I partiti politici hanno rovinato l’Italia?

A Roberto Pertici

Nei giorni 10 e 11 settembre si è svolto a Santa Margherita Ligure, col patrocinio del Comune, della Regione Liguria, del Ministero degli Affari Esteri, del Corpo Consolare di Genova, il primo Festival della Politica in Liguria. A organizzarlo è stata l’Associazione Culturale Isaiah Berlin, intitolata al grande filosofo liberale di Oxford che trascorreva diversi mesi dell’anno nella sua villa sulle alture tra Santa Margherita e Portofino. Sono stati giorni di civilissimo confronto tra giuristi, economisti, storici, filosofi, politici di diversa area ideologica ma alieni dall’insulto, dalla criminalizzazione dell’avversario, dal processo alle intenzioni che ormai caratterizzano dibattiti televisivi, talk show, interviste sui quotidiani e, soprattutto, twitter. Temi caldi come la crisi della democrazia, la globalizzazione, il sovranismo, il populismo sono stati affrontati in maniera chiara e pacata: ciascun relatore, nelle sei tavole rotonde, ha esposto le sue ragioni senza aver l’aria di possedere la verità in tasca. Qualcosa a cui non si era più abituati.

Intervenendo, anch’io, sul tema della crisi della democrazia, mi è scappato di dire, incautamente, che «a rovinare l’Italia sono stati i partiti». L’ho sempre pensato ma affermazioni come questa non si fanno en passant : se manca il tempo per motivarle storicamente e teoricamente, è meglio lasciar perdere. Giustamente, quindi, mi è stato fatto rilevare che, in Italia, sono stati i partiti a tenere unito il paese dopo la catastrofe bellica, a selezionare la nuova classe dirigente repubblicana, a porre le basi della democrazia rappresentativa. Se hanno invaso la pubblica amministrazione, ha aggiunto qualcuno, lo si deve al fatto che lo Stato controlla direttamente o indirettamente più del 50% dell’economia e, quindi, è forte la tentazione dei partiti di entrare nella “stanza dei bottoni” per assicurare vantaggi e risorse alle proprie truppe.

Per chi, come me, vede nel pensiero di Raymond Aron un muro maestro dell’edificio liberale, si tratta di considerazioni scontate. Il fenomeno dei partiti, nella società contemporanea, scriveva il grande filosofo-sociologo della Sorbonne, «diventa essenziale poiché l’unicità o la pluralità dei partiti determina la modalità della rappresentanza». Chi teme le dittature di ogni colore e ama la “libertà dei moderni”, pertanto, non può non riconoscere la funzione decisiva dei partiti politici.

 In Italia, però, non va dimenticato, bisogna fare i conti col fattore effe (fascismo) e con i suoi eredi sicché tutto quello che si può concedere ai miei critici è che, in ogni caso, la partitocrazia è il meno peggio rispetto a qualsiasi altro regime—che, ormai, non potrebbe essere più il regime del partito unico, ma il governo degli esperti, sempre più auspicato da quanti, in nome della “competenza” e dell’antipopulismo, vorrebbero tornare a Saint-Simon e alla tecnocrazia.

Che cosa significa il fattore effe? In parole semplici, significa che c’è un partito, il PNF, che non si pone al servizio della “comunità politica” (tradizioni, istituzioni, mentalità, credenze religiose, culture politiche più o meno consolidate da tempo), ma la definisce e la fonda. Non c’è un libro sacro che i sacerdoti debbono interpretare, ma sono i sacerdoti stessi che ne scrivono uno, escludendo dalla protezione dello Stato e delle leggi tutti coloro che non lo riconoscono (da ultimo toccò agli ebrei).

I partiti del CLN (in sostanza DC, PCI e PSI, i cespugli del tempo contano poco) vanno considerati, a mio avviso, i veri eredi del PNF, con la differenza fondamentale che la loro pluralità ha garantito oggettivamente quel minimo di libertà civili e politiche che il fascismo aveva azzerato. La pretesa, però, è la stessa: quella di rifondare la comunità politica, non di riconoscerla nei suoi valori secolari, e di definirla, a differenza del fascismo, in un testo costituzionale (dove, tra l’altro, si riconosce il diritto di proprietà solo per la sua “funzione sociale”, lasciando nell’ombra il significato di “funzione sociale” e gli organi che dovrebbero accertarla) che, in sostanza, vanifica la politica a favore del diritto. (Vedine gli esiti estremi nei giuristi cosmopolitici per i quali le “frontiere” sono un attentato contro i diritti universali dell’uomo).

Questo dato storico, che non trova riscontro in altri paesi occidentali—neppure in Francia dove il conflitto politico è/è stato non meno incandescente che in Italia—spiega assai bene certe modalità della politica italiana. A cominciare dalla natura carismatica dei partiti che, in quanto portatori di legittimità sostanziale, sono superiorem non recognoscentes: l’immagine di uno Stato forte e neutrale diventa, nella loro ottica, ideologia, falsa rappresentazione: un prefetto, un questore, un generale, un direttore di quotidiani, un editore etc. sono simboli di istituzioni vuote, che vanno riempite di contenuti etico-sociali concreti, che nel ventennio erano sfornati da un solo partito e, a partire dal secondo dopoguerra, da una pluralità di partiti. Il funzionario che “non guarda in faccia a nessuno” da noi è quasi un “cavaliere inesistente” che pretende di far rispettare la legge e l’ordine anche ai rappresentati consacrati dal voto popolare ma si muove come un’armatura vuota. I partiti non sono il braccio armato e intercambiabile (le loro fortune dipendono dalle urne) dello Stato, ma i suoi servi padroni o, meglio, non sono gli interpreti delle sue volontà ma coloro che ne indicano le direzioni, che dicono alla volontà ciò che deve volere.

Anni fa, in Francia, i socialisti subirono un grave scacco elettorale perché sospetti di voler mettere le mani sulla Pubblica Amministrazione. Oltralpe i diritti civili sono assicurati—con buona pace dei retori liberisti e libertari dell’anticentralismo—giacché i vari regimi politici non erodono la pianta dello Stato, accampandosi sulle sue rovine come i barbari del tardo impero. I servizi pubblici funzionano (dalla Sanità alle ferrovie) perché i politici—Parlamento ed esecutivo—esercitano funzioni doverose di mero controllo: nel nostro paese, al contrario, le nomine alla direzione degli enti diventano un terreno di scontro politico, volendo ciascun’area politica imporre “i suoi uomini”, per far valere la propria concezione del bene pubblico. Questo brutto costume di casa, paradossalmente, era ancora tollerabile quando erano vivi e vegeti i partiti tradizionali che si richiamavano a forti ideologie: l’interesse generale, allora, si identificava con quello di una parte ma questa parte riteneva, a sua volta, di battersi per i grandi valori (la solidarietà cristiana interclassista, l’ascesa del proletariato, il riscatto delle campagne etc.). Finita l’era dei “grandi racconti”, rimane solo la lotta per il potere fine a se stessa, che si svolge in un’arena—lo Stato—sempre più evanescente e privo di veri difensori, impensabili ove manchino il “senso delle istituzioni” e, me lo si lasci dire, l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità nazionale. Valori irrecuperabili per sempre se si pensa che ci si sente italiani (forse) solo all’estero giacché a definirci sono, soprattutto, le nostre opinioni politiche e le nostre collocazioni regionali.

Anteprima del testo che uscirà sul forum di Paradoxa



Pensieri estivi

La nave dell’acqua

M’interrogo spesso sulle navi dell’acqua. Mi succede di solito in agosto, nel resto dell’anno quasi mai. In agosto, su un’isola. Se non sono su un’isola, difficile che mi venga il pensiero.

Le isole dipendono dalla nave dell’acqua. Se la nave non arriva, l’isola resta senz’acqua. D’accordo, è piuttosto ovvio. Ma pensiamoci a fondo. Una nave che trasporta… acqua. Che da qualche parte sulla terraferma si fa riempire le cavità interne di… acqua. Le cavità interne di una nave, il grembo oscuro, l’antro misterioso della balena di Pinocchio. E poi piano piano, piena com’è d’acqua, va… sull’acqua. Percorre quella vastità incommensurabile di acqua che è il mare e va a portare la sua personale dose d’acqua in un posto dove non c’è acqua, e non ci sarebbe mai se lei non arrivasse. Pensiamo cosa dev’essere avere un tale fine, essere programmata per una missione così necessaria e salvifica. Pensiamo a quale consapevolezza di sé, a quale fierezza, pienezza morale, autostima deve possedere una nave dell’acqua.

E osserviamola con attenzione. Strana, particolare. Non assomiglia a nessun’altra nave. La si distingue già da lontano, la si vede arrivare quando è ancora un puntino oblungo all’orizzonte, un trattino sul filo del mare, ed è un tuffo al cuore. Almeno uno di noi a questo punto, ovunque si trovi – a casa, al bar, sotto l’ombrellone, in coda in un negozio (a patto che abbia almeno una vetrata sul porto) – esclama, col sorriso nel cuore:

Arriva la nave dell’acqua!

C’è sempre, in queste esclamazioni estemporanee e istintive, qualcosa di quella purezza disarmata eppur imperiosa, di quel terrore atavico intrattenibile che ha a che fare con la paura di morire, con le difficoltà primitive del vivere, la fame, la sete, la povertà; e anche, quindi, con l’idea di una salvazione, di un’entità metafisica variamente declinata che ci osserva, ci protegge, e in definitiva ci vuole bene. Una nave dell’acqua, appunto.

È bellissima. Lunga, stilosa. La prua è un corpo compatto e ha la forma di ogni prua, più o meno. E la poppa anche, tutto sommato, esce poco dalla norma. Vista da davanti o da dietro, una nave dell’acqua potrebbe assomigliare a una nave qualsiasi. Ma vista di lato no perché poi, nel proseguire del corpo, nella sua parte centrale, si assottiglia e si appiattisce, fa partire una sezione di sé lunghissima e filiforme, come se qualcuno avesse tirato dalla prora e dalla poppa a mo’ di molla e il risultato fosse una specie di corridoio etereo e longilineo, un avvallamento, una piattaforma, che contraddice l’idea stessa di nave dell’acqua così come ci verrebbe da immaginarla: grossa, ingombrante, tonda come il ventre di una donna che porta in sé il suo figlio nascituro. Nave gravida che, invece, nasconde il peso, lo camuffa in una snellezza elegante, dandoci il brivido di un dubbio: ma veramente questa nave avrà dentro di sé dell’acqua, o ci inganna?

E poi, la fermezza. Nel senso dello stare ferma. Una nave dell’acqua non si muove. Sta. Per ore, anche giorni. Ha questa pazienza di arrivare e poi star lì immobile, muta. Sa cosa deve fare, e sa che il prezzo è il tempo, un tempo statico, appagato in sé, dal suo fine. Ormeggia al molo, distende quel suo lungo tubo (di gomma?) che inizia penzolando dalla chiglia, poi affonda un poco in mare, infine subito risorge per connettersi con chissà quali tubazioni ignote, sotterranee, misteriche, collegate a loro volta a chissà quali immense caverne, concavi spazi bui, grotte, magazzini, cantine, container… Come si chiameranno queste cavità capaci di contenere tutto il fabbisogno d’acqua di un’intera isola?

E di lì, l’arrivo alle cisterne. Il mistero delle cisterne! Il lento diramarsi dell’acqua verso le singole cisterne. Ogni casa ne ha una, su un’isola. È il suo bene più prezioso. Il valore di una casa si misura in tonnellate, nella capacità della sua cisterna. Più tonnellate una cisterna contiene, più è capace di fornire acqua e più, nel suo proprietario, si dissolve l’idea di sete, rovina, morte.

Infine, la desertitudine. La nave dell’acqua sembra sempre deserta. Non si vede essere umano. Nessuno si aggira, scruta l’orizzonte, cammina, mangia un panino. Nessuno. Per quanto mi fermi ogni volta a guardare, non ho mai colto alcun movimento o parvenza animata. Neanche un cane, per dire. Lo sterminato ponte, quella piattaforma stirata, è sempre perfettamente vuoto.

Chi c’è sulla nave dell’acqua?

Eppure qualcuno la abita, la governa. Dove si nasconde? E cosa fa? Come si vive su una nave dell’acqua?

Se fossi uno scrittore, m’inventerei una storia.

 

L’aereo dell’acqua

Anche gli aerei, d’estate, portano acqua. Succede quando qualcosa s’incendia, di solito un bosco. Allora noi da riva osserviamo il giallo dei canadair sfiorare il mare, caricare, ripartire verso l’alto e poi scaricare lasciandosi dietro la nuvola bianca e densa dell’acqua, che a pioggia, cadrà a spegnere fiamme che non vediamo. Gli incendi, chissà perché, sono sempre dietro il monte, a lato del promontorio, dopo la curva, oltre la punta: sempre nascosti, lontani, come non volessero farsi sorprendere, come se bruciare fosse una faccenda privata, da consumarsi nell’intimo della propria esistenza.

Sono bocche aperte, i canadair. O meglio, aerei dalla pancia sfondata, che a mo’ di enorme paletta raccolgono l’acqua, la contengono un attimo in sé, per poi subito elargirla.

Ma il bello sono gli aerei, o elicotteri, col cestino. O secchiello. Un piccolo contenitore che tengono appeso e vola sotto di loro, un poco inclinato, sghembo. Un secchio porta acqua, così minuscolo nel cielo, tenuto da un filo o catena, chissà, qualcosa di aereo che lo sospende. E noi lì sotto a fare la nostra vita di turisti, bagnanti, vacanzieri festosi e divertiti: noi a fare il bagno, spalmarci di creme, tuffarci dagli scogli, arroventarci di sole, chiacchierare con gli sconosciuti, sfogliare riviste, addentare focacce, adocchiare bellezze, rincorrere gabbiani, accarezzare cani, litigare con genitori, baciare fidanzati, guidare moto d’acqua, nuotare. Mentre nel cielo questi velivoli pazienti, generosi e umili passano e ripassano sopra le nostre teste ignare, distratte, indifferenti.

Ogni tanto, se ci pare, se ci viene, volgiamo gli occhi in alto e li vediamo, per un attimo, questi aerei che vanno e vengono, dieci volte, venti volte, per ore, metodici, costanti, col loro secchio appeso, ora portandolo pieno, ora riportandolo vuoto. Ogni tanto, se ci permettiamo ancora il piacere di stupirci, ci nasce la domanda: ma come si può spegnere un incendio con un pugno di secchielli d’acqua? E di colpo ci assale la nostalgia di tutte le imprese folli e impossibili.

Come quel bambino in riva al mare che prendeva l’acqua con una conchiglia e piano piano, una conchigliata dopo l’altra, la riversava nella piccola buca appena scavata nella sabbia. Sant’Agostino passava di lì, immerso nei suoi pensieri. Incuriosito, gli chiese: Cosa fai?

Voglio svuotare il mare e trasferirlo nella mia buca.

Fine agosto

Agosto è un mese impegnativo. Forse è lui il più crudele dei mesi. Ci impone di interrompere la nostra vita, che equivale quasi a lasciare il nostro pianeta e avventurarci per i mondi inesplorati e ostili della vacanza: chiudere casa, intraprendere viaggi, vivere altrove, in un tempo limitato, in uno spazio sconosciuto. Tirarsi dietro poca roba stipata in borsoni, zaini, trolley; sottoporsi allo stress dell’acquisto biglietti, all’attesa delle coincidenze, alla noia dei lunghi percorsi, all’eccesso o alla totale assenza di aria condizionata, al rollio dei traghetti, alla folla che si ammassa davanti all’unico ascensore, all’alba, quando il traghetto arriva in porto e ognuno vuol essere il primo a scendere, come se la vacanza non lo aspettasse, partisse in qualche modo anche lei per una sua vacanza, all’interno di sé.

Affittare mezzi estranei, auto, bici, gommoni che non è detto che sapremo guidare; alloggiare in dimore ignote, alberghi, tende, roulotte o case altrui. Le case affittate, per esempio, dove incontriamo la grettezza umana, l’avidità, l’avarizia di chi affitta a caro prezzo (in nero) e lascia a disposizione quattro piatti (solo fondi), cinque o sei posate e una mezza dozzina di bicchieri spaiati, gialli verdi, alti, bassi.

Che tristezza i bicchieri spaiati.

Vacanza è mancanza. In vacanza ci manca tutto: i genitori se siamo figli, i figli se siamo genitori, la casa, i vicini di casa, i libri, anche quelli che abbiamo già letto o non leggeremo mai, i fiori sul balcone, i vestiti che non abbiamo messo in valigia, l’odore di minestra perenne nell’androne (ma chi è che cucina sempre la minestra?), i negozi, il supermercato con la nostra cassiera preferita.

Vacanza è “mancare” a se stessi. Non è vero che in vacanza scopriamo finalmente chi siamo, il nostro vero essere, le infinite possibilità di noi che la vita solita ci preclude. No, in vacanza ci perdiamo. O meglio, perdiamo la parte abituale di noi, di cui sentiamo subito una struggente “mancanza”. Il ritmo fisso che scandisce la nostra giornata, gli impegni di lavoro sempre uguali, l’autobus, il parcheggio sotterraneo. Per esempio il gesto di compilare il voucher del parcheggio grattando con la monetina le ore e mettendo sempre una mezz’ora in più sperando di farla franca. Ci mancano da morire questi gesti minimi. I dialoghi soliti. Per esempio dalla mia amica panettiera, che vende miriadi di pani diversi, a cui chiedo sempre cos’è il lievito madre e se pane ai cereali vuol dire integrale. E lei con pazienza ogni volta mi rispiega tutto.

Vacanza ha in sé, etimologicamente, la parola vuoto. E le nostre vite, così come abbiamo deciso di costruirle, sono piene. Pienissime.

Non siamo ancora pronti per il vuoto.

Settembre è il più consolante dei mesi.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 settembre 2018



Rigore nei conti e riforme. La ricetta del Portogallo per uscire dalla crisi

Amato detestato, nessuno può rimanere indifferente. Parliamo del portoghese José Mourinho, che fin dalla conferenza stampa di presentazione come allenatore dell’Inter, ad un giornalista che aveva fatto una domanda furbastra rispose con un memorabile “ma io non sono un pirla”. Ecco questa frase sembra diventata il motto del governo portoghese di sinistra che ha vinto le elezioni nel ottobre del 2015, frutto dell’alleanza tra i socialisti del premier Costa e due partiti di estrema sinistra che rappresentavano ben il 18,5% dei voti. Il paese era in un periodo di flebile è ripresa dopo aver applicato le ricette europee e del Fondo Monetario Internazionale resesi necessare per rimediare a conti pubblici fuori controllo ad un sistema bancario pericolosamente fragile. Nel 2013 la recessione aveva raggiunto livelli devastanti e dal Paese lusitano, che ha poco più di 10 milioni di abitanti, erano emigrati in ben 500.000 in soli pochi anni.

Il centrodestra aveva perso per un’austerità percepita come eccessiva che aveva comportato blocco dei salari pubblici, allungamento dell’età pensionabile, un modesto inasprimento fiscale, taglio della spesa pubblica e così via. I mercati erano preoccupati che l’ingresso dei due partiti ultra sinistra al governo con i socialisti, che solo qualche anno prima col premier sopra adesso si erano comportati da spendaccioni, avrebbe minato la stabilità finanziaria. Dopo tre anni però il deficit pubblico per il 2018, tenuto sotto controllo sia nel 2016 che nel 2017, si avvia scendere allo 0,7% del PIL, la crescita è sul 2,5% annuo, il debito pubblico è diminuito nel 2017 di 4,3 punti rispetto al PIL ed oggi è circa al 124%. La disoccupazione è addirittura passata dall’11,1% del 2016 all’attuale 7,9%. Per il 2018-2019 tutti questi indici continueranno ad essere positivi, tanto che già quest’anno il deficit si restringerà allo 0,2 e il rapporto debito/PIL calerà di altri 3 punti.

Per un breve periodo si era diffusa la leggenda metropolitana che la ripresa lusitana fosse dovuta a delle misure di espansione “keynesiana” in barba a rigore di bilancio. Niente affatto: rivendica il rigore dei conti lo stesso ministro delle Finanze portoghese, Mario Centeno. In un paper scritto a 4 mani con il suo capo economista per Vox una rivista online di un centro studi, il ministro ricorda che la competitività portoghese è il frutto di prudenza di bilancio e riforme.

La spesa pubblica è passata dal 48,3% sul Pil del 2015 ad una previsione del 44,5% per il 2018 mantenendo le entrate invariate (in sostanza niente aumenti di tasse). Come si afferma nell’articolo il governo si basa su una “prudente, rigorosa gestione delle finanze pubbliche” anche attraverso meccanismi strutturali di spending review che ottimizzi l’efficienza della spesa (suonerebbe familiare). Ma i progressi sono stati frutto anche dei provvedimenti presi dai governi precedenti che oltre ad iniziare l’austerity hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (contratti a termine, orari elastici, malleabilità salariale, licenziamenti) e posto una grande enfasi al miglioramento del capitale umano portoghese. In pochi anni la percentuale dei laureati è aumentata sostanzialmente e la qualità degli studenti pure. Mentre ai test Pisa negli anni passati i risultati degli scolari lusitani erano ben al di sotto la media OCSE (l’organizzazione dei paesi sviluppati), ora sono al di sopra in tutte le materie, matematica, scienze e lettura.

Avendo saputo sfruttare al meglio i fondi europei, pure gli investimenti, pubblici e privati, sono cresciuti al di sopra della media Ue e si sono concentrati su infrastrutture, sanità, ricerca e sviluppo, innovazione, educazione.

Gli investimenti privati sono indirizzati verso i settori più esposti alla competizione internazionale, migliorandone l’efficienza e aiutando un forte aumento dell’export, senza bisogno di agire sul cambio e con robuste iniezioni di liberalizzazioni e deregolamentazione del mercato di energia, telecomunicazioni, trasporti, poste e professioni, avendo altresì perfezionato la normativa antitrust (sotto questo profilo, alto è il rammarico per le resistenze corporative italiane alla nostra legge sulla concorrenza).

Basta così. Contro ogni illusione di uscire dalla crisi stampando moneta, elevando barriere protezionistiche, facendo più debiti, irrigidendo il mercato del lavoro, il piccolo Portogallo ci dà una facile lezione: senza rigore e riforme, zero tituli!

Articolo pubblicato su La Stampa il 15 giugno 2018.



I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



Hume e Smith: un lungo sodalizio intellettuale e personale

Si è spesso parlato dei rapporti intercorsi fra David Hume e Adam Smith. E ciò è stato fatto in forma accessoria, attingendo a biografie che sono state scritte per raccontare la vita dell’uno o dell’altro. Non c’è stata un’opera incentrata sul lungo sodalizio, dapprima intellettuale e poi anche personale, a cui hanno dato vita i due maggiori rappresentanti dell’Illuminismo scozzese. Dennis C. Rasmussen colma la lacuna. Pubblica una monografia (“The Infidel and the Professor”, Princeton University Press, 2017) che per la prima volta ci offre un dettagliato quadro delle loro convergenze, di qualche divergenza e della loro amicizia.

Hume nasce nel 1711 e Smith nel 1723. Il loro primo incontro è del 1749. Hume aveva già pubblicato il “Treatise of Human Nature”, gli “Essays, Moral and Political” e i “Philosophical Essays”. E Smith, dopo avere studiato per tre anni all’Università di Glasgow, era stato dal 1740 al 1746 al Balliol College di Oxford: un’esperienza, quest’ultima, da lui giudicata in termini molto negativi, soprattutto se confrontata con il periodo di tempo precedentemente trascorso a Glasgow. L’impegno degli studenti di Oxford era quello di “partecipare alle preghiere due volte al giorno e di seguire due volte alla settimana le lezioni”, tenute da “professori che avevano del tutto abbandonato ogni pretesa di insegnare”. Per di più, entrati senza preavviso nella sua stanza, i “dons” avevano trovato una copia del Treatise di Hume. L’avevano subito requisita e avevano rimproverato severamente Smith per il possesso un’opera così tanto empia. È molto probabile che Smith avesse già letto gli “Essays”, pubblicati nel 1742, e che da quelli fosse risalito al “Treatise”.

Durante la permanenza a Oxford, Smith aveva scritto tre saggi, fra cui quello sulla storia dell’astronomia, che verranno poi pubblicati postumi. Non diversamente da Hume, egli si era mostrato in tali scritti molto scettico sull’estensione del campo d’indagine della ragione umana e sulle capacità della stessa. Ed è con tale orientamento culturale che aveva fatto ritorno in Scozia, dove aveva cominciato, a partire dall’autunno del 1748, a tenere delle conferenze a Edimburgo. Ma Hume era partito all’inizio dell’anno, in qualità di segretario del generale James St. Clair, per svolgere una missione diplomatica a Vienna e Torino. Il suo rientro è dell’autunno del 1749. E il suo primo incontro con Smith è sicuramente avvenuto nel corso di una delle conferenze da questi tenute in quel periodo presso la Edinburgh Philosophical Society, di cui Hume era uno dei principali punti di riferimento. Ciò è confermato da una lettera di circa dieci anni più tardi, in cui lo stesso Hume rammenta a Smith il successo di quelle conferenze. È così che è cominciato un lungo e solido sodalizio, passato progressivamente dal “Caro Signore”, “Caro Smith” e “Caro Hume”, Mio Caro Amico, al più stretto “Mio Carissimo Amico”.

Fino alla “teoria dei sentimenti morali”

Com’è noto, in conseguenza dell’opposizione del clero presbiteriano e dei moderati, la candidatura di Hume per una cattedra presso l’Università di Edimburgo era stata bocciata nel 1744. E la stessa cosa accade nel 1751 presso l’Università di Glasgow. Al posto di Hume, viene chiamato James Clow, che non lascia alcunché di rilevante. Ernest Campbell Mossner ha commentato: “l’infatuazione accademica per la mediocrità aveva trionfato ancora una volta”.  Le cose sono andate ben diversamente per Smith. Poco prima, egli era stato chiamato a occupare una cattedra nella stessa Università di Glaslow. E non aveva esitato a sostenere Hume. In una lettera a un collega, aveva scritto: “Preferirei Hume a qualunque altro studioso”. Se non ne fosse stata respinta la candidatura, Hume si sarebbe trovato assieme a Smith. Ed entrambi avrebbero avuto come collega James Watt.

L’insuccesso accademico non ha influito sulla produzione di Hume. Il periodo che va dal 1749 al 1759 è il più fecondo della sua vita. Quando vengono pubblicati i “Political Discourses”, Smith presenta i saggi sul commercio, letti sicuramente in anteprima, alla Literary Society di Glasgow. E non solo. Le sue lezioni di quegli anni risentono chiaramente dell’influenza di tutto quanto scritto da Hume. Il passaggio dalla società feudale a quella commerciale è ispirato dalla trattazione humiana contenuta in “The History of England”, un’opera che può essere considerata la “prima spiegazione (…) della società capitalistica”. Smith dichiara apertamente ai suoi studenti di considerare il lavoro di Hume come la sola storia moderna priva di “spirito di parte”.

Sebbene impegnato a Glasgow, Smith continua a essere vicino ai suoi amici di Edimburgo. Il miglioramento della viabilità realizzato in quegli anni gli consente di viaggiare facilmente fra le due città. Rivede spesso Hume. Ed entrambi sono fra i soci fondatori della Select Society. Le loro conversazioni coinvolgono anche Adam Ferguson, Lord Elibank, Henry Home (poi Lord Kames), Hugh Blair, John Jardine, William Robertson e il giovane Alexander Wedderburn (che diverrà poi Lord Cancelliere). Sono anni fervidi che culminano con la pubblicazione (1759) de “The Theory of Moral Sentiments” di Smith. L’opera viene accolta con entusiasmo dalla “repubblica delle lettere” di tutta Europa. E, tenuto conto che “The Wealth of Nations” apparirà diciassette anni dopo, si può dire che i “sentimenti morali” costituiscano il lavoro con cui, nel corso della sua vita, Smith è stato maggiormente identificato.

Quando “The Theory of Moral Sentiments” vede la luce, Hume si trova a Londra, impegnato a seguire la pubblicazione dei volumi, dedicati ai Tudor, della sua “storia d’Inghilterra”. Ovviamente, riceve una copia dell’opera di Smith e, come sottolinea Rasmussen, risponde all’amico con “una delle più felici lettere dell’intera storia della filosofia”. Dopo avere ringraziato Smith per il “gradevole dono” e dopo avergli comunicato di avere a sua volta inviato delle copie a uomini che sarebbero stati dei “buoni giudici” e che avrebbero diffuso il loro giudizio sul valore dell’opera, Hume fra l’altro afferma: “Ho ritardato a scrivervi per potervi dire qualcosa sul successo del libro e pronosticare, con qualche probabilità, se sarà condannato all’oblio o se entrerà nel tempio dell’immortalità. Anche se è stato pubblicato solo da poche settimane, ritengo che ci siano già tutti gli elementi che consentono di predirne il destino”. Hume recensisce l’opera sulla “Critical Review”. Sostiene che la teorizzazione di Smith “ha il coraggio che accompagna sempre il genio”. Esalta la chiarezza dei princìpi, il vigore dell’argomentazione e lo stile dello “scrittore davvero geniale”.

Hume avrebbe avuto motivo per replicare ad alcune critiche di cui Smith lo aveva reso destinatario. Non lo ha fatto. Il che si deve alla circostanza che egli non ha rilevato elementi di discontinuità fra la sua opera e quella smithiana. In entrambi i casi, le regole morali non sono “conclusioni della nostra ragione”, ma condizioni imposte dalla necessità di cooperare con gli altri. Tutto ciò su cui Hume ha richiamato l’attenzione di Smith si trova in una lettera privata (28 luglio 1759), che precede la seconda edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. È la richiesta di meglio chiarire il concetto di “sympathy”, già utilizzato dallo stesso Hume e che serve a indicare il meccanismo tramite cui ci poniamo al posto degli altri, per vedere come essi giudicano le nostre azioni. Ma è un punto a cui Smith non apporterà modifiche alla sua opera: né nell’edizione del 1760, né nelle successive.

Hume e Smith a Parigi

Gli Sessanta aprono a Hume e Smith nuovi orizzonti. Nominato ambasciatore a Parigi dopo la guerra dei Sette Anni, Lord Hertford chiede a Hume di accompagnarlo come segretario d’ambasciata. Hume aveva già vissuto in Francia fra il 1734 e il 1737, quand’era impegnato nell’elaborazione del suo “Treatise of Human Nature”. Lo stesso Hume scriverà: “Sebbene fosse attraente, ho dapprima declinato l’offerta, sia perché ero riluttante a stringere rapporti con i potenti, sia perché temevo che le modernità e le gaie compagnie di Parigi potessero riuscire sgradevoli a una persona della mia età e del mio temperamento”. Ma Lord Hertford insiste. E questa volta Hume non esita ad accettare. È nominato segretario d’ambasciata, carica che ricopre dall’autunno del 1763 all’estate del 1765, allorché diviene incaricato d’affari, a seguito della nomina di Lord Hertford a luogotenente d’Irlanda e in attesa del duca di Richmond, nuovo ambasciatore in Francia.

Hume scrive da Parigi ai suoi amici scozzesi. La sua prima lettera ha come destinatario Smith, a cui fra l’altro dice: “Sono stato tre giorni a Parigi e tre giorni a Fontainebleau; e in ogni dove mi sono stati resi gli onori più straordinari che la più esorbitante vanità potrebbe volere o desiderare. Gli omaggi dei duchi, dei marescialli di Francia e degli ambasciatori stranieri mi vengono al momento per ogni nonnulla (…). Tutti i cortigiani, che stavano attorno a me quando sono stato introdotto a Mme de Pompadour, mi assicurano di non averle mai sentito dire così tanto di un uomo (… E,) come da ogni parte mi viene detto, il delfino non perde occasione per parlare molto favorevolmente di me”.

Se la corte comprende che Hume è lo studioso che nella sua “History of England” ha osato versare una “lacrima generosa” per il destino di Carlo I e del conte di Strafford, i maggiori esponenti dell’Illuminismo francese apprezzano la filosofia di Hume. Il sodalizio più stretto è con d’Alembert, ma non mancano le conversazioni con Buffon, Marmontel, Diderot, Duclos, Helvétius, d’Holbach, Turgot. È questo il periodo più felice della vita di Hume.

Intanto, anche Smith si prepara a un soggiorno in Francia. Subito dopo la pubblicazione dei “sentimenti morali”, Charles Townshend (futuro Cancelliere dello Scacchiere) aveva pensato a lui come precettore del figliastro, il giovane duca di Buccleugh che, secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto intraprendere un’istruzione biennale all’estero. Il progetto si concretizza alla fine del 1763. Smith e il giovane Buccleugh partono alla fine del successivo gennaio alla volta di Parigi, dove soggiornano solamente dieci giorni. Ma vedono Hume. Si stabiliscono poi a Tolosa, visitano Bordeaux, rimangono per due mesi a Ginevra, dove Smith incontra Voltaire, e giungono nuovamente a Parigi verso la fine di dicembre del 1765 o all’inizio del 1766. Non è quindi chiaro se Smith sia riuscito a rivedere Hume prima del 4 gennaio, data in cui quest’ultimo parte alla volta dell’Inghilterra in compagnia di Jean-Jacques Rousseau. In ogni caso, eredita tutte le frequentazioni di Hume e anche l’accoglienza di Mme de Boufflers, ritenuta la “più distinta salonnière del Settecento”, le cui pressioni avevano spinto “le bon David” a portare con sé in Inghilterra il ginevrino.

Hume sapeva quanto estraneo fosse il suo pensiero a quello di Rousseau. Ma probabilmente non aveva idea di quanto difficile fosse relazionarsi con lui. D’Holbach lo aveva messo in guardia. Gli aveva detto: “Mio caro Signor Hume, mi dispiace deludere le speranze e le illusioni che voi cullate, ma vi anticipo che presto sarete dolorosamente deluso. Voi non conoscete quell’uomo. Vi dico francamente che vi state mettendo una vipera in seno”. Indubbiamente, Hume e Rousseau non erano caratterialmente fatti per intendersi. Come è stato tuttavia scritto, la loro rottura non è un argomento da porre in una “nota a piè di pagina del manuale di filosofia”. Essa mostra lo scontro fra due concezioni contrapposte della vita individuale e collettiva. Da una parte, c’è il sostenitore (Hume) della libertà individuale di scelta e della Grande Società; dall’altra, c’è colui (Rousseau) che con le sue idee ha alimentato i deliri dei giacobini di tutti i tempi. Smith non avrebbe voluto che Hume rendesse pubblico il litigio (Rasmussen abbraccia la posizione di Smith). Ma il parere di d’Alembert è stato determinante. E oggi disponiamo di un prezioso carteggio e dei commenti di Hume, che forniscono una direzione di marcia a tutti i sostenitori della società aperta.

La “ricchezza delle nazioni”

Nel mese di novembre del 1766, Smith rientra a Londra da Parigi. E lì rimane fino al successivo mese di maggio, per seguire la pubblicazione della terza edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. Da parte sua, Hume era tornato a Edimburgo nel settembre del 1766, con l’idea di godere di un “ritiro filosofico”. Ma nel mese di febbraio viene richiamato a Londra. Il soggiorno dei due personaggi nella stessa città si sovrappone per tre mesi. Dopo di che, Smith decide di rientrare a Kirkcaldy, sua cittadina natale, dove rimane nei successivi sei anni. In una lettera spedita a Hume da Tolosa il 5 luglio del 1764, aveva annunciato l’avviata stesura di una nuova opera. È il primo riferimento a “The Wealth of Nations”. E, per portare a termine il suo progetto, Smith “si seppellisce negli studi”.

Hume fa ritorno a Edimburgo nell’agosto del 1769. E subito scrive a Smith. Dice di vedere Kirkcaldy dalle finestre della propria casa. Lo invita continuamente. Smith accetta, ma non quanto Hume vorrebbe. I rapporti si intensificano. Nella primavera del 1773, la prima stesura de “The Wealth of Nations” è completata. Ma Smith pensa che, per rivedere, correggere e ampliare il testo, sia necessario trasferirsi a Londra. È tanto esausto da sentirsi vicino alla morte. Prima di intraprendere il viaggio, nomina Hume suo esecutore letterario, incaricandolo di distruggere, in caso di sua dipartita, tutte le carte lasciate nel suo studio, tranne il saggio sulla storia dell’astronomia. La grande opera di Smith, “The Wealth of Nations”, esce il 9 marzo del 1776. Hume non può non apprezzare la condizione di ignoranza e fallibilità in cui si trova a operare l’attore smithiano. E giudica il lavoro profondo, solido e acuto.

Rasmussen richiama l’attenzione su una questione strettamente metodologica. Vede accomunate “The History of England” e “The Wealth of Nations” dall’utilizzo della categoria delle “conseguenze inintenzionali”, lo strumento di analisi che ha portato alla nascita delle scienze sociali. Sottolinea in tal modo l’innegabile influenza di Hume su Smith. Ma bisogna pure dire che, sul punto, entrambi devono molto al lavoro pioneristico di Bernard de Mandeville. E occorre nello specifico precisare che Hume aveva già nel “Treatise” fatto ricorso agli esiti inintenzionali generati dalle azioni umane. Aveva in particolare spiegato che “l’interesse di ciascun individuo” è “vantaggioso” per gli altri, perché nessuno può realizzare i propri fini senza la cooperazione altrui; il che significa dover fare qualcosa per coloro che ci prestano la loro collaborazione. Come si vede, c’è qui un’anticipazione della “mano invisibile” di Smith, che non è altro che un’applicazione della teoria delle conseguenze inintenzionali.  Purtroppo, Rasmussen salta a piè pari tale tema, come anche quello della continuità fra “The Theory of Moral Sentiments” e “The Wealth of Nations”. Si sa che nel corso dell’Ottocento, soprattutto da parte di autori tedeschi, è stato sostenuto che fra la prima e la seconda opera di Smith ci sia una certa inconciliabilità. È una tesi che in anni più recenti a noi è stata affermata anche da Amartya Sen. Ma la “sympathy” non è altro che la precondizione dello scambio: è il meccanismo delle aspettative che ci spingono ad agire; la “mano invisibile” è presente in entrambe le opere; e Smith ha abbracciato il liberoscambio sin dalle sue prime conferenze di Edimburgo.

La morte di Hume

Hume lottava da tempo contro una grave malattia. Dopo un apparente miglioramento durante un soggiorno di cura a Bath, le sue condizioni sono sempre più peggiorate. Pochi mesi dopo la pubblicazione de “The Wealth of Nations”, muore a Edimburgo. È il 25 agosto del 1776. La sua volontà è che Smith sia l’esecutore letterario e che, d’accordo con l’editore Strahan, pubblichi i “Dialogues Concerning Natural Religion”. Smith si sottrae a tale incombenza. Vorrebbe destinare i “dialoghi” alla circolazione fra una ristretta cerchia di amici. E ciò sarà visto da alcuni come un tradimento della fiducia riposta in lui da Hume. Ma le cose stanno ben diversamente. Smith temeva che la pubblicazione di quell’opera potesse nuocere all’immagine di Hume. Non c’è stato quindi alcun tradimento. Il loro è stato un grande sodalizio intellettuale e umano. La stima di Smith nei confronti dell’amico si può vedere sintetizzata in questo giudizio: “durante la sua vita e dopo la sua morte, l’ho sempre considerato vicino, nella misura in cui ciò viene consentito dalla fragile natura umana, all’idea di un uomo perfettamente saggio e virtuoso”. Il che chiaramente riecheggia quanto Fedone disse di Socrate: “l’uomo migliore fra quelli che allora conoscemmo e, soprattutto, il più saggio e il più giusto”.