Il modello Taiwan: come l’isola sta contenendo il contagio

È passato più di un anno da quando la pandemia si è insinuata nelle nostre vite limitandole e modificandole irrimediabilmente. Nel corso dei mesi le informazioni più disparate sono giunte da fonti considerate più o meno attendibili e centinaia di protocolli sono stati avviati con l’intento di trovare una soluzione che, sfortunatamente, tarda ad arrivare, poiché tutte le azioni intraprese sino ad ora si sono rivelate sostanzialmente inefficaci. Eppure, in tutto questo caos ci sono piccole realtà che hanno saputo controllare l’epidemia e che hanno ottenuto risultati soddisfacenti nella lotta contro il coronavirus, benché nessuno ne parli. Questo è anche il caso di Taiwan.

Taiwan (o Repubblica di Cina) è una piccola nazione insulare posta a 180 km dalla Cina e conta 23,5 milioni di abitanti. Pur avendo dei numeri di tutto rispetto, però, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità sembra non esistere. Nonostante gli straordinari risultati ottenuti, Taiwan non è stata invitata al 73° incontro dell’organo decisionale dell’OMS dello scorso novembre che riguardava proprio la gestione della pandemia. Secondo il Ministero degli Affari Esteri taiwanese dietro a tale decisione ci sarebbe la Cina, la quale considera l’isola una sua provincia e non uno stato sovrano, benché a Taipei sia presente da sempre un esecutivo autonomo, che dal 2016 ha a capo la presidente Tsai Ing-wen, che respinge categoricamente il principio di “una sola Cina” e dopo aver trionfato alle ultime elezioni alla guida del Partito Progressista Democratico ha intensificato gli scambi con Washington. Il governo di Pechino, guidato dal presidente cinese Xi Jinping, ha più volte affermato di voler risolvere la questione, ma di fatto ha dichiarato che Taiwan potrà partecipare alle riunioni dell’Assemblea Mondiale della Sanità solamente se riconoscerà di appartenere alla Repubblica Popolare Cinese.

Nonostante la sua estromissione da parte dell’OMS, a livello globale Taiwan è stata elogiata per il successo ottenuto nel contenimento dell’epidemia di coronavirus e basta consultare il sito ufficiale del governo taiwanese per rendersene conto. Lo studioso Tomas Pueyo ha pubblicato sulla piattaforma Medium un’accurata analisi sulle misure di contrasto attuate da alcuni paesi dell’estremo oriente tra cui figura anche la Corea del Sud, la quale è stata la prima nazione al mondo a estinguere un focolaio di coronavirus senza applicare un lockdown a livello nazionale. I negozi, i ristoranti e le fabbriche sono rimasti aperti. Le quarantene si sono limitate ad aree circoscritte, come ad esempio la città Daegu dove si è verificata l’epidemia principale. Il tracciamento dei malati e la relativa quarantena di tutte le persone entrate in contatto con loro sono risultati fondamentali.

Secondo Pueyo però, Taiwan è sicuramente il modello per eccellenza a cui ispirarsi. Memore dell’epidemia di Sars del 2003, il governo ha agito tempestivamente attuando severi divieti di viaggio e introducendo l’obbligo di mascherine per tutti. In questo modo i livelli di contagio sono stati minimi le e attività produttive hanno subito un leggero contraccolpo rispetto a quanto accaduto, e a quanto sta ancora accadendo in Europa.

L’università di Stanford ha avviato uno studio diretto dal medico taiwanese Jason Wang su come fronteggiare l’epidemia e la conseguente ripartenza dell’economia negli Stati Uniti sulla base dei risultati ottenuti a Taiwan.

Il Dott. Wang, intervistato dalla CNN, ha spiegato che il successo del modello taiwanese risiede in una sanità pubblica efficiente in grado di fronteggiare rapidamente emergenze di grande portata.

Taiwan ha dimostrato che è possibile stabilire norme di quarantena e isolamento anche senza l’uso della forza come avviene invece in un governo autocratico come quello della Cina.

Il Ministero degli Affari Esteri taiwanese ha creato un sito ad hoc consultabile anche in lingua inglese sul quale è possibile trovare ogni genere di informazione e aggiornamento sul Covid-19.

In una sezione speciale sono riportate tutte le misure adottate e i risultati ottenuti, mettendoli a disposizione di tutti affinché gli altri governi possano, se lo desiderano, avvalersi delle tecniche usate sull’isola, eventualmente adattandole alle proprie realtà.

Nella lotta al coronavirus, per Taiwan è stato fondamentale fare ulteriori investimenti nella sanità pubblica, oltre all’utilizzo dell’intelligenza artificiale che ha permesso ai medici di gestire anche a distanza i malati che stavano trascorrendo la quarantena presso le loro abitazioni; pur essendo molto meno invasivo della privacy rispetto al metodo usato in Corea del Sud. Ogni cittadino è in possesso di una smart card collegata al Servizio Sanitario Nazionale sulla quale sono registrati tutti i dati relativi allo stato di salute del paziente; la tessera è risultata fondamentale per la prevenzione del contagio. Ad esempio: per la distribuzione delle mascherine, la gestione della quarantena, per controllare gli spostamenti alle frontiere e la storia clinica dei pazienti.

A febbraio 2020 il ministro del digitale Audry Tang ha dato incarico ad alcuni ingegneri appartenenti al settore privato di realizzare un’applicazione tramite la quale mettere in contatto i cittadini e le farmacie convenzionate per l’acquisto di mascherine. In sole 48 ore l’app era pronta sciogliendo i dubbi e le preoccupazioni delle persone sull’approvvigionamento dei dispositivi di sicurezza. L’applicazione è risultata essere molto attendibile in quanto è in grado di aggiornarsi in un lasso di tempo che va da un minimo di 30 secondi ad un massimo di 30 minuti. Le prenotazioni online hanno permesso di evitare lunghe code fuori dalle farmacie e di scongiurare eventuali nuovi contagi.

La strategia attuata dal governo di Taiwan prevede una vigilanza continua, oltre alla condivisione costante e approfondita delle informazioni con i cittadini. L’utilizzo dei big data e di piattaforme online è stato fondamentale sin dall’inizio della vicenda, quando, a dicembre 2019, hanno iniziato a circolare le prime notizie circa una misteriosa malattia a Whuan. Taiwan ha centinaia di pendolari che si recano giornalmente in Cina per lavoro e pertanto ha trattato la questione con la massima urgenza, controllando i passeggeri dei voli provenienti da Whuan sino a vietarne l’ingresso già a partire da febbraio 2020. Le agenzie di assicurazione sanitaria e di immigrazione hanno incrociato la cronologia dei viaggi dei residenti con i dati delle loro tessere sanitarie, consentendo così a ospedali, cliniche e farmacie di accedere immediatamente alle informazioni dei pazienti. Le persone che si sono sottoposte all’auto-quarantena sono state rintracciate e chiamate con frequenza per accertarsi che non lasciassero la loro residenza.

A partire dal 24 gennaio 2020, Il governo di Taiwan ha interrotto le esportazioni di mascherine chirurgiche e ha chiesto alle aziende locali di aumentare la produzione fino a 10 milioni al giorno per garantire un’adeguata fornitura alla popolazione e al personale medico.

Infine, per garantire un coordinamento efficiente, Taiwan ha costituito un centro di comando con a capo il Ministero della Sanità e del Benessere che ha il compito di controllare la comunicazione pubblica. Sono state così avviate importanti campagne per informare la popolazione circa i rischi della malattia e su come comportarsi in caso di positività al coronavirus.

Il risultato è che dopo più di un anno dall’inizio dell’epidemia il numero totale dei contagi rilevati è di poco superiore a 1000 su 23,5 milioni di abitanti, mentre i morti sono appena 11, ovvero appena 0,5 per milione, che rappresenta il tasso di mortalità più basso del mondo.

Insomma, il modello Taiwan funziona, ma fino a quando gli interessi politici ed economici conteranno più della salute degli uomini, sarà impossibile che una nazione così lontana e poco considerata possa essere guardata come modello virtuoso nella gestione di una pandemia che ha sconfitto governi ben più potenti.


Sitografia:

https://www.taiwan.gov.tw

https://en.mofa.gov.tw/Default.aspx

http://www.taipeitimes.com

https://www.taiwannews.com.tw/en/index

https://chinapost.nownews.com

https://www.worldometers.info/coronavirus/country/taiwan/

https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-taiwan/

https://www.lastampa.it

https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/

https://med.stanford.edu/mchri/news/mchri-member-leads-coronavirus-response-drawing-on-lessons-from-taiwan.html

https://edition.cnn.com/2020/04/04/asia/taiwan-coronavirus-response-who-intl-hnk/index.html?fbclid=IwAR1KwAAGiSfr62um0xoiJFfWnsJXjCpErfMAiDEwZBHRDmb3i5cxVQzj64I




L’incapacità di imparare dagli errori

La battaglia fra aperturisti e chiusuristi dilaga ovunque: sui giornali, nei talk show, fra i virologi, nel Governo, persino nel Comitato tecnico-scientifico.

Ma la gente, i cittadini normali, che non hanno agganci, vie privilegiate, conoscenze preziose, o semplicemente hanno la sfortuna di essere nati nella regione sbagliata, o la disgrazia di avere un medico di base che non visita a domicilio, o non vaccina, o rimanda ogni decisione alla ASL, questi cittadini – dicevo – non si appassionano alla disputa sull’orario di inizio del coprifuoco.

Per chi si ammala, o teme di ammalarsi, o vorrebbe vaccinarsi, i problemi sono altri.

Il problema numero 1 è che, ancora oggi, a 15 mesi dall’inizio della pandemia, non solo il medico di base non ti viene a visitare, ma non esiste un protocollo ufficiale di cure domiciliari nelle prime fasi della malattia se non il beffardo protocollo ministeriale “paracetamolo & vigile attesa”. Cioè: predi una tachipirina e prega…

Questo nonostante di protocolli di cure domiciliari articolati ed efficaci ne siano stati sperimentati con successo parecchi, e l’evidenza empirica che li supporta sia considerevole. Il colmo è accaduto qualche giorno fa, quando il TAR del Lazio ha dato ragione al Comitato Cura Domiciliare Covid 19, che aveva invocato il diritto/dovere dei medici di andare oltre le scarne indicazioni ministeriali, e per tutta risposta il Ministero della Salute – anziché adoperarsi per colmare i propri ritardi – non ha trovato di meglio che ricorrere al Consiglio di Stato per sconfessare il Tar e bloccare l’iniziativa dei medici. Eppure è ben noto che l’intasamento degli ospedali e delle terapie intensive è dovuto anche alla mancata riorganizzazione della medicina territoriale, che tuttora non è in grado di gestire a casa (e precocemente) un numero adeguato di pazienti.

Un discorso analogo vale per le cure mediante anticorpi monoclonali, che richiedono solo un breve passaggio in ospedale, e se usati diffusamente potrebbero evitare le molte ospedalizzazioni: con 150 mila dosi disponibili, le carenze organizzative (e l’intasamento degli ospedali) hanno fatto sì che alla fine di marzo i pazienti trattati fossero poco più di un migliaio.

Così per i vaccini. Siamo arrivati al punto che, per potersi vaccinare senza attendere tempi biblici, decine di migliaia di persone stanno cambiando domicilio per poter usufruire dei servizi delle (poche) Regioni efficienti, guidate dal Lazio; o cercano di cambiare medico di base (molti medici di base non vaccinano); o volano in Serbia, dove vaccinarsi è facile; o scrutano internet per scoprire se in qualche Regione è previsto un “open day” in cui ci si può vaccinare con il solo requisito dell’età. Insomma, la campagna vaccinale sta alimentando un senso generale di ingiustizia, di soggezione alla sorte e all’arbitrio dei poteri pubblici.

Eppure si poteva non arrivare a questo punto. Per mettere i medici di base in condizione di visitare, dotandoli di dispostivi di protezione individuale e di un protocollo di cure domiciliari efficace, c’era tutto il tempo. Quanto alla campagna vaccinale, non si capisce perché le autorità sanitarie non siano state in grado né di gestire centralmente la campagna (come sembra suggerire l’articolo 117 della Costituzione) né di imporre alle Regioni regole comuni non derogabili. Per non parlare del coinvolgimento delle farmacie nelle vaccinazioni, per cui praticamente nulla si è fatto fino ad aprile.

Perché le cose sono andate così? Perché, ancora oggi come un anno fa, il terrore di tutti non è il Covid in sé, ma la coscienza che, se ci ammaliamo, potremmo trovarci soli, appesi a un numero verde, e abbandonati da chi dovrebbe proteggerci? Perché, oggi come ieri, centinaia di migliaia di malati non-Covid sono costretti a rinunciare a una cura, a un ricovero, a un intervento, a causa degli ospedali sopraffatti dall’onda dei malati Covid? Perché, ancora una volta, le autorità sanitarie hanno tergiversato prima di intervenire? Perché quasi nulla è stato fatto per riorganizzare il trasporto pubblico, o per mettere in sicurezza le scuole?

Se devo essere sincero, la mia risposta è: non lo so. O meglio: non lo so più. Fino a un certo punto ho creduto che la superbia e la sordità dei governanti, incapaci di ascoltare ogni voce indipendente, spiegassero molte cose.

Oggi non più. Oggi mi pare che ci sia qualcosa di più sottile e al tempo stesso più devastante: l’incapacità di imparare dai propri errori, in modo da correggerli. Un comportamento che, a chi come me appartiene a una comunità scientifica, risulta  semplicemente incomprensibile.

Ma mi rendo conto che sono io fuori strada. Nella comunità scientifica gli errori, prima o poi, si scoprono. E chi ha sbagliato li riconosce. Se non lo facesse perderebbe la sua reputazione. Per questo la scienza va avanti.

Nella politica è diverso, almeno in Italia. Basta leggere l’accorata lettera-appello a difesa del ministro Speranza (“Io sto con Roberto”) circolata nei giorni scorsi per rendersene conto. Qualsiasi errore sia stato commesso, c’è qualcuno pronto a negare che sia stato commesso, o che sia stato un errore. L’intelligenza non viene usata al servizio della ricerca della verità, ma al servizio di una causa politica ritenuta giusta, e in nome della quale si può calpestare ogni evidenza empirica (e ogni tragedia). Gli errori non sono errori, ma questioni di “punto di vista”. Ideologico.

Per questo, alla politica diversamente che alla scienza, è concesso di non imparare dai propri errori. Peccato che, di quel privilegio della politica, le vittime siano noi: la terza ondata, e il buio esistenziale che si è impadronito delle nostre vite, sono anche una conseguenza di quel privilegio.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 aprile 2021




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia continua a diminuire. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 22 aprile) segna 91.8 gradi pseudo-Kelvin ed è calato poco meno di un grado rispetto a mercoledì 21 aprile.

Questo risultato si deve al miglioramento di tutte e tre le componenti alla base dell’indice. Sono diminuiti soprattutto i nuovi contagi (+90 mila nuovi casi settimanali rispetto ai 103 mila della settimana precedente). Più lieve è stato il calo degli ingressi ospedalieri stimati e dei decessi (+2.3 mila nuovi decessi settimanali rispetto ai 2.8 mila della settimana precedente).

La variazione settimanale della temperatura è pari a -14.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il governo non ha scelta

Discutiamo, discutiamo pure. Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”.

Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno.

Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.

Che cosa hanno fatto paesi come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase  dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata. Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: “non avrai altro Dio all’infuori del lockdown” (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa.

Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi 6 mesi?

La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti.

Ma riserve di che cosa?

Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena 4 di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che “i dati migliorino”, facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.

Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite IVA che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.

La frattura fra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a 2 mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Perché è successo?

E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.

Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.

Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre.

Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 aprile 2021




Qui ci vuole un “piano B”

Anche se abbiamo 450 morti al giorno, anche se nessun paese occidentale ha un tasso di mortalità alto come il nostro, anche se la curva epidemica migliora solo nella mente di qualche autorevole esperto governativo, il sentimento prevalente fra gli italiani non sembra né la pietà per i morti, né la preoccupazione per il futuro, bensì l’esasperazione per il presente. Uno stato d’animo che apre un ampio varco al messaggio centrale della politica: resistete ancora un po’, siamo all’ultimo miglio, la campagna vaccinale vi permetterà presto di tornare alla agognata “normalità”.

Ma presto quanto?

Qui le posizioni si dividono. Draghi non si sbilancia, e in sostanza dice: riapriremo appena i dati lo consentiranno. Ma si guarda bene dal precisare qual è la soglia sotto la quale i dati saranno giudicati rassicuranti: “solo” 50 morti al giorno? o ci basterà scendere sotto i 150, che dopotutto sono un terzo dei 450 attuali? O il criterio sono i posti in terapia intensiva, per cui riapriamo appena ci sono abbastanza posti per accogliere nuovi malati, e inevitabilmente contare nuovi morti?

Il partito delle riaperture, che dà voce alle proteste di esercenti e partite Iva, ha le idee più chiare: riaprire subito, o appena ci sono segni – non importa quanto flebili – di arretramento dell’epidemia.

Questa seconda posizione è spesso accompagnata da un argomento al tempo stesso demenziale e interessante: riapriamo perché chiudere non è servito a nulla, o meglio è servito solo a ridurre alla fame gli esercenti.

L’argomento è demenziale perché in realtà sappiamo perfettamente che cosa succede se si riapre. Il governo, infatti, ha già fatto un esperimento sulla Sardegna, e ha potuto constatare che, se a un territorio con il contagio in ritirata si concedono le libertà di una “zona bianca” (quasi tutto aperto), nel giro di poche settimane quel medesimo territorio si ritrova in “zona rossa”. E’ questo che vogliono i fautori delle riaperture “appena la situazione migliora”?

Ma l’argomento dei paladini delle riaperture non è solo demenziale, è anche interessante. Perché attira l’attenzione su un punto cruciale, e cioè che 6 mesi di sacrifici (da metà ottobre ad oggi), in fin dei conti non sono serviti a nulla. Non ci hanno evitato il picco di fine novembre, con 3800 ricoverati in terapia intensiva, e non ci hanno risparmiato, a quattro mesi di distanza, il picco attuale, con il medesimo numero di ricoverati in terapia intensiva. Dunque, su questo, il partito delle riaperture ha ragioni da vendere: bisognerà pure, a un certo punto, prendere atto che le misure messe in campo non hanno funzionato, e che la pretesa delle autorità scientifico-sanitarie di farci ballare ancora per mesi e mesi la danza dei 4 colori è forse un po’ eccessiva. Su questo l’inquietudine del partito delle riaperture è perfettamente giustificata.

E allora veniamo al punto: perché le misure non hanno funzionato? Perché i morti anziché diminuire stanno crescendo?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente tre. La prima è che la campagna di vaccinazione, essendo stata condotta in modo scriteriato, ha dato un contributo molto modesto al contenimento della mortalità. Fa una certa impressione, leggendo le cifre ufficiali del Governo, scoprire che ancor oggi, a 100 giorni dall’inizio della campagna vaccinale, meno del 40% degli over-80 (e meno del 3% della fascia 70-79) sia completamente vaccinato. O scoprire che, a fronte di circa 800 mila medici e infermieri, 3.1 milioni di dosi siano state riservate al “personale socio-sanitario”. Per non parlare degli 1.1 milioni di dosi andate al personale scolastico (con le scuole quasi sempre chiuse), o del milione di vaccinazioni di cui non è possibile individuare la ratio, e che vengono più o meno semplicisticamente ascritte ai “furbetti del vaccino” (come se ad ogni furbetto non corrispondesse un’autorità pubblica che gli consente di comportarsi in quel modo). E’ difficile elaborare stime precise, ma sembra inevitabile concludere che se fin dall’inizio, oltre medici e infermieri, si fossero vaccinati la maggior parte degli over-80, oggi avremmo almeno 200 morti al giorno in meno.

La seconda ragione è che il lockdown attuato in Italia, specie a gennaio-febbraio, è stato molto più blando di quello adottato nei paesi che stanno uscendo dall’epidemia. Basta scaricare i dati di Google sul grado di confinamento a casa dei cittadini dei vari paesi, per accorgersi che i paesi che hanno abbattuto drasticamente il numero dei morti hanno tutti praticato un lockdown molto più severo del nostro. E non sto parlando di paesi molto avanti con le vaccinazioni (come Regno Unito e Israele), ma di paesi che, come Irlanda, Portogallo, Sud Africa, Svizzera hanno vaccinato come noi o meno di noi. Questo dato dà torto agli aperturisti, e fornisce invece un supporto alla linea – lockdown breve e durissimo – da tempo sostenuta da Walter Ricciardi, il consulente inascoltato (e ora a quanto pare pure silenziato) del ministro della salute Roberto Speranza.

Ma c’è un terzo motivo per cui le cose non vanno bene. E questo dà invece ragione ai critici della giostra dei 4 colori. Sono ormai in molti, fra gli studiosi indipendenti (ma non nel Comitato tecnico-scientifico), a sostenere che le indicazioni fornite fin qui dalle autorità sanitarie sono basate su evidenze scientifiche dubbie o datate, e talora sono addirittura in contrasto con quel che ormai si sa sui meccanismi di trasmissione del virus.

Che cosa si sa?

Si sanno parecchie cose che prima non si sapevano, o si sapevano ma non venivano credute dall’OMS e dalle autorità sanitarie (per una breve storia di queste cose sapute ma non credute, vedi gli articoli del prof. Giorgio Buonanno sul sito della Fondazione Hume). La prima è che, all’aria aperta, la trasmissione del virus è estremamente difficile, molto più difficile di quanto si è a lungo ritenuto. La seconda, speculare alla precedente, è che la trasmissione al chiuso è piuttosto agevole, molto più di quanto si supponesse. La ragione, ridotta all’osso, è che la trasmissione del virus non avviene solo con le goccioline più grandi (droplets), che tendono a cadere a terra, ma anche con quelle più piccole (aerosol), che invece – negli ambienti al chiuso – possono restare in sospensione e diffondersi in modo analogo al fumo, mentre all’aperto vengono rapidamente disperse.

Semplificando e forzando un po’ a scopo comunicativo, si potrebbe riassumere così: le mascherine chirurgiche (che non filtrano l’aerosol) all’aperto non sono necessarie e al chiuso non sono sufficienti.

In pratica. Se sei all’aperto, il rischio che corri non portando la mascherina o usando solo la chirurgica esiste, ma è minimo. Se invece sei al chiuso (in un negozio, a scuola, in un ufficio, su un treno), è essenziale indossare le mascherine più filtranti (ffp2 e simili), e/o garantire la qualità dell’aria (mediante filtri HEPA, o mediante ventilazione meccanica controllata).

Se questa ricostruzione, basata essenzialmente su studi degli ingegneri, ha fondamento, allora siamo decisamente fuori strada. Ci accaniamo contro assembramenti, pic-nic, movida, vita di spiaggia, tutte attività che avvengono all’aperto, e non facciamo nulla per mettere in sicurezza gli ambienti al chiuso, o quasi al chiuso: uffici, negozi, ristoranti, scuole, università, teatri, musei, aule parlamentari, ma anche bus, tram, metropolitane, treni.

E’ la linea Sgarbi, che da mesi si batte contro la mascherina all’aperto e per dotare gli ambienti chiusi di sanificatori?

Un po’ sì. O perlomeno non è né la linea degli aperturisti selvaggi (apriamo tutto, e buonanotte), né quella delle vestali del lockdown, che non vedono altra strada che quella di rinchiuderci tutti.

In conclusione: è vero che, poiché quasi nulla si è fatto di quel che andava fatto, nel brevissimo periodo ci restano solo mascherine ffp2 e lockdown. Ma forse è anche vero che, a fronte di una campagna vaccinale mal impostata, e ora messa a repentaglio dalla mancanza di dosi, ci vuole un “piano B”. Più che dividerci fra fautori delle riaperture e difensori delle chiusure, dovremmo cominciare a pensare a un nuovo e diverso mix fra le misure da adottare: sanificatori in tutti gli ambienti chiusi; distanziamento, ricambio d’aria e controlli rigorosi sui mezzi pubblici; più libertà per le attività che si svolgono all’aperto; lockdown, brevi e durissimi, solo intorno ai focolai (non più a livello regionale o provinciale, ma a livello comunale, se non di quartiere).

Perché la realtà, è doloroso doverlo registrare, è che non siamo ancora all’ultimo miglio. E il rischio, tanto più concreto se arriveranno poche dosi di vaccino, è che la macchina infernale delle regioni a colori ci accompagni per tutta l’estate.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 aprile 2021