L’orso M49 e l’arte di fuggire

La prima volta non lo sapevo. Credevo fosse un gioco. Stavo rincorrendo farfalle, mi piacciono da morire. Me l’aveva insegnato la mia mamma, a farne scorpacciate. Andavamo a caccia tutto il giorno, lei ed io, poi la sera ci facevamo un’insalata di farfalle. Buona, dietetica. Mia madre non era tanto carnivora, preferiva la verdura, o le carni leggere, volatili… Acchiappare minuscoli esserini che ti svolazzano intorno è molto divertente. Se era stagione, ci mettevamo anche due funghetti di contorno. Ma io i funghi non li sapevo trovare; giravo giravo, e sì, li cercavo, ma non so come non riuscivo mai a vederli. Secondo me si nascondono, i funghi. Oppure mi distraevo. Sono un orso molto distratto, anche se non me ne accorgo di esserlo. Diciamo che mi distraggo anche dal mio essere distratto. Penso ad altro, o c’è sempre qualcosa che mi attira e mi porta da un’altra parte, non so, un fruscio, una nuvola che passa…

Comunque, la prima volta mi avete preso di sorpresa. Se era un gioco, non mi è piaciuto per niente. Mi avete legato, elettrizzato, intontito. Non so cosa mi avete fatto, mi girava la testa e non riuscivo più ad alzarmi. Appena ho potuto me ne sono andato. Mi dispiace, ma non ci posso stare rinchiuso. Non so se riuscite a immaginare… Se vi chiudessero in casa, se vi dicessero di non uscire più, di non passeggiare, non correre, non vedere gli amici, non giocare tra gli alberi… Si chiama lockdown, in inglese. Mai sentito?

Sono scappato tutte le volte che mi avete preso. Non era scappare, era solo che dovevo andarmene. Un istinto, mi capite?

Ma perché v’incaponite tanto con me? Non avete altro a cui pensare? Stanno per iniziare le scuole, per esempio, e io lo so che adesso per voi è un problema: il distanziamento, i banchi nuovi con le rotelle, le mascherine. Dovete difendere i vostri cuccioli, volete che vadano a imparare tante cose, ma anche che stiano al sicuro. Lo capisco bene, è giusto. E allora perché non vi dedicate ai vostri problemi? La disoccupazione, i licenziamenti, il PIL che non cresce…

Avete la vostra vita, io ho la mia. Pensate che sia facile fare l’orso solitario che vaga per i boschi sempre in cerca di cibo? Eh sì, perché anch’io mi devo sfamare. E a volte farfalle e funghi non mi bastano. A volte mi avvicino alle vostre case. D’accordo, non si fa. Ma se voi lasciate i bidoni pieni di spazzatura… Sento l’odore. L’olfatto non è cosa da poco, non si può ignorare. Cerco di tenermi lontano, lo so che vi faccio paura. Sono grosso. Se mi alzo sulle zampe posteriori sono alto due metri, credo. E sono scuro, ho una pelliccia bruna come la notte. Ma non dovete fermarvi all’aspetto, al colore del pelo…

Non potremmo fare che io vivo la mia vita e voi la vostra? Umani e orsi: possono convivere, no? Io per esempio non vi catturo. Non mi passa neanche in mente, eppure ci metterei poco: vi prendo per il collo e vi metto in una gabbia. Vi piacerebbe?

Lasciatemi andare. Inutile che mi circondiate con recinti di ferro alti 4 metri e barriere elettrificate. Noi orsi siamo forti. Con una zampata riusciamo a divellere pali e inferriate. Li scardiniamo da sotto. Lasciate perdere.

Adesso sono chiuso in una specie di cassa tubolare, un cilindro che ha un gusto di metallo. Cos’è, una tana, una cuccia per cani? O sono finito all’ospedale? Mi va troppo stretto, non riesco a muovere neanche una zampa. Ed è buio, un buio pauroso. Mi sa che ci avete riprovato. Mi avete catturato un’altra volta. Perché? Tra poco è autunno. Stavo completando la mia riserva di grasso, tempo un mese o due e me ne andavo in letargo. Conosco una grotta, sui monti. C’è fresco, si sta bene. Mi accoccolavo lì e dormivo tutto l’inverno. Che male vi facevo?

E poi, c’è una cosa che non capisco. Voi li orsi li amate. La prova è che ai vostri cuccioli regalate un sacco di orsacchiotti. Appena nati e poi per anni, non fate altro che riempirli di orsi di pezza, orsi come me… I vostri bambini ci tengono stretti nel lettino, non si addormentano senza di noi. Gli fate vedere anche i cartoni animati di noi orsi, e loro impazziscono per l’orso Yoghi, col suo berretto verde e la cravatta da uomo. E allora poi perché ci date la caccia?

Il cinema non è la vita, è ovvio. Ma nel cinema, nelle storie che inventate, c’è la vita come dovrebbe essere. Ci sono prigionieri che scappano dal carcere, e li chiamate eroi. Pensate al conte di Montecristo, a Papillon… Mi avete chiamato orso M49, e poi Papillon. E va bene. Ma il mio vero nome, il nome che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, non lo conoscete. Non me l’avete neanche chiesto. Non ve lo perdono. Il nome è il primo regalo che ci fa la vita…

Mi avete definito anche “orso problematico”.

E questo mi fa tristezza, per voi più che per me. Ma cosa dite, come parlate? E che razza di gente siete? Davvero per voi la libertà è un problema?

Mi avete anche messo un collare. Un collare strano che manda segnali. Lo so che così mi controllate. Non va bene. Non mi va di essere sorvegliato, spiato. Non sono come voi, che vi fate monitorare dai vostri telefonini… Vi rubano i dati, sanno tutto di voi: la posizione, i gusti che avete, i prodotti che usate. Dovreste smetterla, e imparare a sciogliervi dai lacci. Dovreste imparare a essere liberi, invece di imprigionare noi. Se volete vi insegno come si fa. Non si può vivere con un collare. Scusate se me lo sono tolto, a un certo punto mi prudeva il collo, un fastidio infinito. L’ho rosicchiato.

Ecco, se mi liberate vi insegnerò come si rosicchiano i collari.

Pubblicato su La Stampa dell’8 settembre 2020




Come nel mito greco il cacciatore vittima del cervo

Ci siamo dimenticati della vendetta. È un gesto che non ci piace più, che sentiamo estraneo e sbagliato, ignobile, ingeneroso. La nostra è la cultura del perdono, porgere l’altra guancia o almeno evitare l’automatismo dell’occhio per occhio dente per dente.

Eppure un tempo la vendetta era un compito, un imperativo morale. Amleto è lì a ricordarcelo, anche se già in lui il dovere s’incrina dolorosamente nel dubbio che paralizza l’azione. E la guerra di Troia, in fondo, è la vendetta di Menelao a cui lo straniero Paride ha rapito la moglie…

Il tema rimane in certi film, che appartengono alla cultura americana del farsi giustizia da sé. Il giustiziere della notte, per esempio, dove Charles Bronson, nei panni di un architetto di New York a cui hanno aggredito la figlia e ucciso la moglie, s’improvvisa spietato vendicatore. Difficile non amare il personaggio, non vedere che la vendetta può anche essere intesa come la risposta, più che umana, a un atto criminale, disumano.

Gli animali tengono memoria. In loro non c’è cultura che tenga. Agiscono d’istinto e sanno cosa fare.

Pochi giorni fa, nell’Oregon, un uomo di 66 anni va a caccia nella proprietà di un amico e ferisce un cervo con una freccia. Si fa buio, e non trova la preda, così decide di andarlo a cercare il mattino dopo. Arriva la notte. L’uomo dorme beato, il cervo no. Ha male, non riesce più ad alzarsi. Pensa: perché quell’uomo andava a caccia proprio di lui, perché lo ha colpito, che cosa gli ha fatto di male? Non sa nulla di violenza, e nemmeno di destino e di condizione mortale. Sente che la sua vita s’interrompe, e questo è tutto.  Ma su quella domanda muta e inconsapevole, sul perché, sulla gratuità colpevole di chi lo ha voluto uccidere, non si placa. È un istinto. Se tu mi togli la vita, io ti devo punire. Non riavrò la vita, ma la toglierò a te.

La notte di quel cervo è la forza della memoria. Le ferite non si dimenticano. Quando al mattino il cacciatore ritorna, il cervo, con le poche forze che gli restano, lo uccide.

Difficile, in questa storia, stare dalla parte del cacciatore. Qui ci è più facile prendere le difese della vittima, visto che la vittima è un cervo (e su questa facilità, che ci viene con gli animali ma non con gli esseri umani, dovremmo riflettere: c’è qualcosa di primordiale e atavico che, a dispetto di tutti i nostri principi, se ne sta ancora acquattato dentro di noi?). Il cervo, poi, ha qualcosa in più che ci muove: è l’animale delle favole, è il cerbiatto timido e elegante che corre per i boschi. È Bamby.

Imperdonabile uccidere Bamby.

Ma c’è un’altra storia, depositata in noi da millenni: il mito di Atteone, il cacciatore sventurato che, durante una battuta di caccia, vede la dea Artemide mentre fa il bagno nuda. Vietato guardare la divinità: Artemide lo trasforma in cervo, e Atteone viene raggiunto dalla muta dei suoi cani che, non riconoscendolo, lo sbranano. Il cacciatore cacciato. Il carnefice che si trasforma in vittima. Anche questa è una storia di vendetta. Gli dei erano persone molto vendicative…

Anche il cacciatore dell’Oregon cade vittima del suo gesto. Ma il suo gesto era violento e determinato. Non si caccia impunemente, e alla fine si viene cacciati.

Atteone invece era innocente. Colpevole solo di uno sguardo, che non poteva in alcun modo evitare, visto che la dea gli appare davanti casualmente, senza che lui lo voglia, senza che lui scelga di guardarla. Uno sguardo inevitabile, che si muta in condanna.

La storia di Atteone ci muove ancora oggi, e per sempre, a pietà. E ci porta a riflettere su cosa sia colpa e cosa sia innocenza. E se la vendetta non sia, in fondo, solo una delle maschere del Destino.

Pubblicato su La Stampa del 2 settembre 2020




Scuola, ripartenza rischiosa

“La scuola riapre regolarmente il 14 settembre”, ha affermato il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma avrebbe fatto meglio a dire la verità, tutta la verità: le scuole cercano di ripartire il 14, ma non riusciranno a farlo in tutta Italia.

Infatti la situazione reale è questa. Il Friuli Venezia Giulia e quasi tutte le regioni del Sud (6 su 8) hanno già deciso di rimandare la riapertura, per lo più a dopo le elezioni del 21 settembre. Quanto alle altre regioni, alcune scuole partiranno, altre no: regioni e comuni possono autorizzare le singole scuole a rinviare la partenza, e già lo stanno facendo dove i dirigenti scolastici ritengono che non ci siano le condizioni per riaprire subito.

Le ragioni del ritardo sono fondamentalmente tre: cattedre scoperte (come tutti gli anni), lavori edilizi non completati o ancora privi delle necessarie certificazioni, mancata consegna dei banchi, originariamente prevista entro l’8 settembre, ed ora slittata alla fine di ottobre.

Si poteva fare diversamente?

Se teniamo conto del fatto che le scuole sono state chiuse da marzo, e che a metà maggio già si sapeva che non avrebbero riaperto prima di settembre, la risposta è: sì, almeno per quanto riguarda la consegna dei banchi. Bastava fare il bando a maggio, come fin dalla fine di aprile suggerivano alcuni produttori, anziché aspettare il 20 luglio (più di 4 mesi dopo la chiusura delle scuole!). Quanto alle nomine degli insegnanti, non riesco a credere che – con i pieni poteri che questo governo si è auto-attribuito – non vi fosse alcun modo di coprire la maggior parte delle cattedre, se non altro in considerazione del fatto che la carenza di insegnanti, nella misura in cui genera caos amministrativo e organizzativo, è anch’essa un potenziale fattore di rischio.

Possiamo almeno dire che la riapertura, dove avverrà, sarà “in sicurezza”?

Questo è difficile stabilirlo in anticipo, anche se il fatto che il premier abbia già messo le mani avanti, dicendo che eventuali focolai non sono imputabili a carenze dell’azione di governo, non è particolarmente incoraggiante. E’ ovvio che, come ha detto al figlio Niccolò, “se succede qualcosa a scuola non è perché papà ha lavorato male”. Ma il punto non è se ci saranno casi di Covid a scuola (questo è certo, ed è perfettamente normale, ahimè), ma se ve ne saranno pochi o parecchi, se sarebbero potuti essere molti di meno con scelte politiche diverse, e se ci siano le condizioni per gestire efficacemente i casi che certamente ci saranno, tanti o pochi che siano. Il caso di Israele, che giusto in questi giorni – primo paese al mondo – ha annunciato il ritorno al lockdown, dovrebbe insegnare qualcosa: se Israele deve di nuovo chiudere, è essenzialmente perché ha sbagliato tutto sulla scuola, dai tempi di riapertura, alla dimensione delle classi, agli errori nella aerazione dei locali (basata sui condizionatori).

Ebbene, sul versante della sicurezza il quadro è tutt’altro che rassicurante, per due ordini di ragioni. Il primo è che le misure adottate sono alquanto deboli, specie se confrontate con quelle di diversi paesi europei, che prevedono regole precise sulla frequenza di aerazione dei locali, un distanziamento maggiore (1.5 metri o 2), vincoli stringenti alla dimensione delle classi (da 10 a 20 bambini, a seconda dei paesi). Per non parlare della incapacità di assicurare un adeguato distanziamento nei trasporti: quella di considerare “congiunti” i bambini che vanno nella medesima scuola è una trovata degna di un Azzeccagarbugli; una acrobazia linguistica cui il governo è dovuto ricorrere perché per mesi e mesi si era occupato d’altro e, arrivati al 27 agosto, non c’era più tempo di provvedere diversamente, innanzitutto rafforzando il trasporto pubblico locale. Viene da chiedersi: a che serve tentare maldestramente di assicurare il distanziamento a scuola, con la ridicola regola del metro fra le “rime buccali”, se prima e dopo l’ingresso a scuola – per mancanza di bus – si costringono i ragazzi ad assembrarsi sui mezzi pubblici?

Ma c’è anche un altro ordine di ragioni, strettamente sanitarie, che non ci può lasciare tranquilli. Dalla metà di giugno, quando l’epidemia ha dato chiari segni di rialzare la testa (un fatto inizialmente segnalato da pochi, ma progressivamente riconosciuto da tutti), nulla è stato fatto per invertire la tendenza, e molto è stato invece fatto per prolungare il più a lungo possibile il periodo in cui la gente poteva divertirsi, il turismo riprendere fiato, e il virus accomodarsi fra noi; fino alla decisione finale di tenere le discoteche aperte anche a Ferragosto, nonostante i disastri provocati dalla folle estate fossero divenuti evidenti a tutti. Ebbene tutte queste scelte e omissioni (specie quella di chiudere un occhio su discoteche e movida) un risultato, prevedibile e previsto, l’hanno prodotto: aumentare il numero di contagiati e, con esso, il rischio che chiunque, ragazzo, insegnante, o familiare, contragga il virus.

Mentre ipocritamente si proclamava che la scuola era una “priorità assoluta”, e che “nemmeno una ora di lezione” doveva andare perduta, si permetteva che il rischio di contagiarsi, sceso ai minimi all’inizio dell’estate, tornasse inesorabilmente a salire.

Ma di quanto? A che punto siamo oggi?

Difficile fornire una stima precisa, ma l’ordine di grandezza è chiaro. Rispetto ai minimi toccati all’inizio dell’estate il numero di morti è quasi triplicato, e il numero di ricoverati in terapia intensiva è circa quadruplicato. Quanto al numero dei contagiati, è verosimile che sia aumentato ancora di più, perché l’età mediana si è drasticamente abbassata, e più la popolazione di contagiati è giovane, minore è la probabilità di un ricovero in terapia intensiva o di un decesso. Morti e ricoverati in terapia intensiva tornano, anche se per ragioni diverse rispetto a marzo e aprile, ad essere solo la punta dell’iceberg del contagio.

Tirando le somme, credo che il numero di contagiati sia almeno quintuplicato, ma non sarei stupito che qualche collega epidemiologo meno prudente di me ipotizzasse che sono decuplicati.

Ecco perché affermare che la scuola riapre “in condizioni di sicurezza” è semplicemente una bugia. No, tra luglio e agosto la scelta di chi ci governa non è stata di approfittare dell’estate per ridurre ulteriormente la circolazione del virus e arrivare alla riapertura delle scuole in condizioni di massima sicurezza (linea di condotta più volte invocata dal prof. Crisanti, e non solo da lui). La scelta è stata di risarcire gli italiani per il lockdown regalando loro un’estate senza regole, anche se si sapeva benissimo che questo avrebbe reso meno sicuro il ritorno a scuola.

Ora che la frittata è fatta, ora che è chiaro che molte scuole non potranno garantire una ripartenza in sicurezza, ora che lo spettro di un ritorno alla didattica a distanza si fa più minaccioso, vorrei almeno, a nome di tanti genitori, chiedere una cosa, minimale ma dovuta: se uno studente viene confinato nella stanza del Covid, e mandato a casa perché sospetto, potete almeno garantirgli il tampone (e la comunicazione dell’esito) entro 48 ore?

Già, perché non tutti i genitori se ne sono ancora accorti, ma non c’è nulla, ma proprio nulla, nei protocolli e nelle procedure, che dia alle famiglie questa garanzia. Non paghi di scaricare sulle famiglie un’operazione (la misurazione della temperatura) che la scuola non è in grado di assicurare, i nostri politici ed esperti hanno previsto che, in caso di sospetto Covid, i genitori debbano riprendersi il pargolo e provvedere loro stessi a contattare un medico, che a sua volta deciderà. Come se non si sapesse che proprio questo è il problema, in tante realtà: non c’è garanzia che il medico venga a casa per una visita, non c’è garanzia che qualcuno effettui subito il tampone, non c’è garanzia che l’esito venga tempestivamente comunicato, e non si perda invece nei meandri della burocrazia delle mail, della “sanità digitalizzata” e senza volto.

Questo è, purtroppo, quello che è successo nei terribili mesi della prima ondata. Possiamo chiedervi che non succeda più?

Pubblicato su Il Messaggero del 12 settembre 2020




La ruota e il ruotino. Perché la didattica a distanza non è la soluzione

Avete presente quando bucate una gomma? Questo è quello che facciamo: imprechiamo, montiamo la ruota di scorta, e ci premuriamo di sostituirla con una ruota della misura giusta appena possibile. Tutti e tre questi passaggi sono fondamentali.

Credo sia successo esattamente questo quando il Covid ci ha costretti ad abbandonare le lezioni in presenza: abbiamo forato e, con prontezza, abbiamo montato il ruotino, ovvero siamo passati alle lezioni online. Era la cosa giusta da fare, meno male che ce l’avevamo, la ruota di scorta. Quello che voglio dire è solo questo: le lezioni online non sono niente di più che una ruota di scorta, da sostituire al più presto con una ruota vera. Per favore, non affezioniamoci al ruotino!

Ci tengo a sottolineare che l’imprecazione è fondamentale, ma su questo punto tornerò alla fine.

Parlerò solo di quello che vedo coi miei occhi, e cioè le lezioni universitarie della disciplina che mi dà da vivere, ovvero la matematica. Il principio si applica in generale, anche a lezioni non universitarie. L’unica cosa che dovete sapere sul mestiere del matematico è questa: per comunicare con un suo simile, al matematico lavagna e gesso sono più che sufficienti.

Partiamo dal presente, cioè le lezioni online. Premetto una cosa: durante il lockdown ho comprato un tablet, ci ho messo mezzora a imparare a usarlo e l’ho sfruttato diverse volte per fare seminari, di ricerca e non, che normalmente avrei fatto alla lavagna. Non è solo divertente e facile da usare, è uno strumento eccellente. Ma, appunto, mi fermo qui: è uno strumento. Non può sostituire lavagna e gesso, e voglio spiegare perché.

Com’è una lezione online? Si sceglie una piattaforma in rete a cui collegarsi, per esempio Zoom, e una volta arrivati tutti gli interessati il docente inizia a condividere lo schermo, che sostituisce la lavagna. A questo punto, ci sono diverse modalità possibili (riporto solo le più efficaci tra tutte): il docente può scrivere sul tablet in tempo reale, di solito copiando la lezione preparata in anticipo su dei fogli, e gli studenti vedono il testo apparire sul proprio schermo, proprio come alla lavagna; oppure, può decidere di mostrare delle slide preparate in anticipo. I partecipanti, fin da subito, chiudono il microfono e il video, così da migliorare la connessione e non disturbare la lezione: sono muti e invisibili. Il docente parla per un’ora o due da solo nel salotto di casa sua, e gli studenti ascoltano da casa propria. Se vogliono, alla fine fanno domande. E questo è quanto.

Invece prima era così: lo racconto in prima persona. Entro in aula con due gessetti, nient’altro. Un numero più o meno grande di studenti si sono svegliati quel giorno e sono entrati in università nella speranza di imparare cose nuove guardando quello che succede alla lavagna. Voglio enfatizzare che la matematica, come molte altre discipline, si impara soprattutto parlando con le persone: i libri sono fondamentali, ma difficili da interiorizzare. A volte cinque minuti spesi alla lavagna con qualcuno che ci spiega qualcosa, anche da studente a studente, valgono molto di più di due ore passate su un libro.

Continuiamo: inizio a scrivere alla lavagna. Il gesso fa rumore. Scrivo lentamente, per non mettere ansia a nessuno: il rumore del gesso che batte freneticamente sulla lavagna potrebbe far scattare la preoccupazione di non saper stare al passo. Mi giro spesso a guardare le facce degli studenti: gli sto raccontando una storia, magari non è una storia facile e non sono di certo quello che la sa raccontare meglio, ma girandomi spesso per incontrare i loro sguardi capiscono che sono lì per loro, che sto facendo del mio meglio per passar loro qualcosa e che quel viaggio lo stiamo facendo insieme. Li guardo negli occhi. Così sanno che, se vogliono, possono interagire, fare domande. Avete mai fatto caso ai baristi, quando evitano il contatto visivo? E’ il loro modo di dirci che non hanno tempo per noi. Quindi, li guardo negli occhi. Mentre scrivo, non posso farlo. Ma posso ascoltare. Magari c’è silenzio, ma ci sono diversi tipi di silenzio: per esempio, quello che riflette la consapevolezza che si sta toccando un passaggio cruciale, o quello che mi dice che sono curiosi di vedere come finisce la storia. Significa che devo fare uno sforzo per mantenere quell’atmosfera fino alle fine del discorso.

E poi, arriva la cosa più importante: il brusio. Fondamentale, sentire il brusio. Significa che non sono stato efficace, che la cosa che ho appena detto avrei potuto dirla meglio. Torno indietro, mi ci soffermo, la dico in modo diverso, li riguardo negli occhi e all’istante ho la conferma che non sono stato abbastanza chiaro. Di solito, a quel punto parte una domanda.

Intervallo: siamo a metà lezione. Qualcuno si avvicina alla lavagna, fa una domanda troppo intricata da proporre durante la lezione, o magari mi chiede di rispiegare una cosa. Adesso siamo lì, alla lavagna, anche lo studente ha un gessetto in mano, possiamo scrivere entrambi e guardarci negli occhi, e la vicinanza fisica aiuta quella spirituale: sembra un’idiozia, ma mi ricordo bene che, da studente, le cose che imparavo meglio erano quelle che mi venivano spiegate da qualcuno che avevo la prova tangibile che fosse un essere umano, a pochi passi da me, mentre disegnava simboli alla lavagna che erano lì sopra, bianco su nero, proprio per me.

Non farò una comparazione tra le due descrizioni che ho dato, delle lezioni online e di quelle in presenza. Osservo semplicemente che nulla di quello che ho descritto della lezione in presenza si trova, o è in qualche modo recuperabile, nella lezione online.

Anche i seminari di ricerca si fanno online. Lì il clima è simile ma anche un po’ diverso, per esempio il pubblico non è formato da studenti ma da dottorandi, ricercatori: non si tiene una lezione ma si espongono i risultati delle proprie ricerche. Buttiamola sul ridere, per stemperare un po’: mi manca molto vedere il professore di turno addormentato in prima fila con la bocca aperta dopo dieci minuti che parlo, forse perché una pasta cacio e pepe prima del seminario non era una buona idea, oppure perché sono veramente noioso. In ogni caso, era bello da vedere. Potevo scegliere di fare una battuta, o direttamente dedurre che avrei potuto migliorare l’esposizione. Ma qualunque cosa scegliessi di fare, sapevo esattamente cosa stava succedendo attorno a me. Io stesso, assistendo a dei seminari online fatti da altri, mi sono alzato diverse volte dal divano (sì, li ascoltavo sul divano, e, per essere onesto fino in fondo, non sempre avevo i pantaloni) per prendermi una fetta al latte nel frigo. Le lezioni e i seminari fatti così assomigliano più a delle serie su Netflix, e la cosa mi spaventa proprio per lo smisurato successo di Netflix.

Infine, parliamo dell’imprecazione. Essa non scaturisce solo nel momento in cui foriamo: anche dopo che abbiamo montato il ruotino, ci accorgiamo che in curva la tenuta di strada è peggiorata, e siamo costretti ad andare a velocità ridotta, perché il veicolo è diventato d’un tratto meno sicuro. Voglio chiedere a tutti coloro che sono in posizione di imprecare, per favore di non smettere. Non abituiamoci al ruotino: non è uno strumento sicuro, e chi rischia di rimetterci sono i giovani, gli studenti che ci stiamo impegnando a formare ogni volta che entriamo in un’aula. Non permettiamo ai burocrati di pensare che, siccome la macchina continua ad andare avanti, va bene così e non dobbiamo passare dal gommista. La macchina va avanti solo perché il danno non era al motore, ma le ruote sono ugualmente importanti.




La mente sotto il Covid

Del Covid, in questi lunghi mesi, si è parlato quasi sempre da due angolature: come minaccia alla salute, e come minaccia all’economia. Meno spazio ha avuto un terzo possibile punto di vista, quello degli effetti sul modo di funzionare delle nostre menti. Eppure è quest’ultimo, probabilmente, il terreno su cui stanno avvenendo i cambiamenti più radicali.  Forse non amiamo parlarne perché questi cambiamenti non ci piacciono, o ci fanno soffrire, o aumentano il nostro disorientamento e la nostra angoscia.

Il cambiamento più evidente, probabilmente, è l’aumento dell’incertezza. Che non significa semplicemente che non sappiamo come sarà il mondo fra un anno, e nemmeno fra un mese, ma che viviamo in uno stato di sospensione perenne, senza fine. Rimandiamo ogni decisione, non siamo più capaci di pianificare nulla, né progettare le nostre vite. Il Covid ci paralizza esistenzialmente. Ma forse sarebbe più esatto dire: il Covid paralizza gli italiani, forse gli europei. Non gli americani: le notizie che provengono da New York, che descrivono una città che si sta svuotando e una popolazione in fuga verso siti più periferici, mostrano che la paralisi non è l’unica reazione possibile. Forse perché molto più abituati di noi ai cambiamenti – cambiare lavoro, cambiare città, cambiare stato – gli americani sembrano aver deciso che il mondo non tornerà come prima, e il momento di cambiare abitudini e modi di vita è adesso, non chissà quando nel futuro. La società americana è elastica, forse anche per questo lì il contraccolpo economico del Covid – nonostante la catastrofe sanitaria (grave quasi come la nostra) – potrebbe risultare meno drammatico che in Europa. Per il 2020 l’Ocse prevede un tracollo del Pil di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna compreso fra l’11 e il 15%, mentre per gli Stati Uniti prevede un calo del 7-8%, poco più della metà.

Non è solo la difficoltà di progettare il futuro, però. Il Covid sta portando nelle nostre vite cambiamenti più sottili, ma potenzialmente ancora più distruttivi. Il più importante, a mio parere, è uno stato generalizzato di anarchia mentale, un fenomeno che mi è più facile spiegare con esempi che con un discorso astratto.

Prendiamo un invito a cena. In condizioni normali lo accetti, se ti piacciono le persone che incontrerai. Ma in condizioni Covid, specie se si sono superati i 50 anni, può succedere di chiedersi: quante persone ci saranno? si mangia all’aperto o al chiuso? il pranzo è in piedi, o saremo tutti seduti a tavola? e in questo secondo caso, a che distanza ci metteranno? chi sono gli invitati? sono persone prudenti e isolate, o sono persone che, per lavoro o per svago, hanno centinaia di contatti? potendo scegliere il posto a tavola, è più rischioso sedere fra X e Y o fra Z e W?

Ovviamente sono tutte domande che, di norma, nessuno osa rivolgere esplicitamente ai suoi interlocutori.  Però non vuol dire che non ce le facciamo. O che alcuni di noi potrebbero farsele. O che potrebbero abitare le menti delle persone che incontriamo. Ed ecco la conseguenza: puoi essere più o meno ansioso, più o meno preoccupato, più o meno razionale, ma non puoi sfuggire al fatto che il mondo sociale in cui il Covid ti ha gettato è un mondo in cui non è irragionevole pensare che l’altro possa essere un pericolo per te e tu possa essere un pericolo per lui. Possiamo negarlo finché vogliamo, protestare che noi siamo superiori, che per noi tutto è come prima, ma la realtà è che in ciascuno la percezione degli altri è cambiata, tanto o poco, ma è cambiata. E vale anche per i negazionisti: loro possono credere quel che vogliono, ma non possono sfuggire al fatto che gli altri non la vedono come loro.

Quello descritto sarebbe già, di per sé, un mondo inquietante. Ma non è tutto. Nel mondo sociale che il Covid ci ha regalato le nostre menti non si trovano semplicemente a fare i conti con il trauma dell’altro come pericolo. Accanto a quel trauma, che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi, c’è un altro dramma: il sistematico disallineamento fra le soglie di rischio, ossia il fatto che molto raramente due persone hanno il medesimo grado di avversione al rischio, e ancora più raramente hanno le medesime idee su che cosa è veramente rischioso e che cosa non lo è. Può così capitare di essere considerati pavidi (o fobici), se l’interlocutore ha una avversione al rischio minore della nostra, e imprudenti (o incivili) se la sua avversione è maggiore. L’altro non è semplicemente percepito come un pericolo, ma come diverso e incompatibile con noi, perché non ha le nostre stesse sicurezze e paure.

Questa situazione in parte è normale. Le differenze di avversione al rischio ci sono sempre state, Covid o non Covid. Quel che è nuovo, e tutt’altro che normale, è che le soglie di rischio individuali siano del tutto disallineate. C’è chi pensa che il Covid sia un pericolo mortale, e chi pensa che sia poco più di un’influenza. C’è chi porta la mascherina anche all’aperto senza nessuno nelle vicinanze, e chi si ammassa su autobus e vaporetti, in strada, in discoteca. C’è chi pensa che la trasmissione del virus avvenga solo interagendo con altri, e chi teme la trasmissione attraverso le superfici, o attraverso l’aria. C’è chi smette di pensare che il Covid sia un pericolo, perché pensarlo gli rovinerebbe le vacanze, salvo poi tornare a temerlo quando prendere sul serio il Covid comporta solo la noia di sottoporsi a un tampone (è il caso dei giovani di ritorno da vacanze massificate).

La realtà, come ben sanno gli psicologi sociali dai tempi di Leon Festinger, inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”, è che gli esseri umani funzionano come macchine di auto-rassicurazione. Mediamente, non pensano quel che l’evidenza empirica disponibile suggerisce, ma quello che li fa stare meglio, o li fa soffrire di meno, o mitiga la loro angoscia. La loro capacità di ignorare la realtà, o di autoingannarsi, non ha alcun riscontro nel mondo animale. E il Covid ha fornito una eccezionale occasione di esercitare questa loro capacità.

E’ un problema?

Sì, perché la vita sociale si regge su regole comuni e accettate, ma anche su schemi condivisi di percezione della realtà. Il regime di anarchia mentale innescato dal Covid è pericoloso per la coesione sociale perché nessun società può sopravvivere senza una descrizione delle cose minimale e comune. Ma è anche pericoloso per l’equilibrio psicologico del singolo, perché un mondo in cui ognuno vede quel che vuol vedere, senza riguardo a quel che vedono gli altri, è altamente ansiogeno, conflittuale, destabilizzante.

Si poteva evitare?

In parte no, perché la paura è uno stato d’animo con cui ognuno fa i conti o modo suo, in base alla sua personalità, alle sue esperienze, e anche ai propri interessi. Per un imprenditore, o per un lavoratore non garantito, prendere sul serio la paura può essere troppo costoso, perché fermarsi significa la rovina economica. Per un pensionato, un dipendente pubblico, o un operaio tutelato dalle organizzazioni sindacali, la paura è meno costosa, perché il suo reddito non è a rischio (per ora).

In parte però sì, l’anarchia mentale e i suoi danni si potevano evitare, almeno un po’. Non era impossibile, volendo, arrivare a un minimo di regole e di standard di prudenza condivisi. Bastava non dire prima che le mascherine e i tamponi non servivano, e poi che erano assolutamente necessari. Bastava non stabilire regole illogiche e incoerenti (distanziamento sui Freccia rossa, ammucchiate sugli altri mezzi di pubblici). Bastava far rispettare le regole che si enunciavano, senza chiudere un occhio sulle violazioni (movida, assembramenti). Bastava essere netti e chiari sulle discoteche, anziché pilatescamente scaricare ogni responsabilità sui Governatori delle regioni. Bastava che gli scienziati e gli esperti veicolassero un messaggio sostanzialmente coerente e ragionevole, anziché dividersi nei programmi televisivi in cerca di attimi di celebrità. Se ognuno può permettersi di percepire la realtà in modo del tutto personale, e privo di agganci obiettivi, è perché in questi mesi il racconto pubblico è stato dissonante e cacofonico.

L’anarchia mentale che ci attanaglia è certamente, innanzitutto, figlia della filogenesi, ovvero di ciò che siamo diventati come membri della specie umana. Ma è anche, in qualche misura, figlia della classe dirigente che ci ritroviamo: incapace di parlare con una voce sola, e proprio per questo destituita di ogni autorevolezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 settembre 2020