Follemente corretto (21) – Polizia del pensiero

Per chi segue le vicende del politicamente corretto, gli Stati Uniti sono una insostituibile miniera di follie. Però, di norma, le follie si presentano una alla volta. Non così nella vicenda che il prof. Luigi Andrea Berto – italiano trapiantato in America, docente di storia alla Michigan University – ha voluto raccontare a Natalia Aspesi in una lettera alla rubrica “Questioni (non solo) di cuore”, sul Venerdì di Repubblica. Lui, di follie, ne ha dovute affrontare tre in un colpo solo.

Riassumo dalla sua lettera. Da una decina di anni, il prof. Berto tiene un corso generale sulla “storia del mondo occidentale fino al 1500”. Per far vedere ai propri allievi “come il passato possa essere deformato da idee contemporanee” si serve del celebre film 300 (del 2007), sulla battaglia delle Termopili (480 a.C.), in cui gli eroici trecento Spartani, guidati da Leonida, si immolarono nel tentativo di fermare l’esercito dei persiani, capeggiato da Serse.

Per dieci anni nessuna protesta, solo qualche mugugno da parte di studenti “troppo patriottici e conservatori”. Ultimamente, però, un paio di studentesse lo hanno accusato

presso l’amministrazione dell’università di far vedere cose inappropriate e “molestie sessuali”. E qui incontriamo la prima follia. Anziché offrire un supporto psicologico (e culturale!) alle due studentesse, evidentemente incapaci di prendere le distanze da un film-fumetto, viene portato sul banco degli accusati il docente, che peraltro usa il film per metterne in evidenza la parzialità e le distorsioni, non certo per sottoscriverne acriticamente i contenuti.

Ma non finisce qui. Nel frattempo, racconta il prof. Berto, “nell’ambito dell’operazione diversità e inclusione”, l’amministrazione dell’università inserisce nel nuovo contratto l’obbligo di fare un corso online su quei temi. Qui siamo alla seconda follia: obbligare i docenti a seguire un corso che non è di tipo funzionale (norme antincendio) o di tipo tecnico (uso di nuovi supporti didattici multimediali), o di tipo giuridico (diritti degli studenti e dei docenti), ma è di tipo politico-ideologico. Come testimonia la terza follia, ossia quel che succede alla fine del corso. Racconta il prof. Berto:

“Tra le lezioni del corso ve n’erano di varie sulle molestie sessuali. Alla fine delle lezioni si doveva fare un multiple choice quiz (quiz a crocette). Una domanda chiedeva se le accuse di molestie sessuali sono sempre vere. Se non si rispondeva sì, non si poteva proseguire nel corso e quindi si era licenziati perché non si era rispettato il contratto. Effetti collaterali del MeeToo?”.

Persino Natalia Aspesi, femminista e progressista da sempre, non riesce a nascondere il suo sconcerto: “l’obbligo del sì rivela tutta l’ipocrisia dell’iniziativa, perché si decide che le donne hanno sempre ragione”.

Il vero guaio, però, forse sta altrove. Il guaio è che quello delle molestie e di altri temi più o meno sensibili, è un argomento altamente controverso, come dimostra l’enorme spettro di opinioni e reazioni suscitate dal MeToo, anche all’interno del mondo femminile. E quando un tema è controverso, tutto si può fare tranne che obbligare studenti, professori, utenti, dipendenti pubblici e privati, a sottoporsi alle esternazioni di sedicenti esperti o educatori, e ancor meno obbligare i malcapitati discenti a sottoscrivere le idee e le credenze dei formatori, quasi sempre vestali arciconvinte dell’ortodossia woke.

Quando ciò avviene, non vuol dire che le istituzioni sono finalmente diventate sensibili a un problema, ma che stanno facendo nascere una polizia del pensiero, con le sue guardie rosse e il suo libretto di pensieri giusti. Non di rado, con l’assenso tacito dei meglio intenzionati fra noi.




Follemente corretto (19) – La generazione fiocco di neve

Forse qualcuno ricorderà che l’anno scorso, in vista del Natale, la Commissione Europea aveva preparato una sorta di vademecum, ad uso interno, con un minuzioso elenco di raccomandazioni linguistiche. Fra di esse, insieme a un nugolo di consigli curiosi, spiccava l’invito a non usare espressioni come le “vacanze di Natale”, perché non tutti in Europa sono cristiani. Il documento era così mal concepito che venne ritirato, in attesa di una versione più sensata (di cui per ora non c’è traccia).

A riempire il vuoto di linee guida quest’anno ha provveduto l’università inglese di Brighton che – più o meno con le stesse motivazioni – ha consigliato a studenti, professori e personale di non parlare di Natale ma di “periodo di chiusura invernale”. E in Italia?

Anche in questo campo siamo all’avanguardia, specie nelle scuole. Da noi gli episodi di soppressione del presepe, cancellazione di recite natalizie, alterazione dei testi delle canzoni (Perù al posto di Gesù), si susseguono da anni, anche se – fortunatamente – toccano poche scuole, e sono promossi da pochi insegnanti iper-ideologizzati. Le motivazioni sono sempre le stesse, in Italia come nel resto di Europa: non offendere gli islamici, far sì che tutti “si sentano al sicuro, apprezzati e rispettati”.

Qui non ho la minima intenzione di entrare nella controversia fra difensori delle nostre radici cristiane e laici intransigenti. Ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è una questione di natura fattuale: siamo sicuri che i musulmani si offendano?

A giudicare dalle innumerevoli prese di posizione pro-presepe delle famiglie e delle associazioni di fede musulmana direi proprio di no. E del resto esiste una controprova: nessun europeo sano di mente si indigna, si offende o si turba se – visitando un paese a maggioranza musulmana – incorre in simboli, riti o celebrazioni di quel credo. Semplicemente prende atto che, in quel paese, la maggioranza aderisce a una religione diversa da quella prevalente in Europa. O vogliamo essere così etnocentrici, presuntuosi, e pure un po’ razzisti, da pensare che i non-europei siano incapaci di fare quel che con grande naturalezza facciamo noi, ovvero accettare che ogni popolo ha le sue tradizioni e tutto il diritto di seguirle?

Ed ecco che, allora, dobbiamo cambiare la domanda: perché, nelle nostre raccomandazioni, presumiamo che i musulmani possano offendersi, turbarsi, o non sentirsi al sicuro?

Per capirlo, dobbiamo cambiare completamente ambito, e occuparci di quel che, da una ventina d’anni, sta capitando nella scuola e nella famiglia. Ebbene, secondo un’imponente letteratura sociologica e soprattutto psicologica il fenomeno emergente  del nuovo millennio, in America come in Europa, è l’affacciarsi di una generazione di ragazze e ragazzi profondamente toccati da insicurezza, dipendenza (non solo da internet), narcisismo, fragilità emotiva, suscettibilità, scarsa resilienza, incapacità di sostenere opinioni difformi dalle proprie. Generazione che, a sua volta, è il frutto di una generazione di genitori individualisti, iperprotettivi, iperindulgenti, sostanzialmente incapaci di educare. Il fenomeno è talmente vistoso che ha dato luogo a tutta una terminologia, per lo più negativa, per descrivere genitori e figli: helicopter parenting (genitori-elicottero, iperprotettivi), i-generation (generazione internet), snowflake generation (generazione fiocchi di neve), nation of wimps (nazione di imbranati).

Ed ecco la risposta alla nostra domanda: se i funzionari europei presumono che i musulmani possano risentirsi per un presepe o per un augurio di Natale è solo perché proiettano su di loro le nostre fragilità e turbe ideologiche. Nel medesimo documento che invita a chiamare il Natale “periodo di chiusura invernale”, compaiono raccomandazioni come: non parlare di colonizzazione di Marte (perché evoca il passato coloniale?), non parlare di insediamenti umani su Marte (perché vengono in mente gli insediamenti israeliani in Palestina?), non parlare della coppia Maria e Giovanni (troppo cristiano, meglio Malika e Julio), non dire “il ministro e la moglie” (meglio “la partner”, anche se è sua moglie). Ma, soprattutto, compare questo surreale invito: “evitare un linguaggio che suggerisca che essere più vecchi sia uno stato non desiderabile”.

No, cari eurocrati, credete a me che ho 72 anni: essere più vecchi è peggio che essere più giovani, e fingere che sia desiderabile – questo sì – è poco rispettoso, non tanto di noi ma dell’intelligenza di tutti.




Follemente corretto (20) – La wokeness contro la musica

La politica, l’ideologia e il politicamente corretto inquinano tutto, dalla stampa alla Tv, dalla letteratura alle scienze. Però non tutti gli ambiti sono ugualmente attaccabili. Ci sono ambiti ultra-permeabili, come il giornalismo, la letteratura, le scienze sociali, e ambiti quasi impenetrabili, come la fisica e la matematica.

E la ragione è semplice: tutto dipende dal grado di neutralità intrinseca di ogni ambito culturale. Se scrivi un romanzo, le tue preferenze e i tuoi valori contano molto, quindi può avere senso (almeno per i fanatici) chiedersi quanto un dato testo è politicamente corretto. Ma se dimostri un teorema, o scopri una nuova legge fisica, chiedersi quanto quel teorema o quella legge siano politicamente corretti è semplicemente illogico (anche se qualche fanatico ci prova).

E’ per questo che il politicamente corretto è particolarmente invasivo in ambiti come l’informazione, il cinema, le discipline umanistiche, la letteratura, l’opera, e persino la mitologia e le arti figurative.

Si potrebbe supporre che, oltre alla matematica e alla fisica, lo scudo delle neutralità protegga anche la musica. Dopotutto, una sequenza di note non è più politica di una sequenza di simboli matematici.

E invece no. Negli ultimi anni, anche a seguito dell’esplosione del movimento Black Lives Matter, la scure del politicamente corretto si è abbattuta anche nel mondo della musica. E lo ha fatto non solo là dove al testo musicale si accompagnano delle parole (come nelle canzoni o nell’opera lirica), ma dove la musica è per così dire muta: pura sequenza di note, senza parole né canto. Per il teorico (nero) della musica Philip Ewell la musica classica è razzista e discriminatoria per il fatto stesso di essere basata su un ordine rigoroso e gerarchie armoniche.

Gli attacchi alla musica si possono utilmente ordinare lungo una scala di assurdità. Un testo musicale può cadere sotto gli strali del fanatismo woke per almeno 5 motivi, via via più demenziali.

Livello di demenzialità Motivazione della censura Oggetto della censura (esempi)
1 Il titolo del brano contiene la parola negro Le petit nègre, di Claude Debussy
2 Il compositore è nazista Richard Wagner (razzista e antisemita, ma morto prima che Hitler fosse nato)
3 Il compositore piaceva ai nazisti Beethoven, Schubert,  Bach, Haydn, Schubert, Wagner
4 Il compositore è europeo, quindi “è stato sostenuto dalla bianchezza (whiteness) e dalla mascolinità per duecento anni”.

La sua musica “rafforza il dominio dei maschi bianchi e sopprime le voci delle donne, dei neri e della comunità Lgbtq”

Compositori europei

 

In particolare: Beethoven,

Quinta sinfonia

5 Il compositore è affetto da “bianchezza”, quindi colpevole di razzismo Praticamente tutti i compositori e musicisti occidentali

La censura di opere e autori non è tutto, però. Accanto ad essa proliferano anche altre pratiche. Ad esempio quella di scusarsi di essere bianchi da parte di dirigenti di grandi istituzioni musicali, come il presidente della Los Angeles Opera (Christopher Koelsch), o il capo della League of American Orchestra (Simon Woods), a quanto pare convinti che la whiteness sia una colpa. O il licenziamento di chi resiste alle intimidazioni dei censori (è successo a Dona Vaughn, direttrice dell’opera alla Manhattan School of Music).

Ma le pratiche più inquietanti sono quelle con cui si pretende di aumentare la presenza di musicisti neri nelle orchestre americane, da sempre molto sbilanciate a favore dei bianchi. Peccato che il rimedio usato – impedire ai giudici di vedere i musicisti, per evitare favoritismi pro-bianchi e discriminazioni – si sia rivelato un boomerang: il “daltonismo” dei giudici nelle “audizioni alla cieca” finiva per premiare il merito, non la razza. Ora è considerato discriminatorio.




Bonaccini e Schlein non rispondono al nostro Questionario, Calenda si

Mentre continuiamo ad attendere quelle dei quattro candidati alla Segreteria del PD, Carlo Calenda ci invia le sue di risposte.

Le trovare di seguito segnate in rosso.

 

MERCATO DEL LAVORO

1          Che cosa pensa dei voucher?

□ rischiano di far aumentare la precarietà

□ possono agevolare la emersione del lavoro nero

2          Che cosa pensa del salario minimo legale?

□ sono contrario, meglio affidarsi alla contrattazione sindacale

□ sono favorevole a un salario minimo legale nazionale di (almeno) 9 euro l’ora

□ sono favorevole a un salario minimo legale, ma differenziato per settore produttivo e

    costo della vita del territorio

IMMIGRAZIONE, CRIMINALITA’, ORDINE PUBBLICO

3          Secondo lei la concorrenza degli immigrati contribuisce a tenere bassi i salari degli italiani?

□ sì

□ no

4          Se dovesse scegliere il ministro dell’interno, quale fra questi ministri del passato  preferirebbe?

□ Minniti

□ Lamorgese

5          Come vede il rapporto fra criminalità e immigrazione?

□ non ci sono differenze apprezzabili fra italiani e stranieri

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli italiani benestanti

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli abitanti delle periferie

ECONOMIA E POLITICHE SOCIALI

6          Supponga di avere 10 miliardi a disposizione, e di dover scegliere una e una soltanto fra tre destinazioni. Quale sceglierebbe?

□  sgravi fiscali su tutte le famiglie

□  sgravi fiscali su tutte le imprese

□  sgravi fiscali solo sulle imprese che aumentano l’occupazione

7          Pensa che, in questa fase, sarebbe utile per l’Italia varare un’imposta patrimoniale una tantum sui ceti alti e medio-alti?

□ sì

□ no

SCUOLA

8          Si parla talora della possibilità di introdurre borse di studio per consentire agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi. Lei come giudica questo tipo di misura?

□ positivamente, perché il merito va promosso e premiato

□ negativamente, perché escluderebbe gli studenti privi di mezzi ma in difficoltà con gli studi

9          Che cosa pensa dei telefonini in classe?

□ sono da vietare, salvo il caso in cui l’insegnante li ritenga indispensabili a fini didattici

□ sono utili, non andrebbero vietati

10        In via generale, lei pensa che sarebbe giusto o sbagliato legare una parte della retribuzione degli insegnanti a una valutazione del merito?

□ giusto

□ sbagliato

11        Talora si parla della possibilità di dare ai presidi il potere di confermare i supplenti che hanno ben operato, indipendentemente dalle graduatorie.

Lei come giudica questa possibilità:

□ positivamente

□ negativamente

DIRITTI CIVILI

12        In materia di lotta alle discriminazioni lei riproporrebbe il ddl Zan?

□ sì, lo riproporrei tale e quale

□ preferirei una versione meno radicale

13        Lei è favorevole o contrario a legalizzare la gestazione per altri?

□ favorevole

□ favorevole, ma solo nei casi in cui la gestazione è gratuita

□ contrario in ogni caso

14        E’ favorevole o contrario al cosiddetto self-id (completa libertà di cambiare genere, sulla base di una auto-dichiarazione)?

□ favorevole

□ contrario

15        E’ favorevole o contrario alla liberalizzazione delle droghe leggere?

□ favorevole

□ contrario

ECOLOGIA E AMBIENTE

16        Se lei fosse attualmente al governo, appoggerebbe la direttiva europea che impone l’adeguamento entro il 1° gennaio 2030 delle case con classi energetiche F e G?

□ la appoggerei

□ cercherei di rimodularla, dando molto più tempo per l’adeguamento

17        Lei è favorevole o contrario alle trivellazioni in Adriatico per ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero?

□ favorevole

□ contrario

18        Quale è il suo giudizio sugli episodi di imbrattamento dei muri e delle opere d’arte nei musei in nome dell’ambiente?

□ prevalentemente positivo

□ prevalentemente negativo




Astensioni e delusioni

Trascorso qualche giorno dalle considerazioni sorprese dei commentatori e dalle spiegazioni a caldo del fenomeno del deciso incremento dell’astensionismo, il tema è un po’ evaporato, come accade troppo sovente nel nostro paese. Possiamo e dobbiamo invece tornare a parlarne ora in maniera forse meno emotiva e più razionale, cercando di identificarne le cause più profonde, quanto meno in Italia, senza peraltro dimenticare che questa tendenza si manifesta a volte ancora più evidente in molte delle altre democrazie occidentali.

 I dati di fatto sono presto riassunti: nel Lazio e in Lombardia hanno votato alle ultime regionali tre milioni di persone in meno rispetto alle elezioni politiche di settembre, già demarcate da un forte calo di votanti rispetto alle politiche precedenti (un ulteriore milione in meno nelle due regioni), e la stessa lista di Fratelli d’Italia, ilpartito certamente vincitore anche di questa tornata, ha lasciato a casa un milione di voti in poco più di quattro mesi.

Questi dati non paiono casuali, come forse poteva essere giudicato il tracollo della partecipazione in Emilia-Romagna nel 2014, quando votò soltanto poco più del 37% degli aventi diritto, un po’ come nel Lazio di quest’anno. Cinque anni più tardi, così come cinque anni prima, la l’affluenza registrava infatti valori prossimi al 70%. Quella sorta di indicente di percorso, in una regione peraltro dove il turnout è costantemente tra i primi del paese, non fu mai chiaramente analizzato, ma è probabile fosse dovuto ad un improvviso disinteresse per una consultazione il cui risultato non era mai stato messo in dubbio, in un periodo in cui il Pd per una volta nella sua storia stava vivendo un momento di grandissimo consenso elettorale ed aveva appena trionfato, con Renzi, alle recenti Europee.

Oggi il deficit di partecipazione non pare in alcun modo casuale, o legato a circostanze contingenti, e ha bisogno di una spiegazione esaustiva; le sue cause possono essere ricondotte ad almeno cinque elementi.

Per prima cosa occorre sottolineare il fatto che il dato sull’astensionismo alle amministrative è gonfiato daun particolare tecnico: nelle elezioni regionali, come pure in quelle comunali, fanno parte del corpo elettorale diriferimento anche tutti coloro che sono residenti all’estero, cosa che non accade né alle politiche né alle europee, quando sono invece scorporati perché possono votare all’estero. Alle ultime politiche, ad esempio, gli elettori lombardi che non vivono in Italia erano mezzo milione in meno di quelli delle regionali: aumentando la “base” di riferimento per il calcolo degli astenuti, è ovvio che questi ultimi sembrino di più, alle amministrative. Il dato “vero” del voto sarebbe dunque del 45% in Lombardia e del 41% nel Lazio, circa 4 punti in più di quello che appare. Pur con questo caveat, è peraltro indubbia la sua significativa decrescita.

Un secondo elemento importante da sottolineare è che questo tipo di processo è un processo che sostanzialmente va avanti da almeno 10-12 anni; ultimamente si è certo un po’ accresciuto, anche rispetto alle politiche, ma nella realtà il fenomeno dell’astensionismo in Italia, che si sta in qualche modo avvicinando al fenomeno che si verifica anche nel resto delle democrazie occidentali, risale probabilmente al 2012-2013, gli anni cioè dell’avvento del Movimento 5 stelle. Questa nuova forza politica sia nel 2013 che nel 2018 ha drenato una quota consistente di potenziale astensionisti col suo messaggio palesemente anticasta,antipolitica e contro i partiti tradizionali (“apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”): i 5 stelle presero il 25% nel 2013 e addirittura il 33% nel 2018, e molto probabilmente una loro quota significativa,almeno la metà, si sarebbe astenuta in mancanza della presenza del movimento di Grillo.

Nella cosiddetta prima Repubblica l’astensionismo era bassissimo, come si sa, perché il voto era legato soprattutto ad appartenenze subculturali (cattoliche o socialcomunista) e quindi ovviamente il voto diventava proprio una sorta di manifesto di appartenenza a una delle due culture prevalenti; nella seconda Repubblica la crescita di astensionismo è stata limitata da quella che ho chiamato “fedeltà leggera”, la manifestazione elettorale pro o contro Berlusconi, non più una cosa di anima ma di testa, di opinione. Con il tramonto politico di Berlusconi, dal 2011 in poi, non ci sono più né vecchie appartenenze né una certa polarizzazione berlusconiana o anti-berlusconiana; nel contempo, sempre più forte e presente si manifesta il distacco tra cittadini e politica e i suoi rappresentanti: i politici hanno come noto un indice di gradimento intorno al 15- 20%; esaurito l’innamoramento per i 5 stelle, vissuti ormai come parte del sistema che prima criticavano, l’alterità nei confronti del mondo politico si incarna nel rifiuto, nell’astensione.

La scelta di recarsi alle urne, in qualche modo, potrebbe essere vista come una sorta di scelta più matura,non più condizionata da fattori esterni, ma legata soprattutto alla propria vicinanza alle idee politiche di questo o quel partito. Per inciso, una scelta che in questo periodo favorisce maggiormente il centro-destra, i cui elettori sono oggi più interessati al voto, ma che fino a pochi anni fa favoriva al contrario il centro-sinistra.

Ma esistono infine gli ultimi tre fattori che hanno condizionato la scarsa affluenza. Il terzo elemento è paradossalmente legato ad una ritrovata fiducia nel mondo demoscopico: ultimamente i sondaggi ci azzeccano abbastanza nelle loro stime di comportamento di voto, e gli elettori “sanno” già quale sarà lo scenario principale che uscirà dalle urne; un risultato già scontato, come la vittoria delle destre alle politiche e ancor più nelle regionali, ha probabilmente dissuaso una parte significativa della popolazione elettorale dall’andare a votare.

Inoltre, un’offerta politica priva di figure di grande appeal, come in parte poteva essere stata la stessa Meloni alle politiche, non è riuscita a dare stimoli ad un elettorato che, lo sappiamo, è oggi molto più sensibile alle figure dei leader che non a quella dei partiti.

Infine, last but not least, è esistito soprattutto in quest’ultima tornata regionale un vero problema di informazione e comunicazione dell’evento elettorale, un po’ da tutti gli attori legati al rinnovo delle amministrazioni di Lazio e Lombardia, che già di per sé non suscita un interesse spasmodico. Una mancanza informativa da una parte e di specifico interesse dall’altra che può venir facilmente riassunta in questo episodio, piccolo ma simbolicamente significativo, vissuto da me in prima persona: due giorni prima del voto, mia lezione a Scienze Politiche (non Numismatica!), a Milano, al biennio magistrale. Chiedo ai miei studenti: andate a votare domenica? Risposta prevalente: perché, prof, per cosa si vota…? Ecco.

Per finire, e se consideriamo quello che accade negli altri paesi europei, soprattutto al Nord, vediamo che anche lì spesso si assiste ad un astensionismo intorno al 50% se non di più, in alcune occasioni soprattutto quelle più amministrative: pare dunque questa una tendenza che accomuna ormai l’Italia al resto d’Europa. Mail vero problema è che effettivamente mentre negli altri paesi a volte non si vota perché si ha fiducia comunque in entrambe le parti politiche (penso alla Svezia, o alla Danimarca: chiunque vinca so che amministrerà responsabilmente), forse in Italia si vota meno proprio perché si ritiene che le parti politiche siano sempre meno degne di fiducia. Ecco, questo forse è qualcosa che dovrebbe dare qualche preoccupazione in più.