Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Dopo settimane di calo, la temperatura dell’epidemia è tornata finalmente sotto quota 50. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 16 maggio) segna 46.0 gradi pseudo-Kelvin ed è in calo di 2.3 gradi rispetto a sabato 15 maggio.

Questo risultato è dovuto al miglioramento di tutte e tre le componenti alla base dell’indice. A diminuire sono stati soprattutto i nuovi contagi (+45 mila nuovi casi settimanali rispetto ai 62 mila della settimana precedente). Più lieve è stato il calo degli ingressi ospedalieri stimati e dei decessi (+1.3 mila nuovi decessi settimanali rispetto ai 1.6 mila della settimana precedente).

La variazione settimanale della temperatura è pari a -16.9 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il pass vaccinale

Dalla prossima settimana, ne possiamo star certi, quello del pass vaccinale diventerà il nostro pensiero perenne. L’obiettivo del governo, infatti, è piuttosto chiaro: massimizzare il numero di persone che, grazie al pass, possono contribuire alla ripartenza dell’economia consumando, spostandosi, partecipando ad eventi culturali, ricreativi e sportivi. Siamo entrati, infatti, in una fase in cui i timori di perdere il treno dell’economia prevalgono nettamente sulla preoccupazione di limitare il numero di morti e di malati. E questo per tre solidi motivi: la maggior parte degli indicatori dell’epidemia sono in ritirata (per ora), il danno inflitto all’economia da 6 mesi di chiusure è divenuto insostenibile, i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è nettamente schierata a favore delle riaperture, e terrorizzata dal rischio di mettere a repentaglio le vacanze estive.

In questo quadro, il pass vaccinale sta diventando il santo Graal cui ognuno aspira per riconquistare la normalità perduta. Non entro nel merito della sensatezza di questa corsa al pass, né sul realismo delle previsioni ottimistiche che politici, medici e mass media stanno dispensando in queste settimane, contro il cupo ma non irragionevole pessimismo dei Galli e dei Crisanti. Quel che vorrei invece domandarmi è: ammesso che la ritirata dell’epidemia prosegua, e non capiti di dover richiudere tutto fra qualche settimana, come potrà funzionare il pass vaccinale?

Qui io vedo almeno tre problemi, che sarà bene affrontare e risolvere per non essere travolti dal caos.

Primo: che cosa è il pass?

Finora si è solo detto che, per muoversi liberamente o accedere a determinati eventi pubblici, si dovrà essere in possesso di almeno uno di tre requisiti: certificato di guarigione dal Covid, certificato di vaccinazione, certificato di negatività a un test molecolare o antigenico (rapido) rilasciato nelle ultime 48 ore. A me pare che solo i primi due certificati (essere guariti dal Covid, essere vaccinati) possano ragionevolmente venir inclusi in un pass, ossia in un documento che – tendenzialmente – ha una durata di almeno qualche mese. Pretendere di includere nel pass anche l’eventuale esito negativo di un test appena effettuato comporterebbe ripetute operazioni di aggiornamento del pass stesso, con conseguente inferno burocratico-informatico.

Secondo: chi e come rilascia il pass?

Posto che le informazioni necessarie per emettere il pass sono già in possesso della Pubblica Amministrazione (in particolare: delle Asl e dei medici di famiglia), sarebbe logico che fossero le autorità sanitarie a rilasciare il pass, o recapitandolo (per via postale o informatica) a tutti coloro che hanno titolo per averlo (guariti e/o vaccinati), o permettendo di scaricarlo da un sito sulla base della semplice digitazione dei propri identificativi anagrafici. Se non si farà così, o si introdurranno capziose complicazioni “a tutela della privacy” (SPID, password, ecc.), possiamo star certi che nessuno ci eviterà anche questo ulteriore inferno burocratico-informatico.

Terzo: che cosa certifica il pass?

Qui c’è una notevole confusione, perché si tende a pensare il funzionamento del pass come quello di un semaforo: disco verde se ce l’hai, disco rosso se non ce l’hai.

E’ un grave errore logico. E’ certo che il pass conterrà delle date (di guarigione e di vaccinazione), ed è estremamente probabile che contenga delle informazioni sul tipo di vaccino ricevuto. I vari vaccini, infatti, non solo non assicurano la medesima protezione, ma potrebbero – sulla base di nuove evidenze scientifiche – essere giudicati non equivalenti quanto a durata dell’immunità, rischio di trasmissione, resistenza alle varianti. Questo significa che due persone, pur entrambe dotate del pass, potrebbero avere gradi di libertà molto diversi in funzione di quando e come (con quale vaccino) si sono vaccinate.

Dunque il pass sarà, inevitabilmente, un documento che – a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, delle conoscenze scientifiche e delle decisioni dei governanti – stratificherà la popolazione in classi di rischio diverse. Anche trascurando il problema dell’anzianità di vaccinazione (da quanto tempo ci siamo vaccinati), già oggi si stanno delineando 5 grossolane classi di rischio:

A2 = vaccinati Pfizer o Moderna con 2 dosi

A1 = vaccinati Pfizer o Moderna con 1 dose

B2 = vaccinati AstraZeneca con 2 dosi e vaccinati Johnson&Johnson

B1 = vaccinati AstraZeneca con 1 dose

C   = non ancora vaccinati.

E’ comprensibile che le autorità sanitarie, supportate dai medici più sensibili alle istanze governative, si affannino a dire che l’importante è essere vaccinati, non importa con che vaccino, e se con 1 o 2 dosi. Lo scopo di questa campagna di (pseudo-) informazione è infatti quello di massimizzare il numero di persone che si sentono al sicuro, così favorendo la ripartenza dell’economia. E la campagna funziona: già oggi, se non si distingue fra classi vaccinali, e si aggiungono i guariti dal Covid, il messaggio che la politica è in grado di veicolare è che gli italiani al riparo del virus sono circa 1 su 3 (18 milioni di vaccinati almeno una volta, più circa 2 milioni di guariti non vaccinati).

Ma occorre anche non dimenticare due cose. Innanzitutto, che il pubblico non è stupido, e un vaccinato con 2 dosi di Pfizer sa benissimo di essere più al sicuro di un vaccinato con 1 sola dose di AstraZeneca. E, in secondo luogo, che cercare di nascondere questa differenza, come spesso i politici e i medici-politici tendono a fare, può rivelarsi un boomerang. Più ci autoconvinceremo di essere protetti quando ancora non lo siamo abbastanza, più alto sarà il rischio che l’epidemia obbedisca alle fosche previsioni di Galli e Crisanti, secondo cui fra qualche settimana l’aumento dei morti ci costringerà a richiudere tutto.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 maggio 2021




Lettera sulla cattiva gestione della pandemia

“Quando la prudenza è ovunque il coraggio non è da nessuna parte”
Cardinale Mercier

Caro professor Ricolfi,

in riferimento al suo articolo del 25/4 sul perché non sia stato fatto ciò che ragionevolmente andava fatto per combattere la pandemia, che lei spiega con la superbia e la sordità dei governanti e con la loro incapacità di imparare dagli errori fatti, vorrei suggerirle uno spunto di riflessione diverso.
Anch’io mi arrovello per cercare di spiegarmi scelte, decisioni e comportamenti inspiegabili e alla fine mi sono convinto che almeno una parte in tutto questo ce l’ha l’ostinata “avversione al rischio” della nostra società, dei nostri tempi.

Io sono un medico di base e quindi sulle notizie monotone dell’ultimo anno e mezzo ho sia le conoscenze teoriche che la conoscenza diretta di quello che succedeva per poter fare delle valutazioni affidabili. Ho vissuto il disorientamento dei medici e dei pazienti con i primi casi, ho lavorato e continuo a farlo nelle USCA e ho visto il lento sedimentarsi di procedure efficaci, ho battagliato con strutture burocratiche (uffici di igiene ecc.) assolutamente inadeguati e incapaci di modificarsi, ho affrontato con i pazienti i mille problemi, e spesso errori clamorosi, nei certificati di quarantena, nelle richieste dei tamponi e così via,  ho fatto i vaccini e ho visto come vengono fatti dai colleghi e dai cosiddetti hub, insomma posso abbastanza seriamente definirmi un “esperto” di questa faccenda.

Molte cose non tornavano, nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società.

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avvallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spengere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!), pensi alla saggia decisione di liberare dalla quarantena dopo massimo 21 giorni i guariti che ancora risultano positivi al tampone subito contraddetta da una regola più “protettiva” del (credo) ministero del lavoro (o forse un successivo DPCM…) che impediva il ritorno al lavoro finché non si ha un tampone negativo (questo vuol dire per esempio che un dipendente di un supermercato può tranquillamente andare lì a fare la spesa ma non a lavorare (non si dica mai che i nostri governanti facciano esporre al rischio i lavoratori e che i sindacati gli piantino una grana).

Le faccio un ultimo esempio: le vaccinazioni. A parte i primissimi tempi in cui era d’obbligo una maggior cautela, da marzo – aprile quando hanno cominciato a darli anche ai medici di famiglia ormai era noto che non sono vaccini più pericolosi di quello per l’influenza (e comunque quei rarissimi casi di complicazioni non si possono prevedere prima). Eppure questa vaccinazione è stata resa farraginosa da una burocrazia ipertrofica (si figuri che nel consenso informato che ci ha fornito l’Asl per vaccinare gli ultraottantenni, per le donne bisognava barrare anche la casella se erano incinta o allattavano) per cui molti miei colleghi si sono spaventati (rischi di avere grane burocratiche o legali, si torna sempre lì) e ne hanno fatti pochissimi. Soprattutto non ne hanno fatti a domicilio, che pure in quella fascia di età è a volte necessario. All’inizio era un avvertimento della ditta produttrice (Pfizer) che per somma cautela avvertiva che non era stata sperimentata l’efficacia del vaccino con il trasporto dopo la diluizione (sono molecole instabili e poteva essere); alla fine di marzo è arrivato il comunicato Pfizer che si poteva trasportare senza problemi. A me sembrava sufficiente per cui io ho cominciato a farli anche a domicilio ma il coordinatore dei medici della nostra zona in una riunione ha diffidato tutti dal farlo finché non ci fosse stata una dichiarazione ufficiale da parte della Regione Toscana (ma le pare possibile che un medico debba avere un’autorizzazione da parte di un funzionario della regione per fare una cosa che a quel punto era scritta a chiare lettere nel bugiardino del vaccino se non per la solita esagerata prudenza?). Risultato: la maggior parte dei vaccini a domicilio li ha dovuti fare l’Asl con altri medici e infermieri e sa quanti riescono a farne? Sei in sei ore (un medico con un infermiere più un altro medico che passa le giornate al telefono per fissare gli appuntamenti). Mostruosamente inefficiente ma nessun rischio, burocratico ovviamente, perché le complicanze vere, quelle sono identiche anche se ne fanno una al giorno.  Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? Molte leggi a protezione della salute, degli infortuni, della privacy sono giuste ma mi sembra che siano usate oltre la loro necessità e soprattutto in questo caso sembrano più forti dell’emergenza.  Sono i social media che fanno lievitare le paure? Sono i colossi del web che agiscono da persuasori occulti per renderci insicuri affinché sempre più viviamo nel web? Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.




Legge Zan: abroghiamo i reati di opinione

Ferve il dibattito sulla cosiddetta legge Zan. Il vero problema è costituito però dall’art. 604 bis del codice penale a cui la proposta rinvia per integrarla.

È di tutta evidenza infatti che non vi è ragione logica e giuridica per non estendere la tutela prevista dal codice penale agli atti di violenza o di discriminazione per motivi sessuali, visto che giustamente questo tipo di atti è già represso laddove siano causati da motivazioni razziali, etniche, nazionali, religiose. Il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione non solo legittima, ma impone la suddetta estensione della portata dell’art. 604 bis c.p.

Il vero problema è l’eccessivo ambito applicativo di detto articolo. Un conto sono infatti gli atti di violenza ovvero gli atti discriminatori che hanno una loro manifesta e immediata concretezza. È pure condivisibile sanzionare l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi, e ovviamente sessuali, data la evidenza e normale inequivocità del comportamento represso. Sarebbe semmai opportuno inserire anche i motivi politici. Incitare alla violenza contro chi non la pensa come te non è accettabile in un Paese democratico.

Completamente diverso è invece l’incitamento o la istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi fondati su religione, razza, nazione, sesso, genere etc. È opportuno fare qualche esempio.

Se qualcuno dovesse affermare che certe interpretazioni radicali dell’Islam, ancorché non dichiarate fuorilegge, sono pericolose e vanno contrastate, alla luce di una interpretazione letterale dell’art.604 bis, potrebbe essere oggi denunciato per istigazione alla discriminazione religiosa. Se poi dovesse anche affermare che all’interno di talune comunità etnicamente caratterizzate la illegalità è molto diffusa, potrebbe essere pure perseguito per incitamento alla discriminazione etnica. Con il progetto di legge “Zan” il rischio di una denuncia potrebbe correrlo anche chi dovesse sostenere che l’unica famiglia degna di essere incoraggiata con provvidenze economiche è quella fondata sull’unione fra due persone di sesso diverso: da questa premessa taluno potrebbe facilmente dedurre che si vuole istigare a discriminare sulla base degli orientamenti sessuali.  Persino criticare l’utero in affitto, da parte di chi intendesse seguire dettami religiosi, potrebbe dar luogo quanto meno a denunce penali.

L'”incitamento alla discriminazione” costituisce qualcosa di magmatico e di indefinito che necessita sempre di una precisazione interpretativa, lasciando ampio arbitrio alle valutazioni soggettive del Pubblico Ministero e del Giudice.

Tutto ciò è certamente intollerabile perché rischia di violare il principio della libera manifestazione del pensiero. Di ciò si rende ben conto lo stesso legislatore che all’articolo 4 è costretto a riconoscere (bontà sua) che è consentita la libera espressione di convincimenti od opinioni, introducendo peraltro una inaccettabile previsione ulteriore: “sono fatte salve le condotte legittime purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori”. Si puniscono condotte “legittime” (SIC!) sulla base del semplice rischio che possano determinare atti discriminatori: una norma da Stato autoritario. Questo articolo va certamente riscritto.

La ulteriore, grave conseguenza di questa discrezionalità interpretativa sarebbe la differenza di trattamento da procura a procura e da tribunale a tribunale. Le citate affermazioni del codice penale introducono cioè margini di discrezionalità tali che possono determinare incertezza del diritto e violazione del principio di eguaglianza.

Insomma, prima di discutere la legge Zan, appare prioritaria una modifica dell’art. 604 bis c.p. nella parte in cui porta a reprimere la “istigazione a commettere atti di discriminazione”.

Pubblicato su Libero del 7 maggio 2021




Bandiere ammainate

Ora che abbiamo due possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, invece, è lo sfondo sociologico e culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono interpretate e applicate.

Ebbene, qual è lo sfondo?

Se la questione me l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra, il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della cultura di sinistra.

Ma oggi?

Oggi non è più così. O meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la destra come avversario e non come nemico, il complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori si è innestata una nuova patologia: la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella maggior parte dei paesi occidentali. Lo zenit di tale deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (un compito cui, invano, lo stesso Barack Obama ebbe ad esortare i giovani)

Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del 2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa americana, Jean Twenge, la più accurata radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui, finalmente, si comincia a parlare  anche in Italia, grazie a libri come quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della suscettibilità, Marsilio),  un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.

Ed eccoci al punto, il clima in cui le leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal lato della libertà di espressione.

E’ un male?

No, è solo sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista. Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il primo imperativo della sinistra. Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze. E che, di fronte alle problematiche della “omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.

Viviamo in un tempo ben strano…

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 maggio 2021