L’etica e le due sinistre

Uno dei fenomeni più interessanti che negli ultimi decenni mi è capitato di studiare è la nascita, nella sinistra italiana, del “complesso dei migliori”, ossia dell’attitudine a pensare sé stessa come la rappresentante della parte migliore del Paese. La data di nascita è abbastanza precisa: 1993-1994, sdoganamento del “fascista” Fini da parte di Berlusconi, vittoria del Cavaliere alle elezioni politiche, nascita della seconda Repubblica. Da allora l’autopercezione della sinistra come eticamente superiore alla destra non è mai venuta meno, ed anzi è dilagata, in Italia e non solo (Hillary Clinton contro Trump). A soffiare sul fuoco dell’autostima dei progressisti hanno contribuito non poco lo stile sgangherato e spesso volgare di Salvini, l’antieuropeismo di parte della destra, nonché, al di fuori dell’Italia, l’emergere di leader politici conservatori non proprio rassicuranti: Orbán, Trump, Marine Le Pen.

Ebbene, la guerra in Ucraina sta, secondo me, sgretolando le basi del complesso dei migliori. La credenza che la sinistra riformista, erede del Partito comunista, rappresenti il Bene, e la destra, berlusconiana o sovranista che sia, rappresenti il Male, sopravvive ancora, ma il problema è che non è più difendibile, nemmeno agli occhi dell’opinione pubblica progressista.

Per capire perché dobbiamo partire da una domanda: perché il Pd di Letta è diventato il partito più atlantista e militarista, pronto non solo a mandare armi all’Ucraina ma a partecipare al riarmo dell’Europa?

La risposta è semplice: se in gioco vi sono la libertà e la democrazia, può il partito che si sente custode del Bene non essere alla testa della difesa delle due supreme conquiste dell’Occidente?

Ovviamente la tentazione è forte, e il Pd è caduto in tentazione. L’ha fatto. Si è messo alla testa del partito del Bene contro il Male assoluto russo. Ci sono due piccoli guai, però, che minano alla radice il progetto della sinistra riformista.

Il primo guaio è lei, Giorgia Meloni. La posizione di Fratelli d’Italia, di appoggio alle scelte del Governo in nome dell’interesse nazionale, complica dannatamente le cose: d’ora in poi sarà più difficile accusare la destra di sovranismo, preso atto che il sovranismo di Fratelli d’Italia può plausibilmente essere letto in chiave patriottica, ma soprattutto sarà impossibile rivendicare il monopolio del Bene. Se libertà e democrazia sono il Bene, e se il sostegno all’Ucraina è la cartina di tornasole del proprio impegno, il Pd dovrà prendere atto, d’ora in poi, di essere in buona compagnia. E magari rassegnarsi a registrare che la scelta patriottica di stare risolutamente a fianco dell’Ucraina non è prerogativa di uno schieramento politico ma, semmai, è ciò che accomuna i due maggiori partiti italiani.

C’è un secondo guaio, però, forse ancora più grande, per la retorica della sinistra che si sente eticamente superiore. Ed è che, ahimè, il Bene ha molte facce. Specialmente in una guerra come quella che stiamo attraversando, il Bene si presenta anche nelle vesti multiformi del pacifismo: dal risoluto e sconcertante invito ad arrendersi rivolto da Piero Sansonetti alla resistenza ucraina, alla “vergogna” del Papa per i propositi di riarmo dell’Occidente, fino alle mille varianti dell’etica del dialogo, del negoziato e della prudenza. Eh già, perché accanto ai grandi valori universali dell’uguaglianza, della libertà e della democrazia, con grande lungimiranza Norberto Bobbio poneva anche il valore della pace, a dispetto di un’epoca che la dava per scontata (un po’ come i giovani danno per scontata la salute).

Ed ecco il problema: fiutando odore di identità (un bene di cui il partito di Grillo ha disperatamente bisogno), il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte si è avventato, con un video scomposto che ricordava l’ultima infelice esternazione di Beppe Grillo, contro l’impegno dell’Italia ad aumentare il budget per la difesa. Enrico Letta ha reagito minimizzando, e assicurando che anche in questo caso – come in passato – si sarebbe trovata una quadra.

Ma riarmo e pacifismo non sono voci del bilancio pubblico, su cui si può agevolmente trovare un punto di equilibrio, presentandolo agli elettori come ragionevole compromesso. La scelta di sostenere militarmente la resistenza ucraina in nome di valori come libertà, democrazia, autodeterminazione dei popoli, è incompatibile con la scelta di non farlo per favorire il dialogo e la pace. Ragionevoli o irragionevoli che siano, prudenti o imprudenti che appaiano, agli occhi degli elettori queste due posizioni sono non solo incompatibili, ma anche entrambe eticamente fondate. Il militante di sinistra può ancora sentirsi dalla parte del Bene, ma oggi si trova a dover scegliere tra due posizioni ciascuna delle quali si presenta con una postura etica.

Di qui una conseguenza per la sinistra riformista, di cui il Pd è la maggiore espressione: d’ora in poi gli sarà impossibile rivendicare una superiorità etica rispetto ai propri avversari. Non solo perché i valori che il Pd proclama di difendere sono condivisi da una parte della destra, finora trattata con sufficienza, quando non con disprezzo. Ma perché la mossa di Conte crea le basi per la nascita di due sinistre, fieramente avvinghiate ai rispettivi valori, come tali non negoziabili. Che cosa sia il Bene in politica non lo sappiamo, e non lo sapremo mai, ma almeno abbiamo la certezza che – d’ora in poi – sarà difficile per chiunque proclamarsene il rappresentante esclusivo.




Ucraina, libere idee in libero dibattito

Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.

 




La ventilazione meccanica controllata (Vmc) funziona

Conferenza stampa 22 marzo 2022

 

La ventilazione meccanica controllata (Vmc) funziona

  1. La ricerca

La Regione Marche ha finanziato, nel marzo 2021, un bando per l’acquisto e l’installazione degli impianti di Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) nelle aule scolastiche. L’intervento era finalizzato a garantire le lezioni in presenza, in quanto le evidenze scientifiche disponibili indicavano nella Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) un efficace strumento per contrastare la diffusione di Sars-CoV-2, riducendo la permanenza degli elementi inquinanti nell’aria. Le domande risultavano essere complessivamente n.187, per un totale 3.027 aule distribuite in 323 scuole marchigiane, per un importo finanziato di 9 milioni di euro. Le prime scuole beneficiarie del finanziamento, nel periodo estivo predisponevano gli impianti di ventilazione meccanica, al fine di iniziare l’anno scolastico con la strumentazione attiva e correttamente funzionante. Su queste basi nel 2021/2022 con la collaborazione della fondazione Hume, si è sviluppato uno studio che permetteva la comparazione tra due insiemi di osservazioni:

  • Nel primo insieme: le classi con l’istallazione della Ventilazione Meccanica Controllata VMC (più di 300, il 3% sul totale delle classi)
  • Nel secondo insieme: le classi senza la ventilazione meccanica.

Questa comparazione era strutturata analizzando i dati dell’incidenza (i nuovi casi positivi) da Sars-CoV-2 nei due insiemi oggetto di osservazione, classi con VMC vs classi senza ventilazione. Questo studio è stato strutturato attraverso il coinvolgimento di tutti gli ordini di scuola, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria superiore.

Su questa premessa la Fondazione Hume ha chiesto alla Regione Marche di poter analizzare i dati raccolti, in modo da stimare l’efficacia della VMC nel contrastare la trasmissione dell’infezione.

A questo scopo sono stati costruiti un certo numero di modelli matematico-statistici, atti a valutare l’impatto della VMC sul rischio di trasmissione, al netto di altri effetti quali l’ordine della scuola e il numero di alunni per classe.

 

  1. Metodi

Per stimare l’efficacia della Vmc sono stati usati 2 indicatori di trasmissione, basati sul conteggio dei cluster di casi (2 o più casi entro la medesima classe). L’impatto della Vmc è stato valutato sia in modo grezzo, ovvero confrontando i valori dei due indicatori su fasce di classi omogenee quanto al numero di ricambi-ora, sia con tecniche di regressione, tenendo sotto controllo il numero di alunni per classe e il tipo di scuola.

Fra le molte stime di efficacia della Vmc ottenute, di norma sono state selezionate le più prudenti.

  

  1. Risultato principale

Il rischio di trasmissione si può stimare calcolando, per ogni classe, il rapporto fra numero di casi attribuibile ad infezioni avvenute entro la classe e il numero di esposti, ossia di alunni per classe.

Ponendo a 100 il valore dell’indicatore per le classi prive di VMC si può determinare il rischio relativo di infezione per le aule dotate di VMC. Tale rapporto è pari al 37.2%, il che vuol dire che la presenza della VMC in classe abbatte il rischio di trasmissione di un fattore vicino a 3 (indicatore medio).

La portata massima degli apparecchi installati varia notevolmente da scuola a scuola, in un range che va da 100 a 1000 metri cubi-ora. Se distinguiamo le classi in base alla portata degli apparecchi installati, scopriamo che il rischio relativo può scendere intorno a un valore compreso fra 5 e 6 se la portata supera i 750 metri-cubi ora, il che equivale – approssimativamente – a 5 ricambi-ora.

Si può riassumere tutto questo calcolando come cresce il fattore di abbattimento del rischio man mano che sale la qualità della VMC, misurata dal numero di ricambi-ora.

Come indicato nella tabella 1.2 l’indicatore di trasmissione varia in base alla presenza di scuole con VMC/senza VMC o con una differente portata di metri cubi/ora della VMC. Si osserva una variazione dell’efficacia da: 40% correlata ad un ricambio/ora di 0,67-3,33, ad un 66,8% di efficacia correlata a 3,33 – 4,67 ricambio/ora a 82,5% di efficacia con 4,67-6,66 ricambio/ora.

Si vede bene che la VMC, specie se adeguatamente dimensionata (6 o più ricambi-ora), ha una capacità di abbattere il rischio di infezione da Sars-CoV-2 di oltre l’80%. Utilizzandola nelle scuole, si potrebbe passare da un tasso di Incidenza di 250 su 100.000 (soglia di rischio individuata dal Ministero) a un tasso di 50 su 100.000 con l’abbattimento di massimo di efficacia.

Sorprendentemente, il fattore di abbattimento del rischio (compreso fra 5 e 6), desunto da questa ricerca sul campo, corrisponde perfettamente a quello ricavabile dagli studi degli ingegneri ed esperti di qualità dell’aria, basati su esperimenti controllati (vedi

Mikszewski, A., Stabile, L., Buonanno, G., Morawska, L., Increased close proximity airborne transmission of the SARS-CoV-2 Delta variant, Science of the Total Environment, 816, 2022).

 

  1. Notizie sui dati

Il data set finale è costituito da un file con 10465 record (pari al numero delle classi), ciascuno descritto da 21 variabili (più i campi identificativi della classe e della scuola).

Le variabili fondamentali che descrivono ogni classe sono le seguenti:

  • provincia
  • plesso
  • ordine della scuola
  • sezione
  • annualità
  • numero di alunni della classe
  • numero di studenti positivi in 12 periodi diversi
  • presenza/assenza della VMC
  • marca impianto VMC
  • modello impianto VMC

I 12 periodi considerati corrispondono alle settimane, salvo il periodo iniziale, che va dal 13 settembre al 10 ottobre, e il periodo finale, che va dal 7 al 31 gennaio.

Le classi considerate sono tutte quelle senza Vmc (10125), più tutte quelle dotate di Vmc fin dal 13 settembre (316 su 340): in tutto 10441 classi.

Infine, ecco alcune informazioni sintetiche sulle classi considerate.

Per questa prima fase di studio, la percentuale di classi presa in esame è pari al 3% del totale.

L’analisi completa sarà disponibile nei prossimi giorni




I concetti di danno, responsabilità e rischio: Houston, abbiamo un problema

Fino a qualche tempo fa, sui manuali di diritto privato utilizzati dagli studenti del primo anno di giurisprudenza si studiava che non ogni evento negativo che poteva capitare nella vita delle persone consisteva in un danno da considerarsi ingiusto nel senso di contrario al diritto (contra ius) ai sensi del fondamentale precetto di cui all’art. 2043 del codice civile.

C’erano – così almeno si studiava – i cd. danni leciti, ovvero le conseguenze sfavorevoli di un certo comportamento o di un evento della natura per cui l’ordinamento riteneva più opportuno non far conseguire alcun rimedio particolare: se la vista di cui godevo dalla finestra di casa mia viene pregiudicata dalla costruzione di un nuovo fabbricato nel rispetto della normativa edilizia e sulle distanze, non ho una pretesa da far valere (vorrà dire che semmai uscirò più spesso a fare una passeggiata per prendermi qualche raggio di sole).

Inoltre, sempre secondo il citato art. 2043 c.c., affinché ci sia un danno risarcibile è necessario che sia ravvisabile dolo o almeno colpa da parte di chi ha tenuto quella data condotta.

Le ipotesi di responsabilità sostanzialmente oggettiva sono infatti limitate e circoscritte nel nostro ordinamento giuridico, assolvendo fondamentalmente ad una funzione economica di ripartizione del rischio (si pensi ad esempio alle garanzie assicurative prestate rispetto a determinate attività d’impresa o, più semplicemente, in materia di circolazione stradale).

Da qualche tempo, tuttavia, il quadro appare mutato ed in continua evoluzione.

Ed infatti, da un lato si assiste alla individuazione – per via giurisprudenziale ma anche da parte del legislatore – di sempre nuove figure di danno risarcibile, anche al di là della originaria limitazione espressa dall’art. 2058 c.c. per i danni cd. non patrimoniali (si pensi, tra i tanti, al danno da cd. “vacanza rovinata”).

Dall’altro, nell’opinione comune si è fatta strada la convinzione che di qualunque evento dannoso debba essere comunque individuato un responsabile, anche quando non è ravvisabile un giudizio di riprovevolezza in termini di colpa, per effetto di presunzioni che fatalmente ne prescindono (si pensi alle fattispecie di colpa medica, che di fatto tende ad essere riconosciuta ogniqualvolta non si ottenga il risultato sperato da una terapia o da un intervento chirurgico, anche non di routine).

Ciò che pare essere diventato intollerabile è che la vita delle persone possa essere più o meno pesantemente condizionata dal caso o dalla sfortuna, nella consolatoria ma fallace pretesa che sia sempre colpa di qualcuno.

È con tutta evidenza una questione che attiene, prima che ancora che al diritto, alla weltanschauung, alla concezione che abbiamo del mondo e della vita (per citare Brodskij, “un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno”).

In termini di civiltà giuridica, può forse essere opportuno tenere presente che attribuire responsabilità a soggetti a cui in realtà non dovrebbero essere imputate significa aggiungere ingiustizia ed arbitrio, con l’ulteriore grave conseguenza di deresponsabilizzare per il futuro i comportamenti anziché provare – nei limiti del possibile – a migliorarli.

Se dal diritto dei privati ci spostiamo alla sfera dei rapporti con l’Autorità e/o il potere pubblico, a quello che negli ordinamenti continentali è comunemente indicato come diritto amministrativo, le cose assumono contorni ancora più netti, la tendenza in atto è ancora più marcata.

Di fatto, negli ultimi decenni (quantomeno a partire dagli anni ’70) si assiste al tentativo – non so quanto consapevole – di neutralizzare il più possibile ogni sorta di rischio incombente in capo ai soggetti privati.

Si va dalla pletora di indennizzi e ristori riconosciuti (anche giustamente, per carità, in periodi di pandemia) a favore di categorie di operatori economici e/o semplici privati svantaggiati (dagli effetti dell’epidemia da coronavirus ma ancor prima, ad esempio, dal mancato rinnovo delle concessioni demaniali dei balneari, da fenomeni meteorologici anche se imprevisti ed imprevedibili – alluvioni, frane, ecc. -); alle richieste di pagamento del subappaltatore avanzate direttamente nei confronti dell’Amministrazione appaltante, in deroga ai generali principi in materia di libertà e responsabilità contrattuale; alla miriade di bonus e superbonus fiscali degli ultimi tempi.

Si tratta di situazioni anche eterogenee tra loro per cui tuttavia si registra un’invincibile pressione a che lo Stato e/o la politica se ne faccia carico.

Malauguratamente, è un punto di vista che, da una parte, fatalmente tende a porre a carico della collettività e della fiscalità generale situazioni personali, da un punto di vista economico (ma, come dovrebbe essere noto, nessun pasto è gratis); e che dall’altro porta via via a comprimere e a far scemare il concetto stesso di responsabilità individuale.

Ma dove, se possibile, il corto circuito di cui si è detto diventa ancora più evidente, è l’ambito della responsabilità penale, soprattutto quello dei reati contro la P.A. o dove sono comunque coinvolti amministratori pubblici o pubblici funzionari.

Non c’è fenomeno naturale, alluvione, frana, od anche semplice smottamento, in cui non sia ravvisabile – in aggiunta a quella patrimoniale dell’Ente pubblico (che, beninteso, potrà anche avere delle effettive responsabilità rispetto ad eventuali negligenze ed incurie) – una penale e personale responsabilità, potremmo dire di posizione, del Sindaco o del dirigente a capo del settore (che rispondono anche se il bambino a scuola lascia il dito schiacciato nella porta d’ingresso; o, in materia ambientale, se il registro di carico della discarica comunale presenta delle mere irregolarità formali; ecc.).

Non ci deve poi stupire troppo se capita “di notare una leggera flessione del senso sociale” (Max Gazzè) o, più prosaicamente, la qualità della nostra classe politica è crollata verticalmente, essendo disponibile a ricoprire determinati incarichi pubblici solo chi non è particolarmente qualificato professionalmente o tiene effettivamente comportamenti delinquenziali.




E se sulla no fly zone avesse ragione Zelensky?

Se c’è un aspetto della folle guerra in Ucraina (la più insensata che abbia mai visto da quando sono al mondo) su cui tutti, ma proprio tutti, sono d’accordo, è che di qualsiasi cosa possiamo discutere, tranne che di un attacco diretto della NATO contro i russi. Per questo nessuno ha mai preso seriamente in esame la richiesta del presidente ucraino Zelensky di istituire una no fly zone sull’Ucraina, perché, si dice, questo significherebbe dover abbattere gli aerei russi che la violassero e quindi la guerra.

Secondo me invece la cosa non è affatto così ovvia e scontata come sembra e merita almeno di essere seriamente discussa.

Cominciamo col notare il modo gravemente impreciso e fuorviante in cui il principio è stato enunciato dal presidente americano Joe Biden e poi ripetuto a pappagallo da tutti gli altri leader europei: “Non si può attaccare la Russia perché vorrebbe dire iniziare la Terza Guerra Mondiale”.

Ora, per parlare di guerra mondiale bisognerebbe che altri paesi si schierassero al fianco della Russia. Ma non si capisce chi e perché dovrebbe mai farlo, a cominciare dalla Cina, che semmai avrebbe interesse a lasciarci scannare tra di noi (ma neanche tanto, altrimenti poi a chi venderebbe le sue merci?). Inoltre e soprattutto, quello che nessuno dice (compresi i generali da talk show, molti dei quali stanno facendo la stessa pessima figura che hanno fatto i virologi da talk show) è che questa sarebbe una scelta suicida, perché in una guerra convenzionale con la NATO la Russia non ha nessuna possibilità di vincere.

So che gli esperti usano indicatori molto complessi e sofisticati, dai quali risulta che l’esercito russo è molto temibile, quasi allo stesso livello di quello americano, ma ciò è clamorosamente contraddetto da quanto stiamo vedendo sul campo. E temo che il motivo sia assai simile a quello che ha portato molti esperti a fare valutazioni clamorosamente sballate sul Covid: fissarsi troppo sui dettagli perdendo di vista il quadro complessivo, per comprendere il quale risulta spesso molto più efficace basarsi non su tutti i fattori in gioco (cosa oltretutto impossibile), bensì su quei pochi che sono realmente significativi. E per quanto riguarda la guerra moderna tali fattori sono essenzialmente due: i soldi e l’aviazione.

Ora, quanto al primo, noi siamo così abituati a discettare sul declino dell’Occidente e, in particolare, degli USA, solo perché hanno avuto per quattro anni un Presidente un po’ stravagante (ma comunque, almeno in politica estera, molto più accorto di Obama e, per quanto si è visto finora, anche di Biden), che non ci rendiamo più conto di quanto immensa sia ancora la superiorità economica e quindi militare degli Stati Uniti. Nel mondo moderno, infatti, non è possibile essere un nano economico e un gigante militare, perché il vero potere bellico non viene dal numero, ma dalla tecnologia. Ora, la tecnologia avanzata costa un occhio della testa, richiede una continua manutenzione e diventa rapidamente obsoleta: di conseguenza, per mantenere un’elevata capacità militare non basta avere speso molto in passato, ma bisogna continuare a spendere molto.

Per questo, un modo molto rapido e abbastanza preciso per valutare la forza reale di un esercito è guardare il suo bilancio. Ebbene, la Russia, che ha un PIL inferiore a quello dell’Italia, spende attualmente per il suo esercito 44 miliardi di dollari all’anno, contro gli 11,6 della Spagna, i 29,2 dell’Italia, i 40,5 della Francia, i 47,5 della Gran Bretagna e i 49,1 della Germania, mentre gli Stati Uniti spendono ben 716 miliardi all’anno, cioè oltre 16 volte più dei russi, e la Nato nel suo insieme, anche senza considerare la Turchia (la cui lealtà al momento è tutt’altro che sicura), oltre 20 volte di più. Basterebbe questo per capire che non c’è partita.

Con questi numeri, infatti, è impossibile avere un esercito che unisca quantità e qualità: e siccome i russi hanno sempre scelto di privilegiare il primo aspetto (seguendo la loro tradizione militare, che è sempre stata piuttosto primitiva, incentrata sul carro armato e sulla forza bruta delle grandi masse), è evidente già a priori che le unità fornite di mezzi davvero moderni e di un adeguato addestramento sono per forza di cose relativamente poche. E la conferma la stiamo avendo proprio in Ucraina, dove a combattere sono quasi esclusivamente ragazzi di leva, impreparati, spaventati, demotivati e con mezzi che non sono esattamente il massimo dal punto di vista tecnologico.

Quanto al secondo criterio, esso è importante perché la dottrina militare americana da almeno trent’anni in qua si basa sul dominio dei cieli, che, come abbiamo visto nella Guerra del Golfo, viene perseguito con continui attacchi aerei e lancio di missili teleguidati ad altissima precisione, senza che un solo soldato metta piede sul terreno fino alla totale eliminazione dell’aviazione e della contraerea nemica. Raggiunto l’obiettivo, viene lanciato l’attacco, di terra, basato essenzialmente su divisioni corazzate ipertecnologiche che avanzano a grande velocità con l’appoggio dell’aviazione, che a quel punto può volare vicinissima al terreno, bersagliando il nemico con precisione devastante. La fanteria viene usata quasi esclusivamente per consolidare il possesso del territorio e ripulirlo dalle ultime unità nemiche sbandate. Si capisce quindi che il numero delle truppe in questo tipo di guerra non è molto importante, mentre ad essere decisivi sono la loro professionalità e il loro addestramento.

E i risultati li abbiamo visti. L’esercito di Saddam Hussein forse non era proprio il quarto esercito del mondo, come diceva la propaganda americana, ma era comunque un esercito molto forte, che anche secondo le stime più caute contava su non meno di 360.000 uomini e utilizzava armamenti in gran parte di fabbricazione sovietica, non modernissimi, ma comunque ancora perfettamente funzionanti. Ciononostante, venne completamente annientato in soli 4 giorni di campagna di terra (dalle 4 di notte del 24 febbraio alle 8 di mattina del 28 febbraio 1991), preceduta da 5 settimane di devastante campagna aerea. In tutta la guerra gli iracheni riuscirono a uccidere appena 113 soldati americani (meno di quanti ne morirono per incidenti e fuoco amico), mentre le loro perdite non sono mai state esattamente quantificate, ma anche le stime più prudenti le fissano a non meno di 22.000 morti, il che vuol dire un divario di almeno 200 a 1: una superiorità che non si era mai vista in tutta la storia dell’umanità.

Ora, l’esercito russo è grande circa il triplo di quello di Saddam e certamente più moderno (ma lo è anche quello americano, rispetto ad allora), tuttavia la superiorità degli americani e dei loro alleati europei nel campo dell’aviazione è schiacciante e senza rimedio: quasi 4-1 per i soli USA, più di 5-1 per la NATO nel suo insieme, a cui si aggiunge la tecnologia globalmente molto superiore. L’unico settore in cui i russi vantano una vera superiorità, almeno quantitativa, è quello dei carri armati (quasi 22.000 contro i 6.200 degli americani e i circa 9.000 della NATO nel suo insieme), ma questo significa ben poco, visto che gli ucraini gliene hanno già fatti fuori moltissimi, mentre gli Abrams statunitensi sono quasi indistruttibili. Inoltre, una volta che la NATO avesse raggiunto il dominio dei cieli (cosa che, come abbiamo visto, i russi non avrebbero modo di impedire), la sorte delle forze di terra nemiche sarebbe comunque segnata, per quanto numerose possano essere.

Questo significa che in una guerra con la NATO di tipo convenzionale (cioè escludendo le armi nucleari, di cui dirò fra poco) l’esercito russo riuscirebbe certo a infliggerci perdite molto più pesanti di quelle causate a suo tempo da quello di Saddam, ma alla fine andrebbe incontro alla stessa sorte: verrebbe completamente annientato (il che significa, per esser chiari fino in fondo, che non riuscirebbe a riportare a casa nemmeno un solo carro armato ancora in grado di muoversi sui suoi cingoli). Non si capisce quindi perché mai qualche altro paese dovrebbe andare in suo soccorso, dato che nessuno, nemmeno la Cina (che ha più uomini della Russia, ma meno carri armati e soprattutto meno aerei), sarebbe in grado di sovvertire i rapporti di forza, cosicché l’unico risultato che otterrebbe sarebbe di andare incontro alla stessa sorte.

Il vero rischio non è perciò la guerra mondiale, che non ci sarà in ogni caso, ma piuttosto la guerra nucleare, che invece è un rischio reale, dato che Putin è sicuramente abbastanza pazzo da usare le armi atomiche (perché Putin è pazzo, con buona pace di chi ancora ne dubita), soprattutto se si vedesse avviato verso una sconfitta disastrosa, il che, come ho appena spiegato, è esattamente ciò che accadrebbe. Tuttavia, anche qui stiamo commettendo lo stesso errore fatto più volte con il virus: quello di parlare sempre in termini assoluti, senza mai quantificare e soprattutto senza mai porre la questione in termini di rapporto costi-benefici. Infatti, la domanda che dovremmo porci non è se intervenire militarmente in Ucraina comporterebbe il rischio di un conflitto nucleare (è ovvio che la risposta è sì), ma piuttosto se intervenire renderebbe tale rischio maggiore o minore rispetto al non farlo. E qui la risposta non è più così ovvia.

Il rischio, infatti, sarebbe certamente minore soltanto in un caso: che cioè Putin si fermi all’Ucraina (e, al limite, alla Moldavia, che in caso di vittoria russa vedo messa molto male). Finora i leader occidentali, a cominciare da Biden, hanno “scommesso” sul fatto che lo farà. Ma si tratta di una scommessa molto azzardata, che potrebbe anche rivelarsi perdente. Per questo la domanda di cui sopra dovrebbe essere presa molto sul serio e non accuratamente evitata, o, più esattamente, “rimossa”, come invece è finora accaduto, perché guardarla in faccia per quel che è ci fa paura. Proverò quindi a farlo io, con l’avvertenza che le conclusioni non saranno tranquillizzanti: se ci tenete a dormire bene stasera, quindi, è meglio che smettiate di leggere.

Ciò premesso, la prima cosa che i lettori che mi sono rimasti devono tener presente è che se la Russia attaccasse i paesi baltici o un qualsiasi altro paese ex sovietico membro della NATO, noi ci troveremmo obbligati dall’articolo 5 del Trattato istitutivo della stessa NATO a intervenire militarmente in sua difesa. È per questo che finora Putin, al di là dei proclami, non ha mai alzato un dito contro questi paesi, benché secondo la sua logica sarebbe proprio da loro che dovrebbe venire la maggior minaccia per la Russia, dato che essi fanno già parte della NATO, mentre sull’adesione dell’Ucraina fin qui c’erano state solo vaghe ipotesi (e comunque è una balla cosmica che ciò “porterebbe la NATO troppo vicina alla Russia”, come sostengono quelli che vorrebbero “capire le ragioni di Putin”, dato che la distanza di Mosca dal punto più vicino del territorio dell’Ucraina e di circa 500 km, che un missile nucleare coprirebbe in 83 secondi, mentre quella dal punto più vicino del territorio della Nato, che si trova in Lettonia, è di circa 600 km, che un missile nucleare coprirebbe in 100 secondi: quindi Putin starebbe facendo la guerra per una differenza di appena 17 secondi).

È possibile, naturalmente, che Putin continui a comportarsi allo stesso modo e si fermi davanti ai confini dell’Alleanza Atlantica, come finora ha sempre fatto e come sperano i leader occidentali. Se ciò dovesse accadere, allora bisognerebbe riconoscere che la loro strategia avrà evitato il rischio di una guerra nucleare, anche se al prezzo (molto pesante) di sacrificare l’Ucraina. Inoltre, in tal caso dovremmo riconoscere, con vergogna per la nostra pavidità, che il vero errore non è stato avere allargato troppo la NATO, bensì averla allargata troppo poco, perché avremmo la prova che se vi avessimo fatto entrare l’Ucraina tempo fa Putin non l’avrebbe attaccata.

Il vero problema, però, è che non è affatto certo che le cose andrebbero così. Un trattato, infatti, non è un meccanismo fisico che scatta in automatico, indipendentemente dalla volontà umana: perché quanto esso prevede si trasformi in azioni occorre che chi l’ha sottoscritto decida di onorarlo. Di conseguenza, la probabilità che Putin non attacchi un paese della NATO è direttamente proporzionale alla sua convinzione che in tal caso gli altri paesi interverrebbero davvero in sua difesa: cioè, in altre parole, che sarebbero disposti a fare guerra alla Russia. È quindi evidente (o almeno dovrebbe esserlo, ma a quanto pare non è così) che l’ultima cosa che dovremmo fare è quella che invece, sulla scia di Biden, stiamo purtroppo facendo fin dall’inizio: cioè continuare a ripetere che noi non faremo mai guerra alla Russia, qualunque cosa faccia in Ucraina.

Anzitutto, infatti, anche se questa fosse davvero la nostra decisione, lasciare a Putin almeno il dubbio che se superasse un certo limite potremmo anche decidere di attaccarlo potrebbe indurlo a una maggior cautela, mentre dargli la garanzia a priori che questo non accadrà mai, qualunque cosa faccia in Ucraina, può solo incoraggiarlo a fare, appunto, qualunque cosa in Ucraina, il che è esattamente ciò che sta accadendo.

Ma c’è di più. Infatti, ciò potrebbe indurre Putin a pensare che non lo attaccheremmo neanche se lui dovesse invadere un paese della NATO. Se infatti la ratio di tale posizione è che non siamo disposti a rischiare una guerra nucleare per nessun motivo, perché mai dovrebbe bastare l’articolo di un trattato a farci cambiare idea? Pertanto, questa improvvida dichiarazione (che dovrebbe indurci a riflettere sulle reali capacità di Biden di guidare l’Occidente) ha in realtà aumentato il rischio che Putin non si fermi e che dopo l’Ucraina possa decidere di attaccare i paesi baltici. E a quel punto saremmo necessariamente costretti a prendere in seria considerazione l’ipotesi “inimmaginabile” di una guerra diretta contro la Russia, perché non farlo sarebbe come dire a Putin che può prendersi tutta l’Europa, realizzando così, in modo tanto paradossalmente quanto tragicamente rovesciato, il celebre auspicio di Giovanni Paolo II per un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali.

Naturalmente è impossibile che un tale scenario da incubo si realizzi davvero, dato che, come abbiamo visto, l’esercito russo è per fortuna molto più debole di quel che si crede e difficilmente riuscirebbe ad andare molto oltre la conquista dei paesi baltici e magari della parte orientale della Polonia (da secoli contesa tra i due paesi) e/o di qualche altro pezzetto dei paesi più orientali dell’ex Patto di Varsavia. Tuttavia, ciò sarebbe più che sufficiente a segnare la fine non solo della NATO, ma della stessa Unione Europea (che ha anch’essa un trattato che obbliga i suoi paesi alla reciproca difesa) e il suo asservimento di fatto alla Russia putiniana. Dunque, esiste un rischio molto serio che sacrificare l’Ucraina non serva comunque ad evitare la guerra con la Russia e che, anzi, finisca addirittura per renderla più probabile.

Ma c’è qualcosa che potremmo fare per evitarlo, oltre a ciò che già stiamo facendo?

La mia risposta è sì: ci sono almeno due cose che potremmo tentare, una certa e una di cui si dovrebbe almeno discutere.

Quella certa è che dovremmo cambiare decisamente linguaggio, smettendola di rassicurare Putin e cominciando invece a inculcare in lui (e soprattutto nei suoi generali) il dubbio e – perché no? – la paura che un intervento militare della NATO in Ucraina non sia del tutto impossibile. Naturalmente non si dovrebbero fare dichiarazioni troppo esplicite, ma dire qualcosa come: “Noi faremo di tutto per evitare una guerra con la Russia, ma di fronte alla sua crescente brutalità non possiamo più escludere nessuna opzione”. E, soprattutto, dovremmo smetterla di ripetere che abbiamo paura della Terza Guerra Mondiale e/o della guerra nucleare (anche se, ovviamente, ce l’abbiamo), perché questa è la cosa che in assoluto rafforza di più Putin a livello psicologico. Tutta la sua strategia, infatti, si basa sulla convinzione che il “vile Occidente”, corrotto dal consumismo e dal capitalismo, non avrà mai il coraggio di rischiare la propria vita o anche solo le proprie comodità, come invece sono disposti a fare gli “eroici” russi (il che in realtà non è vero, ma per lui ovviamente non importa).

La cosa meno certa, ma di cui dovremmo almeno discutere seriamente, è la possibilità di non limitarci a minacciare un intervento militare in Ucraina, ma di metterlo davvero in atto. Certo, non sto dicendo che la NATO dovrebbe entrare in forze in Ucraina, perché questo renderebbe inevitabile una guerra totale contro la Russia e inoltre, per quanto assurdo sia, visto come funziona oggi il sistema mediatico ci farebbe passare dalla parte del torto agli occhi del mondo. Ma un intervento più limitato, come per esempio istituire una no fly zone, come chiede da tempo Zelensky, sarebbe invece possibile e, per quanto certamente rischioso, probabilmente lo sarebbe meno che non farlo. Vediamo perché.

Anzitutto, va notato che l’aggressività di Putin verso l’Occidente è aumentata progressivamente nel tempo ed è quindi verosimile che una vittoria in Ucraina, soprattutto se schiacciante, non farebbe che accrescere ulteriormente questa sua propensione. Di quanto la accrescerebbe non lo sappiamo, ma in ogni caso ciò significa che è fondamentale anche per la nostra sicurezza, e non solo per quella degli ucraini (che comunque qualche cosa conta), che Putin non vinca la sua sporca guerra, o almeno non la stravinca. E al punto in cui siamo non si vede come si possa impedirlo senza un qualche tipo di intervento militare da parte nostra.

Inoltre, la no fly zone potrebbe essere istituita senza bisogno di entrare fisicamente in Ucraina, giacché la NATO ha la capacità tecnologica di abbattere gli aerei russi con missili a guida elettronica posizionati all’esterno del territorio ucraino (nella seconda guerra contro Saddam i bombardamenti preliminari sono stati effettuati in gran parte con missili di questo tipo, lanciati da navi posizionate a centinaia di chilometri di distanza, e, a dispetto delle facili ironie sui missili “intelligenti”, hanno quasi sempre fatto centro). Inoltre, essa potrebbe essere istituita con motivazioni umanitarie e in modo condizionato, cioè minacciando di introdurla solo se Putin non concede una vera tregua per mettere in salvo i civili, scaricando così su di lui la responsabilità di ciò che potrà accadere se rifiuta.

Naturalmente Putin rifiuterebbe di sicuro e quindi noi dovremmo assumerci il gravissimo rischio che comporterebbe abbattere degli aerei russi. Ma, anche se questo sarebbe certamente un atto di guerra, non sarebbe ancora la guerra vera e propria. La domanda cruciale che dobbiamo porci è quindi la seguente: siamo sicuri che la Russia reagirebbe a un’azione di questo tipo scatenando una guerra vera e propria contro la NATO, cioè che invaderebbe o comunque colpirebbe direttamente il territorio dei paesi europei?

La cosa non mi sembra affatto scontata. Anzitutto, un’azione di questi tipo non sarebbe poi molto diversa da quello che già stiamo facendo fornendo missili antiaerei agli ucraini, che infatti Putin ha definito “un atto di guerra”, senza però far seguire alle parole nessuna azione coerente con esse. Inoltre, anche se Putin fosse disposto ad attaccarci, è assai meno probabile che lo sarebbero anche i suoi generali, dato che essi, a differenza di lui, non sono ancora impazziti e sono perfettamente coscienti che in una guerra frontale con la NATO il loro esercito sarebbe destinato all’annientamento. Ancor meno probabile è che sarebbero disposti a scatenare una guerra nucleare, che comporterebbe l’annientamento totale non solo del loro esercito, ma anche del loro paese, compresi loro stessi e le loro famiglie: di fronte a una simile prospettiva, è possibile e anzi probabile che qualcuno trovi più pratico piantare una pallottola in testa al caro líder impazzito anziché seguirlo nei suoi deliri apocalittici.

Naturalmente non abbiamo la certezza che andrebbe a finire così, ma non abbiamo neanche la certezza che Putin non ci attaccherà mai se non lo faremo noi per primi. Stabilire quale delle due strade sia più rischiosa è estremamente difficile e sono felice di non essere io a dover prendere questa decisione. Voglio però sottolineare un ultimo fatto.

Quando Zelensky chiede la no fly zone e dice che gli ucraini stanno combattendo anche per noi di certo sta (comprensibilmente) tirando l’acqua al suo mulino, ma è altrettanto certo che conosce i russi meglio di qualunque leader occidentale: bisognerebbe quindi considerare attentamente la possibilità che abbia ragione e che dimostrare a Putin che non abbiamo paura di fargli la guerra sia davvero l’unico modo di evitare che prima o poi lui la faccia a noi.