La “censura privata” dei contenuti politici sui social network tra mito sociale e realtà giuridica

La cronaca si occupa sempre più spesso di casi di cosiddetta “censura privata” di contenuti caricati da utenti sui social network (in particolare la piattaforma YouTube parrebbe essere divenuta parecchio “attiva” in questo senso negli ultimi tempi). Sebbene gli episodi che salgono alla ribalta della cronaca siano essenzialmente solo quelli che riguardano contenuti lato sensu politici e/o quelli caricati da utenti che gravitano a vario titolo intorno al mondo dell’informazione o del dibattuto politico e culturale, in realtà il fenomeno della censura di massa di contenuti che – per varie ragioni – non risultano graditi alle piattaforme social ha dimensioni ben più ampie, coinvolgendo diverse migliaia di utenti e contenuti su base giornaliera e a livello planetario. Le polemiche riguardano peraltro quasi sempre i casi – piuttosto frequenti – in cui vengono oscurati dai social network contenuti che esprimono visioni e concetti considerati “non allineati” all’opinione dominante, ma sarebbe forse meglio dire a quella dei gruppi “più rumorosi” della community, dando luogo in tal modo ad una singolare forma di “democrazia contestativa” in cui i gruppi che protestano di più – per questa sola ragione – finiscono in via di fatto per negare, con l’avallo di policy compiacenti predisposte dalle piattaforme, il diritto di tribuna alla massa silenziosa di chi si limita a manifestare opinioni differenti mettendo in rete dei contenuti, ma senza pretendere che vengano oscurati quelli di tenore differente. Si tratta – come si diceva – di una tendenza che appare assai consolidata oltre oceano, ma che – non si sa se per una modifica delle policy delle piattaforme o per un maggiore attivismo dei “leoni da tastiera” del vecchio continente – sta iniziando a prendere piede anche in Europa.

Quel che in compenso è certo è che i social network e la loro censura privata rappresentano oggi una delle più potenti armi a supporto del discorso politicamente corretto e contro la diffusione di qualunque idea alternativa a quelle che quel discorso ammette. Può dunque essere il caso di interrogarsi sulle cause di questa situazione, per capire se e in che modo tale fenomeno merita attenzione e – se del caso – correzione.

Quanto alle ragioni dell’impennata della censura social, alcuni sostengono apertamente la teoria del complotto (che a essere sinceri come complotto sarebbe stato organizzato piuttosto maldestramente, visto che i presunti destinatari se ne sono accorti in fretta): secondo questa linea di pensiero, i grandi social network avrebbero stretto un patto con il mondo liberal americano e progressista europeo (a sua volta sostenuto dalla finanza speculativa internazionale) teso ad ostacolare la diffusione di notizie e opinioni non gradite a quegli ambienti. Si tratta di un discorso analogo a quello che viene svolto nei confronti dei mass media tradizionali, da sempre accusati di portare avanti una agenda coerente con gli interessi di controlla i pacchetti di maggioranza dei rispettivi editori e del discorso politico che questi soggetti appoggiano. Invero non saprei dire se un patto ci sia, ma – alla luce dei fatti – un certo allineamento è difficile da negare. Per usare una terminologia antitrust ci si potrebbe limitare a ipotizzare che tra certi ambienti politici ed economici e le grandi piattaforme social esiste qualcosa che potrebbe collocarsi in qualche punto intermedio tra una pratica concordata e il parallelismo consapevole. Sennonché qui non stiamo parlando di antitrust e dunque i patti non contano. Qui parliamo di pubblica opinione e di informazione.

Proprio per questa ragione occorre sottolineare prima di tutto la natura ambigua – o, forse meglio, anfibia – delle piattaforma social, che non sono veri e propri prodotti editoriali o informativi, ma gli somigliano da vicino. L’editore, così come chi fa informazione, pubblica infatti contenuti propri e se ne assume di conseguenza la piena responsabilità, la piattaforma social pubblica invece contenuti altrui (che possono essere sia notizie che opinioni) e dunque – a rigore – non dovrebbe assumersene la responsabilità. Ma è esattamente qui che occorre andare subito al nocciolo della questione, evitando comodi nominalismi.

Nella misura in cui la piattaforma social non si limita a mettere a disposizione uno spazio vuoto da riempire con notizie e opinioni, ma rivendica il diritto di selezionare alcuni contenuti degli utenti per escluderli dalla pubblicazione e lo fa non basandosi sul semplice criterio della contrarietà alla legge del contenuto, di fatto esprime una sua “linea editoriale e/o informativa”, appunto basata sui criteri che sceglie di adottare per selezionare i contenuti degli utenti che devono essere “oscurati” e quelli che invece possono essere diffusi. Dunque è vero che la piattaforma social non è un editore in senso stretto, ma altrettanto vero è che – se adotta sistemi di censura privata sui contenuti che ospita che le consentono di censurare ultra vires rispetto ai divieti di legge (il che accade anche quando attua quei divieti prima che lo facciano le istituzioni pubbliche competenti) – si comporta in via di fatto come fa un editore, selezionando le opinioni e i fatti che vuol far giungere al pubblico. Il che solleva inevitabilmente il problema dell’eventuale estensione anche a questi soggetti di alcuni principi – per dirne solo due: pluralità e trasparenza – che valgono per l’editoria e l’informazione. Il fatto poi che i social network concorrano alla formazione della pubblica opinione (anzi, abbiamo ormai un ruolo assai rilevante in tal senso) pone l’ulteriore questione della possibile applicazione dei principi costituzionali in tema di pluralismo e libertà di manifestazione del pensiero a questo genere di soggetti.

Questo spiega quanto superficiale sia la replica comunemente sollevata dai “tifosi” della censura privata praticata dai social, i quali giustificano il fenomeno limitandosi a sostenere che un’impresa privata può far quel che vuole coi contenuti che ospita gratuitamente. Se tuttavia fosse così, probabilmente, sarebbe incostituzionale la legge sulla responsabilità del direttore di un giornale, quella che impone alle testate di registrarsi al Tribunale e qualche perplessità desterebbe pure tutto l’imponente complesso di norme a presidio della pluralità e dell’indipendenza dell’informazione. Liquidare insomma la questione della censura privata come semplice questione contrattuale è solo un comodo espediente per lasciare le cose come sono (espediente che non a caso viene largamente utilizzato da quelli che di questo genere di censura beneficiano).

D’altro canto non si può ignorare che i social network hanno una buona ed evidente ragione per “censurare”, considerando che – quanto meno in Italia – potrebbero essere considerati responsabili insieme all’utente per i contenuti illeciti che, nonostante siano stati segnalati come tali, non sono stati rimossi tempestivamente dalla piattaforma. Questa forma di responsabilità “in vigilando” suggerisce infatti ai gestori di social network di adottare un metro assai rigoroso nel selezionare i contenuti da rimuovere. Un rigore che dipende tuttavia da altri tre fattori: il primo è il proliferare di leggi che – sotto la bandiera della lotta alle fake news e/o all’hate speech e/o alla discriminazione ovvero ad altre variamente nobili cause – pongono divieti tanto vaghi e ampi da poter essere interpretati in modo tale da restringere gravemente sia la libertà di manifestazione del pensiero sia, se non soprattutto, la pluralità delle opinioni. Il secondo fattore è rappresentato da una certa tendenza dei tribunali o dalle autorità di vigilanza pubbliche a interpretare in modo assai ampio i divieti di cui sopra. Il terzo – che invero a mio avviso rappresenta anche una delle cause del secondo – è il ben noto attivismo (condito da una altrettanto ben nota cieca intolleranza) dei cosiddetti social justice warrior che pullulano sulla rete, i quali finiscono per monopolizzare l’opinione pubblica, sostenuti quasi sempre in questa azione dalla propaganda di forze politiche sedicenti liberal o progressiste e dai mezzi di informazione tradizionali. Questi quattro fattori – responsabilità in vigilando del social, legislazione ampia e vaga potenzialmente tale da restringere la libertà di manifestazione del pensiero in nome di nobili ideali applicata da magistrature assai zelanti e, per finire, conclamata intolleranza di una certa parte dell’opinione pubblica e dell’informazione mainstream – crea il cocktail che porta al risultato di una massiccia e ripetuta cancellazione di contenuti sui social network che quasi sempre va a colpire contenuti e soggetti che non sono allineati alle posizioni definite solitamente come politicamente corrette.

Come affrontare dunque il problema? Anzitutto non negando che esiste. Dire in modo pacato cose anche molto sgradevoli per qualcuno o poco gradite ai poteri politici o economici è infatti un diritto costituzionalmente garantito. E questo è bene ricordarlo in particolare a tutti i benpensanti che vorrebbero rendere migliore il mondo (ovviamente secondo il loro metro di “meglio”) mettendo zitto chi la pensa diversamente da loro, solo perché è brutto e cattivo, anzi – siccome dire brutto e cattivo è poco politicamente corretto – perché le sue idee sono “impresentabili”. E’ in particolare bene ricordare alle anime belle che nessuna rivoluzione o progresso culturale (e in particolare proprio quelle che hanno creato la società che consente oggi ai benpensanti di benpensare) sarebbero mai stati possibili se qualcuno non avesse iniziato a diffondere idee eterodosse e che, al tempo, apparivano sgradevoli se non addirittura scandalose. Ferma dunque la continenza della forma e delle modalità espressive (e fermo il diritto di satira), occorre ribadire con forza che qualunque opinione – per quanto sgradevole o poco condivisibile sia il suo contenuto – deve poter trovare posto nel dibattito pubblico, a patto che sia esposta in forme civili. Del resto, se si ritiene ammissibile che uno scienziato sostenga pubblicamente che dovrebbe essere reso lecito l’infanticidio nei primi momenti di vita (ribattezzato per l’occasione come “aborto post parto”) in quanto il bambino appena nato non ha ancora maturato una coscienza di sé, dunque non soffrirebbe per l’evento della sua morte; se si ammette questo – dicevo – credo si possa ammettere anche parecchio di quel che scatena i pruriti censori dei benpensanti. Tanto premesso, veniamo alle questioni pratiche.

Un primo passo per risolvere il problema potrebbe essere quello di imporre ai social network degli obblighi di trasparenza relativamente agli specifici criteri adottati per operare le selezioni dei contenuti da oscurare. Siccome peraltro si tratta quasi sempre di criteri automatizzati (ossia di algoritmi che lavorano in automatico sui dati), occorre che la pubblica opinione sappia come gli algoritmi trattano le informazioni e, soprattutto, quali sono i “trigger” che fanno scattare l’oscuramento. Va detto che imporre simili obblighi espone i social all’attività dei cosiddetti troll (ossia di soggetti che, sfruttando gli algoritmi, organizzano campagne di segnalazione volte a far sì che il sistema cancelli determinati contenuti). Però è anche vero che i colossi del social online hanno certamente le risorse per elaborare algoritmi a prova di troll e, forse anche meglio, per lasciare a un essere umano la verifica ultima e diretta del contenuto oggetto di accusa da parte della community, sulla base di criteri scritti chiari nero su bianco e che il verificatore in carne ed ossa deve applicare. Si badi infatti che qui nessuno vuole negare a Facebook il diritto di scegliere criteri di censura liberal o a YouTube il diritto di censurare sulla base di principi di matrice conservatrice: l’importante è che i social dicano chiaro quali sono i criteri – anche biased nei confronti di una certa opinione politica o culturale – che vogliono adottare nella loro opera di censura privata.

Ma tutto questo probabilmente non risolverebbe a mio avviso il problema, nella misura in cui non impedirebbe ai social di sottrarsi al rischio di subire – per effetto dell’irrefrenabile attivismo dei troll ideologicamente orientati (specie di associazioni e comitati vari per la promozione dei diritti di questo o di quello) – azioni giudiziarie o procedure amministrative in applicazione delle leggi censorie di cui si è detto prima. D’altro canto è irrealistico pensare – visti i tempi che corrono e il dilagare senza freni dell’isteria politicamente corretta – che a breve i governi e i legislatori possano abrogare o attenuate le leggi censorie che creano i presupposti del problema della censura privata praticata dalle piattaforme social. La soluzione va per forza cercata altrove, ossia – ad avviso di chi scrive – in una differente ripartizione della responsabilità tra social network e utente in relazione ai contenuti postati da quest’ultimo che – segnalati ma non rimossi dal social network – siano poi effettivamente riconosciuti come illeciti dagli enti preposti alla verifica della loro illiceità.

L’unica soluzione del problema attualmente praticabile passa infatti a mio parere per una eliminazione della responsabilità in vigilando dei social network per mancata immediata rimozione dalla rete di un contenuto segnalato al provider anche quando quel contenuto, in seguito, viene dichiarato illecito da un giudice o da un ente amministrativo. Questa responsabilità andrebbe espressamente esclusa per legge, a fronte della possibilità di una identificazione ragionevolmente sicura dell’identità reale degli utenti. Per iscriversi a facebook – tanto per fare un esempio – si dovrebbe insomma inviare una copia di documento di identità e fare una breve intervista online (in videoconferenza) per verificare che l’utente collegato corrisponde al documento. Si noti che per certi particolari servizi online la cosa viene già fatta da diverse imprese e non presenta particolari problemi tecnici. Per funzionare davvero, però, la cosa dovrebbe funzionare su entrambi i lati del rapporto tra utente e social network: da un lato, le piattaforma social avrebbe il diritto di chiedere in sede di iscrizione una identificazione sicura all’utente, beneficiando – se identifica l’utente – dell’esclusione della sua corresponsabilità per i contenuti postati da quell’utente, oppure non chiedere nulla (dunque di fatto accettando utenti “non verificati”), assumendo però in quel caso la responsabilità in vigilando. D’altro canto lo stesso utente dovrebbe a sua volta avere un vero e proprio diritto soggettivo a farsi identificare con sicurezza dal social network, al fine di sottrarsi alla censura preventiva da quest’ultimo in caso di segnalazione.

In questo modo, quando si tratta di contenuto proveniente da un utente “identificato”, di fronte alla segnalazione di un contenuto ritenuto illecito proveniente dalla community e che fa scattare i “trigger” previsti dal sistema, la piattaforma social non potrebbe rimuovere il contenuto, ma avrebbe l’obbligo di comunicare direttamente a tutti i soggetti segnalanti che l’utente che ha postato il contenuto è un utente identificato e che dunque – in caso di successiva azione penale o di procedura amministrativa – la stessa piattaforma comunicherà all’autorità procedente l’identità reale dell’utente. Per le azioni civili contro l’utente (che richiedono una conoscenza previa della sua identità) si potrebbe invece prevedere un obbligo per la piattaforma di approntare una procedura grazie alla quale il legale incaricato dell’azione civile contro chi ha messo online un contenuto segnalato – dichiarando che intende agire contro l’utente e indicando sia il contenuto che considera illecito, sia la precedente segnalazione, sia infine il soggetto per conto del quale il legale agisce – può farsi comunicare da parte del social network l’identità reale dell’utente.

Il sistema in questione si fonda insomma sul principio secondo cui entrambi i soggetti – utente e gestore della piattaforma social – che, in via di fatto, concorrono alla diffusione di un contenuto online hanno, ciascuno, il diritto – a prescindere dalla volontà dell’altro – di scegliere se assumersi o meno la responsabilità (o, nel caso del social network la corresponsabilità) dei contenti pubblicati. Questa opzione consente alle piattaforme di social network di diventare finalmente – vuoi per loro scelta o vuoi per decisione degli utenti – quel che sono nate per essere, ossia altrettanti semplici “spazi virtuali” dove altri soggetti comunicano pubblicamente, assumendosi in prima persona la responsabilità di quel che dicono. L’opzione per una totale neutralità della piattaforma rispetto al contenuto – che in un simile modello resta esclusivamente un contenuto imputabile all’utente identificabile, che ne è esclusivamente e pienamente responsabile – fa in modo che la stessa piattaforma non possa né violare la pluralità dell’informazione né la libertà di manifestazione del pensiero: tutti quanti gli utenti, se desiderano, possono infatti optare per un sistema che gli consente di postare pubblicamente quel che preferiscono senza rischi di censura preventiva privata, ma con la conseguenza di assumersene la esclusiva responsabilità di fronte alla legge. Anche la piattaforma, se desidera, può peraltro a sua volta evitare la corresponsabilità per eventuali contenuti illeciti postati dall’utente, obbligando quest’ultimo ad una procedura di identificazione previa in sede di iscrizione al social. Se invece sia la piattaforma che l’utente non optano per il regime di identificazione certa, a quel punto entrambi i soggetti in questione accettano il regime di responsabilità potenzialmente condivisa che legittima la censura privata: a quel punto – per un verso – gli utenti non potranno lamentarsi di come questo regime viene applicato dai social network e – per altro verso – la piattaforma deve ritenersi del tutto libera di censurare quel che preferisce senza dover rendere conto a nessuno dei criteri che decide di adottare .

Un simile sistema presenta una serie di evidenti vantaggi: i troll – per oscurare un contenuto che non condividono accusandolo di essere illecito – dovrebbero darsi la pena di fare un esposto per iniziare una azione legale o amministrativa contro il soggetto che ha postato il contenuto. Dunque avrebbero la necessità di “metterci la faccia” invece di agire comodamente dall’ombra e nell’ombra come accade ora. Siccome poi l’ordinamento del nostro paese – ma lo stesso vale altrove – prevede procedure urgenti sia amministrative sia giudiziarie che possono portare alla rimozione di contenuti online, l’adozione di un simile modello non dovrebbe portare a ritardi eccessivi per ottenere la cessazione della diffusione di contenuti gravemente illeciti. Ma – soprattutto – in un simile sistema la questione della liceità di un contenuto viene trattata solo dagli enti preposti e non risolta – come invece avviene ora – sulla base del criterio “facile” (ed altrettanto facilmente abusato) secondo cui, per non rischiare grane di alcun genere, è meglio censurare tutto quel che disturba qualcuno. Questo sistema eliminerebbe peraltro anche il sospetto (o – per chi pensa che così sia – il rischio) che i social network si prestino, agendo in modo opaco e non trasparente, a operazioni “politiche” di qualche genere. Infine, sgravando la responsabilità della piattaforma social, si tratta di un sistema che dovrebbe risultare gradito anche alle piattaforme. E quest’ultima condizione è invero assai importante per il successo di eventuali iniziative politiche in tal senso.

Il regime di identificazione dell’utente (e il corrispondente regime di ripartizione della responsabilità) – per quanto sulla carta presenti una pluralità di vantaggi – ha infatti il grave difetto pratico di dover per forza essere attuato dai singoli stati nei limiti delle proprie giurisdizioni nazionali. Non trattandosi di un modello universalmente applicabile, la sua efficacia dipende dunque anche dal fatto che sia adottato e proposto come principio da enti sovranazionali capaci di produrre convenzioni multilaterali estese ad una pluralità di stati (come l’Unione Europea, l’OCSE o le agenzie ONU ad esempio), ma soprattutto occorre che gli stessi social network (e una larga parte degli di utenti) ne favoriscano l’adozione su scala multinazionale. Ovviamente non è possibile prevedere se questo accadrà, però – considerando quante storture sta indirettamente generando il modello attuale fondato sulla colpa in vigilando delle piattaforme – potrebbe valere la pena di iniziare a studiare la fattibilità del modello alternativo, attivandosi presso sia presso le piattaforme social sia presso le istituzioni internazionali, per capire se si tratta di un modello che incontra più favori che sfavori.

Del resto la soluzione che qui viene ipotizzata è certamente più soft rispetto alla prospettiva – ventilata di recente – di obbligare semplicemente i gestori delle piattaforme social a rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti. Quest’ultima soluzione “legalista” (invero piuttosto comoda per i pubblici poteri oltre che facilmente spendibile in termini elettorali) esporrebbe infatti i social network al dilemma di dover di volta in volta decidere da sé – di fronte a una segnalazione di contenuto illecito – se far prevalere il diritto ad evitare la propria responsabilità mediante la rimozione immediata contenuti segnalati (col rischio di essere accusati di non rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti, se alla fine il contenuto viene ritenuto lecito) o se far prevalere la libertà di manifestazione del pensiero (col rischio però – in questo caso – di essere considerati corresponsabili dell’utente in caso di accertamento dell’illiceità del contenuto). Insomma il costo in termini di incertezza per le piattaforme del modello legalista pare a chi scrive assai peggiore rispetto al costo che implicherebbe un sistema di verifica dell’identità reale degli utenti in sede di iscrizione. Dunque gli stessi social network dovrebbero riconoscere di avere un interesse a spingere per l’adozione del modello qui proposto (ossia quello fondato sulla rinuncia all’ampio potere “censorio” discrezionale che hanno ora in cambio della possibilità di ottenere una esenzione dalla responsabilità per contenuti “sensibili” postati dagli utenti) prima che si formi un ampio consenso sociale e politico attorno all’idea che i social network devono restare assoggettati a regole pubblicistiche che impongano loro di gestire la loro piattaforma in modo da tutelare la pluralità di opinione o la libertà di manifestazione del pensiero. In sintesi: forse meglio per le piattaforme social rinunciare oggi alla censura privata che dover esercitare domani funzioni di controllo delegate che – non essendo enti pubblici – potrebbero creare loro responsabilità e problemi sia quando censurano che quando non censurano.




Il Covid e il clima L’Italia è veramente fra gli ultimi della classe?

Diciamoci la verità: la nostra gestione della pandemia da coronavirus non è stata impeccabile. D’accordo, il virus non è nato da noi – almeno su questo punto non ci sono obiezioni – ma che dire del fatto che, nonostante ci fossero una trentina di paesi tra noi e la Cina, come un politico sottolineò prima dello scoppio della pandemia, questa in occidente è iniziata proprio da noi? Come noi abbiamo sottovalutato l’abilità dei paesi orientali nella loro guerra al virus – ti pare che il nostro sistema sanitario, così osannato, non sappia far di meglio dei paesi orientali fino a pochi anni fa sottosviluppati? – i nostri “alleati”, a cominciare dai paesi UE hanno forse fatto lo stesso ragionamento nei nostri confronti: i soliti italiani pasticcioni. E invece, uno dopo l’altro, chi più chi meno, si sono ritrovati con gli stessi nostri problemi.
Ormai sono trascorsi ben quattro mesi dal cosiddetto caso uno di Codogno e una lettura dei dati ufficiali pubblicati dai vari paesi evidenzia delle graduatorie che andrebbero quanto meno “pesate” tenendo conto della popolazione di ciascuno. Ma è solo questa la variabile da tener presente per confrontare correttamente la bontà della risposta di ciascun paese. Anticipo la risposta: no!
Per non disperdere troppo l’analisi, concentrerò l’attenzione su due paesi che hanno un minimo di analogie con noi: il Regno Unito e la Grecia. Il primo, per dimensioni fisiche (superficie e lunghezza delle coste) e demografiche (numerosità della popolazione) è paragonabile all’Italia. Il secondo ha un clima e uno sviluppo industriale non troppo diverso dal nostro meridione, che non a caso era un tempo definito come la Magna Grecia. Inoltre, almeno in apparenza, la Grecia avrebbe avuto risultati molto migliori dei nostri e cercherò di indagarne il motivo.
Prima di passare ai numeri dei contagi e dei morti da (o con?) covid, è d’obbligo premettere, come sempre fa il prof. Ricolfi, che essi hanno un basso grado di affidabilità. Molti concordano sul fatto che i contagi effettivi siano di almeno un ordine di grandezza superiori a quelli ufficiali. In quanto ai morti, quanti sono quelli che sono deceduti senza che venisse loro mai fatto alcun tampone e, quindi, esclusi dal conteggio?
Prendo quindi per buoni i dati pubblicati dalla Johns Hopkins University e assumo che l’errore sia paragonabile per i paesi presi in esame. Trascuro anche l’influenza di altre variabili sicuramente molto importanti. Una fra tutte: il grado di socialità delle persone, specie se anziane, in quanto soggette a mortalità notevolmente più elevata.
Ecco i dati aggiornati al 25 giugno:Se ne deduce, in prima battuta, che i britannici siano stati meno abili di noi nella lotta al virus e che, al contrario, i greci siano stati dei fuoriclasse. Per questi ultimi è difficile dimostrare il contrario, ma il divario è veramente così ampio?
Proviamo a scomporre i dati dell’Italia sulla base della sua geografia e – perché no? – della sua storia. In prima approssimazione distinguiamo tra ex Regno delle due Sicilie + la Sardegna da una parte e il centro-nord dall’altra. I puristi obietteranno che parte del Lazio sud-orientale e la provincia di Rieti facevano parte del Regno delle due Sicilie: perdonatemi questa approssimazione.
La suddetta tabella, grazie ai dati della Protezione civile da me ricavati dal sito del Sole 24ore, diventa la seguente:La situazione del centro-nord Italia appare ora ribaltata rispetto al Regno Unito (la risposta al virus è stata meno efficace), mentre il sud dell’Italia mostra ora valori senz’altro molto più elevati ma dello stesso ordine di grandezza dei dati greci. Nel precedente confronto con l’Italia intera, invece, i contagi in Grecia risultavano circa 13 volte inferiori e i morti oltre 30 volte inferiori!
Come si può spiegare tutto ciò?
Consideriamo variabili nuove: quelle ambientali (clima, inquinamento e ventilazione).
Tali variabili non sono indipendenti fra loro: direi che si esaltano a vicenda, come cercherò di chiarire. Innanzitutto preciso che il clima si può ragionevolmente scomporre nelle seguenti variabili: temperatura, umidità relativa, ventilazione e soleggiamento.
È intuitivo che:
– minore è la ventilazione, maggiori sono il ristagno delle sostanze inquinanti e l’umidità relativa,
– maggiore è il soleggiamento e, quindi, l’energia presente nell’aria, maggiore è la capacità dell’ecosistema di ridurre l’umidità relativa e di degradare le sostanze inquinanti,
– maggiore è l’inquinamento, maggiori sono l’umidità relativa e la presenza di microparticelle che, a loro volta, favoriscono l’aggregazione del vapore acqueo in piccole goccioline.
Veniamo alla facilità del contagio, cioè al nocciolo del problema. Se è vero che esso avviene tramite le goccioline di alito emesse dalle persone infette, si tratta di determinare la persistenza di tali goccioline nell’aria: più a lungo tali goccioline si librano nell’aria, maggiore risulterà la probabilità che esse possano essere inalate da qualcuno. La conoscenza del diagramma di stato aria acqua (v. figura in calce) aiuta notevolmente a capire la chimica e la fisica del fenomeno. Senza scendere troppo in tecnicismi, è evidente che:
– tanto maggiore è l’umidità relativa, tanto maggiore risulta la persistenza delle goccioline nell’aria,
– la ventilazione favorisce l’evaporazione dell’acqua e tanto più la favorisce quanto più la temperatura è elevata e l’umidità relativa è bassa.

Infatti, dal diagramma di stato aria acqua si può vedere come la capacità di far evaporare acqua nell’aria cresce in modo molto più che proporzionale con la temperatura. Si immagini di essere ad Abu Simbel (cito tale località perché ci sono stato): ammesso e non concesso che con quel clima si possa starnutire, quanto potrà sopravvivere una gocciolina nell’aria torrida? Una frazione di secondo! Viceversa, a Milano, d’inverno, quando la strada è bagnata come se piovesse ma non sta realmente piovendo . . . non c’è speranza!

Si è spesso dibattuto se il caldo favorisca oppure no la sopravvivenza del virus: dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il virus non muore per cottura o si indebolisce ma, semplicemente, non ha più il mezzo di trasporto e precipita a terra come una zanzara avvelenata da un insetticida.

Ritorniamo al confronto da cui siamo partiti.

La situazione della pianura padana, parte preponderante del centro-nord Italia, è senz’altro peggiore di quella inglese per mancanza di ventilazione e, anche in conseguenza di ciò, umidità relativa e inquinamento, per cui non si può certo escludere che ciò giustifichi i dati peggiori nel contrasto alla pandemia. Non è un caso che i dati della Lombardia e del Piemonte (senza accesso al mare) siano tra i peggiori anche nell’ambito delle regioni del nord Italia.

Per quanto attiene alla Grecia, possiamo spiegare i suoi dati, migliori del nostro sud, per la sua conformazione (coste più frastagliate e maggiore insularità, quindi, maggiore ventilazione) e per la inferiore latitudine media a cui si trova e, quindi, per il maggior soleggiamento.

Per concludere: non siamo stati certo un esempio da imitare ma nemmeno così sprovveduti come apparentemente si sarebbe potuto asserire sulla base di un’analisi più superficiale.




La lezione di Weber anti ideologie: c’è il vero senza dover essere né bello né sacro né buono

Se Alexis de Tocqueville, stando a Raymond Aron è, il più grande pensatore politico del XIX secolo, Max Weber – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – sicuramente lo è del Novecento. Morti entrambi in età non certo avanzata (a 54 anni il primo, a 56 il secondo) hanno lasciato un’impronta decisiva sul loro tempo come sul nostro. L’uno col suo concetto di “democrazia” – non un regime politico ma uno stato sociale caratterizzato dall’eguaglianza delle condizioni ovvero da diritti non ascritti in virtù della nascita, del ceto, dell’ufficio – l’altro con la sua tesi della burocratizzazione dell’esistenza – la “gabbia d’acciaio” in cui il processo di razionalizzazione, innescato dall’economia capitalistica, dal prodigioso sviluppo delle tecnica e della scienza, ha imprigionato l’uomo contemporaneo – hanno messo a fuoco l’architrave della società moderna. A Weber, tuttavia, va riconosciuta un’ampiezza di interessi culturali ben diversa da Tocqueville. Non c’è quasi grande tema della modernità che egli non abbia trattato e su cui non abbia lasciato analisi profonde tutt’ora al centro del dibattito teorico. A cominciare da quello – spesso frainteso – dei nessi tra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber non disse mai che il protestantesimo è il padre del capitalismo: il suo intento non era quello di stabilire l’efficacia causale delle idee religiose quanto la loro indipendenza analitica. Questo significa che, nella ricostruzione della genesi del capitalismo, ci si deve chiedere perché fattori materiali che si ritrovano nell’antichità classica come nelle civiltà orientali – economia monetaria, crescita della popolazione, aumento dei metalli preziosi, mobilità occupazionale, libertà di commercio  – non abbiano prodotto dovunque la moderna società di mercato. La risposta, per Weber, andava ricercata nei fattori attitudinali (industriosità e spirito acquisitivo): «La smodata sete di guadagno degli asiatici in generale non trova, notoriamente, eguali nel resto del mondo. Tuttavia si tratta di una “spinta al guadagno” perseguita con ogni possibile mezzo, inclusa la magia universale. Ciò che manca è proprio quel che è stato decisivo per lo sviluppo economico dell’Occidente: la traduzione e l’immersione razionale della spinta al guadagno economico e dei suoi corollari, in un sistema di etica del comportamento, mondana e razionale – ad es: “l’ascetismo mondano” del Protestantesimo in Occidente».

La costruzione dello Stato, il diritto moderno, il disincanto del mondo, il pluralismo dei valori, il nesso tra religione e civiltà, il futuro del capitalismo, il carisma politico e il destino della democrazia nella società di massa, la distinzione tra etica dell’intenzione (quella del fiat justitia pereat mundus) ed etica della responsabilità (che calcola le conseguenze dell’agire), la dialettica tra movimenti sociali e istituzioni politiche, il processo di secolarizzazione, la metodologia delle scienze storico-sociali: sfido a trovare un libro rilevante su ciascuno di questi argomenti che non si confronti con l’autore del Lavoro intellettuale come professione (1919).

Eppure nonostante questa presenza mai venuta meno Weber è uno dei pensatori più lontani dal Weltgeist del XXI secolo. E per due ordini di ragioni. La prima sta nell’obbligo imposto allo studioso di conoscere i fatti in maniera wertfrei (avalutativa) “sine ira ac studio”. Scrive in una straordinaria pagina de La scienza come professione. «Quando uno parla sulla democrazia in una riunione popolare» ha il dovere di «prendere partito in modo chiaramente riconoscibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso mezzi per l’analisi scientifica, bensì di propaganda per trar dalla nostra parte gli altri. Quelle parole non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un’aula un simile uso della parola sarebbe sacrilego. Se vi si parlerà di “democrazia”, se ne osserveranno le diverse forme, se ne analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali siano le singole conseguenze dell’una o dell’altra nella vita pratica, e poi vi si contrapporranno le altre forme non democratiche dell’organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione secondo i propri supremi ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall’alto della cattedra, a prendere un qualsiasi atteggiamento, sia esplicitamente sia con suggerimenti: giacché è il metodo più sleale, quello di «far parlare i fatti». In un paese, come il nostro, intossicato dall’ideologia – che chiede alla cattedra non di far conoscere il fascismo (o il comunismo) ma di inculcare l’odio per il fascismo (o per il comunismo) – sono parole di colore oscuro.

La seconda ragione sta nella “classicità” di Weber, nel sentimento tragico della vita che abbiamo oggi del tutto rimosso. Per noi, i “cattivi” sono ineliminabili ma è rassicurante che la nostra intelligenza – razionalista e universalista – sappia individuarli con certezza. Per Weber, invece, i valori sono spesso conflittuali e incompatibili. Come scriveva nel 1919 «Oggi riconosciamo che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto che non sia bello ma perché e in quanto non è bello (ne trovate le prove nel capitolo 53 d’Isaia e nel salmo 21); e che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto di non essere buono, ma proprio perché non lo è, così come c’informa di nuovo Nietzsche, e nel modo che voi già trovate illustrato nei Fiori del male, come Baudelaire chiamò la sua raccolta di poesie; ed appartiene al buon senso di tutti i giorni riconoscere che qualcosa può essere vero sebbene non sia ed anzi perché non è né bello né sacro né buono».

E’ un discorso non certo congeniale a un’epoca come la nostra in cui il “buono” cancella tutte le altre virtù antiche e moderne e la statua di Cristoforo Colombo viene fatta a pezzi.

Pubblicato su Il Dubbio del 20 giugno 2020




L’Italia e gli altri

L’epidemia nei paesi avanzati

1. A che punto sono gli altri paesi?

Continua a scendere il numero di morti in Italia, anche se ad un ritmo lento.
Se compariamo l’andamento della curva epidemica dell’Italia con quella di altri paesi avanzati la situazione è la seguente.
In soli 3 paesi, su un totale di 29, la curva del tasso di mortalità, a parità di anzianità epidemica, è sistematicamente più elevata (ovvero: più grave) di quella dell’Italia. Si tratta di Belgio, Regno Unito e Spagna.
I dati della Spagna devono però essere interpretati con cautela perché presentano interruzioni di serie dovute ad un ricalcolo della mortalità.
La Francia, che nel primo mese circa dell’epidemia aveva una curva epidemica simile a quella del nostro paese, ora presenta un tasso di mortalità inferiore.
Poco rassicuranti sono anche le curve di Svezia, Stati Uniti, Paesi Bassi, Irlanda, Svizzera e Canada, ma queste, sono sempre state sistematicamente più basse di quella dell’Italia.

Se poi si calcolano il numero dei nuovi decessi avvenuti in periodo di tempo medio-breve (variazioni tri-giornaliere), si vede come l’Italia abbia un profilo molto simile a quello di Regno Unito, Svezia e, nell’ultimo periodo, anche a quello di Stati Uniti e Belgio (e Francia).

Ci sono poi paesi come Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Estonia e Slovenia dove da qualche giorno (in base ai dati aggiornati a domenica 21 giugno) non si registrano decessi.

Oggi in Italia si contano circa 280 nuovi decessi settimanali (in base ai dati aggiornati al 21 giugno). Un numero decisamente più basso di quello registrato durante il picco dell’emergenza sanitaria, ma tuttora più alto di quello toccato ad inizio epidemia.
Se consideriamo come soglia quella osservata nei primi giorni di marzo (circa 35 nuovi decessi settimanali, ovvero 0,06 casi per 100.000 abitanti), l’Italia dovrebbe fare ancora circa l’80% di strada per raggiungere un livello di mortalità simile.
Sotto questo punto di vista, ci sono però paesi che presentano una situazione più preoccupante di quella italiana come Spagna, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Qui il numero di nuovi decessi settimanali supera l’1 su 100.000 abitanti (ad eccezione del Canada, che si attesta a 0.70, contro lo 0.48 dell’Italia). Per arrivare a registrare circa 0,06 nuovi decessi (come l’Italia ad inizio marzo) per 100.000 abitanti dovrebbero ridurre il tasso di mortalità di circa il 90%.

La maggior parte dei paesi è però molto più vicina alla meta rispetto al nostro paese. Ben 13 paesi (Ungheria, Israele, Grecia, Repubblica Ceca, Danimarca, Norvegia e Lituania, Estonia, Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Slovacchia e Slovenia) l’hanno raggiunta o ne sono vicini.

2. Quanto è stata grave l’epidemia negli altri paesi?

Per rispondere a questa domanda conviene usare i dati della mortalità, perché sono i più comparabili fra paesi diversi (i dati del numero di contagiati risentono pesantemente della politica dei tamponi).
Occorre inoltre scegliere un periodo omogeneo, dal momento che l’epidemia è esplosa in tempi diversi nei vari paesi. Una scelta ragionevole, che consente di includere quasi tutti i paesi avanzati (Oecd e/o Unione europea), è di valutare la mortalità totale dopo il medesimo numero di giorni (60) dal momento dello scoppio dell’epidemia, convenzionalmente posto nel giorno in cui nel paese il numero totale di morti ha superato il livello di 1 morto ogni 100 mila abitanti (questa soglia corrisponde, in Italia, a 600 morti).

***

Nota tecnica
I dati utilizzati provengono dai database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 21 giugno 2020.

I dati della Spagna devono essere interpretati cautela perché presentano interruzioni di serie: i primi giorni di giugno le autorità spagnole hanno sospeso l’aggiornamento delle serie per effettuare un ricalcolo della mortalità.

I paesi considerati sono tutti i paesi avanzati in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.

Per anzianità epidemica di un paese intendiamo il numero di giorni trascorsi dal momento in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.

 




Per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi

Intervista al sociologo e Professore di Analisi dei Dati all’Università di Torino. “In una quindicina di province la curva sta risalendo. Questo perché l’Italia è di nuovo un gigantesco lunapark. La politica annacqua la verità per preservare la macchina dei consumi e la società signorile di massa”.

Professor Ricolfi, l’ultimo post che ha pubblicato sul sito della Fondazione Hume – di cui è Presidente e Responsabile scientifico – è abbastanza preoccupante. Sulla base dell’analisi dei dati della Protezione Civile, vien fuori che ci sono ben 15 province in cui ci sono segnali di ripresa dell’epidemia. In altre 7 la curva dei contagi fa fatica a convergere a zero. Cosa sta succedendo?
Che cosa stia esattamente succedendo, in realtà, non lo sa nessuno. Oggi è uscito un paginone del Corriere della Sera con i pareri di una decina di autorevoli esperti, chiamati a commentare le tesi rassicuranti del prof. Remuzzi, secondo cui la maggior parte dei positivi non sarebbe contagiosa: ne sono venute fuori almeno 4-5 interpretazioni diverse della situazione.
Quel che posso dire io, che non sono un virologo e mi occupo di analisi dei dati, è che i segnali delle ultime due settimane non sono per niente rassicuranti. Se guardiamo quel che succede a livello nazionale, possiamo anche non accorgerci di quel che sta accadendo, perché il dato nazionale è una media, in cui le curve epidemiche dei vari territori si mescolano e giocano a rimpiattino fra loro, nascondendo quel che succede nei territori critici. Ma se si scende al livello più basso consentito dai dati della protezione Civile, ossia a livello provinciale, si riesce a vedere quel che a livello nazionale si intravede appena, e cioè che sono una quindicina le province in cui la curva epidemica, anziché continuare a scendere, ha invertito la sua corsa e ha iniziato a risalire.

Quali sono queste 15 province?
Molte (8) sono in Lombardia, e fra esse c’è Milano. Ma molte (7) sono in altre regioni del Nord o del Centro: Alessandria, Vercelli, Bologna, Arezzo, Rieti, Roma, Macerata.
Se poi consideriamo anche un secondo gruppo di province, in cui i segnali di ripresa dell’epidemia ci sono ma sono meno nitidi, se ne devono aggiungere altre 7, fra cui Padova, Firenze e persino una provincia del Sud (Chieti). In tutto fa ben 22 province (su 107) in cui dovrebbero scattare piani per evitare che il contagio torni a dilagare.

A maggio i dati invece sono stati positivi nonostante le prime riaperture, quelle degli esercizi commerciali. Il problema quindi riguarda gli spostamenti della popolazione? Il turismo?
Ha toccato il punto chiave, non solo della situazione attuale, ma di tutta la storia del Covid-19. Il turismo, o meglio la pretesa della politica di proteggere il turismo a qualsiasi prezzo, ci è costato prima (nelle 2 settimane a cavallo fra febbraio e marzo) un imperdonabile ritardo nelle chiusure, a partire dalla tragica vicenda di Nembro e Alzano. E rischia di costarci ora una ripartenza dell’epidemia, perché nessuno vuole vedere che il famigerato parametro Rt (che dovrebbe stare sotto 1) potrà pure essere ancora sotto 1 a livello nazionale, ma quasi certamente è tornato sopra a 1 in molti territori: i nostri grafici provinciali lo mostrano chiaramente, ma sono convinto che se avessero la benevolenza di farci accedere ai dati comunali, scopriremmo delle curve di risalita ancora più ripide, anche se più circoscritte.
E’ perfettamente verosimile, infatti, che l’aumento dei contagiati in una provincia sia concentrato solo in alcuni comuni, che sarebbe fondamentale individuare, anche per non chiudere tutta la provincia o addirittura tutta la regione.
Quel che stiamo scoprendo, in queste settimane, è che la riapertura delle attività economiche, avvenuta essenzialmente a maggio, ha provocato conseguenze molto meno gravi di quelle che sta producendo la riapertura delle attività “ricreative”, che è in corso in questo mese di giugno.

Lei vuole dire che il ritorno al lavoro dei produttori ha fatto meno danni (sanitari) dell’andata in vacanza dei loro familiari?
Sì, fondamentalmente voglio dire proprio questo. Fino a che le scuole sono rimaste chiuse e i ragazzi sono stati tenuti in casa, fino a che sui mezzi di trasporto sono state in vigore limitazioni strettissime (e raccomandazioni asfissianti), fino a che i flussi turistici da e verso l’estero sono rimasti bloccati, finché alle famiglie è stato impossibile muoversi fra regioni per i fine settimana, finché la ristorazione, le spiagge e tutta l’industria del divertimento sono state tenute in stand-by, il Covid-19 ha avuto vita dura, ed è stato costretto a rallentare la sua corsa. Il ritorno al lavoro di milioni di persone, attentissime a non contagiarsi vicendevolmente e sorvegliate da datori di lavoro preoccupati di incorrere in sanzioni, ha avuto un impatto minore del “ritorno alla vita” (possiamo chiamarlo così?) dei protagonisti di quella che io chiamo la “società signorile di massa”. Anche grazie all’arrivo della bella stagione i tavolini dei bar, i parchi cittadini, i locali della movida, le spiagge (specie nei weekend) si sono improvvisamente animati. Finite le scuole, i giovani hanno cominciato a sciamare per le città, le mamme hanno cominciato a portare al mare e nei centri vacanze i loro pargoli, i tifosi hanno finalmente potuto riprendersi il calcio e gli altri sport più popolari, e l’Italia tutta è tornata – quasi di colpo – ad essere luogo di attrazione turistica, sia dall’interno che dall’estero.
Insomma, dopo il 2 giugno siamo tornati ad essere il gigantesco luccicante lunapark che da qualche decennio siamo sempre stati. Il Covid ringrazia.

Chi governa l’epidemia, dal premier Conte fino ai vertici dell’Iss, è consapevole di questo andamento? A me non sembra che finora sia stato inviato questo messaggio “prudenziale” agli italiani. Anzi, la comunicazione delle istituzioni è ormai molto rilassata.
Difficile essere nella testa del premier. Una persona che, dopo aver commesso errori tragici, dalle mancate o tardive chiusure fino alla scellerata lotta contro i tamponi, ha la faccia tosta di dire “rifarei tutto”, sfugge alla mia personale capacità di comprensione e immedesimazione nella mente altrui. Quindi sul premier le rispondo: non ne ho la minima idea, può persino darsi che creda sinceramente di aver fatto bene. La psicologia e le scienze umane insegnano che le vie dell’autoinganno e della falsa coscienza sono infinite.

E sulle autorità sanitarie?
Diverso è il discorso sui membri del Comitato tecnico-scientifico e sul ministro Speranza. I primi hanno detto chiaramente che Conte ha ignorato le loro raccomandazioni sull’opportunità di chiudere Nembro e Alzano ai primi di marzo. Il secondo ha avuto un sussulto di onestà intellettuale, o forse semplicemente di pudore, quando, in un’intervista, ha lasciato intendere che, con l’esperienza maturata fino a oggi, forse non rifarebbe le scelte che fece allora.
La mia impressione è che, avendo molti più dati di chiunque, sappiano perfettamente che la situazione si sta deteriorando e che, con le ultime riaperture e la scelta di chiudere un occhio sulle violazioni delle regole, il premier sta facendoci correre il rischio di una seconda ondata epidemica. Il loro problema è che, come chiunque ha accettato di condividere incarichi di governo, non sono liberi di dire la verità.
Di qui la contraddizione insanabile della comunicazione nella fase 3. Per evitare una nuova esplosione dell’epidemia veniamo ancora, ma sempre meno convintamente, invitati alla prudenza, al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine. Nello stesso tempo, assistiamo a un continuo rilassamento delle regole, che veicola il messaggio opposto: se ci lasciano salire sui treni e sugli aerei senza rispettare i 2 metri di distanza, se sui mezzi pubblici e nei negozi non ci sono controlli, se gli assembramenti sono sistematicamente tollerati, la gente non può non pensare che il peggio è passato. E quindi abbassa la guardia, e si autorisarcisce del periodo di lockdown riappropriandosi delle vecchie abitudini.
Inutile girarci intorno: il rilancio del turismo e dell’economia del divertimento (ristorazione, calcio, sale giochi, eccetera) è incompatibile con un discorso di verità sull’andamento dell’epidemia. E la politica ha scelto: in questo momento meglio annacquare la verità, se no la macchina dei consumi non riparte, e la società signorile di massa implode.

Il problema di questa fase mi sembra più puntuale che generale: gestire i singoli focolai sul territorio più che seguire l’andamento nazionale. Il caso di Roma, con i suoi due focolai a Garbatella e al San Raffaele, insegna. Bisognerebbe quindi monitorare l’epidemia partendo dai dati comunali e non da quelli aggregati per regione?
Sì, è quello che, implicitamente, suggerisce il prof. Crisanti, quando denuncia che stiamo perdendo l’occasione di debellare il virus, e che così facendo esponiamo l’Italia al rischio di una seconda, potenzialmente catastrofica, ondata epidemica in autunno. L’idea è che, se vogliamo sconfiggere il virus, dobbiamo approfittare della brevissima stagione in cui è debole, che è esattamente questa. Poi, quando arriverà il freddo, se avremo consentito che in Italia circolino ancora migliaia di soggetti contagiosi, sarà troppo tardi per fermare la valanga.

Forse però c’è anche un problema di lettura dei dati più complessivo. Lei che è uno studioso e docente proprio di questa materia, che ne pensa?
Penso che dei dati è stato fatto un uso folle, per non dire demenziale. Già la qualità dei dati della Protezione Civile è pessima, ma proprio per questo ci sarebbe voluta una grande attenzione, un grande rigore, una grande pazienza nello spiegare correttamente il loro significato.

Ci fa un esempio di uso improprio dei dati?
Gliene potrei fare almeno una decina, dal più banale al più sofisticato. Un esempio banale è questo: per settimane ci si è compiaciuti che certe regioni avessero zero morti, e ancora oggi ogni sera si sente dire che un certo numero di regioni ha zero morti o zero contagi, dimenticando di osservare che, quasi immancabilmente, le regioni esenti sono semplicemente quelle più piccole (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata ecc.).

E l’esempio sofisticato?
Il numero di guariti o dimessi. Immancabilmente presentato come una buona notizia, è invece per lo più anche, se non soprattutto, una pessima notizia.

Perché mai?
Provo a spiegarlo a partire da un dato di questi giorni, ovvero il fatto che il numero di pazienti in terapia intensiva è pressoché costante. In una situazione di costanza degli ospedalizzati, un alto numero di guariti implica logicamente un elevato numero di ingressi in ospedale, perché – se il numero di ricoverati resta costante – vuol dire che i pazienti che escono (guariti Covid) sono sostituiti da pazienti che entrano (nuovi malati Covid). L’ospedale è come un lago, con un fiume immissario e un fiume emissario: se il livello delle acque del lago è costante, e ci dicono che c’è un emissario che lo sta svuotando (i guariti o dimessi), allora deve per forza esserci a monte un immissario che lo alimenta (i nuovi pazienti).
Insomma: per mesi ci hanno inondato di buone notizie sui guariti, che a ben guardare tanto buone non erano.

Un’ultima domanda: anche in altri paesi, penso alla Cina e alla Germania, si nota una certa recrudescenza del virus. In Italia nota lo stesso trend o abbiamo una nostra specificità?
Chi si occupa di dati non dà alcuna importanza alle cifre che vengono comunicate dalle autorità di paesi totalitari (Cina) e/o troppo arretrati (Iran, Brasile). Diverso il discorso sui circa 30 paesi avanzati e più o meno occidentalizzati, come la Germania e l’Italia. Come Fondazione Hume abbiamo un dossier, non ancora pubblicato, che compara l’andamento delle curve epidemiche di 30 paesi avanzati con la curva epidemica dell’Italia. Ebbene, il risultato della comparazione è impressionate, e mortificante per l’Italia.
Cominciamo dalla Germania. In realtà la recrudescenza è stata solo una piccola fluttuazione, e il numero di morti per abitante è 5 volte più basso di quello dell’Italia. Quanto agli altri paesi, se si eccettuano 4 casi (Usa, Regno Unito, Belgio, Svizzera), tutti gli altri hanno avuto una curva epidemica molto più rassicurante, o perché sistematicamente più “bassa” di quella dell’Italia, o perché più rapidamente convergente verso la meta degli zero contagi. Soprattutto, colpisce il fatto che, pur avendo subito l’epidemia dopo di noi, quasi tutti gli altri paesi avanzati ne siano usciti prima, e molti di essi abbiano già oggi un numero di morti vicinissimo a zero. Fra questi paesi già sostanzialmente liberati dal Covid troviamo Spagna, Germania, Austria, Danimarca, Lussemburgo, Portogallo, Grecia, Norvegia, Israele, Finlandia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lituania. Bisognerebbe studiarli a fondo, questi casi a lieto fine, per capire come hanno fatto a debellare il virus, e provare a imitarli.
Lei mi chiede se l’andamento dell’Italia abbia una sua specificità, rispetto a quello degli altri paesi. Tenderei a rispondere che sì, la curva epidemica dell’Italia è molto diversa da quella della maggior parte dei paesi occidentali, ma non è un unicum. Almeno altri due paesi hanno una curva epidemica simile: gli Stati Uniti, che però presentano un picco più basso del nostro, e il Regno Unito, che ha un profilo quasi identico a quello dell’Italia.

E’ casuale questa somiglianza con Stati Uniti e Regno Unito?
Forse è casuale, o meglio è frutto di un complesso di fattori, che insieme hanno prodotto il medesimo risultato. Ma potrebbe anche non essere del tutto accidentale, se riflettiamo su un punto: Italia, Stati Uniti e Regno Unito, fra i paesi di tradizione occidentale, sono i soli con un governo populista.
E almeno una cosa la abbiamo imparata, in questa pandemia: il primo istinto dei governi populisti è negare o minimizzare la realtà, il secondo è tardare a prenderne atto, il terzo è rassegnarsi al lockdown quando è troppo tardi. E’ questo che è successo negli Stati Uniti, è questo che è successo nel Regno Unito, è questo che sta succedendo in Brasile.
L’Italia non fa eccezione: quando è arrivato il momento delle decisioni difficili, a partire dalla chiusura di Nembro e Alzano, si è preferito temporeggiare, perdendo settimane preziose, e così fornendo al virus un insperato vantaggio.
Ora stiamo ripetendo il medesimo errore. Per sostenere il turismo, e risarcire gli italiani della lunga quaresima imposta nei lunghi giorni della segregazione, stiamo mettendo a repentaglio i sacrifici di ieri, e facendo correre a tutti il rischio di una nuova ondata, che non solo farebbe altri morti, ma – per ironia della sorte – infliggerebbe il colpo di grazia all’economia, ovvero precisamente al bene che la dottrina della riapertura presume di proteggere.
Che Dio ce la mandi buona!

Intervista a cura di Gianni Del Vecchio rilasciata all’Huffington Post il 21 giugno 2020