Pax trumpiana? Cosa è successo davvero e cosa succederà

Rimessa brutalmente davanti a una realtà che si sforzava di non guardare dai metodi rozzi ma efficaci di Trump, l’Europa, ancora una volta, si è fatta trovare completamente impreparata. Stavolta, però, dopo una prima fase di totale disorientamento, stanno finalmente emergendo alcuni segnali di un approccio più realista e responsabile, che potrebbe davvero rilanciare il progetto europeo, in crisi da oltre vent’anni. Grazie anzitutto a Zelensky, l’unico vero leader che abbia oggi l’Europa. Quanto alla guerra in Ucraina, invece, il vero rischio non è che Trump abbia un piano per imporre una pace ingiusta, ma piuttosto che non abbia nessun piano, eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.

 La diplomazia è sempre stata brutta, sporca e cattiva

Spero che mi perdonerete se, essendo sempre stato contrario a ogni trattativa con Putin (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-7-il-fallimento-degli-esperti-di-guerra-parte-prima-ucraina/), di fronte a quello che sta succedendo in questi giorni la mia prima reazione è una certa maligna soddisfazione, del tipo: «Volevate le trattative di pace? Beh, ora le avete. Godetevele!»

Questa, però, è molto più di una battuta. L’invasione dell’Ucraina ha dimostrato quanto la lunghissima pace di cui l’Europa ha goduto dopo la Seconda Guerra Mondiale, pur in sé invidiabile, ci ha fatto del tutto perdere la capacità di comprendere che cosa sia realmente la guerra. Questo avvio delle trattative di pace sta dimostrando come abbiamo perso del tutto anche la capacità di comprendere che cosa sia realmente la diplomazia.

Per decenni, infatti, le trattative diplomatiche che ci hanno riguardato direttamente sono state per lo più su cose come le quote latte o le concessioni balneari. Perfino quelle più serie riguardavano al massimo il cambio tra le vecchie monete nazionali e l’euro, l’auto elettrica o le misure anti-inflazione. Tutte cose importanti, sia chiaro, ma lontane anni luce da una trattativa in cui sono in gioco la vita e la morte, sia dei singoli che di interi popoli.

Così ci siamo illusi che per risolvere qualsiasi problema basti “sederci tutti intorno a un tavolo”, espressione grondante insopportabile retorica come poche altre, eppure costantemente ripetuta da tutti gli intellettuali e i leader politici occidentali, in maniera perfettamente bipartisan (anzi, multipartisan).

Solo così si spiegano i giudizi che abbiamo ascoltato su ciò che è accaduto in questa prima fase delle trattative sulla guerra in Ucraina, tutti quantomeno stralunati, quando non completamente infondati, soprattutto per l’affermazione, condivisa praticamente da tutti, per cui non si sarebbe mai visto niente di simile.

La realtà, invece, è che noi non avevamo mai visto niente di simile. Ma, a parte questo periodo di pace di durata anomala e senza precedenti di cui abbiamo goduto negli ultimi 77 anni, la diplomazia, dietro la cerimoniosa facciata di lustrini e salamelecchi di cui ama adornarsi, è sempre stata brutta, sporca e cattiva, alternando momenti di discussione razionale a insulti, menzogne, minacce, ricatti, intimidazioni, sceneggiate di ogni genere e perfino atti di vera e propria violenza. L’unica differenza è che prima tutto questo non lo vedevamo in diretta TV.

Del resto, basta guardare a ciò che è successo in Medio Oriente, dove le trattative sono sempre proseguite in parallelo alla guerra, sia con Hamas che con Hezbollah, con appunto tutto il suddetto corredo di sgradevolezze e oscenità assortire, fino addirittura al reciproco tentativo di assassinio dei rispettivi leader (fallito da parte degli Hezbollah, riuscitissimo invece da parte di Israele).

Ora, questa mancanza di familiarità con la vera diplomazia e la sua connaturale brutalità, sommata all’anti-trumpismo ideologico quasi unanimemente condiviso dagli intellettuali europei (e a una incomprensibile quanto diffusa sottovalutazione di Zelensky), ha portato a dare una descrizione gravemente deformata di ciò che è accaduto nelle ultime settimane, soprattutto dell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Zelensky.

Trump va preso sul serio, ma non alla lettera

Anzitutto, cerchiamo di capire una buona volta come ragiona Donald Trump. Perché sì, so che la cosa vi sconvolgerà, ma Trump ragiona. Solo che ragiona come un affarista americano, cioè secondo la logica più aliena che si possa immaginare per i raffinati intellettuali europei, che lo accusano di voler trasformare le relazioni fra gli Stati da una rete di civili rapporti governati dal diritto internazionale in un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte.

Ma le relazioni fra gli Stati sono sempre state un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte. Al contrario, il diritto internazionale, mancando un’autorità superiore in grado di imporlo a tutti, è sostanzialmente una finzione (Marx direbbe: una sovrastruttura), che regge finché alle parti in causa conviene, ma crolla come un castello di carte appena non gli conviene più.

Incapaci di comprendere e/o accettare questa sgradevole ma elementare verità, a cui Trump ci ha rimessi brutalmente di fronte, ma che non ha certo inventato lui, i nostri intellettuali, non trovando di meglio, si sono messi ad accusarlo in coro di essere un bullo, dimostrando così di non capire non solo chi è Trump, ma nemmeno chi è un bullo.

I bulli, infatti, sono dei deboli, che, anziché affrontare le proprie frustrazioni, preferiscono cercare compensazioni maltrattando gli altri per dimostrare a tutti (innanzitutto a sé stessi) di essere forti. Per questo è appropriata la definizione di “bullismo etico” coniata da Ricolfi per i fanatici del politically correct, il cui vero fine non è aiutare i veri o presunti discriminati, ma umiliare chi non la pensa come loro, in modo da poter provare la gratificante sensazione di essere sempre “dal lato giusto della storia”, come ha detto di sé stesso a Trump il segretario generale dell’ONU António Guterres (lui sì un frustrato perennemente in cerca di compensazioni: cioè, appunto, un bullo).

Ora, Trump non è affatto così. Lui non è un frustrato, ma un presuntuoso, sinceramente convinto di essere più intelligente e soprattutto più “tosto” di chiunque altro. Non ha, come i bulli, un complesso di inferiorità, ma piuttosto un (abnorme) complesso di superiorità.

È vero che ciò lo rende arrogante e prepotente, il che a prima vista può farlo apparire un bullo. Ma le sue minacce e i suoi insulti non hanno lo scopo di umiliare l’avversario, bensì di indurlo a più miti consigli. Insomma, si tratta, almeno nella sua testa, di una tattica negoziale (d’altronde da lui esplicitamente enunciata), per cui l’America non dovrebbe usare la sua pistola sui campi di battaglia, ma piuttosto sui tavoli delle trattative, gettandola sul piatto della bilancia per farla pendere a proprio favore, come fece Brenno duemila anni fa con la sua spada.

In fondo non è altro che la ben nota tattica del bastone e della carota, che, per quanto trita e ritrita, resta ancora la più efficace nelle trattative (è stato anche dimostrato dal celebre programma informatico Tit for tat, basato sulla teoria dei giochi). Certo, la sua versione “trumpizzata” è particolarmente brutale e volgare, ma questo, come ha dimostrato un recente studio, la rende indigesta soltanto agli ipersensibili europei, mentre nel resto del mondo non ne sono particolarmente impressionati, perché cose simili e anche peggiori fuori dall’Europa avvengono in continuazione.

Quello che invece è davvero caratteristico di Trump – e solo di Trump – è il fatto che lui tende a dare dimensioni abnormi sia alla carota che al bastone (invero soprattutto a quest’ultimo…). In un negoziato è normale chiedere 10 per ottenere 5 (o 4 o 6, a seconda di come va). Ciò che è peculiare di Trump è che spesso non inizia chiedendo 10, ma 20, 30 o perfino 100, sperando così di ottenere non 5 o 6, ma 8 o 9. Per questo, come disse la politologa americana Claudia Brühwiler all’indomani della vittoria di Trump e come ripete sempre Claudio Pagliara, l’inviato del TG2 a Washington, «Trump va preso sul serio, ma non alla lettera».

Ora, questa non è una tattica che tutti possano permettersi di usare. Ma, se messa in atto dal Presidente degli Stati Uniti, ha delle buone probabilità di funzionare, perché pochi sono disposti a prendersi il rischio di andare a “vedere” il bluff della prima superpotenza mondiale.

Per esempio, davanti alla minaccia di riprendersi con la forza il Canale di Panama, che ha suscitato gli unanimi strilli di indignazione e sarcasmo da parte di tutti i benpensanti del mondo “civile”, per quanto improbabile fosse che Trump lo facesse davvero, Panama ha preferito non rischiare. Prima è uscita dalla Nuova Via della Seta (il progetto di rete commerciale globale con cui la Cina sta cercando di colonizzare il mondo, il cui più entusiasta sostenitore in Italia è da sempre Romano Prodi) e poi ha permesso a un consorzio americano (con anche una partecipazione italiana) di comprare le società che controllano i due porti alle estremità del Canale. Così, nel giro di poco più di un mese dal suo insediamento, Trump l’ha strappato alla Cina, riportandolo sotto il controllo degli USA, proprio come aveva promesso (cosa di cui, fra parentesi, dovremmo tutti rallegrarci, perché la Cina, anche se ci ostiniamo a dimenticarcene, è retta da una feroce dittatura che ambisce a dominarci tutti).

Anche con la Groenlandia Trump seguirà una strada simile, che già in parte si intravede. Di sicuro non se la prenderà con la forza, ma cercherà con minacce e promesse di rafforzare la posizione degli indipendentisti, per poi proporre un trattato di alleanza, di cui una Groenlandia indipendente avrebbe bisogno come il pane. Infatti, un paese grande oltre un quinto degli USA ma con poco più di 50.000 abitanti non può certo fare da solo, né per sfruttare le proprie immense risorse naturali, né per difendersi dagli appetiti di altre potenze, che, diversamente dagli USA, le armi potrebbero usarle davvero.

Anche i dazi, almeno fin qui, sono stati usati da Trump essenzialmente come strumento di pressione. Per esempio, li ha minacciati per indurre la riluttante Colombia a riprendersi i clandestini: in due giorni la Colombia ha ceduto e Trump non ha messo i dazi. Ora vedremo cosa succederà con gli altri paesi, tra cui l’Italia, ma anche qui sembra che ci siano ampi margini di trattativa (alcuni sono già stati sospesi, in attesa, appunto, di trattare), anche se gli anti-Trump nostrani già da mesi stanno parlando come se i dazi fossero già in vigore e le nostre economie stessero colando a picco.

Il problema di questa strategia è che, se l’interlocutore non si lascia intimidire, il bluff viene scoperto e la minaccia si rivela inattuabile. E non c’è niente di peggio che minacciare a vuoto.

Ora, questo è esattamente ciò che rischia di accadere con la guerra in Ucraina.

Che cosa è veramente successo finora?

Secondo la narrazione corrente, le trattative di pace si sarebbero fin qui svolte come segue:

  • Trump ha iniziato a trattare direttamente con Putin (in realtà ha incontrato solo alcuni suoi tirapiedi, che, come sappiamo, non contano nulla), fino al punto di avere già deciso, nel giro di pochi giorni, non solo il nuovo assetto dell’Ucraina, ma addirittura quello del mondo intero, escludendo dai negoziati non solo il povero Zelensky, proprio come aveva annunciato (in realtà non l’ha mai fatto), ma tutti gli altri paesi, come se contasse solo quello che dicono lui e Putin (benché, ripeto, nemmeno si siano ancora parlati).
  • Durante le trattative Trump ha affermato che anche l’Ucraina dovrà fare delle concessioni, il che è stato subito bollato come un’inaccettabile prevaricazione, perché incompatibile con una pace giusta. Ora, ciò è senz’altro vero: e proprio per questo io sono contrario a trattare con Putin. Ma se invece uno vuole trattare, allora fargli delle concessioni è inevitabile, se no che trattativa è? Inoltre, Trump qualche settimana prima aveva detto anche a Putin che avrebbe dovuto fare delle concessioni, aggiungendo che, se non avesse accettato, avrebbe «scatenato l’inferno» contro di lui (e questo subito dopo aver lanciato lo stesso ammonimento ad Hamas, il che dava alla frase un tono assai minaccioso, perché contro Hamas Trump intende davvero scatenare l’inferno).
  • Quando Zelensky ha protestato per non essere stato invitato a Riad, Trump l’ha pesantemente insultato, dandogli del «dittatore», accusandolo di «avere iniziato la guerra» e dicendogli che «non serve che partecipi alle trattative di pace». Questo è vero ed è vergognoso, ma è anche vero che Trump si è rimangiato tutto nel giro di una settimana, invitando il “dittatore” Zelensky alla Casa Bianca.
  • Trump avrebbe quindi imposto a Zelensky il famoso accordo sui 500 miliardi di dollari in terre rare, che sarebbe un atto “colonialistico” e una “mercificazione” dei rapporti tra le nazioni (che in realtà sono sempre stati basati essenzialmente su accordi commerciali, anche se i nostri raffinati intellettuali sembrano ignorarlo). È vero che inizialmente l’accordo era inaccettabile, perché Trump voleva i minerali gratis, come “restituzione” dei soldi presuntamente “prestati” dagli USA all’Ucraina sotto forma di aiuti militari e umanitari, che oltretutto erano molti meno. Ma, come ormai dovremmo aver capito, quella era solo la “sparata” iniziale, che in una sola settimana si era già trasformata in un assai più ragionevole accordo di partnership, che oltretutto aiuterebbe a garantire la sicurezza dell’Ucraina molto più di qualsiasi generica dichiarazione di principio. Infatti, nel momento in cui in tutto il paese ci fossero imprese americane impegnate nell’estrazione di minerali di alto valore strategico, gli USA non potrebbero certo tollerare una nuova invasione russa.
  • Quindi Zelensky è andato alla Casa Bianca per firmare l’accordo (incontrando così Trump prima di Putin, anche se nessuno l’ha sottolineato), ma Trump gli avrebbe teso una trappola, in modo da avere il pretesto per cacciarlo via e poi minacciare la sospensione degli aiuti militari (benché non si capisca a che scopo e, soprattutto, perché mai avrebbe dovuto farlo prima di firmare l’accordo sulle terre rare, a cui teneva tanto).
  • A questo punto, il “povero” Zelensky, resosi improvvisamente conto che ciò lo avrebbe condotto “inevitabilmente” alla sconfitta (come se prima non ci avesse mai pensato), non avrebbe ormai altra scelta che “sottomettersi” a Trump e accettare le condizioni che “inevitabilmente” questi gli imporrà e che saranno “inevitabilmente” favorevoli al suo “amico” Putin.

Come si vede, il filo conduttore di questa stralunata narrazione è da una parte la (del tutto immaginaria) onnipotenza di Trump e dall’altra la (altrettanto immaginaria) impotenza di Zelensky, descritto come un poveretto in balia degli eventi, incapace non solo di resistere alle pressioni trumpiane, ma anche solo di capire cosa gli sta succedendo intorno. Mentre, come vado ripetendo da sempre, è invece l’unico vero leader che abbia oggi l’Occidente, non solo molto coraggioso, ma anche molto intelligente e molto furbo (che non è la stessa cosa e non necessariamente va insieme all’intelligenza).

La cosa più paradossale è che questa narrazione è condivisa, benché per opposte ragioni, sia dai filo-Trump che dagli anti-Trump: i primi perché pensano che sia la verità, i secondi perché questa narrazione serve a rendere credibile la tesi della “mostruosità” di Trump (infatti, un super-cattivo senza super-poteri fa ridere). A volte sembra addirittura che, almeno inconsciamente, gli anti-Trump desiderino l’umiliazione di Zelensky e la sconfitta dell’Ucraina, solo per il gusto di dimostrare che Trump è davvero il mostro che dicono. Ma la realtà è ben diversa.

Anche se l’unico che sembra essersene reso conto è il “solito” Federico Rampini (uno degli ormai pochissimi commentatori che non presume di aver capito la realtà ancor prima di guardarla), se nell’incontro alla Casa Bianca qualcuno ha teso una trappola a qualcun’altro, questi è stato Zelensky, che ha sfruttato la straordinaria ribalta che il Presidente americano (piuttosto ingenuamente) gli ha offerto per metterlo all’angolo e lasciarlo con in mano il classico cerino acceso.

Cosa avrebbe dovuto infatti fare Trump, che si presentava come mediatore tra due parti in conflitto, dopo che il leader di una delle due parti suddette, Zelensky, gli aveva detto in faccia, in diretta televisiva mondiale dal cuore del suo impero, che il leader dell’altra parte, Putin, è un killer psicopatico di cui non ci si può assolutamente fidare e che loro due insieme devono fermarlo?

E badate che questo, come ha fatto notare appunto Rampini a Porta a porta del 4 marzo (chi non ci crede si riveda il video), è accaduto prima che iniziassero gli attacchi contro di lui (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia ritenere un “attacco” anche l’ironia sulla sua tuta mimetica, che, se le cose fossero andate bene, sarebbe stata subito classificata come una simpatica battuta per rompere il ghiaccio). La realtà dei fatti è che è stato Zelensky ad attaccare per primo. Così come è evidente che la sua non è stata una reazione istintiva decisa sul momento, ma un’azione premeditata, altrimenti non si sarebbe portato dietro le foto che documentavano le violenze dei russi in Ucraina. Ed è anche facile capirne il motivo.

Come abbiamo detto, infatti, il modo di trattare di Trump si basa in gran parte sulla convinzione che l’avversario non avrà il coraggio di andare a “vedere” i suoi bluff. Ora, Zelensky, diversamente dai nostri raffinati intellettuali, lo sa perfettamente. Di conseguenza, sapeva anche che prima di mettersi a collaborare doveva dimostrargli di non aver paura di lui e, anzi, di essere anch’egli in grado di metterlo in imbarazzo davanti al mondo intero (di nuovo Tit for tat).

A quel punto, infatti, Trump si è trovato in una classica situazione lose-lose, in cui qualsiasi mossa facesse era perdente. Da una parte, a meno di rinunciare, all’istante e per sempre, al suo ruolo di mediatore, non aveva altra scelta che buttare fuori Zelensky. Facendolo, però, avrebbe fatto la figura del “cattivo” davanti a tutto il mondo (come infatti è puntualmente accaduto). Così Trump ha cercato di minimizzare i danni, comportandosi in modo tutto sommato tollerabile, non solo per i suoi standard, ma perfino per quelli dei normali esseri umani.

Capisco che in un continente in cui siamo abituati a pensare che un’insufficienza a scuola possa causare un grave trauma psichico i commentatori si siano sentiti «inorriditi» e «sconvolti» da ciò che hanno visto, ma non è questo ciò che è realmente accaduto. Dire a uno «non sei in una buona posizione», «non puoi dirci cosa dobbiamo fare», «stai giocando col fuoco», «non vuoi davvero la pace», per poi congedarlo bruscamente, ma aggiungendo «torna quando sarai pronto» è lontano anni luce dagli attacchi pesantissimi che Trump gli aveva rivolto solo una settimana prima. Eppure, stavolta Zelensky gliela aveva combinata ben più grossa!

Anche le successive minacce di sospensione degli aiuti militari finora sono rimaste allo stato di annunci, confusi e perfino contraddittori. L’unica misura concreta è stata la sospensione della collaborazione da parte della CIA, che ha certamente messo in difficoltà gli ucraini, ma, nonostante le vanterie di Elon Musk (peraltro anch’esse subito rimangiate), perfino disattivare la rete satellitare di Starlink non sarebbe certo come premere l’interruttore e vedere la luce che si spegne. Trump stesso ha riconosciuto che «l’Ucraina ha ancora scorte di armi e munizioni sufficienti per sei mesi». E sei mesi possono essere un tempo molto lungo, per uno che ha promesso di mettere fine alla guerra con una telefonata.

Inoltre, grazie al suo show alla Casa Bianca, nel giro di pochi giorni Zelensky ha ricompattato intorno a sé il suo popolo e ha ricevuto dall’Europa un sostegno fortissimo, come non s’era mai più visto dopo i primi mesi di guerra. Addirittura, potrebbe essere riuscito ad innescare quel processo di creazione di una difesa comune europea (di cui si parla da decenni senza farne mai nulla) che costituirebbe il vero atto di nascita dell’Europa come entità politica unitaria.

Non è ancor detto che si andrà davvero in questa direzione, ma, almeno rispetto all’aumento degli investimenti e della coordinazione europea in fatto di difesa, dopo il Consiglio Europeo del 6 marzo è ormai impossibile che si torni indietro. Così come è ormai impossibile che l’Europa non aumenti il suo sostegno all’Ucraina, soprattutto se Trump dovesse toglierglielo in forma definitiva.

Non dimentichiamo che gli “enormi” aiuti militari che finora abbiamo dato all’Ucraina ammontano in realtà ad appena 62 miliardi in 3 anni, di cui la maggior parte sono venuti dai paesi più piccoli, che, confinando con la Russia, si sono sentiti, diciamo così, più “motivati”. L’Italia, per esempio, ha dato appena l’1 per mille del suo PIL (2 miliardi in 3 anni, appena un quarto di quanto ci è costato il reddito di cittadinanza in un anno solo). E lo stesso hanno fatto Francia e Spagna. Invece, i tre paesi baltici, Lituania, Estonia e Lettonia, che messi insieme hanno un PIL che è appena un dodicesimo del nostro, hanno dato oltre il 2%, cioè 20 volte più di noi in percentuale e oltre un miliardo più di noi perfino in valore assoluto.

Ciò significa che si può sicuramente fare meglio da subito, anche se per arrivare a una vera difesa europea autonoma dagli USA ci vorranno anni. Inoltre, c’è un grande aiuto che possiamo dare agli ucraini in qualsiasi momento e senza spendere un centesimo: togliere finalmente le assurde limitazioni all’impiego delle nostre armi, che li costringono a combattere con una mano legata, in nome del demenziale concetto di “armi solo difensive” (copyright dello stralunato ministro Crosetto), che semplicemente non esistono. E ciò significa che, anche senza gli aiuti americani, la guerra andrebbe avanti ancora per molto, molto tempo.

Non arriverò a dire che la minaccia di sospenderli sia soltanto un bluff, ma di sicuro le pallottole della pistola che Trump potrebbe gettare sulla bilancia sono assai spuntate. Certo, possono fare danni, ma difficilmente sarebbero letali e, peggio ancora, rischiano di rimbalzargli addosso. Cosa succederebbe, infatti, se gli ucraini (che sembrano averne tutte le intenzioni) decidessero di mandarlo al diavolo e di continuare a combattere a oltranza, anche senza ulteriori aiuti da parte dell’America? Davvero Trump potrebbe permettersi di stare a guardare? E davvero potrebbe permettersi di rompere irrimediabilmente con l’Europa, che, gira e volta, resta il suo unico possibile alleato nella futura guerra tecnologica e commerciale con la Cina, che è la sua vera ossessione?

E poi c’è la questione delle terre rare, che a Trump servono davvero, perché hanno un ruolo chiave per vincere la suddetta competizione globale con la Cina, ma hanno la brutta abitudine di abbondare soprattutto nei paesi nemici degli Stati Uniti. Se rompe con Zelensky, a chi le chiederà? Certo non alla Cina. Forse, allora, all’Afghanistan degli immaginari “talebani moderati”? O alla Russia dell’immaginario “amico” Putin? O a qualcuno dei disastrati paesi africani su cui proprio la Russia ha da tempo allungato le sue zampacce tramite una serie di colpi di Stato orchestrati dalla Wagner?

Sì, qualcosa c’è anche in alcuni paesi “amici”, soprattutto Svezia e Australia, ma, anche ammesso che continuino ad esser tali (cosa non scontata, se Trump continuerà a trattare tutti con questa arroganza), non è che saranno disposti a regalarglieli solo per “fare grande l’America” facendo piccoli sé stessi. L’Ucraina è di gran lunga la migliore opzione e infatti l’accordo sulle terre rare è l’unica cosa che Trump non ha mai messo in discussione. E per firmarlo, ovviamente, non può rompere con l’Ucraina, né permettere che Putin se la annetta, altrimenti quei giacimenti li vedrà solo con i satelliti di Elon Musk mentre vengono sfruttati dai russi.

Ma, se così è, allora cosa possiamo ragionevolmente aspettarci che accada nel prossimo futuro?

Che cosa succederà adesso?

A questo proposito non posso che ripetere ciò che avevo scritto il 5 novembre scorso, nell’articolo in cui avevo previsto l’elezione di Trump (con un errore di appena 2 millesimi, se mi si perdona l’immodestia: avevo infatti scritto che avrebbe preso tra il 50% e il 51%, ha chiuso con il 49,8%).

«Trump non è affatto amico di Putin, come molti sostengono: Trump è amico soltanto di Trump e inoltre è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e per fargliela pagare potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82» (https://www.fondazionehume.it/politica/lodio-al-di-la-del-linguaggio-e-davvero-trump-il-pericolo-maggiore-per-la-democrazia-americana/).

Ditemi voi se finora le cose non sono andate esattamente così.

Trump ha cominciato minacciando sia la Russia che l’Ucraina, anche se di misure concrete finora ne ha prese solo contro quest’ultima. Ma, come abbiamo appena visto, qualsiasi ragionamento logico porta alla stessa conclusione: la sospensione degli aiuti militari può essere usata da Trump solo come mezzo di pressione su Zelensky, per cui potrà anche essere messa in pratica per un po’ di tempo, ma non potrebbe mai diventare una misura permanente (infatti è già stata revocata).

D’altronde, nonostante i deliri sulla inesistente “nuova Yalta” di cui abbiamo detto, la realtà dei fatti è che la prima vera proposta è stata appena concordata fra Trump e Zelensky (che sono gli unici che finora si sono parlati) e da loro proposta a Putin. Che, prevedibilmente, la rigetterà o (che è lo stesso) ne condizionerà l’approvazione a una serie di diktat inaccettabili, come ha sempre fatto finora e come sempre farà anche in futuro, oppure fingerà di accettarla e poi la vilerà ad ogni occasione, cercando di dare la colpa agli ucraini. E proprio qui sta il problema.

Mi sembra infatti evidente, dai discorsi confusi e contraddittori degli ultimi giorni, che Trump non ha la minima idea di come convincere Putin a trattare. Peggio ancora, credo che finora non ci abbia nemmeno pensato, convinto com’era che il vero problema fosse “domare” Zelensky, che è probabilmente l’unica idea che Trump condivida con gli intellettuali europei.

Ricolfi ha scritto che ciò che ha impedito finora di fare la pace con Putin è aver trasformato la guerra in Ucraina in una questione etica (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-dellagguato-mediatico-a-zelensky-la-politica-come-spettacolo/). Se avesse ragione, allora l’approccio di Trump, completamente pragmatico e amorale, sarebbe quello ideale e dovrebbe avere successo. Ma, per una volta, temo invece che si sbagli.

Come ripeto fin dall’inizio di questa guerra, ciò che ha impedito, impedisce e sempre impedirà di fare la pace con Putin è una questione psichiatrica: lui è uno psicopatico e con gli psicopatici non si può trattare, perché ciò è contrario alla loro natura. Punto e basta.

Anche Trump, prima o poi, se ne accorgerà, vedendo che Putin continuerà ad approfittare (come già sta facendo) di ogni opportunità offertagli dalle trattative per rafforzare le sue posizioni, continuando nel contempo a respingere tutte le sue proposte (personalmente, non mi stupirei se si rifiutasse addirittura di incontrarlo). Il problema, come ho scritto, è quandose ne accorgerà.

E purtroppo potrebbe davvero accadere troppo tardi, perché anche l’ultima parte della mia previsione temo si sta avverando. Mi sembra infatti che Trump stia cominciando a dare alcuni chiari segni di rincoglionimento senile, il che, unito al suo immenso orgoglio, gli renderà molto difficile ammettere di aver fallito. Anche perché non potrebbe nemmeno scaricare la colpa su Zelensky e/o Putin, avendo sempre sostenuto di essere in grado di costringerli a fare la pace: perciò un eventuale fallimento, in qualsiasi modo si verificasse, agli occhi dei suoi elettori sarebbe comunque soltanto colpa sua.

Insomma, il vero rischio che stiamo correndo non è che Trump abbia qualche diabolico e inarrestabile piano per imporre una pace ingiusta in Ucraina, ma piuttosto che non abbia nessun piano (almeno nessun piano attuabile), eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.




Il mito di Ventotene

Che nella grande manifestazione di sabato scorso a Roma le idee fossero confuse, molto confuse, nessuno ha provato a negarlo. A occhio e croce direi che c’erano almeno tre tipi di manifestanti. I pacifisti senza se e senza ma (tipo Piero Sansonetti). I fautori del riarmo dell’Europa (tipo Carlo Calenda). E i cultori dei più o meno sottili distinguo, abili nei sofismi e nelle supercazzole. Ad esempio Elly Schlein, che è contraria al riarmo, ma favorevole alla Difesa comune. O lo scrittore Antonio Scurati, che se la cava con l’ars retorica: “ripudiamo la guerra, ma non siamo arresi”. Come se, all’atto pratico, ripudiare la guerra non significasse appunto arrendersi. Ma così è: gli intellettuali, come i politici, sono bravissimi nella produzione di soluzioni puramente verbali, quando quelle reali difettano.

E tuttavia, pur avendo notato anch’io il vuoto politico di quella manifestazione, non condivido la lapidazione cui soprattutto la stampa di destra l’ha sottoposta. Certo, colpisce il fatto che il principale partito di sinistra, il Partito Democratico, non abbia una linea condivisa sulla guerra. Ma come non vedere che lo stesso problema affligge la maggioranza di governo, con la Lega contraria al riarmo e gli altri partiti favorevoli?

Soprattutto, come non comprendere che, in questa situazione, semplicemente non può esistere una posizione che non sollevi legittimi dubbi? La volontà di riarmarsi, manifestata dai vertici europei, è perfettamente comprensibile perché l’ombrello americano vacilla e le intenzioni di Putin sono sconosciute (chi crede di conoscerle inganna sé stesso). Ma altrettanto comprensibili sono i dubbi della Lega e del Movimento Cinque Stelle, perché sconosciute, incerte o indesiderabili sono alcune conseguenze del progetto di riarmo. Indesiderabile è l’aumento del debito pubblico, e la conseguente contrazione (o minore espansione) della spesa sociale. Sconosciuto è l’impatto del riarmo, o meglio del suo annuncio, sulle trattative di pace, ma anche sull’eventualità di una ulteriore mossa aggressiva di Putin. Molto incerta, per non dire dubbia, è la possibilità che il riarmo diventi il primo passo per arrivare alla Difesa comune, o addirittura agli Stati Uniti d’Europa.

Insomma: capisco che sia il momento delle scelte, e che un partito serio debba schierarsi, ma non riesco a non provare anche un moto di simpatia per le incertezze di Elly Schlein. Che saranno senz’altro dettate da meri calcoli elettoral-partitici, ma – sul piano razionale – sono perfettamente giustificate. Più giustificate, comunque, delle certezze di coloro che non hanno dubbi.

Quel che invece mi lascia perplesso, molto perplesso, è il modo in cui il Pd e la stampa progressista (con la lodevole eccezione de La Stampa di Torino), stanno cercando di supplire al vuoto politico della piazza di sabato: lo scongelamento del Manifesto di Ventotene (1941), fatto passare come il manifesto degli Stati Uniti d’Europa, progetto luminoso tradito dalle classi dirigenti dell’Unione Europea.

Ebbene, leggetelo questo benedetto Manifesto di cui tutti parlano ma che quasi nessuno ha letto. Perché se non lo leggete non potete rendervi conto di quale spaventosa distopia anti-democratica avessero in mente i suoi autori. I quali avevano sì in mente un edificio grandioso, un unico super-stato europeo, propedeutico a un futuro stato unico mondiale. Ma pensavano di imporlo dall’alto, con una crisi rivoluzionaria e socialista, attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, senza libere elezioni, contro le timidezze dei democratici, accusati – tra le altre cose – di non ammettere un sufficiente ricorso alla violenza. E vi risparmio le idee in materia di funzionamento dell’economia, espropri, limitazioni alla proprietà privata, nazionalizzazioni.

Io capisco che, non essendovi nulla su cui le varie anime della piazza siano d’accordo, si cerchi di trovare qualcosa che le unisca, che dia loro almeno un sentiment comune. Però mi preoccupa enormemente, e mi sconcerta, che nessuno dei tanti intellettuali, scrittori, giornalisti italiani che hanno esaltato il Manifesto di Ventotene (e nemmeno Corrado Augias che ne ha scritto l’introduzione), si siano accorti del suo contenuto anti-democratico. Perché delle due l’una: o il Manifesto non l’hanno letto, e ne parlano senza conoscerlo; o il Manifesto l’hanno letto, e sono così poso democratici da non rendersi conto del suo contenuto distopico.

Se davvero siamo per gli Stati Uniti di Europa, forse è giunto davvero il momento di concepirlo, un Manifesto che tracci la via. Ma pensare di prendere ispirazione da quello di Ventotene è provinciale, oltre che inquietante. Non è per caso che nessuno dei padri fondatori dell’Europa – né Adenauer, né De Gasperi, né Schuman, né Monnet –  lo abbia mai messo al centro del proprio pensiero. Ed è una fortuna.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 marzo]




Il futuro della nostra civiltà tecnologica: viaggio fra i possibili scenari

Il dovere più importante che abbiamo

nei confronti dei nostri discendenti

è quello di sopravvivere”.

                                      (Harold W. Lewis)

 

Come scrivevo già vent’anni fa nel mio libro Mondi Futuri, “tutti noi, quotidianamente, prevediamo o tentiamo di prevedere in qualche modo il futuro. La maggior parte delle persone, però, si interessano esclusivamente ai problemi personali e si limitano a guardare verso il futuro immediato. Soltanto pochi individui si spingono più in là, occupandosi dei problemi che riguardano gli altri abitanti del pianeta e relativi a un futuro non vicino. Eppure, avere una prospettiva globale, prevedere il futuro a lungo termine della società e del mondo intero, non è per l’«Homo technologicus» attuale solo il modo per soddisfare delle curiosità innate; bensì, ora più che mai, rappresenta soprattutto un esercizio utile per la propria sopravvivenza”. Il libro in questione parlava del futuro dell’attuale stato di cose sul nostro pianeta, collocando l’argomento in un contesto via via sempre più ampio, soffermandosi sul futuro della civiltà tecnologica, su quello dell’Homo sapiens, del pianeta Terra, della Galassia e, infine, sul destino dell’intero universo. In questo articolo, però, mi limiterò ad accennare solo ai primi due, ovvero al futuro della civiltà tecnologica ed a quello della nostra specie, dato che interessano sicuramente di più il lettore.

Una chiave di lettura per comprendere il presente

All’alba del terzo millennio, l’umanità si trova, per la prima volta nella sua storia, di fronte a una serie di grandi sfide e di problemi globali emergenti – crescita della popolazione mondiale, impoverimento delle risorse naturali, deterioramento ambientale, crescente vulnerabilità alle epidemie, proliferazione delle armi di distruzione di massa e, in campo economico, degli strumenti derivati, escalation del terrorismo e delle dispute fra Paesi, aumento delle migrazioni internazionali, sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale, aumento del potere delle lobby e della censura – che minacciano addirittura la sopravvivenza della civiltà tecnologica e dell’intera specie Homo sapiens sul nostro piccolo e fragile pianeta.

Sono queste, infatti, le 10 grandi tendenze globali del cambiamento che stanno plasmando il mondo e di cui ho accennato già in un precedente articolo [1] pubblicato dalla Fondazione Hume e – nel caso di 7 di esse – ancor prima, nel mio saggio Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari [2], di cui proprio quest’anno ricorre il ventennale della pubblicazione. Un aspetto fondamentale che va sottolineato è che ciascuna delle tendenze di cambiamento menzionate non è stata selezionata dall’Autore casualmente: ognuna di esse, infatti, reca in sé il potenziale di poter innescare, direttamente oppure indirettamente, il collasso della nostra civiltà tecnologica, ovvero del mondo come noi lo conosciamo.

Le 10 principali forze o tendenze planetarie del cambiamento che sono, a mio avviso, all’origine della maggior parte dei più seri problemi globali attuali e delle principali minacce per il futuro della nostra civiltà tecnologica, “sorprese” escluse, evidentemente.(fonte: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Ma, poiché non è possibile fermare lo sviluppo tecnologico, l’unica strada percorribile per colmare il divario oggi esistente fra ciò che bisognerebbe capire ed i mezzi concettuali necessari alla comprensione è quella di realizzare forti “iniezioni” di educazione nei sistemi umani, utilizzando tutti gli strumenti culturali disponibili. L’obiettivo principale di questo articolo è proprio quello di fornire un piccolo contributo in tale direzione, sulla falsariga di quanto feci a suo tempo con il mio libro: proporre delle semplici chiavi di lettura per capire meglio il mondo in cui viviamo e, soprattutto, il mondo verso cui stiamo andando o, peggio, potremmo andare se non riusciamo a governare quanto prima l’“astronave Terra”.

Oggi ci troviamo  in un’epoca assolutamente unica nella storia della vita, dell’uomo e della civiltà: un’epoca caratterizzata, come non mai, da grandi promesse per il futuro; ma, per la prima volta, gravida di micidiali pericoli per la nostra vita e per il nostro benessere, se non addirittura per la sopravvivenza della specie Homo sapiens sulla Terra. In particolare, attualmente stiamo vivendo in un’epoca davvero unica nella storia dell’uomo, perché solo in tempi recenti l’evoluzione culturale della nostra specie ha iniziato ad accelerare in modo straordinario, provocando un divario tecnologico, demografico ed economico senza precedenti tra paesi ricchi e paesi poveri, e una serie di problemi emergenti a livello mondiale che minacciano il nostro benessere e perfino il nostro futuro su questo nostro pianeta.

Siamo la prima specie vivente a rischio di autodistruzione

I precedenti timori sul nostro futuro non sono certamente esagerati se si considera che, a partire da 550 milioni di anni fa, quando si sono sviluppati i primi grandi organismi pluricellulari, sul nostro pianeta sono apparse miliardi di forme viventi profondamente diverse fra loro e che l’Homo sapiens rappresenta la prima e unica specie, nella lunga storia del mondo animale, ad aver raggiunto – sia pure solo negli ultimi decenni dell’attuale civiltà tecnologica – la capacità di provocare, più o meno deliberatamente, la sua stessa estinzione. Ciò è avvenuto verso la metà del secolo scorso, quando la specie umana ha acquisito, per la prima volta, la capacità di autodistruggersi grazie al controllo dell’immensa energia racchiusa nell’atomo, una conquista della nostra civiltà tecnologica ben presto impiegata dalle due superpotenze, USA e URSS, per la costruzione di migliaia di micidiali ordigni nucleari. Da allora, la spada di Damocle di una guerra termonucleare globale capace di provocare l’estinzione del genere umano pende sulle nostre teste, sebbene la fine della Guerra fredda abbia creato in molti l’illusione che il pericolo sia cessato.

Per capire l’eccezionalità dell’epoca storica in cui siamo entrati relativamente da poco, basta riflettere sul fatto che, fino a cinquant’anni fa, l’Homo technologicus – anche volendo – non avrebbe mai potuto provocare la propria estinzione: né con una guerra, né in alcun altro modo. Perfino i conflitti più violenti della storia recente sono stati, infatti, assai limitati, in termini di potenza distruttiva, rispetto a un moderno missile carico di testate nucleari. La bomba di tipo convenzionale più potente utilizzata durante la Seconda guerra mondiale aveva una potenza di circa 10 tonnellate di TNT (trinitrotoluene, ovvero tritolo), mentre tutte le bombe riversate dagli alleati sulle forze irachene durante l’intera Prima guerra del Golfo non hanno superato, complessivamente, le 85.000 tonnellate di TNT. Una testata nucleare media di un missile balistico ha invece una potenza dell’ordine del megaton, equivalente, cioè, a ben 1.000.000 di tonnellate di TNT. Inoltre, molti missili che fanno parte dell’arsenale strategico delle potenze nucleari sono a testata multipla: hanno, cioè, più testate, indirizzabili ciascuna su un obiettivo diverso.

Oggi l’umanità è costretta a passare attraverso una sorta di “collo di bottiglia” evolutivo, stretto e senza precedenti. È come se noi stessimo conducendo sulla nostra specie un gigantesco esperimento che non ammette possibilità di errore. L’unica strada per uscire davvero da questo collo di bottiglia che abbiamo appena imboccato è quella, troppo lontana nel tempo per rappresentare una soluzione realistica e pratica, di colonizzare prima lo spazio vicino alla Terra e, poi, di espandersi gradualmente nella Galassia: l’emigrazione di un cospicuo numero di persone in zone lontane del Sistema Solare, e in seguito della Via Lattea, libererebbe la specie umana dall’incombente minaccia di estinzione. Infatti, le varie colonie create nello spazio profondo dai nostri discendenti sopravviverebbero a qualsiasi catastrofe terrestre e, grazie alle enormi distanze reciproche che le renderebbero, di fatto, dei mondi isolati dal nostro pianeta e fra loro, potrebbero continuare a percorrere ciascuna una differente strada evolutiva, contro l’unica attuale.

Una rappresentazione artistica del “collo di bottiglia” evolutivo in cui si trova oggi l’umanità, realizzata dall’Autore con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale. Si noti come all’orizzonte incomba lo spettro di una catastrofe nucleare.

Con la trasformazione del cosmo in un nuovo e sconfinato habitat per l’uomo, il pericolo di una nostra completa estinzione potrebbe venir fugato addirittura per sempre. Ma vi è pure un’altra ragione per cui lo spazio potrebbe un giorno costituire, oltre che una garanzia di salvezza, la frontiera finale del genere umano. Il fatto è che, al ritmo di crescita degli ultimi decenni, l’aumento della popolazione, del consumo delle risorse non rinnovabili, del deterioramento ambientale ed i numerosi altri trend negativi in atto non sono sostenibili a lungo sul nostro piccolo pianeta: dunque, lo sviluppo quasi esponenziale che sta caratterizzando, qui sulla Terra, la nostra epoca sembra dover rappresentare soltanto una fase transitoria nella lunga storia dell’uomo e della civiltà. Ma che cosa potrà allora succedere all’umanità, sia nel bene che nel male, nei prossimi anni, secoli o perfino milioni di anni? Quale potrebbe essere, insomma, il futuro a breve, medio e lungo termine della nostra civiltà tecnologica e dell’intera specie umana?

La futurologia, ovvero l’arte di prevedere il futuro

Ovviamente, se ci limitiamo a estrapolare oltre il lecito le tendenze attuali, non arriviamo al futuro ma a una caricatura del presente. Per fortuna, esiste una tecnica predittiva più raffinata, applicabile anche sul medio termine e resa possibile solo in tempi relativamente recenti dall’introduzione del computer: è quella della previsione, per così dire, “scientifica” del futuro. Si tratta di una rivoluzione concettuale, perché occorre vedere tutto in termini di “sistemi”: si parla, così, di sistemi umani o socioculturali (ad es., famiglia, nazione, società mondiale), di sistemi naturali o biologici (gruppo di specie, ecosistema, biosfera) e di sistemi fisici (Sistema Solare, galassia, universo). In generale, un sistema interagisce con altri sistemi o ne fa semplicemente parte (ad es., una nazione appartiene alla società mondiale), e il suo stato è di solito descritto dal valore di alcune “variabili” o parametri, sebbene non possa essere ridotto soltanto a queste. Prevedere il futuro di un sistema, quindi, significa valutare l’andamento futuro delle sue variabili.

Ebbene, l’approccio scientifico alla predizione del futuro consiste nel compiere le estrapolazioni sulla base di un modello del sistema che ci interessa: si cerca, cioè, di trovare delle relazioni matematiche tra le diverse variabili del sistema in modo da poterlo descrivere il più fedelmente possibile e da poter poi effettuare simulazioni del suo comportamento con l’aiuto del computer. Nel caso dei sistemi fisici, spesso è la teoria stessa che fornisce, attraverso alcune leggi, la relazione matematica tra le diverse variabili: il moto dei pianeti nel Sistema Solare, per esempio, è prevedibile in modo preciso perché descritto dalla legge di gravitazione universale di Newton. Ciononostante, questo e alcuni altri sistemi fisici (e non) esibiscono un comportamento caotico: ovvero, un lieve mutamento delle condizioni iniziali conduce a grandi differenze nel risultato finale. In pratica, se un sistema è caotico, esiste una scala di tempo oltre la quale non si possono fare previsioni accurate, ma solo in termini di probabilità: ad esempio, per il sistema atmosfera – e, più in generale, in meteorologia – essa è di appena cinque giorni.

In linea di principio, il metodo dei modelli e delle simulazioni è applicabile, oltre che ai sistemi fisici, a numerose altre situazioni: economia, ecologia, politica, clima, sviluppo demografico e tecnologico sono tutti campi in cui entrano in gioco sistemi complessi e comportamenti umani che mettono alla prova le nostre capacità predittive. Tuttavia, quando c’è di mezzo l’uomo, di solito le variabili che descrivono il sistema sono tantissime e tutte collegate fra loro da complessi cicli di retroazione, il che complica enormemente qualsiasi tentativo di previsione. In tal caso i modelli, specie su tempi abbastanza lunghi, non possono prevedere quale sarà il futuro, ma consentono di pensare ad esso in modo più concreto e quantitativo. Infatti, variando le condizioni del sistema all’inizio o nel corso della simulazione, si può vedere che cosa accadrebbe sotto una varietà di ipotesi, e quindi imparare moltissimo su uno specifico argomento semplicemente analizzando quali e quanto grandi siano gli effetti prodotti da determinati cambiamenti.

La previsione del futuro diventa davvero molto difficile quando c’è di mezzo l’uomo, come mostrato in questa rappresentazione artistica realizzata dall’Autore con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale. Infatti, prevedere il futuro dell’umanità è incredibilmente complesso, non solo per la molteplicità di variabili in gioco – tecnologiche, ambientali, sociali e politiche – ma anche perché l’essere umano, da sempre, cerca di dare un senso al proprio destino attraverso il trascendente. Questa tensione verso qualcosa che va oltre la realtà tangibile può influenzare le nostre decisioni e visioni del futuro, rendendo ancora più difficile una previsione puramente razionale o matematica. Alla fine, quindi, il futuro dell’umanità è una sorta di combinazione di logica, caos e speranza.

Se il futuro dell’uomo e della civiltà non si può prevedere per via matematica, una tecnica relativamente recente ma ampiamente usata consente di saperne di più, anche sul lungo termine, ed è quella di “ragionare per scenari”. Si tratta di fare congetture ragionevoli e alternative fra loro sull’avvenire – gli scenari, per l’appunto – usando molta immaginazione e basandosi sulla conoscenza dei punti fermi, delle incertezze e delle tendenze principali del nostro tempo in campo sociale, economico, politico, tecnologico, eccetera. Naturalmente, se per ogni tendenza si adotta un trend estremamente positivo, si ottiene uno scenario positivo, e in effetti gli scenari più semplici da ottenere sono quelli totalmente ottimistici o pessimistici, ma si possono immaginare una serie di scenari intermedi. Dunque gli scenari permettono, più che di prevedere un ben preciso futuro, di capire meglio la situazione nella sua globalità, di valutare l’importanza di certi eventi o di loro combinazioni, nonché di fare ipotesi sui vari possibili mondi futuri tenendo conto delle “sorprese”, cioè degli eventi per loro natura imprevedibili.

Quali sono i futuri possibili per una civiltà tecnologica?

Il problema di come una generica civiltà tecnologica giunta ad uno stadio di sviluppo simile al nostro possa in seguito evolvere è stato affrontato in passato – sia pure con scopi completamente diversi – non tanto da futurologi, sociologi, economisti o storici, quanto, piuttosto, da una ristretta categoria di ricercatori: quella degli astronomi, dei fisici e degli ingegneri impegnati nella caccia a ipotetiche civiltà extraterrestri che potrebbero nascondersi nelle profondità dell’universo.

In particolare, analizzando i molteplici possibili sbocchi evolutivi futuri di una società tecnologica aliena evolutasi sulla falsariga della nostra, alcuni scienziati interessati al SETI (acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence) hanno tentato di valutare, negli ultimi quarant’anni, la durata media di una civiltà tecnologica extraterrestre. Essa, infatti, indicata di solito con la lettera L, rappresenta uno dei parametri fondamentali della famosa “equazione di Drake”, la semplice formula matematica proposta negli anni Sessanta dal radioastronomo americano Frank Drake per stimare il numero di civiltà aliene potenzialmente contattabili oggi presenti nella Galassia. In base a tale equazione, maggiore è la durata media di eventuali società tecnologiche extraterrestri in grado di inviare o ricevere segnali radio, di costruire sonde spaziali, o di manifestare in qualche modo la propria esistenza o di rilevare la presenza altrui, e maggiore è – a parità di altri fattori contemplati dalla formula di Drake – la probabilità, per la nostra giovanissima civiltà, di entrare prima o poi in contatto con delle intelligenze aliene.

Ebbene, uno dei risultati per noi più importanti di questi originali studi è che, prendendo come modello la nostra attuale società tecnologica, si possono immaginare vari tipi di scenari futuri. Il più pessimistico prevede la scomparsa definitiva della specie umana a causa di un’improvvisa e rapida autodistruzione oppure di una catastrofe di origine astrofisica: eventi che, in linea di principio, possono avvenire anche l’anno prossimo, come pure tra secoli o millenni. Invece, lo scenario più ottimistico è quello della sopravvivenza della specie umana e di un progresso tecnologico continuo o quasi-continuo: cioè, di uno sviluppo della tecnologia fino ai suoi estremi limiti, in un futuro che ha apparenti analogie con quello ipotizzato da molti scrittori di fantascienza. Tra queste due ipotesi estreme – e forse per questo, sebbene non necessariamente, meno plausibili – vi sono poi tutta una serie di possibilità intermedie, che racchiudono probabilmente l’evoluzione futura effettiva della nostra civiltà tecnologica.

I due scenari limite ottimistico e pessimistico, e quelli intermedi, possono venire visualizzati in maniera rozza – ma sicuramente assai intuitiva – su un grafico, riportando sull’asse orizzontale il tempo e su quello verticale il livello di sviluppo raggiunto dalla nostra civiltà tecnologica in funzione, appunto, del tempo. Per livello di sviluppo si intende, sostanzialmente, la capacità raggiunta fino a quel momento dall’uomo di allentare la propria dipendenza dai vincoli posti dalla natura. Nel grafico da noi proposto, tuttavia, l’andamento nel tempo del grado di sviluppo a partire dai primi Homo sapiens a oggi è rappresentato, per semplicità, con una linea quasi-retta, la quale potrebbe far pensare a un progresso lineare nel tempo; il che, ovviamente, è vero solo in primissima approssimazione, dal momento che, nella storia umana, a momenti di crescita molto rapidi si sono alternati lunghi periodi pressoché di stasi. L’andamento preciso della curva, in ogni caso, dipende da come viene misurato il livello di sviluppo raggiunto: se, ad esempio, dal grado di complessità dei manufatti prodotti, dalla quantità di informazione gestita, e così via.

Il futuro forse più realistico della nostra civiltà tecnologica, almeno sul brevissimo termine, è compreso tra i due scenari estremi: quello assai pessimistico di una rapida autodistruzione e quello, assai ottimistico, di un progresso tecnologico continuo. (fonte: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Nell’ambito degli scenari futuri intermedi, si possono immaginare innumerevoli andamenti per la curva del livello di sviluppo tecnologico, dati dalle possibili combinazioni di fasi più o meno lunghe di stagnazione, di parziali cadute, di oscillazioni, eccetera. Infatti, il progresso tecnologico praticamente continuo attuale potrebbe essere, piuttosto presto, rallentato o interrotto in modo più o meno brusco da varie cause, quali crisi ambientali, sociali, economiche, oppure distruzioni e catastrofi dovute all’azione dell’uomo o della natura. D’altra parte, se il grado di sviluppo della tecnologia umana scendesse, in seguito a tali eventi, ben al di sotto del livello odierno, si potrebbe avere la fine della civiltà tecnologica propriamente detta – magari a vantaggio di una società più simile a quella, non tecnologica, della Grecia classica – o la fine della stessa civiltà, che significherebbe precipitare in uno stato di barbarie. Almeno nel primo caso, però, una nuova civiltà potrebbe risollevarsi ai livelli di oggi e superarli; o, al contrario, non tornare a uno stadio di sviluppo tecnologico elevato, ma riuscire, in compenso, a sopravvivere più a lungo.

L’imprevedibilità del futuro: la “singolarità” e le “sorprese”

In realtà, gli scenari fortemente ottimistici – o quelli intermedi, che prevedono comunque un discreto progresso tecnologico futuro – possono essere delineati in maniera ancora abbastanza attendibile finché non si supera una certa soglia di sviluppo, oltre la quale non solo non è possibile prevedere granché di preciso, ma probabilmente non ha nemmeno troppo senso parlare di civiltà tecnologica: ad esempio, perché la società umana si sarà evoluta in qualcosa di assai differente, di cui ciò che noi oggi chiamiamo civiltà tecnologica rappresenta soltanto uno stadio di passaggio. Per lo stesso motivo, del resto, non ha granché senso parlare di società tecnologica per l’epoca degli antichi Romani, e mai quei nostri lontani progenitori si sarebbero potuti figurare la moderna società umana. La soglia oltre la quale il futuro diventerà, per definizione, qualcosa di inimmaginabile rappresenta un momento importante nell’evoluzione dell’odierna civiltà, ed è chiamata dai futurologi “singolarità”: in pratica, la si raggiungerà quando i limiti del prevedibile verranno superati in una vasta gamma di aree tecnologiche fondamentali.

A sinistra: La singolarità tecnologica impedisce, in linea di principio, la previsione di ciò che accadrà dopo di essa (qui rappresentato con l’area più scura). Il movimento filosofico e culturale del transumanesimo da una parte, e la fantascienza dall’altra, possono illuminarci su questa sorta di “zona d’ombra” del nostro futuro. A destra: il tumultuoso sviluppo dell’intelligenza artificiale potrebbe portare a una “singolarità” (ed eventualmente a esseri “trans-umani”) molto prima di quanto si creda, impedendoci di fare previsioni sull’evoluzione successiva della nostra civiltà tecnologica. (fonte della figura di sinistra: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Non sappiamo, purtroppo, quanto la singolarità potrebbe collocarsi lontano nel futuro, come pure non abbiamo indicazioni quantitative riguardo l’ancor più importante parametro L, la durata media di una civiltà tecnologica capace almeno di inviare onde radio nello spazio e di riceverne (e dunque con un grado di sviluppo sostanzialmente uguale o anche ben superiore al nostro). Una stima pessimistica porta ad attribuire ad L un valore di poche decine di anni, pari al tempo che può trascorrere, ad esempio, dall’invenzione dei radiotelescopi a una guerra termonucleare globale che provochi una prematura autodistruzione della civiltà. Una stima ottimistica, invece, per quanto ne sappiamo, potrebbe concedere a una civiltà tecnologica una durata di milioni, o addirittura miliardi, di anni: per la verità, non conosciamo un limite superiore a tale longevità, se non quello generico – e comunque estremamente lontano nel tempo per preoccuparsene – rappresentato dal progressivo venir meno di certi requisiti di abitabilità dovuti all’invecchiamento della propria stella, della propria galassia e, infine, dell’intero universo.

Il futuro della nostra civiltà tecnologica si articola, come il passato, su diverse scale temporali, sebbene non sia possibile sapere con esattezza su quale scala si collocheranno i grandi eventi legati all’uomo o ai suoi lontani discendenti. Su una scala temporale molto breve – diciamo, di pochi anni – è ragionevole tentare di estrapolare quasi tutte le tendenze attuali ed escludere, salvo sorprese catastrofiche, cambiamenti radicali. Su una scala temporale di 100 anni, importanti accadimenti storici e rivoluzionarie scoperte scientifiche impediscono già previsioni precise dell’evoluzione successiva. Su una scala di 1.000 anni, si può assistere alla colonizzazione umana del Sistema Solare, come pure al declino della civiltà occidentale e alla comparsa di altre civiltà dominanti. Su una scala di 10.000 anni, l’uomo può scomparire per sempre, o espandersi nello spazio interstellare, magari decidendo nel frattempo di intervenire geneticamente su se stesso a livello di specie. Su una scala di 100.000 o più anni, risulta impossibile fare previsioni, ma probabilmente il nostro destino – buono o cattivo che sia – sarà già stato deciso da tempo.

In realtà, sul breve termine, questo dell’estrapolazione dal passato è un metodo che in genere funziona piuttosto bene, purché ad alterare gli sviluppi futuri non intervengano nel frattempo delle “sorprese”, cioè degli eventi inattesi in grado di modificare bruscamente i cambiamenti che i trend in corso sembrano suggerire. Si tratta di un’ipotesi di solito abbastanza ragionevole nel caso dei sistemi fisici e naturali, molto meno nella nostra società o comunque quando entrano in gioco i comportamenti umani. Per definizione stessa, le sorprese sono eventi – spesso di grande impatto e talvolta catastrofici – che non è possibile anticipare perché mai accaduti prima o perché difficilmente prevedibili: ne sono un esempio l’invenzione del transistor e la formazione del buco nell’ozono, la comparsa del morbo della mucca pazza e dell’epidemia di SARS, nonché il terribile attacco terroristico dell’11 settembre. Le sorprese rendono tipicamente poco attendibili le estrapolazioni delle tendenze umane superiori ai 10-20 anni nel futuro, e possono “mandare all’aria” anche le proiezioni a brevissimo termine.

I rischi globali terminali e quelli sopportabili

L’uomo, sin dalle sue origini, è stato esposto a varie minacce relative alla sua sopravvivenza – malattie, guerre, carestie, eccetera – ma si è sempre trattato di pericoli superabili dall’umanità nel suo insieme. Oggi, invece, per la prima volta nella Storia, sta emergendo una categoria di rischi completamente nuova: quella dei rischi globali terminali, cioè delle minacce in grado di causare la scomparsa in breve tempo dell’intero genere umano, oppure di compromettere in modo drastico e permanente il suo potenziale di sviluppo futuro. Un bang, o “botto”, che provochi l’estinzione rapida e improvvisa dell’Homo sapiens, è l’esito più ovvio e concettualmente facile da capire di un rischio globale terminale. Due modi in cui già ora il mondo potrebbe finire in un botto sono una guerra mondiale combattuta con armi termonucleari e la caduta sulla Terra di un grosso corpo asteroidale o cometario. Ma un crunch, o “lento declino”, della civiltà, come sarebbe ad es. quello provocato da un inarrestabile effetto serra a valanga, non sarebbe meno grave di un botto, se portasse la società a un arresto tecnologico senza fine.

Inoltre, mentre alcuni eventi sono in grado di spazzare direttamente via l’Homo sapiens dal pianeta, altri possono provocare “solo” il rapido collasso della moderna civiltà, in quanto almeno una piccola parte degli esseri umani riuscirebbe a sopravvivere. È il caso, ad esempio, di un’epidemia assai diffusa e letale, di una guerra termonucleare dagli effetti limitati, o magari della caduta di un corpo extraterrestre dalle dimensioni non troppo grosse. Ora, però, non è detto che, una volta collassata, la civiltà possa risorgere e superare i livelli di sviluppo pre-crisi, anche se la specie umana dovesse sopravvivere ancora a lungo. Noi potremmo, ad esempio, aver già esaurito o consumato troppe delle risorse facilmente disponibili di cui una società tornata a vivere alle condizioni dell’età della pietra avrebbe bisogno per raggiungere il nostro livello di tecnologia. Per di più, una razza umana precipitata in uno stato primitivo sarebbe vulnerabile ai processi naturali di estinzione né più né meno di qualsiasi altra specie animale.

I rischi terminali vanno poi ben distinti dai rischi globali sopportabili, cioè quelli che non provocano né l’estinzione dell’umanità, né il suo retrocedere permanente a uno stato di barbarie o a un livello (più basso rispetto all’attuale) di civiltà “quasi non tecnologica”. Questo tipo di rischi include, ad esempio, una recessione economica mondiale senza precedenti, un riscaldamento globale moderato, una consistente perdita della biodiversità planetaria, una guerra su larga scala combattuta con armi convenzionali. Purtroppo, la soglia critica che, per un dato tipo di evento, separa le conseguenze terminali da quelle sopportabili – cioè che distingue un botto “finale” da uno che non lo è – risulta sempre assai difficile da determinare. Naturalmente, il fatto che un rischio globale sia sopportabile non significa che sia accettabile o non particolarmente serio, ma solo che l’umanità può alla fine riprendersi e che gli effetti, per quanto gravi, sono da considerarsi transitori. D’altra parte, è anche vero che un rischio globale sopportabile potrebbe costituire un rischio terminale per molti individui o, localmente, per intere popolazioni.

I rischi globali terminali e i rischi globali sopportabili, in effetti, non sono altro che due delle categorie in cui si possono classificare qualitativamente i rischi. In base alle conseguenze dell’evento e alla sua portata, cioè alle dimensioni del gruppo di persone minacciate, distinguiamo difatti 6 diversi tipi di rischi, come nella tabella qui sotto: i rischi “sopportabili” (che possono essere personali, locali o globali) ed i rischi “terminali” (personali, locali o globali). “Globale” significa che il rischio riguarda l’intero genere umano ed i suoi discendenti; “personale” o “locale” che riguarda, rispettivamente, il singolo individuo o un gruppo circoscritto di persone. Per ogni classe di rischio è riportata in tabella una conseguenza tipica: a livello personale, ad esempio, la morte – ma pure un danno fisico permanente o una condanna al carcere a vita – sono eventi terminali, perché precludono all’individuo la possibilità di vivere il tipo di vita a cui aspira. Infine, un ulteriore parametro che caratterizza ogni rischio è, ovviamente, la sua probabilità di verificarsi: a parità di altri fattori, una minaccia è tanto più seria quanto maggiori probabilità ha di concretizzarsi.

Tabella che mostra una semplice classificazione qualitativa dei diversi tipi di rischi in base alle conseguenze dell’evento e alla portata della minaccia. (fonte della tabella: M. Menichella, “Mondi futuri”)

Il mondo sta andando verso uno schianto…

Lo sviluppo tecnologico della nostra civiltà è diventato ormai rapidissimo e, col suo stesso realizzarsi, fornisce all’uomo mezzi di distruzione sempre più potenti. Se non saremo in grado di controllare la nostra tecnologia, potremmo arrivare ad autodistruggerci all’improvviso e in un tempo relativamente breve: noi chiameremo “schianto” (bang), o “botto”, questa possibile fine della civiltà o dell’intera umanità.

In effetti, la rapida catastrofe associata a uno schianto può, a seconda delle caratteristiche specifiche dell’evento scatenante, provocare varie conseguenze immediate sul genere umano. La peggiore eventualità è rappresentata dall’estinzione della nostra specie, l’Homo sapiens: si tratterebbe, ovviamente, della prima irreparabile crisi della nostra civiltà tecnologica, fatale a tal punto che rimarrebbe anche l’unica, perché non riusciremmo a superarla. Ma se una piccola parte dell’umanità sopravvivesse al disastro, i danni dello schianto si limiterebbero, almeno inizialmente, al repentino collasso dell’attuale civiltà tecnologica, o della civiltà tout court. Un simile esito potrebbe costituire solo una fase transitoria, che non inibirebbe una successiva crescita della civiltà umana oltre i livelli di sviluppo finora raggiunti; o, al contrario, potrebbe compromettere in modo drastico e permanente il potenziale di sviluppo futuro della nostra civiltà tecnologica, che pertanto non ritornerebbe mai più nemmeno ai livelli pre-crisi. In quest’ultimo caso, un’umanità divenuta vulnerabile potrebbe anche finire per estinguersi prematuramente.

Pertanto, si può immaginare l’esistenza di due “soglie” importanti in relazione al livello di sviluppo tecnologico a cui precipita la civiltà immediatamente dopo il botto. Esse permetterebbero di separare i tre possibili esiti finali dello schianto: una prima soglia separerebbe l’esito finale dell’estinzione dell’uomo dal collasso permanente della civiltà tecnologica al di sotto dei livelli pre-crisi; mentre una seconda soglia, più alta, separerebbe tale collasso permanente da un collasso solo temporaneo della nostra civiltà. Il grado di sviluppo tecnologico post-bang corrispondente a ciascuna soglia, però, non è definito da un valore preciso, bensì da un ampio intervallo di valori, perché l’esito finale di uno schianto può variare col tempo trascorso dal botto. Infatti, più questo è lungo, maggiore è la probabilità che la popolazione sopravvissuta al collasso della civiltà si possa, nel frattempo, estinguere. E, nello stesso arco di tempo, una civiltà che all’inizio sembrava incapace di “risollevarsi” dal collasso potrebbe invece risorgere; mentre, al contrario, una ritenuta in grado di superare lo schianto, potrebbe non recuperare.

A sinistra, un libro dell’amico Roberto Vacca, futurologo, che affrontava (in maniera alquanto sommaria) il tema della degradazione dei grandi sistemi. A destra, una figura da me realizzata oltre vent’anni fa per affrontare in maniera più analitica l’argomento del futuro della nostra civiltà tecnologica e dei vari scenari possibili. Essa mostra le due importanti soglie nel livello di sviluppo post-bang che separano i tre possibili esiti di uno schianto, o bang, della nostra civiltà tecnologica. Esse dipendono dal tempo T al quale si valutano tali esiti. In particolare, per la soglia 2, che separa il collasso permanente sotto i livelli pre-crisi dal collasso solo temporaneo, esiste un intero intervallo di valori di soglia che diventa sempre più ampio al crescere di T. (fonte: figura di destra adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Può essere, quindi, assai difficile stabilire a priori se le conseguenze di un evento che provochi uno schianto dalla prevedibile portata immediata collochino questo al di sopra o al di sotto delle due soglie critiche – e, nel senso appena illustrato, ambigue – che determinano se si avrà poi, sul lungo termine, un certo esito piuttosto che uno del tutto diverso. Un semplice esempio è rappresentato dalla collisione contro la Terra di un asteroide vagante nello spazio, i cui effetti dipendono, in primo luogo, dalle dimensioni del proiettile cosmico. Se quest’ultimo fosse un asteroide del diametro di 100 chilometri, l’estinzione del genere umano, a causa delle catastrofi che conseguenze climatiche innescate dall’impatto, sarebbe assicurata: cioè l’evento si collocherebbe al di sotto di entrambe le precedenti soglie critiche. Se il diametro dell’asteroide fosse di appena 100 metri, al contrario, le conseguenze dell’urto sarebbero locali e limitate, e l’evento si collocherebbe al di sopra di entrambe le soglie. Non è invece nota la posizione rispetto alle due soglie di un evento intermedio, quale l’impatto con un corpo largo pochi chilometri.

La soglia che separa un crollo improvviso e permanente della civiltà quale noi la conosciamo da un collasso e un ritorno solo temporaneo al livello di una civiltà primitiva rappresenta, già di per sé, una vera e propria incognita. Difatti, la nostra moderna società, che soprattutto nei paesi avanzati è basata sul perfetto funzionamento di grandi strutture e organizzazioni, nonché di grandi sistemi tecnologici, risulta particolarmente fragile e vulnerabile a eventi catastrofici di eccezionale portata che ne riducano in modo rapido e massiccio la popolazione. D’altra parte, la capacità di recupero di una società sottoposta a una rapidissima degradazione dei propri sistemi sociali e tecnologici è proprio uno degli elementi fondamentali che non conosciamo bene. Sui relitti di una civiltà crollata e frazionata in molte piccole realtà indipendenti, autarchiche e arretrate potrebbe in seguito nascere, da qualche isola di ordine sociale magari posta in aree del mondo oggi in via di sviluppo, una nuova civiltà tecnologica; o, diversamente, potrebbero regnare sempre più incontrastati il caos e la barbarie: semplicemente, non lo sappiamo.

Vi sono almeno tre modi noti in cui l’attuale società tecnologica potrebbe già oggi crollare prematuramente in uno schianto come spiacevole risultato del suo stesso sviluppo. Una possibilità ovvia è una guerra nucleare globale seguita da un fallout devastante, che provocherebbe l’estinzione della specie Homo sapiens e di gran parte della vita presente sulla Terra. Come nei quarant’anni di Guerra Fredda, questo tipo di schianto sembra oggi diventato di nuovo probabile, mentre è in diminuzione – grazie ai vaccini a mRNA – il grado di rischio di una pandemia naturale altamente letale, che non potrebbe provocare l’estinzione della nostra specie ma una sua significativa riduzione numerica: evento in teoria sufficiente a far collassare la nostra civiltà. Il terzo e ultimo pericolo mortale, che al contrario si va facendo più probabile con il passare degli anni, è rappresentato dalla messa a punto, in qualche laboratorio, di una micidiale arma genetica, una sorta di “arma finale”: un patogeno in grado di sterminare l’intero genere umano o quasi, e che potrebbe venire impiegato in maniera deliberata o sfuggire al controllo dei suoi ideatori.

…o verso una lenta crisi su scala globale?

L’altro modo in cui la nostra civiltà tecnologica potrebbe regredire rispetto al livello di sviluppo attuale è quello non di un crollo improvviso, bensì di un ben più lento “lamento”: un declino, insomma, assai più graduale – riguardante una scala temporale di decenni, invece che di settimane o mesi – dovuto ai crescenti stress esercitati dall’attività dell’uomo sui sistemi naturali e sui sistemi umani medesimi, e destinati a diventare, oltre una certa soglia, insostenibili.

Il crescente impatto dell’uomo sull’ambiente non sarebbe un problema se non fosse per il fatto che il nostro pianeta ha – globalmente e localmente – una limitata “capacità di carico” o di sostentamento della popolazione, che dipende sia dalla quantità di risorse non rinnovabili di cui esso dispone, sia dalla capacità dell’ambiente di sostenerne le attività. In ecologia, la capacità di carico è definita come “il massimo numero di esemplari di una data specie che un determinato habitat è in grado di sostentare indefinitamente”: quando tale livello massimo viene superato – magari per una crescita eccessiva, non “sostenibile”, appunto, della popolazione – inizia il declino delle risorse, cui farà poi seguito il declino della popolazione stessa. Ad esempio, nel caso di una popolazione batterica che si moltiplica in laboratorio nel mondo limitato di una capsula di Petri, la crescita non è sostenibile proprio a causa della capacità di carico: prima o poi, i batteri consumano tutte le risorse disponibili e vengono sommersi dai propri rifiuti, o “inquinamenti”, estinguendosi, una fine certamente non bella.

Naturalmente, le interazioni umane con l’ambiente sono molto più complesse di quelle dei batteri e una fine simile, per l’uomo, sembrerebbe improponibile. Tuttavia, nella storia della nostra specie esiste un “fresco” precedente, riguardante l’isola di Pasqua, che dovrebbe farci riflettere. Milleseicento anni fa, quando venne colonizzata dai polinesiani, l’isola era un vero paradiso, ricco di foreste, di animali e di terra fertile. Dopo secoli di pace e di prosperità in cui i colonizzatori crearono una società sofisticata dal punto di vista economico, politico e culturale – testimoniata anche dalle famose statue giganti – per la crescita della popolazione gli alberi vennero tagliati a un ritmo superiore a quello di rigenerazione. La conseguente scarsità di legna per le imbarcazioni ridusse la quantità del pescato, costringendo a una caccia intensiva, mentre l’erosione del suolo dovuta alla deforestazione provocò la diminuzione dei raccolti. A causa della fame così sopraggiunta, si scatenarono gravi disordini; e, quando gli europei arrivarono sull’isola, nel 1772, i pochi superstiti vivevano ormai in uno stato di cannibalismo e di violenza su una distesa sterile e desolata.

Un’immagine realizzata dall’Autore, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, di come verosimilmente appariva l’Isola di Pasqua dopo che i suoi abitanti avevano dissennatamente esaurito le risorse che garantivano il loro sostentamento, costringendoli al cannibalismo. Donde l’importanza del concetto di “capacità di carico”, che rappresenta il numero di persone che possono essere supportate in una determinata area entro i limiti delle risorse naturali, senza degradare l’ambiente naturale, sociale, culturale ed economico per le generazioni presenti e future.

Come ci insegna il semplice ma istruttivo esempio dell’isola di Pasqua, infatti, il vero guaio rappresentato dal superamento della capacità di carico a causa dell’eccessivo impatto dell’attività umana sull’ambiente e sugli ecosistemi, è che ciò può provocare, attraverso una fitta rete di rapporti causali tra le varie componenti in gioco, un forte impatto anche sulla società e sui suoi vari sistemi sociali, economici e politici. In altre parole, un impatto crescente dell’uomo sui sistemi naturali, oltrepassata una determinata soglia critica, produrrebbe un notevole impatto – con esito potenzialmente catastrofico – anche sui sistemi umani. Qualora la pressione sui sistemi naturali diventasse insostenibile, si avrebbe un lento declino della società, poiché si innescherebbe un processo di instabilità che porta a un deterioramento irregolare ma relativamente continuo della condizione umana; e, se il sistema è del tutto isolato e in balìa di se stesso, la popolazione e la sua crescita tenderebbero a ridursi a valori molto più bassi di quelli massimi pre-crisi.

Poiché non abbiamo ancora colonizzato lo spazio, la Terra rappresenta di fatto un habitat isolato, sebbene di gran lunga più vasto e complesso della remota e sperduta isola di Pasqua. Ora, fino a un paio di secoli fa, la popolazione umana e i relativi consumi erano così limitati che la capacità di carico poteva essere superata giusto su un’isola. Oggi, però, le tre maggiori “correnti” del cambiamento – crescita della popolazione, sviluppo tecnologico e aumento del benessere economico – sono tali che l’impatto dell’attività umana sui sistemi naturali è rilevante sia per valori assoluti sia per ritmo di incremento. Il rischio è dunque che la capacità di carico venga oltrepassata, un giorno probabilmente non troppo lontano, anche a livello planetario, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Estrapolando su scala globale gli esempi precedenti, il timore è che non soltanto singoli paesi sottosviluppati, ma addirittura il mondo nella sua interezza e le sue istituzioni, entrino in gravissima crisi quando gli eccessivi tassi di crescita attuali portino al superamento della capacità di carico della Terra.

L’interazione fra i trend e le soglie critiche dei sistemi socio-politico-economici

Inoltre, capita di rado che gli attuali trend in materia di popolazione-risorse-ambiente agiscano da soli: il più delle volte, interagiscono con le altrettanto preoccupanti tendenze in tema di malattie, migrazioni, armi di distruzione di massa e terrorismo. In altre parole, l’inquinamento dell’ambiente globale ed i livelli intollerabili di consumo delle risorse sono soltanto due variabili di una serie di fattori politici, economici, sociali ed ecologici in grado di generare direttamente disordini o crisi, soffocando lo sviluppo di un paese o di un’intera società. Il crescente impatto dell’uomo sui sistemi umani non sarebbe tuttavia così temibile se questi ultimi non avessero, come i sistemi naturali, delle soglie critiche e instabili – poco o per niente conosciute – che potrebbero venire, prima o poi, raggiunte e oltrepassate a causa degli stress sempre maggiori a cui le strutture socio-politico-economiche sono sottoposte. A rischio, in particolare, risulta l’equilibrio geopolitico tra alcune superpotenze nucleari, come pure quello fra il Nord del mondo, ricco e industrializzato (con l’Europa e gli Stati Uniti in testa), e il Sud povero ed in via di sviluppo.

L’Occidente, in effetti, si rende conto che la sua sicurezza e il suo benessere, per la prima volta, sono messi in forse da minacce non più solo di tipo militare, che provengono soprattutto dal Sud economico del pianeta e risultano difficili da tenere sotto controllo. Esse sono, da una parte, quelle dirette, rivolte agli interessi vitali e all’integrità territoriale delle nostre nazioni: parliamo del rischio di attentati o, addirittura, di attacchi missilistici con armi di distruzione di massa, scatenati da gruppi terroristici internazionali o da Stati-canaglia. Invece, le minacce indirette, non militari, alla sicurezza e al benessere occidentale provenienti dal Sud del mondo sono quelle derivanti dal degrado dell’ambiente globale, dal rapido esaurimento delle risorse planetarie, dall’emergere di nuove malattie e dal rischio di immigrazioni massicce: tutti fenomeni che nascono, di solito, nei paesi in preda all’esplosione demografica, e sono resi ancor più inquietanti dal sorgere di movimenti radicali islamici, dall’allargarsi del divario economico Nord-Sud e dalla sempre più iniqua distribuzione mondiale di risorse primarie e di tecnologie.

Già solo il divario demografico e tecnologico sempre più ampio fra il Nord ricco e il Sud povero del mondo potrebbe portarci sul medio termine – cioè nei prossimi decenni, e forse secoli – allo stesso risultato di una catastrofe ben più spettacolare e repentina. Questo perché gli attuali andamenti in tema di popolazione-ambiente-risorse e di epidemie-armamenti-migrazioni-terrorismo, che derivano in ultima analisi dal suddetto divario, sono sempre più fonte di povertà, malattie, degrado ambientale, conflitti, violenze e imbarbarimento. Al ritmo di crescita degli ultimi anni, quindi, i trend odierni non sono sostenibili a lungo sul nostro pianeta, a causa della crescente pressione esercitata sui sistemi naturali e umani che potrebbe presto superare la soglia di guardia. Si potrebbe, a quel punto, innescare su scala mondiale una spirale molto pericolosa, che porterebbe verso una situazione esplosiva di instabilità internazionale, di grave crisi ecologica e di maggiore conflittualità fra gli stati, alimentando un circolo vizioso assai difficile da interrompere e, dunque, creando una seria minaccia alla sicurezza e al benessere globali.

Il superamento di soglie critiche poco conosciute e studiate potrebbe causare, molto prima di quanto comunemente si pensi, il collasso dei sistemi socio-politico-economici anche nei paesi del Nord ricco e industrializzato del mondo, come raffigurato in questa immagine drammatica creata dall’Autore con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.

Si prospettano, in effetti, più che una serie di crisi limitate e in teoria superabili dovute ad un solo fattore – un effetto serra galoppante, una guerra per l’acqua, un attentato terroristico devastante – crisi di più vasta portata causate da una concomitanza di fattori o di eventi sottovalutati. Esse potrebbero dare il via, con l’eventuale crollo dell’ordine sociale che ne seguirebbe soprattutto nei paesi ricchi e industrializzati – più vulnerabili per la sofisticata organizzazione sociale ed i grandi e complessi sistemi economici e tecnologici che li sostengono – a un processo catastrofico in grado di paralizzare il funzionamento delle società più sviluppate e di condurre alla morte migliaia o milioni di persone. Si preannuncia, quindi, un lento deterioramento del tenore di vita attuale nel mondo occidentale, ed è a rischio addirittura la sopravvivenza di una civiltà tecnologica e dell’uomo sulla Terra, dal momento che il decadimento della società potrebbe far crescere, di pari passo, la probabilità che si possa arrivare a un collasso improvviso della civiltà o a una fine dell’umanità nella follia o nella disperazione di uno schianto.

Desidero dedicare questo articolo, non senza una grande nostalgia nonostante il tempo trascorso dalla sua scomparsa, alla memoria dell’amico e maestro Paolo Farinella (1953-2000), che mi incoraggiò ad affrontare tematiche così importanti fin dai tempi dell’Università. Se ho sviluppato una passione per i temi interdisciplinari, lo devo anche a lui. Ho inoltre un enorme debito nei confronti di Luciano Anselmo (già CNR, Pisa) per i preziosi consigli ricevuti nella fase finale di revisione del testo. Naturalmente, la responsabilità di ogni eventuale errore residuo è esclusivamente dell’Autore.

Mario Menichella (fisico e divulgatore) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le 10 grandi tendenze planetarie che più influenzano il nostro futuro”, Fondazione Hume, 3 febbraio 2025.

[2]  Menichella M., “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari, Scibooks Edizioni, 2005.

Il libro è liberamente scaricabile dal mio sito web personale (http://www.menichella.it) all’indirizzo: http://www.menichella.it/MONDI%20FUTURI.pdf




Ci aspetta una guerra? – La stagione dell’incertezza

Non sono un esperto di relazioni internazionali, né di questioni militari, né di geo-politica. Sulla guerra in Ucraina non sono intervenuto quasi mai, e quando l’ho fatto è stato più per porre domande ed esprimere dubbi che per suggerire condotte di azione. Ora però, con i venti di guerra che spirano in Europa, è difficile fare gli spettatori. L’Europa ha scelto la strada del riarmo, la gente scende in piazza per l’Europa, ma a quanto pare non per l’Europa che c’è, bensì per il fantasma dell’Europa ideale che ognuno coltiva dentro di sé.

In questo clima non mi stupisce affatto che esplodano le divisioni. Che la destra sia spaccata, e che lo sia pure la sinistra. E nemmeno mi stupiscono le fratture interne al Pd, il maggiore partito della sinistra, incapace di esprimere una posizione unitaria nel Parlamento Europeo. Quello che mi sorprende, invece, al punto da rendermi incredulo, sono le prese di posizione perentorie pro o contro il riarmo. E dicendo questo non mi riferisco ai posizionamenti categorici di alcuni partiti, come Fratelli d’Italia (pro-riarmo) e Cinque Stelle (anti-riarmo), che capisco benissimo, in quanto obbediscono all’imperativo di scegliere, o se preferite al rifiuto dell’ignavia del “né né”. Quello cui mi riferisco, piuttosto, sono le prese di posizione perentorie di analisti e osservatori indipendenti che, a differenza dei politici, non sarebbero tenuti a schierarsi.

Mi colpiscono, in particolare, le due posizioni speculari di chi appare certo che Putin sia intenzionato a invadere i paesi Baltici e altri paesi Nato confinanti con la Russia, e di chi – viceversa – ritiene che Putin si accontenterebbe di annettere i territori già conquistati e della neutralità dell’Ucraina. Mi colpisce, anche, la sicurezza con cui gli opposti “estremisti analitici” descrivono gli effetti del riarmo degli Stati europei, visto dagli uni come unica via per garantire la sicurezza dell’Unione, e dagli altri come mossa pericolosa, che allontana la pace in Ucraina e può rendere più e non meno aggressiva la politica della Russia. E mi colpisce, infine, la completa mancanza di accordo degli uni e degli altri nella ricostruzione della catena di eventi che, dal 2014 a oggi, hanno segnato la guerra civile in Ucraina.

Gli uni e gli altri si muovono in un delirio di onnipotenza cognitiva. Credono di sapere come sono andate davvero le cose. Credono di sapere che cosa passi per la mente di Putin e di Trump. Credono di saper valutare le forze in campo. Credono di poter prevedere le conseguenze delle loro azioni. Credono di conoscere i rischi delle due opzioni (riarmo sì, riarmo no), e quindi di essere in grado di individuare la mossa più utile per l’Europa. In breve: credono che esista una scelta razionale, e di sapere quale sia.

In breve: gli uni e gli altri si muovono come se fosse in corso un gioco di strategia, ed esistesse un metodo per individuare la strategia migliore. Eppure dovrebbero saperlo che, per individuare la strategia più razionale, la teoria dei giochi prevede condizioni precise, nessuna delle quali ricorre oggi. Non ricorre la condizione che i giocatori siano pochi e ben identificati (non sappiamo nemmeno quanti sono: due, tre, quattro, N?). Non ricorre la condizione che esistano regole del gioco e tutti i giocatori le rispettino. Non ricorre la condizione di conoscere le preferenze (funzioni di utilità, nel lessico della teoria dei giochi) dei vari giocatori. Non ricorre la condizione di conoscere, almeno probabilisticamente, le conseguenze delle proprie scelte. In breve: il gioco che si sta giocando è senza regole condivise, è a informazione limitata (incompleta e imperfetta), è affetto da incertezza generalizzata. Si deve scegliere, perché anche non scegliere è una scelta, ma nessuno è in condizione di fare scelte razionali, evidentemente superiori alle scelte alternative. Possiamo solo fare scommesse, basandoci sulle nostre intuizioni, e sui frammenti di conoscenza che riteniamo di possedere.

Per questo sono stupito che tanti ci offrano le loro certezze, come se oggi ne potessero esistere. E non mi scandalizzano né le incertezze del Pd, né le divisioni della piazza, anzi delle piazze della giornata di ieri. È giusto che ognuno manifesti le sue paure e le sue speranze. Ma sarebbe bello che lo facessimo tutti con umiltà, perché nessuno sa che cosa ci riserva il domani, e qual è il modo più ragionevole per assicurarci che un domani ci sia.

[articolo uscito sul Messaggero il 16 marzo 2025]




8 marzo e dintorni – Femminismi

Ormai è chiaro: il concetto di femminismo – sostantivo maschile singolare – è obsoleto. Me ne sono reso conto, da tempo, sentendo donne che la pensano diversamente fra loro su tutto rivendicare orgogliosamente il loro essere femministe.  Ma ne ho avuto la certezza sabato scorso – 8 marzo, festa della donna – partecipando a un convegno femminista presso la fondazione Einaudi di Roma, significativamente intitolato: “I femminismi di fronte alla cultura woke”. Avete letto bene: “i femminismi”, plurale, non le correnti, o le tendenze, o le tradizioni del “femminismo”, singolare.

Insieme a Edoardo Albinati, ero l’unico relatore maschio, ed ero lì – credo – per il mio essermi occupato di cultura woke in alcuni libri recenti (ultimo Il follemente corretto). Ho ascoltato con interesse tutte le relazioni, tenute da relatrici diverse per età, orientamento politico, sensibilità, ma tutte accomunate – mi sembra – soprattutto da due cose: un profondo rispetto delle rispettive posizioni, e il rifiuto del settarismo del cosiddetto transfemminismo, o femminismo intersezionale.

Introdotto e concluso rispettivamente da Lucetta Scaraffia e Paola Concia, il convegno  ha offerto spunti di grande interesse, ma la relazione che più mi ha colpito è quella tenuta da Claudia Mancina. Il titolo era: “Il sette ottobre e le donne ebree: il femminismo che si volta dall’altra parte”. Il riferimento era, chiaramente, alla manifestazione, di oltre un anno fa, in cui le femministe di Non Una Di Meno non solo – nella piattaforma politica – si erano guardate dal menzionare le donne vittima dell’eccidio di Hamas, ma avevano impedito di manifestare a una ragazza che provava a ricordare quello scempio.

Ne è venuta fuori la migliore spiegazione che mi sia capitato di ascoltare di come funzioni il femminismo intersezionale. Nato nel 1989 da un’idea semplice e del tutto condivisibile della giurista Kimberlé Crenshaw, il femminismo intersezionale (o transfemminismo) ne ha fortemente tradito l’ispirazione originaria, e oggi si caratterizza per tre tratti fondamentali. Primo, privilegia i diritti delle persone transessuali rispetto a quelli delle persone omosessuali (gay e lesbiche). Secondo, conduce una polemica durissima nei confronti delle femministe radicali, o femministe della differenza, accusate di omofobia e bollate con l’etichetta TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist) per la loro difesa dei diritti basati sul sesso biologico. Terzo, pretende di definire la condizione di chiunque, e in particolare delle donne, specificando quale intersezione di condizioni di oppressione lo caratterizza. Al top la donna nera, lesbica o transessuale, povera, nata in un paese del terzo mondo, meglio se sfruttato e colonizzato. Al fondo la donna bianca, eterosessuale, benestante, nata in un paese occidentale colonialista, o con un passato di potenza coloniale.

È chiaro che, in questo schema, una volta identificato Israele come il paese che sfrutta i palestinesi e ha colonizzato le loro terre, la maggior parte delle ragazze rapite al rave party del 7 ottobre non si trovano all’intersezione di un numero sufficiente di condizioni di oppressione. Anzi, a parte il loro essere donne, non possono vantarne nemmeno una.

Qui però Claudia Mancina ha fatto una mossa cruciale, suggerendo una lettura dell’intersezionalismo secondo me assolutamente rigorosa ma mai messa pienamente a fuoco, nemmeno dai suoi critici più severi. Quando si dice che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana non ha abbastanza condizioni di oppressione per meritare una tutela, si omette il vero retro-pensiero tipico delle dottrine woke, e cioè che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana è essa stessa, in qualche modo, colpevole di oppressione, in quanto co-responsabile dei misfatti di cui bianchi, occidentali, ricchi, ebrei sono o sono stati autori.

Nella visione paranoica della cultura woke, e segnatamente nella cosiddetta Critical Race Theory, la responsabilità non è semplicemente personale, ma anche collettiva. E non è limitata al presente, ma si allarga pure al passato. Una donna può trovarsi così a dover rendere conto non solo di ciò che fa personalmente, ma di quello che fanno gli appartenenti alla categoria cui lei appartiene, e addirittura di quello che hanno fatto in passato. È precisamente per questo motivo che le donne israeliane vittime di Hamas agli occhi delle femministe di Non Una Di Meno non meritano neanche un briciolo di solidarietà: il loro essere donne oppresse è sovrastato dalle colpe delle categorie di cui si trovano all’intersezione.

Ecco perché dicevo all’inizio che il concetto di “femminismo” è obsoleto. Mentre noi discutevamo con curiosità reciproca i vari femminismi possibili, nelle strade di Roma (e di altre città italiane) le transfemministe di Non Una Di Meno, le stesse che dopo il 7 ottobre non avevano voluto ricordare le donne israeliane violentate da Hamas, bruciavano immagini di Giorgia Meloni e Von der Leyen, esibivano impronte di vernice rossa sulle immagini di ministri e politici (compresa Elly Schlein), attaccavano il disegno di legge sul femminicidio, rifiutavano ogni dialogo con le istituzioni. A conferma del fatto, ben evocato dal titolo del nostro incontro, che ormai il femminismo come tale non esiste più: al massimo esistono i femminismi. E di almeno uno è il caso di chiedersi: ma è ancora femminismo se alle donne israeliane uccise e violentate da Hamas si nega ogni compassione, rispetto, e persino memoria?

[articolo uscito sulla Ragione l’11 marzo 2025]