Corpi neutri e de-gendering – Il grande scandalo della medicina moderna

Come ti regoli se ti si presenta un ragazzino con personalità multipla che vuole cambiare sesso? Be’, semplice: ti metti lì e con santa pazienza chiedi il consenso per il trattamento a tutte quante le personalità. L’evenienza è tutt’altro che rara: “Vedo un bel po’ di gente con seri problemi mentali: disturbi dello spettro autistico, stress post-traumatico, psicosi”. Conferma un collega: “Be’, il trauma è molto comune… un sacco di pazienti soffre di disturbi dissociativi”. La chat interna di WPATH, resa pubblica da Michael Shellenberger, presidente e fondatore del think tank Environmental Progress -nonché “eroe dell’ambiente” di “Time”, vincitore del Green Book Award e titolare della cattedra di Politica, Censura e Libertà di parola all’Università di Austin -è letteralmente sconvolgente. WPATH (World Professional Association For Transgender Health) è ritenuta la massima autorità scientifica e medica globale sulla “medicina trans”. Da decenni i suoi standard di cura plasmano le linee guida, le politiche e le pratiche di governi, associazioni mediche, sistemi sanitari pubblici e cliniche private in tutto il mondo, OMS compresa. I file, debitamente screenshottati, dimostrano che WPATH non soddisfa gli standard di una medicina basata sull’evidenza. Nella chat i membri -chirurghi, terapisti e attivisti- ammettono di ritrovarsi a improvvisare i trattamenti: in sostanza una sperimentazione in vivo. E si mostrano consapevoli del fatto che bambini e adolescenti non sono in grado di esprimere un vero consenso alla terapia affermativa (puberty blocker, ormoni, chirurgia) perché per esempio mostrano di non capire quando gli parli di rischi come la sterilità e la compromissione della funzione sessuale. Dice Dan Metzger, endocrinologo canadese: “In teoria è giusto parlare con un quattordicenne del fatto di preservare la sua fertilità, ma so che è come parlare al muro… La maggior parte dei ragazzi non ha nessuno spazio cerebrale per parlarne in modo serio”. “Tanti dicono: bleah: bambini, neonati, che schifo. Risposta media: Ok, nel caso adotterò”. Neanche le famiglie capiscono bene, “gente che magari non ha manco studiato biologia a scuola… certi genitori” dice un terapista “non riescono nemmeno a formulare le domande riguardo a un intervento medico per il quale hanno già sottoscritto il consenso”. In chat si discute di bloccare la pubertà a una bambina di 10 anni e a un bambino di 13 anni affetto da ritardo mentale. Un altro scambio descrive in dettaglio l’esecuzione di interventi di chirurgia genitale su persone affette da schizofrenia. Un membro chiede consiglio su un paziente di 14 anni che si identifica come ragazza e chiede la rimozione di pene e testicoli con utilizzo del tessuto per creare una pseudo-vagina, intervento che richiede pratiche di dilatazione a vita: troppo giovane? Forse sì, ammette Marci Bowers, presidente transgender di WPATH e chirurgo pelvico-ginecologico in California. “Il tessuto è immaturo, la routine di dilatazione complicata, gli esiti chirurgici potrebbero essere problematici”, si dovrebbe prelevare un segmento di intestino per costruire la finta vagina. Bowers ne sa qualcosa: ha eseguito più di 2.000 vaginoplastiche, la sua paziente più nota è Jazz Jennings, giovanissima trans operata in diretta nel corso il reality “I’m Jazz”. Nel caso di Jazz sono stati necessari tre interventi correttivi dati i problemi della prima operazione. Però qualsiasi limite di età “è arbitrario” puntualizza Bowers. Sconsigliabile attendere i 18 anni, meglio operare “qualche tempo prima della fine della scuola superiore, così stanno sotto la sorveglianza dei genitori nella casa in cui sono cresciuti”, ti immagini i casini al college con i dilatatori. Si parla con franchezza anche delle complicazioni della chirurgia di transizione per le ragazze, falloplastiche con pseudo-peni insensibili e ovviamente anorgasmici modellati con tessuto dell’avambraccio o della coscia, e delle gravi conseguenze degli interventi: malattia infiammatoria pelvica, atrofia vaginale, incontinenza, problemi intestinali debilitanti, sanguinamento e dolore lancinante durante il sesso (“sensazione di vetro rotto”). Una parte della chat è dedicata all’emergente chirurgia per non-binary. Thomas Satterwhite, chirurgo plastico a San Francisco, dal 2014 ha operato decine di pazienti under 18. “Ho scoperto” dice “che sempre più pazienti richiedono procedure ‘non standard’ tipo una “chirurgia superiore non binaria”, mastectomia che elimina anche i capezzoli. L’obiettivo, spiega il claim di una clinica californiana, “è un corpo liscio e neutro, esteticamente privo di identificazione sessuale”. Su TikTok la tendenza si chiama “fronte piatto”. WPATH ha incluso il “de-gendering” nei suoi nuovi standard di “cura”: castrazione chimica o chirurgica per pazienti che si identificano come eunuchi, fenomeno con un suo lato fetish. Lo stesso documento ha approvato l’intervento chirurgico sperimentale “bi-genitale” che tenta di costruire un secondo set di organi sessuali. Nella chat si ammette perfino che alcuni giovanissimi pazienti hanno sviluppato tumori: si parla per esempio di una 16enne con cancro al fegato in seguito alla somministrazione di ormoni. Dopo la pubblicazione della chat interna il servizio sanitario nazionale britannico (NHS) si è affrettato a dichiarare che già da 5 anni ha preso le distanze dalle linee guida WPATH. In Italia invece ci andiamo ancora a nozze. Infotrans, portale istituzionale dedicato dell’Istituto Superiore di Sanità, fa riferimento agli “standard of care” WPATH; idem l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG); così la Società Italiana di Endocrinologia e le altre società scientifiche che hanno protestato contro l’ispezione ministeriale al servizio per minori con disforia al Careggi. EPATH, analogo europeo di WPATH, è stato fondato tra gli altri da Alessandra Fisher e tra i suoi membri c’è Jiska Ristori, le due mediche Careggi nell’occhio del ciclone; anche i pediatri italiani (SIP) fanno ampio riferimento alle linee guida WPATH in un position paper in via di pubblicazione sull’“Italian Journal of Pediatrics”. Sempre che lo pubblichino: la bomba è esplosa, non si può più far finta di niente. “I file del WPATH” è il commento di Michael Shellenberger, “dimostrano che la medicina di genere comprende esperimenti non regolamentati e pseudoscientifici su bambini, adolescenti e adulti vulnerabili. Sarà ricordato come uno dei peggiori scandali medici della storia”.

 [articolo uscito sul Foglio, 8 marzo 2024]




In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.




Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)




Nessuna zanzariera è gratis – Il mito dei lavoratori dipendenti che sono i soli a pagare le tasse in Italia

Le tasse in Italia sono uno dei più abituali argomenti di conversazione: al bar, sui giornali, tra conoscenti ed in famiglia si parla spesso di tasse, di pressione fiscale che risulta particolarmente gravosa e soffoca ogni iniziativa imprenditoriale, ma soprattutto di evasione fiscale, di chi paga le tasse e di chi invece non le paga.

A questo punto la conversazione assume di solito – come testimonia il recente caso della residenza di Jannik Sinner a Montecarlo – una connotazione moralistica: chi non paga le tasse viola il patto di convivenza sociale, e non contribuisce a finanziare la sanità, gli ospedali, la scuola, ecc..

Per carità, ci sono anche queste considerazioni, che sono condivisibili. Le tasse sono fatte apposta per consentire che l’Amministrazione possa rendere servizi pubblici essenziali e si realizzino le infrastrutture necessarie (strade, ponti, ospedali, ferrovie, ecc.).

Magari si potrebbe iniziare a ragionare un po’ più serenamente riguardo al perimetro delle cose che è necessario o semplicemente opportuno che vengano fatte dallo Stato: se siamo diventati la repubblica dei bonus, incluso quello per l’installazione delle zanzariere, probabilmente qualche problema ce l’abbiamo, considerato che nessuna zanzariera è gratis.

Fuori di metafora, e al di là delle contingenze del PNRR, pare evidente che il livello della spesa pubblica in Italia abbia raggiunto livelli ormai insostenibili. Quel che è poi certo è che, a fronte di una spesa pubblica debordante e di un’enorme mole di quattrini intermediati dalla mano pubblica, il livello dei servizi non è adeguato (e molto spesso non ci siamo neppure dotati di strumenti per verificare il grado di efficienza – in termini appunto di qualità delle prestazioni rese e/o delle infrastrutture realizzate – di quanto spendiamo).

Sotto una prospettiva solo parzialmente differente, poi, sarebbe forse il momento di mettere almeno in dubbio l’asserzione per cui il pubblico sarebbe in grado di investire e/o allocare le risorse a disposizione meglio dei privati e/o dei diretti interessati, rivalutando in qualche modo il concetto di mano invisibile di Adam Smith.

Ma tornando alle tasse, è evidente come la questione fiscale sia fondante del concetto stesso di comunità (no taxation without representation): esattamente come, quando tra amici si decide di uscire a mangiare una pizza, non è un dettaglio stabilire chi e come si paga.

E’ poi di dominio pubblico come nel nostro Paese il lavoro sia tassato in maniera particolarmente pesante: si tratta del cd. cuneo fiscale, di cui da decenni si invoca la riduzione, evidentemente con scarsi risultati.

In un’intervista di qualche tempo fa, Roberto Costa, il ristoratore genovese che ha aperto una catena di ristoranti a Londra (Macellaio RC), alla domanda se aveva intenzione di ritornare in Italia ha risposto che nel Regno Unito “il costo del personale è circa il 36%, in Italia tra tredicesime, quattordicesime e TFR, si arrivava al 110%”: in altre parole, mentre da noi quello che percepisce in busta paga un lavoratore è meno della metà del suo costo complessivo a carico del datore di lavoro, a Londra il netto corrisponde a circa i 3/4 del costo complessivo. Game, set, match, la partita finisce qui, il differenziale tra i due sistemi è troppo elevato, a queste condizioni in Italia non possiamo essere competitivi.

Se le cose stanno così – e purtroppo stanno così per davvero -, la principale preoccupazione della nostra classe dirigente dovrebbe essere quella di rimuovere il gigantesco ostacolo che rende oggettivamente poco remunerativo lavorare nel nostro Paese (dove non a caso sostanzialmente si vive di rendita, di impiego pubblico e di pensioni, per lo più pubbliche pure quelle).

Ed invece, con un ribaltamento francamente incomprensibile della realtà, disconoscendo le più elementari regole del mercato del lavoro e dell’economia tra cui la fondamentale differenza – sostanzialmente marxiana – tra lavoro produttivo ed improduttivo (il lavoro produttivo è quello dell’impresa privata, che crea ricchezza e valore; quello improduttivo è tipicamente quello della Pubblica Amministrazione, che fornisce servizi utilizzando il prelievo fiscale del primo in una logica redistributiva), da noi si ritiene che la questione non sia sgravare il lavoro di costi assolutamente eccessivi ed esorbitanti.

In Italia – bypassando il problema – si sostiene che gli unici che pagano le tasse sono i lavoratori dipendenti, mentre le imprese, i professionisti e i lavoratori autonomi sono una massa di evasori fiscali: per risolvere la questione basterebbe convincere questi lazzaroni a pagare le tasse, come fanno già i dipendenti.

In realtà, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), le tasse dei lavoratori dipendenti le pagano in realtà i lazzaroni di cui sopra, ovvero i loro datori di lavoro.

E questo perché il cd. cuneo fiscale è un onere che grava concretamente sul datore di lavoro, sia da un punto di vista sostanziale, rappresentando un vero e proprio costo, che da un punto di vista formale, operando il meccanismo del cd. sostituto di imposta (per cui il dipendente neppure sa quali e quante sono le sue ritenute, che vengono pagate direttamene dal suo principale all’Erario).

In soldoni (è proprio il caso di dirlo), io so benissimo quanto costa all’anno la mia bravissima segretaria, mentre lei sa solo quello che prende come netto.

Se possibile, per il dipendente pubblico, che lavora presso una P.A. (e/o un Ente e/o una società partecipata e/o controllata), la situazione è ancora più gravosa per il povero lazzarone che ha messo su un’azienda con il proprio lavoro, risultando a suo carico – pro-quota con tutti gli altri delinquenti titolari di un’impresa e/o professionisti e/o lavoratori autonomi – non solo gli oneri contributivi e previdenziali del pubblico impiegato, ma l’intero bilancio dell’Ente di appartenenza (che in questo caso è datore di lavoro solo formalmente, traendo le risorse necessarie dal prelievo fiscale posto a carico dei contribuenti).

In definitiva, vale anche con riferimento al problema delle tasse quello che diceva Winston Churchill riguardo alle imprese: “alcune persone vedono un’impresa privata come una tigre feroce da uccidere subito, altri come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante”.




Schiaffi, Sexting e libertà

Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.