L’eredità del debito nell’economia post Covid

Il mondo travolto dalla pandemia ha un evidente problema di debito. Lo segnalano i dati diffusi dal Fondo Monetario Internazionale che già ad aprile aveva ipotizzato una risalita del peso delle pendenze pubbliche sul Pil pari a circa 13 punti percentuali fino a quota 96%. La successiva revisione al rialzo delle stime prefigura oggi il superamento di quota 100%, un record storico. Il fenomeno non sorprende. La recessione da Covid-19 dovrebbe costare al Pianeta quasi 5 punti di Pil per l’anno in corso e la crisi economica imporrà un aumento della spesa pubblica da finanziare con nuove emissioni. Una combinazione di fattori che produce un allargamento della forbice tra ricchezza prodotta e indebitamento complessivo. Il ricorso a misure d’emergenza nel contesto attuale, ha notato Gavyn Davies, presidente di Fulcrum Asset Management, sulle colonne del Financial Times, sembra trovare un consenso quasi unanime tra gli economisti. L’ipotesi è intuitiva: l’epidemia lascerà in eredità un’imprevista quota di debito da gestire.

Tra le numerose questioni aperte tre temi, in particolare, potrebbero caratterizzare il dibattito nei mesi e negli anni a venire: la sostenibilità in termini fiscali; l’autonomia delle banche centrali; i rischi affrontati dai mercati emergenti e in via di sviluppo. Sono problematiche essenziali destinate a intrecciarsi con l’eredità delle politiche monetarie dell’ultimo decennio. Ma sono soprattutto questioni irrisolte nel contesto di una crisi del tutto peculiare.

 

Un crisi completamente diversa

Undici anni fa la Grande Recessione post Lehman si sviluppò come conseguenza di una drastica riduzione del credito disponibile. All’epoca, come noto, le banche centrali risposero avviando una politica monetaria espansiva senza precedenti basata sul riacquisto di prodotti finanziari di qualità variabile (dai titoli di Stato alle asset-backed securities) garantendo così un abnorme e costante apporto di liquidità al sistema. I programmi di sostegno al comparto bancario hanno fatto il resto. Da allora la ricetta monetaria espansiva si è diffusa più o meno ovunque producendo essenzialmente due conseguenze strettamente correlate: una disponibilità senza precedenti di credito a basso costo e un rally borsistico ultradecennale.

La crisi del Grande Lockdown ha stimolato inevitabilmente un’ulteriore accelerazione delle iniziative di alleggerimento monetario. Non è un caso che dopo un’iniziale e tutt’altro che trascurabile correzione ribassista gli indici di borsa abbiano ripreso a correre trascinando al rialzo quasi tutte le asset class finanziarie presenti sul mercato (dalle azioni alle obbligazioni passando per l’oro). Ma la contrazione economica legata alla pandemia, come detto, ha origini completamente diverse. Si tratta, semplificando, di una crisi da “economia reale” manifestatasi in primis sul fronte dell’offerta – l’esplosione dell’epidemia in Cina ha impattato direttamente sulla catena di fornitura globale – e in seguito su quello della domanda. La lunga fase della quarantena ha depresso i consumi e alcuni settori – dall’automotive al turismo senza dimenticare il comparto petrolifero – sono entrati in un tunnel senza luce generando nei Paesi più esposti contrazioni economiche a doppia cifra percentuale. È in questo contesto che la spesa per il welfare e le politiche di sostegno a imprese e consumatori sono entrate in una fase espansiva alimentando la necessità di un crescente indebitamento.

In linea teorica una futura ripresa economica accompagnata da bassi tassi d’interesse potrebbe favorire una contrazione della forbice debito/Pil. Ma questa dinamica dovrà essere sorretta, per così dire, da un’opportuna strategia fiscale. Molti Paesi, ha osservato ancora il Fondo Monetario Internazionale, saranno chiamati a intraprendere «solide politiche di risanamento di bilancio nel medio periodo» attraverso le classiche strategie suggerite dalla teoria e dalla logica: «taglio della spesa superflua, allargamento della base imponibile, introduzione di una maggiore progressività fiscale e minimizzazione dell’elusione». Un percorso possibile?

 

Gli ostacoli fiscali

Forse. Ma non mancano gli ostacoli. Il primo grande problema, ad esempio, è dato proprio dalle palesi difficoltà rappresentate dalla stessa fiscal consolidation – il risanamento di bilancio, appunto – che, come noto, non potrà essere uguale per tutti. Paesi caratterizzati da un’onda lunga di crescita modesta, alti livelli di spesa e forte indebitamento – l’Italia, ovviamente, ma un discorso simile vale anche per il Giappone – rischiano di pagare quegli effetti negativi sulla crescita che sono tipicamente associati alle strategie di ristrutturazione dei conti pubblici. Anche per questo, forse, il dibattito su nuove forme di tassazione che escludano i contribuenti tradizionali attira oggi un significativo interesse. In una ricerca pubblicata all’inizio di luglio, il think tank Bruegel (Brussels European and Global Economic Laboratory) ha proposto di intervenire sul sistema di scambio di quote di emissione (ETS) e sull’Energy Taxation Directive (ETD) dell’Unione Europea raddoppiando il carbon price (che si aggira oggi attorno ai 25 euro per tonnellata di CO2). L’operazione, sostengono i ricercatori, potrebbe generare introiti per 90 miliardi, oltre la metà del fabbisogno fiscale destinato alle politiche di risanamento di bilancio (pari a oltre l’1% del Pil, più o meno 140 miliardi di euro).

Ipotesi interessante, non c’è dubbio. Ma il rischio è che la palude delle trattative che caratterizza abitualmente le iniziative di riforma in sede europea possa produrre schemi di tassazione eccessivamente annacquati e per questo scarsamente efficaci (tradotto: capaci di generare gettiti assai più modesti rispetto alle attese). I precedenti non mancano. L’ultima bozza normativa relativa all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie all’interno dei dieci Paesi della cooperazione rafforzata UE (tra cui l’Italia) si ispira all’esperienza francese, basata sull’applicazione di un’imposta nel trading azionario delle maggiori compagnie quotate. I ricavi annuali previsti, secondo le stime, ammonterebbero a 3,5 miliardi di euro, circa un decimo del gettito ipotizzato dalla Commissione Europea nel 2013 di fronte a proposte di tassazione decisamente più ambiziose in termini di base imponibile.

Impasse politica, si potrebbe dire. E non è certo una novità. Il contrasto all’elusione fiscale, restando alle raccomandazioni del FMI e al contesto continentale, ad esempio, fa i conti con le divisioni nel Vecchio Continente. A gennaio, intervenendo al World Economic Forum di Davos, il sottosegretario alle finanze polacco Jan Sarnowski e il direttore del think tank governativo Polish Economic Institute di Varsavia, Piotr Arak, hanno presentato uno studio per denunciare il peso delle pratiche elusive da parte di individui e imprese che, secondo le loro stime, costerebbero all’Europa circa 170 miliardi di mancati introiti ogni anno. L’80% dei profitti trasferiti, precisa la ricerca, sarebbe convogliato verso altri Paesi della UE «che dovrebbero essere definiti come paradisi fiscali», vale a dire Irlanda, Paesi Bassi, Malta, Cipro, Belgio e Lussemburgo. Lo scorso anno, tramite una risoluzione, il Parlamento europeo aveva chiesto alla Commissione di riconoscere formalmente come tax haven cinque Stati membri (i Paesi di cui sopra con l’eccezione del Belgio). La richiesta, ad oggi, non è ancora stata accolta.

 

Il ruolo delle banche centrali

In tutto questo la strategia espansiva delle banche centrali resta una costante. Il costo del denaro nelle principali economie globali viaggia da anni attorno a quota zero; i programmi di acquisto sul mercato – tradotto: l’immissione di liquidità – sono storicamente impressionanti. In meno di 15 anni il controvalore degli asset a bilancio dei quattro maggiori istituti centrali del Pianeta – Fed, Bce, Bank of Japan e People’s Bank of China – è quintuplicato passando da 5 a 25,2 trilioni di dollari (dati a giugno 2020). In termini teorici si parla di rischio-bolla ma il problema, in realtà, sembrerebbe essere più ampio. Lo ha suggerito alla fine di giugno Agustín Carstens, General Manager della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank for International Settlements, BIS) intervenendo all’assemblea annuale dell’ente a Basilea. In sintesi: l’intreccio tra le politiche fiscali – di pertinenza dei governi – e quelle monetarie – in capo alle banche centrali – si è consolidato negli anni e le cosiddette misure non convenzionali, a partire dall’alleggerimento quantitativo, hanno perso il loro carattere estemporaneo assumendo al contrario una persistenza sostanziale. Lo insegna l’esperienza del decennio post crisi e lo confermerebbe il contesto attuale.

Per quanto necessarie, argomenta Carstens, le azioni fin qui condotte «possono minacciare l’indipendenza e la credibilità delle banche centrali stesse». In particolare, ha aggiunto, «data la massiccia risposta fiscale e il significativo aumento del debito pubblico che inevitabilmente seguirà, saranno in molti a chiedere che i costi di finanziamento siano mantenuti artificialmente bassi». Anche per questo, una volta superata la crisi, «sarà fondamentale che le banche centrali si mantengano indipendenti per adempiere ai loro mandati». A partire dal mantenimento della stabilità dei prezzi.

Tutto ampiamente auspicabile ma l’esperienza recente racconta una storia diversa. Fed e Bce sono sottoposte da tempo a una pressione più o meno esplicita da parte dei governi. La scorsa estate, da parte sua, la banca centrale indiana è arrivata persino a sostenere direttamente la spesa del governo.

 

I rischi per i Paesi emergenti

Ogni analisi sulla sostenibilità globale del debito, infine, non può prescindere da una valutazione sulla delicata posizione dei mercati emergenti e in via di sviluppo. Dal 2005 ad oggi, ha rilevato di recente il Financial Times, il debito dei Paesi più vulnerabili è passato da meno di mille miliardi a 3,2 trilioni di dollari, pari al 114% del loro Pil. Le pendenze complessive pubbliche e private (Stati, famiglie, imprese e società finanziarie) dei mercati emergenti, rileva l’Institute of International Finance, ammontano a 71 mila miliardi (16.700 dei quali ascrivibili ai governi).

Lo sbilanciamento fiscale è evidente: alla fine del quarto trimestre 2019 il debito pubblico dei Paesi emergenti aveva raggiunto quota 52,7% del Pil con una crescita di 3,2 punti percentuali rispetto a dodici mesi prima. Le pendenze pubbliche e private totali di queste nazioni valgono oggi il 220% del prodotto interno lordo contro il 147% del 2007. E i segnali di crisi non mancano di certo. Il drastico calo delle riserve valutarie impatta negativamente sulla capacità di ripagare i debiti in essere tanto più di fronte alla presenza di due fattori concomitanti: la crescita dei costi di rifinanziamento e un rilevante deflusso di capitali.

In questo quadro, infine, pesa l’incognita delle tensioni politiche tra Stati Uniti e Cina. La possibile escalation del conflitto commerciale tra Washington e Pechino, nota Bloomberg, «potrebbe ritardare la ripresa dell’economia globale, spingere gli operatori a investire nei beni rifugio come i titoli di Stato USA e rafforzare il dollaro». Un fenomeno, quest’ultimo, che renderebbe ancora più gravosa la gestione dei debiti dei mercati emergenti e in via di sviluppo denominati in valuta statunitense che, escludendo il settore bancario, ammontavano alla fine del 2019 a 3,9 trilioni di dollari.




Paesi dell’Est, nuovo focolaio?

di Rossana Cima e Luca Ricolfi

Preoccupa l’avanzata dell’epidemia nei paesi dell’Est. Proprio oggi Serbia, Montenegro e Kosovo sono stati aggiunti alla lista dei luoghi a rischio, facendo salire a 16 i paesi per cui vi è il divieto di ingresso e transito in Italia. Nella lista erano già compresi Armenia, Bosnia Erzegovina, Macedonia e Moldova.

Che vi siano indizi di un’accelerazione dell’epidemia in alcuni paesi dell’Est lo si può vedere dai grafici seguenti che rappresentano l’andamento dei nuovi casi settimanali per abitante. Ciò che possiamo fare analizzando questi trend non è tanto valutare la gravità dell’epidemia (l’individuazione di nuovi casi potrebbe dipendere dalle politiche sui tamponi adottate dai vari paesi), ma capire se il contagio si stia allargando.

Su 21 paesi considerati ve ne sono 9 che mostrano chiari segnali di ripresa dell’epidemia. Si tratta si Kosovo, Macedonia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Serbia, Albania, Bulgaria, Romania e Croazia.

La curva di Slovenia e Ucraina sembra invece rallentare dopo un periodo di leggero aumento.

Dopo una forte impennata, il tasso di crescita dei nuovi contagi diminuisce anche in Moldova, Armenia e Russia.

Meno preoccupante è invece la situazione di Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e soprattutto di Lettonia, Lituania, Estonia e Ungheria dove la curva epidemica dà segni di avvicinamento a zero.

Nota tecnica
I dati utilizzati nell’analisi sono quelli pubblicati dalla Johns Hopkins University aggiornati al 15 luglio (ore 18).




Dove riparte il contagio

di Rossana Cima e Luca Ricolfi

Nel corso della settimana che va da martedì 7 luglio a lunedì 13 luglio si sono registrati complessivamente 1.425 nuovi contagi, contro i 1.378 della settimana precedente.

Per capire se vi siano indizi di ripresa dell’epidemia si può guardare l’andamento dei contagi in un periodo di tempo più o meno lungo (qui riportiamo i dati a partire dal 1° giugno). Come si può vedere, la curva epidemica risulta in calo fino ai primi giorni di luglio, ma da poco più di una settimana ha iniziato a tendere leggermente verso l’alto.

Sono 5 le Regioni/Province Autonome che presentano, nell’ultima settimana (7-13 luglio), un incremento di nuovi casi significativo rispetto alla settimana precedente (30 giugno – 6 luglio). Si tratta di Emilia Romagna (+101), Lazio (+33), Veneto (+25) e Bolzano (+18) dove la curva epidemica risulta in aumento da almeno una settimana. Vi è poi la Calabria dove l’incremento dei nuovi casi è legato essenzialmente all’individuazione di migranti sbarcati a Roccella Ionica risultati positivi in seguito ad uno screening.

Le Marche presentano una situazione meno preoccupante. L’incremento rispetto alla settimana precedente è più modesto (+5), ma il trend degli ultimi giorni è in leggero aumento.

Accanto a queste 5+1 regioni ve ne sono 3 (Lombardia, Piemonte e Liguria) dove il numero di nuovi contagi settimanali rimane ancora alto, ma da almeno una settimana la curva risulta stabile.

Vi sono poi cinque regioni (Toscana, Abruzzo, Umbria, Friuli V.G. e Campania) dove si osserva una riduzione tendenziale della curva dopo un periodo di accelerazione più o meno marcata dell’epidemia. In quattro di esse (Toscana, Abruzzo, Friuli V.G. e Campania) i valori attuali sono comunque ancora nettamente al di sopra del punto di minimo toccato verso la fine di giugno.

La situazione appare invece meno preoccupante in sei regioni (Sardegna, Trento, Puglia e soprattutto Basilicata, Molise e Valle d’Aosta) dove il numero di nuovi casi settimanali risulta relativamente contenuto.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 13 luglio (ore 18).
Le serie storiche dei dati regionali sono state corrette per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalla Protezione Civile.
Dall’analisi è stata esclusa la Sicilia perché oggetto di consistenti correzioni. Qui di seguito riportiamo comunque la serie storica ricalcolata.

 

 




Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




La gazzella e l’ornitorinco. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, nella nostra ultima intervista del 21 giugno scorso lei ha mostrato come in una quindicina di province l’epidemia non poteva considerarsi sconfitta, anzi. Ora, a distanza di venti giorni, gli ultimi dati pubblicati sul sito della Fondazione Hume confermano che purtroppo il trend dei nuovi contagi in diverse province è in aumento. A che punto è la notte?
Direi che siamo nel momento più buio della notte, non nel senso che le cose vadano malissimo, ma nel senso che massima è l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che “Lor Signori” (mi permetto di evocare l’indimenticabile Fortebraccio) hanno la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica. Quello che è certo è che nella prima metà di giugno, ossia in coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo qualcosa di grave e di nuovo. Fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante. Nella scorsa intervista i calcoli della Fondazione Hume segnalavano 15-20 province critiche, ora ne segnalano quasi il doppio. E in queste province non vi sono solo le “solite” province della Lombardia e del resto del Nord ma anche molte province del Centro Italia (fra cui Firenze e Roma) e del Mezzogiorno, ad esempio Avellino, Sassari, Chieti, Pescara, Salerno.

Mi sembra più che chiaro, perché allora parla di incertezza interpretativa?
Perché noi vorremmo sapere come le cose stanno andando in questo momento, mentre i dati dei nuovi contagi ci possono dire soltanto che, per la piccola porzione di realtà che le autorità sanitarie sono in grado di monitorare, le cose stavano nettamente peggiorando una decina di giorni fa, ovvero il tempo che occorre ad un evento di contagio per essere rilevato da un tampone. Oggi le cose potrebbero essere migliorate, ma potrebbero anche essere nettamente peggiorate.

Lei che cosa pensa?
Io penso che, verosimilmente, siano ancora un po’ peggiorate.

E’ il suo consueto pessimismo?
No, purtroppo: è l’andamento del numero di persone sottoposte a tampone che mi rende poco incline all’ottimismo. Nonostante le autorità nazionali abbiano finalmente compreso che è stato un grave errore fare pochi tamponi, e che occorrerebbe farne molti di più, la maggior parte delle Regioni sta riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo.

La Fondazione Hume utilizza anche un altro strumento, un termometro giornaliero, che “misura” la temperatura dell’epidemia. Cosa ci dicono le ultime misurazioni? Confermano un incremento della pericolosità del virus?
Il termometro della Fondazione Hume si basa su tre indicatori: il numero di decessi, il numero di nuovi contagiati (corretto per il numero di tamponi) e una stima degli ingressi in ospedale. Queste tre informazioni vengono sintetizzate in una temperatura assoluta, in gradi pseudo-Kelvin, variabile fra 0 e 100, dove 0 significa che non ci sono nuovi contagi, mentre 100 significa che ce ne sono tanti quanti nella settimana di picco (ossia nei giorni a cavallo fra marzo e aprile). Negli ultimi 3 mesi la temperatura dell’epidemia è sempre diminuita, fino a portarsi al di sotto di 2 gradi pseudo-Kelvin (il 28 giugno toccava il minimo di 1.8), ma da una quindicina di giorni oscilla intorno a 2 e manifesta una leggera tendenza all’aumento. Poiché il termometro può solo rilevare quel che succedeva 2-3 settimane fa, anche questo strumento ci dice che nella prima metà di giugno il vento è cambiato, ma non sappiamo esattamente a che punto siamo oggi.

Siamo sopra o sotto la soglia di sicurezza?
Dipende da cosa consideriamo soglia di sicurezza. Io ritengo che, sfortunatamente, siamo ancora ampiamente sopra, e spiego perché. Per me la soglia di sicurezza è 6000 persone in grado di contagiare il prossimo, il che – in un paese di 60 milioni di abitanti – significa avere un contagiato ogni 10000 abitanti. La considero una soglia di sicurezza per vari motivi, ad esempio perché, nel breve periodo, anche i più “relazionati” fra noi difficilmente hanno contatti con più di 1000 persone, e comunque solo una parte di tali contatti è abbastanza stretta da comportare un serio rischio di contagio.
Ma la mia stima, basata sul termometro della Hume, è che attualmente il numero di contagiati ancora contagiosi sia dell’ordine di 60 mila persone, ovvero 10 volte al di sopra della mia personale soglia di sicurezza. Per farci stare abbastanza tranquilli il termometro dovrebbe segnare 2 decimi di grado o meno.

Ma come si passa da 2 gradi pseudo-Kelvin a una stima di 60 mila persone contagiose?
Non è un calcolo semplicissimo, diciamo che un grado pseudo-Kelvin corrisponde a circa 2000 nuovi contagiati al giorno, e che considerando che la contagiosità dura una quindicina di giorni, 2 gradi pseudo-Kelvin segnalano un numero di persone potenzialmente in grado di infettare altri non lontano da 60 mila (2000 x 2 x 15 = 60 mila).

Però le cifre ufficiali sono molto più basse…
Certo, le cifre ufficiali indicano che negli ultimi 15 giorni i nuovi contagi sono stati circa 3000 (non 60 mila), ma è noto che il numero di contagiati effettivo è un multiplo di quello ufficiale. Non arrivo a pensare, come Ilaria Capua, che il multiplo sia 100, mi limito a dire che potrebbe essere circa 20.

Lei si è lamentato per la poca trasparenza e profondità dei dati messi a disposizione dalle autorità pubbliche. La situazione è migliorata negli ultimi giorni o, se possibile, peggiorata?
Sì, è peggiorata. Oltre ai continui ricalcoli dei decessi e dei contagiati, ultimamente si è aggiunto un improvviso cambiamento nei criteri di assegnazione dei casi alle province. Fino al 23 giugno l’assegnazione era in base alla provincia di ospedalizzazione, dal 24 è in base a quella di residenza. Può immaginare a quali salti mortali tecnico-statistici siamo stati costretti per ricostruire le serie storiche provinciali. Aggiungo che permane il segreto sui dati comunali (che sarebbero essenziali per individuare tempestivamente i nuovi focolai) e che nessuno ha spiegato che cosa è effettivamente successo il 24 maggio in Lombardia (il dato di zero decessi è sicuramente falso, se non altro per la smentita della Ats di Brescia, ma nessuno si è ancora degnato di comunicare il dato vero).

Che tutto non stia andando per il verso giusto è dimostrato da un doppio fallimento: l’indagine sierologica e l’app Immuni sono state finora un flop. Come se lo spiega?
Sinceramente ho solo spiegazioni inquietanti, anche se per motivi diversi. Nel caso della app Immuni tendo a pensare (ma spero di sbagliarmi) che sia stata concepita solo per far credere che il governo stesse facendo qualcosa. Non mi spiego altrimenti perché non siano state utilizzate tecnologie già collaudate da molti paesi, e soprattutto perché non si siano formate ed assunte molte migliaia di persone per il tracciamento dei contatti, come se la app da sola fosse in grado di ricostruire a ritroso il percorso del contagio.
Nel caso della indagine sierologica, pianificata dall’Istat, sono semplicemente sbalordito. A giudicare da quel che riportano i quotidiani, sembra che l’indagine stia facendo flop perché molti dei soggetti inclusi nel campione Istat rifiutano il test. In base alla mia esperienza con i sondaggi mi chiedo: ma non lo sapeva l’Istat che per fare 1 intervista ci vuole una lista di riserva di almeno 5 nominativi, e spesso di 10? E non ha pensato che se così tanti rifiutano una tranquilla chiacchierata telefonica, sarebbero potuti essere ancora più frequenti i rifiuti verso un’indagine così invasiva, che avrebbe comportato un appuntamento per un prelievo del sangue?
Insomma, qui qualcosa mi sfugge. Leggo che il fallimento sarebbe colpa degli italiani, ma come sociologo e statistico sono invece stupefatto che il tasso di adesione (se è vero quello che riportano i mezzi di informazione) sia stato molto superiore a quello di un normale sondaggio politico o di una survey. D’altronde mi risulta difficile pensare che un ente come l’Istat, sicuramente iper-burocratico ma anche dotato di un’enorme esperienza, sia stato così ingenuo da non pensare a una lista di riserva adeguata, e abbia scelto la strategia notoriamente meno efficace: tempestare di decine di telefonate chi non ha voglia di partecipare all’indagine.

E i tamponi?
Anche qui alzo bandiera bianca, perché non capisco. Il governo avrebbe tutto l’interesse a farne a tappeto, per portare i contagi vicino a zero prima dell’autunno, ma non fa nulla, lasciando che le Regioni ne facciano pochi, pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi. Eppure basterebbe dire chiaramente: care Regioni, non sarete giudicate (negativamente) sul numero di infetti che scoprirete, ma sarete giudicate (positivamente) sul numero di tamponi che farete per scoprirne il più possibile.
Ma forse la realtà è più semplice: in questa fase nessun governante, nazionale o locale, può permettersi di dire la verità sul contagio, perché ogni segnale di allarme danneggia l’economia.

Uno dei problemi che il governo sta faticando ad affrontare efficacemente è il cosiddetto Covid d’importazione. L’esecutivo finora si sta limitando a sospendere per alcuni giorni i voli diretti dai paesi più a rischio, come il caso del Bangladesh. Però la misura non sembra risolvere il problema: viene aggirata tranquillamente con la triangolazione dei voli, come la cronaca ci ha mostrato mercoledì, quando a Fiumicino sono arrivati 120 bengalesi tramite scalo a Doha. Quanto rischiamo per il virus che torna dall’estero?
Secondo me, e secondo una parte dei virologi, rischiamo molto. Ma qui, a mio parere, la responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte degli altri paesi. Posso sbagliare, naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale è incompatibile con una pandemia.
Posso anche capire che, in un mondo altamente interconnesso, i movimenti internazionali legati al lavoro non siano limitabili, o lo siano solo in misura molto contenuta, ma i flussi turistici? Si parla e straparla continuamente di nuovo tipo di sviluppo, di green deal, di cambiamenti nello stile di vita, e non siamo in grado di accettare una limitazione temporanea di uno dei fattori fondamentali di diffusione e amplificazione dell’epidemia?
Possibile che non capiamo che questa è una pandemia, e il turismo internazionale è un cerino buttato in una polveriera?

Quanto rischiamo poi una seconda ondata in autunno?
Se non lo sanno i virologi, meno che mai può saperlo un sociologo. Quel che posso dire è che, a mio modestissimo avviso, la vera domanda è: quanto il forte rallentamento dell’epidemia osservato nel trimestre aprile-maggio è stato dovuto anche all’evoluzione del clima e alle sue conseguenze, prime fra tutte diminuzione dell’umidità, aumento del soleggiamento, frazione di tempo trascorsa all’aperto?
Se, come alcuni ritengono (vedi ad esempio l’articolo dell’ing. Mastropietro pubblicato sul sito della Fondazione Hume), questi fattori hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, non si può escludere che con l’arrivo della stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e l’epidemia riparta.
Detto in modo più crudo: forse in questo momento la vera ragione per cui l’epidemia sembra ancora sotto controllo non è né l’autodisciplina della popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali.

L’eventuale seconda ondata sarebbe il colpo di grazia per la nostra economia? Gli stessi imprenditori, del turismo e non, dovrebbero essere più cauti in questo periodo?
Io non sono sicuro che il compito della politica, oggi, sia scegliere fra la salute e l’economia. Può darsi che sia così, ma si dovrebbe preliminarmente provare a rispondere a questa domanda: e se limitare (almeno) il turismo internazionale, misura sicuramente dannosa per l’economia nel breve periodo, non fosse invece una misura che tutela l’economia nel periodo medio-lungo?
Se la risposta fosse affermativa, il conflitto salute-economia sarebbe meno insanabile di quel che appare. Io sono piuttosto sicuro che aver ritardato di circa un mese il lockdown (il vero lockdown inizia solo il 22 marzo, ossia più di un mese dopo Codogno) non ha solo aumentato drasticamente il numero dei decessi, ma ha anche danneggiato l’economia (se si fosse chiuso subito, la chiusura sarebbe durata di meno). Sul domani sono assai meno sicuro, ma la domanda me la faccio: oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?
Perché se una tale seconda ondata dovesse abbattersi sulle nostre teste, quello cui assisteremmo non è una recessione drammatica, peggiore di quella del ’29, ma una catastrofe, l’inabissamento di un’intera civiltà.

Ormai esperti dell’analisi dei dati, virologi e medici si dividono fra pessimisti e ottimisti. Dove l’hanno collocata? E soprattutto: da che parte si sente di stare?
Quella dei pessimisti e degli ottimisti è una commedia, volutamente mandata in scena per permettere alla politica, complice la secretazione dei dati essenziali, di tenersi le mani libere. Se fra gli scienziati vi fosse una posizione dominante o egemonica, se i dati fossero pubblici e di qualità, lo spettro delle scelte della politica si restringerebbe drasticamente, perché alcune scelte apparirebbero chiaramente dannose, o strumentali, o palesemente inappropriate.
Invece così, grazie al chiacchiericcio di tutti (compreso il nostro in questa intervista), grazie alla opinabilità di ogni presa di posizione, i governanti possono tutelare il bene per essi più prezioso: la facoltà di decidere solo in vista del consenso, al di fuori di ogni controllo dell’opinione pubblica.
Quanto a me, so che molti mi classificano fra i pessimisti, o fra i nemici dell’economia. Ma sbagliano. Il pessimismo è un’altra cosa, pessimismo è vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, anche quando non lo è. A me capita un’altra cosa, ossia di non essere dotato di quella che molti studiosi considerano una delle caratteristiche distintive, e uniche, degli esseri umani: la capacità di ridurre la “dissonanza cognitiva” mediante costruzioni mentali che servono ad attenuare l’angoscia, a mitigare la paura, a nascondere rischi e pericoli, a dispetto della cruda realtà.
Insomma, come sociologo penso di appartenere al mondo animale: se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone.

Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi, Huffington Post, 10 luglio