pressione il sistema sanitario (100 o 150 milioni di vaccinazioni all’anno non sono uno scherzo, come ha fatto notare il prof. Crisanti), con conseguente drammatica riduzione delle cure ordinarie, e chiamare periodicamente i cittadini (compresi i vaccinati) ad accettare pesanti restrizioni alla loro libertà, ogni qualvolta il generale inverno subentra al generale estate.

Possibile che non vi siano alternative? Possibile che, al di là della vaccinazione perpetua che ci si prospetta, quasi tutto l’onere dell’aggiustamento ricada sui cittadini?

In realtà le alternative diverse dalla diade vaccinazioni + sacrifici esistono, e sono state più volte indicate, non solo dagli studiosi. Non le ricorderò tutte, ma vorrei almeno ricordarne due: il tracciamento elettronico (del tutto abbandonato dopo il fallimento dell’app Immuni) e la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da scuole, uffici, metropolitane, mediante filtri e ventilazione meccanica controllata (ne ha parlato pochi giorni fa l’ing. Buonanno su questo giornale).

L’elemento comune di tali interventi, snobbati non solo in Italia ma in buona parte d’Europa, è che non impattano né sul sistema sanitario (a differenza della vaccinazione di massa), né sulla nostra libertà (a differenza delle restrizioni). E, nel caso dell’approccio ingegneristico al controllo della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, ci regalano una realistica speranza: quella di affrontare meno indifesi la stagione fredda, che è il vero tallone di Achille della lotta al virus.

Pubblicato su Repubblica del 6 dicembre 2021




La più iniqua delle tasse

Non sappiamo ancora, alla fine, a chi andranno gli 8 miliardi di alleggerimenti fiscali promessi dal governo. Quel che è certo è che la ripartizione ipotizzata – 7 miliardi di sgravi Irpef, 1 miliardo di sgravi Irap – non piace ai sindacati, che vorrebbero che i benefici fossero riservati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e non piace a Confindustria, che vorrebbe che gli sgravi fossero maggiori e concentrati sul cuneo fiscale. Da sociologo, sono stupito che, finora, nessuno abbia ipotizzato di convogliare tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione, andando a colpire la diseguaglianza principale del sistema Italia, ovvero la frattura fra chi un lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha.

Ma quanto impattano 8 miliardi sui bilanci delle famiglie?

Un calcolo di larga massima restituisce un mesto risultato: in media, lo sgravio ammonta a un po’ meno di 30 euro al mese.

Meglio che niente, si potrebbe dire. Ma sarebbe più esatto dire: meno di niente.

Per capire perché, dobbiamo fare i conti con il convitato di pietra del dibattito sulla legge di bilancio: l’inflazione. Se ne parla ancora poco, ma la realtà è che già oggi l’inflazione ha rialzato la testa (+3.8%, secondo le ultime stime dell’Istat), e nessuno sa ancora se il rialzo sarà temporaneo o permanente.

Ma, a parità di altre condizioni (ossia: se i redditi nominali restano fermi), una inflazione anche solo del 3% significa una perdita di potere di acquisto di circa 30 miliardi, che assorbirebbe completamente gli 8 miliardi di sgravi promessi. Siamo come commensali che litigano sugli antipasti, senza accorgersi che qualcuno si sta portando via il resto del pranzo.

Per capire la natura della situazione in cui ci troviamo, forse non è inutile ritornare indietro di qualche decennio, ovvero ai tempi dell’inflazione a due cifre, quando, comprensibilmente, l’attenzione dell’opinione pubblica era concentrata sull’erosione continua del potere di acquisto.

Ebbene, come si parlava di inflazione negli anni ’70 e ’80? E, soprattutto, come ne parlavano i sindacati?

Fondamentalmente mediante tre parole-chiave: iniquità, illusione monetaria, fiscal drag.

Iniquità. L’inflazione, come già aveva avvertito Lugi Einaudi, è “la più iniqua delle tasse” perché, riducendo il potere di acquisto, colpisce di più i ceti bassi (che spendono in consumi la maggior parte del loro reddito) che i ceti alti.

Illusione monetaria. L’inflazione, quando si accompagna a un aumento dei redditi nominali inferiore all’inflazione stessa, crea la percezione illusoria di un aumento del reddito in termini reali.

Fiscal drag (drenaggio fiscale). Se non è accompagnata da un abbassamento sistematico delle aliquote fiscali, l’inflazione comporta automaticamente un aumento della pressione fiscale, ossia un prelievo di quote crescenti del reddito.

Riportati a quel che succede oggi, i tre concetti permettono di azzardare una semplice lettura dell’impatto della manovra: i ritocchi delle aliquote mitigano il fiscal drag ma, in presenza di un’inflazione elevata, difficilmente basteranno a neutralizzare la diminuzione del potere di acquisto, che penalizza prevalentemente i ceti popolari.

Ma è verosimile la previsione di un’inflazione elevata per l’anno prossimo?

Penso di sì, per due ragioni. La prima è che, anche ove avessero ragione gli analisti che considerano temporanea la fiammata attuale dei prezzi, difficilmente le cause che ne sono all’origine si spegneranno a breve termine. Vale per i prezzi dell’energia e delle materie prime, vale per le strozzature della logistica, ma vale anche per le difficoltà di trovare personale a tutti i livelli di qualificazione. Siamo abituati, in Italia, ad associare le difficoltà di reperire manodopera alle (indubbie) storture del reddito di cittadinanza, ma gli ultimi mesi ci hanno rivelato che il problema si presenta in tantissimi altri paesi, quasi che una parte dei lavoratori avesse scoperto – con la pandemia – di poter far a meno del lavoro, o del lavoro alle condizioni precedenti l’arrivo del Covid.

La seconda ragione per cui ritengo verosimile, almeno nel breve periodo, il permanere di un’inflazione elevata, è che l’inflazione stessa è un formidabile strumento per alleggerire il peso del debito pubblico. L’inflazione, prima o poi, trascina con sé un aumento dei redditi monetari, che gonfia il Pil nominale e così contribuisce a ridurre il rapporto debito-Pil, da cui dipende la sostenibilità dei nostri conti pubblici.

Che il ritorno dell’inflazione si riveli, alla fine, un fenomeno transitorio oppure no, lo decideranno soprattutto le politiche più o meno restrittive della Fed e della Bce, ovviamente condizionate dalle pressioni dei governi. Ma mi riesce difficile pensare che, in questa partita, l’Italia si schieri a favore dei nemici dell’inflazione. Chiunque ci governerà, sarà ben consapevole che un po’ di inflazione fa bene ai nostri conti pubblici.

Tutto sta a vedere se sarà anche consapevole che, se non è accompagnata da altre politiche che ne neutralizzino gli effetti indesiderati, l’inflazione resta – come avvertiva Einaudi – la più iniqua delle tasse.

Pubblicato su Repubblica del 1° dicembre 2021




Covid19, il sogno di un’estate senza fine

Modificando una condizione al contorno applicata ad un sistema termodinamico, esso evolve fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, compatibile con i nuovi vincoli del sistema.

E’ un principio basilare della termodinamica: ma che significa per noi?

Immaginate come sistema la nostra società di individui con la propria moltitudine di interazioni. E ritornate con la mente all’estate, quando il sistema era in equilibrio con bassa incidenza del virus, ridotta trasmissione, alta protezione da vaccinazione. Cosa è cambiato da un paio di mesi rispetto a questa condizione? Quali condizioni al contorno stanno spingendo il sistema verso una nuova condizione di equilibrio?

Le percentuali di vaccinazione sono cresciute ulteriormente, ma non si è tenuto conto che i vaccini hanno una efficacia che si riduce nel tempo, sia nella protezione contro l’infezione che contro la malattia. Stime recenti indicano un tempo di soli 3-4 mesi per una diminuzione sostanziale dell’efficacia all’infezione. Quindi la durata della protezione è di gran lunga inferiore al tempo necessario per vaccinare percentuali elevate di popolazione (in Italia abbiamo impiegato 9 mesi per vaccinare l’80% della popolazione) e, non potendo mai avere una copertura adeguata, saremmo sempre costretti ad inseguire le ondate.

Una diversa condizione al contorno è l’autunno (e ancor più l’inverno) con un aumento dell’interazione dei soggetti negli ambienti chiusi. E qui entra in gioco un errore importante che le autorità sanitarie continuano a commettere: infatti il virus si propaga quasi esclusivamente per aerosol e non con i droplets (goccioline) o le superfici. Una persona infetta (vaccinata o non vaccinata) emette il virus dalla bocca all’interno di particelle in grado di galleggiare in aria come del fumo: e queste non cadranno al suolo in prossimità della persona come il mondo medico ci ha raccontato.

Come ci difendiamo dal fumo di una sigaretta? All’aperto è facile, perché il rischio dipende solo dalla distanza e dal tempo di esposizione. Tempi di esposizione di qualche secondo all’emissione di un soggetto infetto rendono accettabili anche distanze inferiori al metro. Non c’è necessità di utilizzare mascherine in ambienti aperti se non per esposizioni di diversi minuti davanti ad un soggetto che parla. Il rischio di inalare una dose sufficiente di carica virale sospesa in aria è invece rilevante negli ambienti chiusi senza un intervento sull’ambiente.

Sono attualmente protetti gli ambienti chiusi? Assolutamente no, non lo sono mai stati neanche durante le precedenti ondate per il mancato coinvolgimento delle competenze ingegneristiche. Questo errore non lo commettiamo a casa nostra quando cuciniamo perché ci affidiamo agli ingegneri per ridurre la nostra esposizione al fumo (cappe aspiranti, ventilazione) pur sapendo che nuoce alla salute. Le nostre autorità purtroppo si sono affidate solo al vaccino, senza coinvolgere gli ingegneri.

Dalla storia sappiamo che tutte le epidemie passano, ma la storia può esserci di aiuto anche per acquisire la consapevolezza necessaria per affrontare le prossime. Nella Londra vittoriana John Snow (1813-1858) intuì che il contagio da colera avveniva attraverso l’acqua e non attraverso i miasmi millantati dalla comunità medica. Da allora gli ingegneri hanno messo in sicurezza l’acqua e oggi nessuno di noi utilizza dispositivi per purificare l’acqua, un bene primario. Non temiamo più agenti patogeni trasmessi dall’acqua, perché sappiamo come si trasmettono e come limitare il contagio.

Perché questo non dovrebbe essere valido anche per l’aria?

Gli ingegneri sono oggi in grado di mettere in sicurezza l’aria e ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di respirare aria priva non solo di inquinanti, come è stabilito dal rapporto The Right to Breathe Clean Air (Il diritto di respirare aria pulita) delle Nazioni Unite, ma anche di agenti patogeni. E’ un dovere del gestore di ogni luogo pubblico o di lavoro garantire la sicurezza di chi entra in un ambiente. Visione questa opposta all’attuale, in cui la sicurezza di un individuo è delegata ai comportamenti non virtuosi ma spesso inconsapevoli dei cittadini.

Le rassicurazioni delle autorità sanitarie sull’evoluzione del nostro sistema non sono realistiche: senza una modifica sostanziale delle attuali condizioni che riduca in modo drastico i contagi negli ambienti chiusi, si arriverà a situazioni simili a quelle di altri paesi Europei, e la protezione della popolazione mediante percentuali ancora più elevate di vaccinati rischia di essere un miraggio. Il mancato coinvolgimento degli ingegneri (utili anche per uno smorzamento delle tensioni sociali) rende probabile il sopraggiungere delle temute chiusure con conseguenze pesanti sul piano sanitario ed economico. La risposta decisiva alla presenza di un virus endemico esiste: trasformare gli ambienti chiusi in ambienti simil-aperti che ci proteggano anche dalle nuove varianti in arrivo, come se vivessimo in una estate continua. Sembra fantascienza, ma anche la visione di Snow nell’Ottocento fu probabilmente considerata solo l’utopia di un sognatore.

Prof. Giorgio Buonanno
Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Queensland University of Technology, Australia

Luca Ricolfi
Docente di Analisi dei dati
Università di Torino