La Quarta Via

Nel 1998, l’allora direttore della London School of Economics, Antony Giddens, scriveva The Third Way: The Renewal of Social Democracy, un saggio in cui parlava di una visione del mondo alternativa sia alle politiche liberiste di ampia fede nelle leggi del mercato, sia alle politiche stataliste di intervento esteso dello stato sui mercati. Giddens delineava appunto una terza via lungo la quale i partiti potessero proporre riforme pragmatiche dall’area politica del centro.

Soluzioni pratiche ai bisogni della gente, come la riforma del welfare introdotta da Bill Clinton nel 1996, con l’obbiettivo di ridurre la povertà e la disoccupazione; o l’espansione del settore privato nel National Health System del Regno Unito, riforma promossa da Tony Blair a partire dal 1997; oppure il programma di riforme sociali, fiscali e del lavoro introdotte da Gerhard Schröder nel 2003 in Germania, a cui molti hanno accreditato almeno in parte la resilienza dell’economia tedesca dopo la Grande Recessione del 2007-2011.

Negli anni Novanta, sembrava che questi leader avessero trovato la ricetta magica per coniugare protezione sociale e crescita economica, diritti dei lavoratori e interessi imprenditoriali, libertà civili ed eguaglianza sociale. Poi nel 2007 è arrivata la recessione, durante la quale i redditi sono caduti e le diseguaglianze sociali sono aumentate. Nel 2017 in Italia, il reddito medio pro-capite rimaneva del 10%  inferiore a quello di dieci anni prima.[1] Negli Stati Uniti, la classe medio-bassa ha perso oltre il 40% di ricchezza nel periodo 2007-2010, mentre la classe medio-alta ha perso oltre il 20% di ricchezza nello stesso periodo, riuscendo entrambe a recuperare solo il 5% nei 6 anni successivi.[2] Poco sorprende se, oggi, pochi parlano ancora di una terza via socialdemocratica.

Cosa non ha funzionato a dovere? Tra il 1990 e il 2007, pochi hanno messo in luce gli aspetti negativi, soprattutto per alcune fasce sociali, della rapida globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone. Così, mentre nel 2000 Bill Clinton  diceva: “La globalizzazione non è qualcosa che possiamo interrompere o da cui possiamo astenerci. È l’equivalente in economia di forze della natura come il vento o l’acqua”,[3] e pochi anni dopo, nel 2005, Tony Blair ribadiva: “Sento persone dire che dobbiamo fermare la globalizzazione e discuterne. Sarebbe come discutere se l’autunno deve seguire l’estate”,[4] la globalizzazione creava distorsioni nel mercato del lavoro di tanti paesi occidentali, aumentando diseguaglianze sociali e, almeno nel breve periodo, creando nuovi disoccupati.

Uno dei pochi “cantori del dubbio” era Dani Rodrik, economista di Harvard, che nel 1997 scriveva un libro premonitore, Has globalization gone too far?, in cui parlava apertamente delle problematiche insite in un mondo globalizzato che coesiste con dinamiche sociali, economiche e culturali necessariamente nazionali. La globalizzazione ha creato da almeno vent’anni una divisione tra fasce sociali con alti livelli di formazione e capacità tecniche, che ne traggono vantaggio, e fasce sociali senza la formazione e le capacità per trarne vantaggio. Una divisione tra vincenti e perdenti, dove i primi non si sono preoccupati del malessere generalizzato dei secondi, né tantomeno di mettere in atto quegli ammortizzatori necessari affinché il contratto sociale reggesse il peso di questo rapido cambiamento epocale. I vincitori non si sono resi conto che avrebbero risentito, ancor di più dei perdenti, dell’instabilità sociale causata dalla globalizzazione.

In un mondo sempre più globalizzato, ma allo stesso tempo basato geo-politicamente su stati-nazione che non vogliono abbandonare le proprie prerogative politiche interne, come si coniugano crescita economica e protezione sociale? Come si rinnova il contratto sociale interno e allo stesso tempo si promuove la pace tra le nazioni? Serve una nuova narrativa politica, che prenda il meglio della radicale offerta riformista, pragmatica e post-ideologica, che sia supportata da rigorosa evidenza empirica e sappia renderla rilevante ai valori e ai bisogni della gente. Serve una nuova visione del mondo semplice, chiara, puntuale e soprattutto una visione che colleghi efficacemente le riforme proposte con le sensazioni fisiche ed emotive della gente, spesso determinanti a formarne la percezione degli eventi ancor più dei fatti.[5] Questa narrativa deve articolare un nuovo modo di stare assieme, che metta al centro l’individuo immerso nelle proprie relazioni sociali locali, ma allo stesso tempo anche parte di un mondo sempre più interconnesso.

Negli ultimi dieci anni, le forze liberal-democratiche e progressiste delle democrazie occidentali sono state incapaci di offrire una narrativa politica che rispondesse in modo efficace e puntuale alle problematiche socioeconomiche sollevate dalla globalizzazione. E anche quando hanno offerto le migliori risposte riformiste ai mutamenti in corso, queste forze hanno peccato di mancanza di umiltà nel connettersi con un mondo che stava velocemente cambiando, e soprattutto nell’elaborare una visione del futuro che recepisse i bisogni e le emozioni della gente. Come si spiega, altrimenti, la mancata rielezione di un democratico alla Casa Bianca nel 2016? Risultato atteso, visto come Barack Obama aveva gestito il recupero dell’economia americana. Sull’orlo del collasso nel 2007, il governo di Obama ha offerto prestiti pubblici per oltre 830 miliardi di dollari a banche, imprese e società di assicurazioni, quando non era scontato che questi prestiti avrebbero aiutato l’economia a risollevarsi, salvando così interi settori industriali e gli annessi posti di lavoro.[6] Il suo successore alla Casa Bianca, Donald Trump, nel suo discorso di inaugurazione del gennaio 2017, ha promesso invece di mettere fine al “massacro degli americani” conseguenza della recessione. Una catastrofica lettura della situazione socioeconomica americana, diametralmente opposta a quella offerta da Obama alla fine del suo mandato, tutta incentrata sullo straordinario salvataggio dell’economia intrapreso con successo dal suo governo.

A partire dal 2000 e sempre di più dopo la grande recessione, sono stati i movimenti populisti che hanno invece saputo offrire una risposta forte e convincente ai problemi della gente, elaborando narrative politiche efficaci e facilmente comprensibili.[7] Nati negli Stati Uniti con la creazione del People’s Party nel 1891, inizialmente mobilitarono contadini e piccoli imprenditori contro le élite che dominavano le grandi aziende e la politica. Nel secolo scorso si diffusero in America Latina, nelle accezioni sia di sinistra che di destra, e in Europa, soprattutto nell’incarnazione fascista. Dal 2000 in poi, in Europa i movimenti populisti hanno promosso e ottenuto la Brexit nel Regno Unito, introdotto la cosiddetta democrazia illiberale in Ungheria, cooptato e accompagnato al governo la destra in Austria e Italia, governato stabilmente in Polonia. Negli Stati Uniti, Trump è al potere, contro ogni aspettativa, da quasi due anni. Fino ad oggi, le fondamenta liberal-democratiche di questi paesi hanno tenuto, incluso in Ungheria e Polonia, anche grazie all’Unione Europea e al forte sistema di checks and balances della democrazia americana. In futuro non sappiamo come e quanto queste fondamenta dureranno. Come si rinnoverà la fiducia nel liberalismo occidentale del XXI secolo?

Il minimo comune denominatore della narrativa politica messa in campo dai movimenti populisti si basa sull’ostilità verso l’immigrazione, su una palese avversione verso lo stato di diritto interno e il sistema globale di relazioni politiche e commerciali, sull’assistenzialismo verso cittadini e imprese, su una buona dose di autoritarismo, e su un utilizzo poco ortodosso del debito pubblico come strumento finanziario per realizzare le proprie proposte. Quasi sempre a ciò si unisce un nemico esterno che assume varie forme tra cui quella dell’Unione Europea, della Cina, delle élite liberal-democratiche, inclusi i tecnici, i professori, gli esperti e i media. Questa narrativa si basa su uno stato di continua tensione durante la quale i cittadini vengono mobilitati per difendersi da un nemico che li ha quasi sempre derubati di ciò che spettava loro “naturalmente”, allontanandoli da uno stato di natura perso da tempo al quale si aspira invece a ritornare. Uno stato di natura che quasi sempre include società e culture omogenee, poco dissenso, poco dibattito su proposte politiche alternative, un’economia tendenzialmente autarchica (“America First!”, “Prima gli Italiani!”) e l’uso della forza reale o figurata come strumento per prevalere politicamente. Questa narrativa si è rivelata efficace perché ha saputo dare una risposta specifica e diretta ai bisogni concreti della gente, ad ambo i lati dello spettro politico, ed è in particolare riuscita ad incoraggiarne la radicalizzazione.

Negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump ha proposto di costruire un muro con il Messico per arginare il flusso fuori controllo di immigrati, aumentare la sicurezza e dare quindi più lavoro agli americani. Una narrativa chiara, semplice, che risponde al sistema di valori di quella parte della società americana che chiede più sicurezza e più lavoro e teme che l’esistenza della propria cultura sia messa in pericolo dall’apertura degli Stati Uniti al Messico come al resto del mondo. Poco importa se questa narrativa non è supportata da una chiara evidenza empirica.[8] Allo stesso modo, in politica commerciale, Trump ha proposto di alzare le tariffe doganali per proteggere il lavoro e le imprese americane. Anche in questo caso, il messaggio è semplice, diretto, ben collegato ai valori statunitensi di equità e patriottismo. E anche in questo caso, la narrativa non è supportata dai dati.[9]

In Italia la coalizione Lega-M5S oggi al governo, con oltre il 57% del consenso degli italiani a inizio novembre 2018,[10] porta avanti una simile narrativa politica, precisa e costantemente ripetuta nei media. Tra i messaggi chiave, per esempio, la Lega si è focalizzata su “meno immigrazione, perché l’immigrazione porta insicurezza e toglie lavoro agli italiani”. Messaggio semplice e diretto, che dà una risposta concreta al bisogno di maggiore sicurezza e più lavoro. E anche in questo caso la narrativa non è supportata dall’evidenza empirica: oggi l’ingresso di immigrati regolari e irregolari in Italia è drasticamente diminuito rispetto al 2017, la loro presenza non è necessariamente collegata a un incremento della criminalità e gli immigrati non tolgono lavoro agli italiani.[11] Allo stesso modo, il M5S invoca “meno casta e lotta alla povertà”. Il messaggio “meno casta” risponde all’insofferenza popolare verso gli abusi di potere dei politici, ben documentati negli anni da ripetuti scandali. Eppure, la promozione di un approccio pauperistico alla politica è tanto efficace al ritorno d’immagine quanto poco effettivo nello sradicare la corruzione legata alla politica, se non bloccare tanti investimenti in infrastrutture e grandi opere. “Lotta alla povertà” invece risponde al bisogno dei cittadini meno abbienti di protezione sociale. Dalla recessione del 2007-11 in poi, varie fasce di italiani hanno visto il proprio reddito pro-capite stagnare o, al peggio, calare.[12] Ciononostante, la proposta del reddito di cittadinanza non aiuta la classe media, vero motore dello slancio produttivo di cui l’Italia ha bisogno, mentre offre solo un palliativo ai cittadini più poveri che oggi sono aiutati, almeno in parte, dal reddito di inclusione e da altre misure di contrasto alla povertà. Poco importa quindi se le risposte date alla domanda di “meno casta e lotta alla povertà” siano controproducenti o inadeguate.

Quale narrativa è stata proposta sull’altro versante dello spettro politico? Come hanno risposto i democratici americani ed italiani alla visione del mondo proposta dai movimenti populisti su ambo i lati dell’Atlantico? Come hanno saputo leggere gli scompensi socioeconomici provocati dalla globalizzazione e utilizzato le numerose ricette di riformismo radicale a loro disposizione per raccontare un nuovo mondo possibile? Tentennando, nel migliore dei casi, e opponendosi alle narrative populiste, nel peggiore. Fornendo numeri, dati, statistiche, elenchi di cose fatte e da fare, articolando in maniera poco efficace le proprie proposte di soluzione ai bisogni della gente se non addirittura ignorando o negando questi bisogni, come spesso è avvenuto. Al messaggio trumpiano “Costruiamo un muro con il Messico”, che veniva incontro in modo primordiale alle insicurezze e paure della gente rispetto all’immigrazione, Hillary Clinton, nella sua campagna presidenziale del 2016, ha risposto criticando quelle stesse persone proprio per quelle insicurezze, fino a definirle “un cumulo di miserabili”.[13] In Italia, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del marzo 2018, il Partito Democratico ha proposto un programma articolato in 100 punti. Ma che cosa rimaneva alla gente di una proposta politica articolata in 100 punti? Quale visione del mondo sottintendevano questi 100 punti? Quanto facevano sognare e sperare in un mondo migliore?

La visione del mondo proposta dall’area liberal-democratica e progressista è stata carente di spessore narrativo, fatto di storie, aneddoti, metafore, messaggi chiari, semplici e ripetuti, che offrissero alla gente una lettura delle proprie insicurezze economiche reali o percepite, e delle conseguenti riforme necessarie. Decenni di studi e ricerche offrono una lunga lista di soluzioni tecniche, supportate da evidenza empirica, per favorire lo sviluppo economico, combattere la povertà, lottare contro le diseguaglianze, e sostenere le pari opportunità. Ciò nonostante, questo mix di risposte ai bisogni di determinati gruppi sociali, affiorati in particolare durante il rapidizzarsi della globalizzazione, acquista valore solo quando viene costantemente adattato al contesto storico e geografico, e proposto attraverso una narrativa politica che lo metta in relazione ai bisogni, le aspirazioni e le emozioni della gente.

I democratici americani e quelli italiani hanno lasciato l’iniziativa di una nuova narrativa politica, necessaria in un mondo globalizzato, agli avversari, limitandosi a negarne la solidità empirica e implicitamente avvalorandone il costrutto logico-deduttivo. La neurolinguistica ci spiega che opporsi al messaggio dell’avversario politico ne valida la costruzione logica iniziale e, come conseguenza, finisce per rafforzarlo.[14] Per esempio, nel 2015 il M5S ha creato una narrativa politica negativa sul presunto conflitto di interessi del ministro per i Rapporti con il Parlamento Boschi nell’ambito della pubblicazione del “Decreto Salva Banche”.[15] L’obbiettivo era di creare una narrativa secondo la quale il Governo Renzi era amico di banchieri, ne supportava gli interessi e ne nascondeva le malefatte, con la complicità di un proprio Ministro. Sia Renzi che Boschi hanno risposto a questi attacchi negandoli, senza preoccuparsi di smontare nella sostanza quella narrativa per proporne un’altra. Allo stesso modo, i repubblicani americani erano riusciti a infangare il nome di John Kerry, candidato nel 2004 alla presidenza degli Stati Uniti, attraverso l’appoggio indiretto a un gruppo di veterani della guerra del Vietnam, Swift Boat Veterans for Truth, che aveva trasformato efficacemente la percezione di cui godeva Kerry come veterano decorato in quella di un quasi disertore senza coraggio. Donald Trump conosce istintivamente queste dinamiche narrative, dichiarando spesso che “any news is good news”.

Le forze liberal-democratiche e progressiste devono elaborare una nuova narrativa politica che metta esplicitamente in relazione soluzioni tecniche, riforme, politiche pubbliche radicali, efficaci e pragmatiche, basate su evidenza empirica, con i bisogni e le emozioni di persone che vivono in un mondo globalizzato. Mentre Tony Blair e Bill Clinton hanno saputo raccontare un’entusiasmante visione del mondo ai vincitori della globalizzazione, una nuova narrativa politica, che chiameremo Quarta Via, deve narrare una visione del mondo altrettanto entusiasmante dove ci sia spazio sia per i vincitori che per i vinti, alternativa a quella dei populisti ma altrettanto agguerrita, e che utilizzi un proprio linguaggio.

La Quarta Via si collega ai valori universali di compassione, fratellanza, libertà, e uguaglianza, come sono stati declinati tradizionalmente dall’area liberal-democratica e progressista a partire dalla Rivoluzione francese. La Quarta Via si fonda su una esplicita ispirazione morale liberale, sul conseguente stato di diritto (rule of law) e bisogno di sicurezza (public order) e per definizione prende posizione sul tipo di soluzioni tecniche che affrontano e risolvono le necessità della gente. Allo stesso tempo, si interroga costantemente sull’evoluzione del concetto di giusto e sbagliato, sull’adeguatezza del contratto sociale esistente e pragmaticamente offre soluzioni tecniche che migliorano la vita dei cittadini. Elemento chiave di questa narrativa è la riduzione di problemi complessi in termini semplici, spesso attraverso una storia o l’uso di metafore che uniscono i fatti e li intrecciano trascendendo le riforme tecniche offerte in partenza, offrendo ai cittadini un contesto dove possano elaborare autonomamente un significato per le proprie azioni e uno scopo per la loro vita.[16] Questo significato aiuta la gente a formare il proprio senso d’identità e appartenenza, e di conseguenza ad interpretare la vita di tutti i giorni.[17]

Per avere successo, la Quarta Via deve vincere i cuori e le menti della gente offrendo speranza in un mondo migliore di quello odierno. Un sentimento di speranza che, quando efficacemente articolato, ha buone probabilità di prevalere sui sentimenti di paura e rabbia sui quali si basa la narrativa politica populista. La Quarta Via non è una nuova forma di comunicazione, in quanto si preoccupa di creare una storia potente ed efficace che cattura l’immaginario collettivo della gente, e non si limita alla ricerca di un modo di comunicare questa storia visivamente e testualmente per attrarre quante più persone possibile. La narrativa, o story-making, interpreta la realtà attuale, offrendo uno o più contesti di interpretazione e propone una visione futura del mondo. La comunicazione, o story-telling, racconta questa realtà attraverso un video o un post, un documentario o un editoriale, un discorso o una chat.

La notte del 4 novembre 2008 le strade di Washington, DC, erano completamente inondate di gente che celebrava l’improbabile vittoria di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Quando ancora i movimenti populisti stavano crescendo nei consensi ma, almeno nei paesi occidentali, non avevano ancora raggiunto le leve del potere, Obama vinceva le elezioni con una narrativa politica che entusiasmava il popolo americano come non succedeva dai tempi della vittoria elettorale di John F. Kennedy del 1960. Obama si proponeva come l’incarnazione di una società americana post-razziale e post-ideologica, dove le divisioni dettate dal colore della pelle e dalle ideologie di destra o di sinistra non offrivano più le adeguate chiavi di lettura del presente. La sua narrativa politica includeva la riforma del sistema sanitario e quella del sistema finanziario, collegandola ai valori di solidarietà, equità, uguaglianza e libertà, e articolava in modo costante e ripetitivo questi valori adducendo la propria storia personale ad esempio tanto improbabile quanto straordinario: il cambiamento, nell’America del 2008, era possibile, e un uomo nero che fino a meno di centocinquant’anni prima avrebbe potuto essere legalmente schiavizzato, adesso poteva diventare presidente di quello stesso paese. Un mondo migliore era possibile.

Nel 2012, un politico canadese inesperto ma in ascesa, Justin Trudeau, reinterpretava le necessità del popolo canadese elaborando una narrativa politica che offriva soluzioni tecniche imperniate sui valori di tolleranza e apertura. Figlio a sua volta di un Primo Ministro, quel Pierre Trudeau che negli anni Sessanta aveva lottato per tenere il Canada unito quando le forze politiche secessioniste del suo Québec ne minacciavano la disintegrazione, Justin Trudeau va alla ricerca dei valori fondamentali che tengono unito il Canada. Nel suo manifesto politico Common Ground elabora le fondamenta della sua narrativa politica progressista, poi lanciata durante la campagna elettorale vinta nel 2015. Questa narrativa collega quei valori di tolleranza e apertura, a suo dire intrinsecamente canadesi, con politiche pubbliche progressiste tra le quali l’apertura del Canada ai rifugiati e agli immigrati, ingenti aiuti economici a famiglie e studenti, il matrimonio gay, e la liberalizzazione della marijuana.[18] Trudeau elabora una narrativa politica basata sul senso di un destino comune di cui i canadesi contemporanei hanno bisogno data la loro natura di popolo per la stragrande maggioranza composto da immigrati.

Emmanuel Macron rilancia l’idea, nell’agosto 2016, dell’Europa come unico contesto immaginabile entro il quale la Francia possa risolvere i propri problemi e soddisfare i propri bisogni. Non solo vince le elezioni presidenziali dell’anno successivo con oltre il 66% dei voti, a 39 anni e senza il supporto di un partito tradizionale, ma guadagna anche la maggioranza assoluta dei seggi nelle successive elezioni parlamentari con il movimento politico da lui fondato solo un anno prima, la Republique en Marche. Questo successo si basa su una narrativa politica visionaria, imperniata su una Francia che ha tutto da guadagnare dall’apertura al mondo esterno, dove l’Europa è vista come pilastro insostituibile per il progetto francese di un mondo più giusto, sicuro e pacifico. Le politiche pubbliche concrete che propone si ricollegano a questa visione del mondo e vengono pragmaticamente rilette e inquadrate in questo contesto, senza paure dettate dalle gabbie ideologiche che soffocano i partiti tradizionali. Macron risponde alle domande di appartenenza (da dove veniamo?) e destino (dove andiamo?) che i francesi, come tutti i popoli della terra, condividono, e si prende il rischio di interpretarle con successo in chiave europea, in un contesto politico dove la destra populista del Front National aveva invece proposto una visione identitaria e di chiusura.

In un recente saggio sul liberalismo, l’Economist afferma che “il contratto sociale e le norme geopolitiche alla base delle democrazie liberali, e l’ordine mondiale che le tiene in piedi, non sono state pensate per questo secolo”.[19] La Quarta Via allo sviluppo umano, sociale ed economico offre una visione del mondo contemporaneo che include soluzioni tecniche dettagliate che variano da paese a paese, ma che presentano alcuni tratti comuni. Primo, le riforme proposte si basano su evidenza empirica e, qualora questa non esista, includono una misurazione della propria efficacia mentre le riforme sono in corso d’opera. Secondo, queste riforme si preoccupano in primis di dare una risposta agli effetti negativi della globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone, con particolare attenzione ai gruppi sociali più disagiati. Terzo, le riforme si collegano efficacemente ai bisogni e alle emozioni della gente. Questa nuova narrativa politica elabora una visione ispirata a valori liberal-democratici e progressisti, riaffermando la speranza di un mondo dove i figli potranno nuovamente vivere in un mondo migliore di quello in cui vivevano i loro genitori.

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[1] UNU-WIDER, “World Income Inequality Database (WIID3.4)”, Gennaio 2017.
[2] Dettling, Lisa J., Joanne W. Hsu, and Elizabeth Llanes, “A Wealthless Recovery? Asset Ownership and the Uneven Recovery from the Great Recession ”, FEDS Notes. Washington: Board of Governors of the Federal Reserve System, Settembre 2018.
[3] http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=1038
[4] https://www.theguardian.com/uk/2005/sep/27/labourconference.speeches
[5] William Davies, “How feelings took over the world”, The Guardian, Settembre 2018.
[6] “Estimated Impact of the American Recovery and Reinvestment Act on Employment and Economic Output from October 2011 Through December 2011”, Congressional Budget Office, Febbraio 2012.
[7] Dani Rodrik, “Populism and the economics of globalization,” Journal of International Business Policy, 2018, p. 13.
[8] “Statistical Portrait of the Foreign-born Population in the Unites States, 1960-2016”, Pew Research Center.
[9] Joseph Francois and Laura M. Baughman, “Does Import Protection Save Jobs? The Estimated Impacts of Proposed Tariffs on Imports of U.S. Steel and Aluminum”, Policy Brief, Trade Partnership, Marzo 2018.
[10] Demos&Pi e Demetra, “Atlante Politico”, commissionato da La Repubblica, 2 Novembre 2018. Campione: 1.001, livello di rappresentatività: 95%, margine di errore: +/- 3.1%.
[11] XXVII Rapporto Immigrazione, Caritas e Migrantes (RICM) 2017-2018, “Un Nuovo Linguaggio per le Migrazioni”, Settembre 2018. Cfr. anche Paolo Segatti e Federico Vegetti, “Rapporto sull’accoglienza degli italiani. Fattore sfiducia”, Il Regno – attualità̀, Nr. 18/2018, pag. 557-571.
[12] Massimo Baldini, “Perché aumenta la disuguaglianza in Italia”, Lavoce.info, 27 Aprile 2018.
[13] https://www.youtube.com/watch?v=PCHJVE9trSM
[14] George Lakoff, “Don’t Think of an Elephant!: Know Your Values and Frame the Debate”, Chelsea Green Publishing, Settembre 2004.
[15] Decreto Legge 183/2015 recante Disposizioni urgenti per il settore creditizio, approvato il 22 Novembre 2015 dal Consiglio dei Ministri del Governo Italiano.
[16] Jeong-Hee Kim, “Understanding Narrative Inquiry”, SAGE Publications, Marzo 2015, p. 190.
[17] Kalypso Nicolaïdis, “Brexit as myth: Exodus, Reckoning, or Sacrifice?”, Standpoint, Luglio/Agosto 2017.
[18] Justin Trudeau, “Common Ground”, HarperCollins, Agosto 2015.
[19] “Reinventing liberalism for the 21st century”, The Economist, Settembre 2018.



Dov’è sparita la scuola?

Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.

E la scuola, è sparita?

No di certo: essendo settembre, è ricominciata.

Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’agenda dei politici.

E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’accoglienza, le ONG.

Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?

Non sono più un’insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’istruzione, dai libri, dallo studio, dall’esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.

Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta…

Ma adesso, quest’anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’antirazzismo, per esempio. L’antifascismo, l’antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia…

Grandi valori, non c’è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’antirazzismo si possa “insegnare”, ecco. L’amore, la generosità, il rispetto, l’altruismo non s’insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.

Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’umanità, cambiare il mondo, eccetera…

Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?

Ho fatto il liceo negli anni ’70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti “politicizzati”. Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!

Credo che ritenessero d’aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante.  Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!

Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.

Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno “politico” sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà “umani”.

Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: “I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita”. Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le “materie”. Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! – a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo “piccole”, anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.

La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.

 … e la poesia?

E la poesia, esiste ancora?

Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.

Dunque la poesia esiste.

Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.

Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.

Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.

Ci pensa un po’. Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:

– Vanno a capo.

Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?

Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 1 ottobre 2018




Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.




I partiti politici hanno rovinato l’Italia?

A Roberto Pertici

Nei giorni 10 e 11 settembre si è svolto a Santa Margherita Ligure, col patrocinio del Comune, della Regione Liguria, del Ministero degli Affari Esteri, del Corpo Consolare di Genova, il primo Festival della Politica in Liguria. A organizzarlo è stata l’Associazione Culturale Isaiah Berlin, intitolata al grande filosofo liberale di Oxford che trascorreva diversi mesi dell’anno nella sua villa sulle alture tra Santa Margherita e Portofino. Sono stati giorni di civilissimo confronto tra giuristi, economisti, storici, filosofi, politici di diversa area ideologica ma alieni dall’insulto, dalla criminalizzazione dell’avversario, dal processo alle intenzioni che ormai caratterizzano dibattiti televisivi, talk show, interviste sui quotidiani e, soprattutto, twitter. Temi caldi come la crisi della democrazia, la globalizzazione, il sovranismo, il populismo sono stati affrontati in maniera chiara e pacata: ciascun relatore, nelle sei tavole rotonde, ha esposto le sue ragioni senza aver l’aria di possedere la verità in tasca. Qualcosa a cui non si era più abituati.

Intervenendo, anch’io, sul tema della crisi della democrazia, mi è scappato di dire, incautamente, che «a rovinare l’Italia sono stati i partiti». L’ho sempre pensato ma affermazioni come questa non si fanno en passant : se manca il tempo per motivarle storicamente e teoricamente, è meglio lasciar perdere. Giustamente, quindi, mi è stato fatto rilevare che, in Italia, sono stati i partiti a tenere unito il paese dopo la catastrofe bellica, a selezionare la nuova classe dirigente repubblicana, a porre le basi della democrazia rappresentativa. Se hanno invaso la pubblica amministrazione, ha aggiunto qualcuno, lo si deve al fatto che lo Stato controlla direttamente o indirettamente più del 50% dell’economia e, quindi, è forte la tentazione dei partiti di entrare nella “stanza dei bottoni” per assicurare vantaggi e risorse alle proprie truppe.

Per chi, come me, vede nel pensiero di Raymond Aron un muro maestro dell’edificio liberale, si tratta di considerazioni scontate. Il fenomeno dei partiti, nella società contemporanea, scriveva il grande filosofo-sociologo della Sorbonne, «diventa essenziale poiché l’unicità o la pluralità dei partiti determina la modalità della rappresentanza». Chi teme le dittature di ogni colore e ama la “libertà dei moderni”, pertanto, non può non riconoscere la funzione decisiva dei partiti politici.

 In Italia, però, non va dimenticato, bisogna fare i conti col fattore effe (fascismo) e con i suoi eredi sicché tutto quello che si può concedere ai miei critici è che, in ogni caso, la partitocrazia è il meno peggio rispetto a qualsiasi altro regime—che, ormai, non potrebbe essere più il regime del partito unico, ma il governo degli esperti, sempre più auspicato da quanti, in nome della “competenza” e dell’antipopulismo, vorrebbero tornare a Saint-Simon e alla tecnocrazia.

Che cosa significa il fattore effe? In parole semplici, significa che c’è un partito, il PNF, che non si pone al servizio della “comunità politica” (tradizioni, istituzioni, mentalità, credenze religiose, culture politiche più o meno consolidate da tempo), ma la definisce e la fonda. Non c’è un libro sacro che i sacerdoti debbono interpretare, ma sono i sacerdoti stessi che ne scrivono uno, escludendo dalla protezione dello Stato e delle leggi tutti coloro che non lo riconoscono (da ultimo toccò agli ebrei).

I partiti del CLN (in sostanza DC, PCI e PSI, i cespugli del tempo contano poco) vanno considerati, a mio avviso, i veri eredi del PNF, con la differenza fondamentale che la loro pluralità ha garantito oggettivamente quel minimo di libertà civili e politiche che il fascismo aveva azzerato. La pretesa, però, è la stessa: quella di rifondare la comunità politica, non di riconoscerla nei suoi valori secolari, e di definirla, a differenza del fascismo, in un testo costituzionale (dove, tra l’altro, si riconosce il diritto di proprietà solo per la sua “funzione sociale”, lasciando nell’ombra il significato di “funzione sociale” e gli organi che dovrebbero accertarla) che, in sostanza, vanifica la politica a favore del diritto. (Vedine gli esiti estremi nei giuristi cosmopolitici per i quali le “frontiere” sono un attentato contro i diritti universali dell’uomo).

Questo dato storico, che non trova riscontro in altri paesi occidentali—neppure in Francia dove il conflitto politico è/è stato non meno incandescente che in Italia—spiega assai bene certe modalità della politica italiana. A cominciare dalla natura carismatica dei partiti che, in quanto portatori di legittimità sostanziale, sono superiorem non recognoscentes: l’immagine di uno Stato forte e neutrale diventa, nella loro ottica, ideologia, falsa rappresentazione: un prefetto, un questore, un generale, un direttore di quotidiani, un editore etc. sono simboli di istituzioni vuote, che vanno riempite di contenuti etico-sociali concreti, che nel ventennio erano sfornati da un solo partito e, a partire dal secondo dopoguerra, da una pluralità di partiti. Il funzionario che “non guarda in faccia a nessuno” da noi è quasi un “cavaliere inesistente” che pretende di far rispettare la legge e l’ordine anche ai rappresentati consacrati dal voto popolare ma si muove come un’armatura vuota. I partiti non sono il braccio armato e intercambiabile (le loro fortune dipendono dalle urne) dello Stato, ma i suoi servi padroni o, meglio, non sono gli interpreti delle sue volontà ma coloro che ne indicano le direzioni, che dicono alla volontà ciò che deve volere.

Anni fa, in Francia, i socialisti subirono un grave scacco elettorale perché sospetti di voler mettere le mani sulla Pubblica Amministrazione. Oltralpe i diritti civili sono assicurati—con buona pace dei retori liberisti e libertari dell’anticentralismo—giacché i vari regimi politici non erodono la pianta dello Stato, accampandosi sulle sue rovine come i barbari del tardo impero. I servizi pubblici funzionano (dalla Sanità alle ferrovie) perché i politici—Parlamento ed esecutivo—esercitano funzioni doverose di mero controllo: nel nostro paese, al contrario, le nomine alla direzione degli enti diventano un terreno di scontro politico, volendo ciascun’area politica imporre “i suoi uomini”, per far valere la propria concezione del bene pubblico. Questo brutto costume di casa, paradossalmente, era ancora tollerabile quando erano vivi e vegeti i partiti tradizionali che si richiamavano a forti ideologie: l’interesse generale, allora, si identificava con quello di una parte ma questa parte riteneva, a sua volta, di battersi per i grandi valori (la solidarietà cristiana interclassista, l’ascesa del proletariato, il riscatto delle campagne etc.). Finita l’era dei “grandi racconti”, rimane solo la lotta per il potere fine a se stessa, che si svolge in un’arena—lo Stato—sempre più evanescente e privo di veri difensori, impensabili ove manchino il “senso delle istituzioni” e, me lo si lasci dire, l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità nazionale. Valori irrecuperabili per sempre se si pensa che ci si sente italiani (forse) solo all’estero giacché a definirci sono, soprattutto, le nostre opinioni politiche e le nostre collocazioni regionali.

Anteprima del testo che uscirà sul forum di Paradoxa



Pensieri estivi

La nave dell’acqua

M’interrogo spesso sulle navi dell’acqua. Mi succede di solito in agosto, nel resto dell’anno quasi mai. In agosto, su un’isola. Se non sono su un’isola, difficile che mi venga il pensiero.

Le isole dipendono dalla nave dell’acqua. Se la nave non arriva, l’isola resta senz’acqua. D’accordo, è piuttosto ovvio. Ma pensiamoci a fondo. Una nave che trasporta… acqua. Che da qualche parte sulla terraferma si fa riempire le cavità interne di… acqua. Le cavità interne di una nave, il grembo oscuro, l’antro misterioso della balena di Pinocchio. E poi piano piano, piena com’è d’acqua, va… sull’acqua. Percorre quella vastità incommensurabile di acqua che è il mare e va a portare la sua personale dose d’acqua in un posto dove non c’è acqua, e non ci sarebbe mai se lei non arrivasse. Pensiamo cosa dev’essere avere un tale fine, essere programmata per una missione così necessaria e salvifica. Pensiamo a quale consapevolezza di sé, a quale fierezza, pienezza morale, autostima deve possedere una nave dell’acqua.

E osserviamola con attenzione. Strana, particolare. Non assomiglia a nessun’altra nave. La si distingue già da lontano, la si vede arrivare quando è ancora un puntino oblungo all’orizzonte, un trattino sul filo del mare, ed è un tuffo al cuore. Almeno uno di noi a questo punto, ovunque si trovi – a casa, al bar, sotto l’ombrellone, in coda in un negozio (a patto che abbia almeno una vetrata sul porto) – esclama, col sorriso nel cuore:

Arriva la nave dell’acqua!

C’è sempre, in queste esclamazioni estemporanee e istintive, qualcosa di quella purezza disarmata eppur imperiosa, di quel terrore atavico intrattenibile che ha a che fare con la paura di morire, con le difficoltà primitive del vivere, la fame, la sete, la povertà; e anche, quindi, con l’idea di una salvazione, di un’entità metafisica variamente declinata che ci osserva, ci protegge, e in definitiva ci vuole bene. Una nave dell’acqua, appunto.

È bellissima. Lunga, stilosa. La prua è un corpo compatto e ha la forma di ogni prua, più o meno. E la poppa anche, tutto sommato, esce poco dalla norma. Vista da davanti o da dietro, una nave dell’acqua potrebbe assomigliare a una nave qualsiasi. Ma vista di lato no perché poi, nel proseguire del corpo, nella sua parte centrale, si assottiglia e si appiattisce, fa partire una sezione di sé lunghissima e filiforme, come se qualcuno avesse tirato dalla prora e dalla poppa a mo’ di molla e il risultato fosse una specie di corridoio etereo e longilineo, un avvallamento, una piattaforma, che contraddice l’idea stessa di nave dell’acqua così come ci verrebbe da immaginarla: grossa, ingombrante, tonda come il ventre di una donna che porta in sé il suo figlio nascituro. Nave gravida che, invece, nasconde il peso, lo camuffa in una snellezza elegante, dandoci il brivido di un dubbio: ma veramente questa nave avrà dentro di sé dell’acqua, o ci inganna?

E poi, la fermezza. Nel senso dello stare ferma. Una nave dell’acqua non si muove. Sta. Per ore, anche giorni. Ha questa pazienza di arrivare e poi star lì immobile, muta. Sa cosa deve fare, e sa che il prezzo è il tempo, un tempo statico, appagato in sé, dal suo fine. Ormeggia al molo, distende quel suo lungo tubo (di gomma?) che inizia penzolando dalla chiglia, poi affonda un poco in mare, infine subito risorge per connettersi con chissà quali tubazioni ignote, sotterranee, misteriche, collegate a loro volta a chissà quali immense caverne, concavi spazi bui, grotte, magazzini, cantine, container… Come si chiameranno queste cavità capaci di contenere tutto il fabbisogno d’acqua di un’intera isola?

E di lì, l’arrivo alle cisterne. Il mistero delle cisterne! Il lento diramarsi dell’acqua verso le singole cisterne. Ogni casa ne ha una, su un’isola. È il suo bene più prezioso. Il valore di una casa si misura in tonnellate, nella capacità della sua cisterna. Più tonnellate una cisterna contiene, più è capace di fornire acqua e più, nel suo proprietario, si dissolve l’idea di sete, rovina, morte.

Infine, la desertitudine. La nave dell’acqua sembra sempre deserta. Non si vede essere umano. Nessuno si aggira, scruta l’orizzonte, cammina, mangia un panino. Nessuno. Per quanto mi fermi ogni volta a guardare, non ho mai colto alcun movimento o parvenza animata. Neanche un cane, per dire. Lo sterminato ponte, quella piattaforma stirata, è sempre perfettamente vuoto.

Chi c’è sulla nave dell’acqua?

Eppure qualcuno la abita, la governa. Dove si nasconde? E cosa fa? Come si vive su una nave dell’acqua?

Se fossi uno scrittore, m’inventerei una storia.

 

L’aereo dell’acqua

Anche gli aerei, d’estate, portano acqua. Succede quando qualcosa s’incendia, di solito un bosco. Allora noi da riva osserviamo il giallo dei canadair sfiorare il mare, caricare, ripartire verso l’alto e poi scaricare lasciandosi dietro la nuvola bianca e densa dell’acqua, che a pioggia, cadrà a spegnere fiamme che non vediamo. Gli incendi, chissà perché, sono sempre dietro il monte, a lato del promontorio, dopo la curva, oltre la punta: sempre nascosti, lontani, come non volessero farsi sorprendere, come se bruciare fosse una faccenda privata, da consumarsi nell’intimo della propria esistenza.

Sono bocche aperte, i canadair. O meglio, aerei dalla pancia sfondata, che a mo’ di enorme paletta raccolgono l’acqua, la contengono un attimo in sé, per poi subito elargirla.

Ma il bello sono gli aerei, o elicotteri, col cestino. O secchiello. Un piccolo contenitore che tengono appeso e vola sotto di loro, un poco inclinato, sghembo. Un secchio porta acqua, così minuscolo nel cielo, tenuto da un filo o catena, chissà, qualcosa di aereo che lo sospende. E noi lì sotto a fare la nostra vita di turisti, bagnanti, vacanzieri festosi e divertiti: noi a fare il bagno, spalmarci di creme, tuffarci dagli scogli, arroventarci di sole, chiacchierare con gli sconosciuti, sfogliare riviste, addentare focacce, adocchiare bellezze, rincorrere gabbiani, accarezzare cani, litigare con genitori, baciare fidanzati, guidare moto d’acqua, nuotare. Mentre nel cielo questi velivoli pazienti, generosi e umili passano e ripassano sopra le nostre teste ignare, distratte, indifferenti.

Ogni tanto, se ci pare, se ci viene, volgiamo gli occhi in alto e li vediamo, per un attimo, questi aerei che vanno e vengono, dieci volte, venti volte, per ore, metodici, costanti, col loro secchio appeso, ora portandolo pieno, ora riportandolo vuoto. Ogni tanto, se ci permettiamo ancora il piacere di stupirci, ci nasce la domanda: ma come si può spegnere un incendio con un pugno di secchielli d’acqua? E di colpo ci assale la nostalgia di tutte le imprese folli e impossibili.

Come quel bambino in riva al mare che prendeva l’acqua con una conchiglia e piano piano, una conchigliata dopo l’altra, la riversava nella piccola buca appena scavata nella sabbia. Sant’Agostino passava di lì, immerso nei suoi pensieri. Incuriosito, gli chiese: Cosa fai?

Voglio svuotare il mare e trasferirlo nella mia buca.

Fine agosto

Agosto è un mese impegnativo. Forse è lui il più crudele dei mesi. Ci impone di interrompere la nostra vita, che equivale quasi a lasciare il nostro pianeta e avventurarci per i mondi inesplorati e ostili della vacanza: chiudere casa, intraprendere viaggi, vivere altrove, in un tempo limitato, in uno spazio sconosciuto. Tirarsi dietro poca roba stipata in borsoni, zaini, trolley; sottoporsi allo stress dell’acquisto biglietti, all’attesa delle coincidenze, alla noia dei lunghi percorsi, all’eccesso o alla totale assenza di aria condizionata, al rollio dei traghetti, alla folla che si ammassa davanti all’unico ascensore, all’alba, quando il traghetto arriva in porto e ognuno vuol essere il primo a scendere, come se la vacanza non lo aspettasse, partisse in qualche modo anche lei per una sua vacanza, all’interno di sé.

Affittare mezzi estranei, auto, bici, gommoni che non è detto che sapremo guidare; alloggiare in dimore ignote, alberghi, tende, roulotte o case altrui. Le case affittate, per esempio, dove incontriamo la grettezza umana, l’avidità, l’avarizia di chi affitta a caro prezzo (in nero) e lascia a disposizione quattro piatti (solo fondi), cinque o sei posate e una mezza dozzina di bicchieri spaiati, gialli verdi, alti, bassi.

Che tristezza i bicchieri spaiati.

Vacanza è mancanza. In vacanza ci manca tutto: i genitori se siamo figli, i figli se siamo genitori, la casa, i vicini di casa, i libri, anche quelli che abbiamo già letto o non leggeremo mai, i fiori sul balcone, i vestiti che non abbiamo messo in valigia, l’odore di minestra perenne nell’androne (ma chi è che cucina sempre la minestra?), i negozi, il supermercato con la nostra cassiera preferita.

Vacanza è “mancare” a se stessi. Non è vero che in vacanza scopriamo finalmente chi siamo, il nostro vero essere, le infinite possibilità di noi che la vita solita ci preclude. No, in vacanza ci perdiamo. O meglio, perdiamo la parte abituale di noi, di cui sentiamo subito una struggente “mancanza”. Il ritmo fisso che scandisce la nostra giornata, gli impegni di lavoro sempre uguali, l’autobus, il parcheggio sotterraneo. Per esempio il gesto di compilare il voucher del parcheggio grattando con la monetina le ore e mettendo sempre una mezz’ora in più sperando di farla franca. Ci mancano da morire questi gesti minimi. I dialoghi soliti. Per esempio dalla mia amica panettiera, che vende miriadi di pani diversi, a cui chiedo sempre cos’è il lievito madre e se pane ai cereali vuol dire integrale. E lei con pazienza ogni volta mi rispiega tutto.

Vacanza ha in sé, etimologicamente, la parola vuoto. E le nostre vite, così come abbiamo deciso di costruirle, sono piene. Pienissime.

Non siamo ancora pronti per il vuoto.

Settembre è il più consolante dei mesi.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 settembre 2018